La cultura della memoria della seconda guerra mondiale e dell

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La cultura della memoria della seconda guerra mondiale e dell
Christoph Cornelissen
Università di Francoforte, Germania
La seconda guerra mondiale e l’olocausto: stadi della cultura della memoria
Parlare, in veste di storico, del trauma o della “Trasmissione generazionale del trauma” nella società
tedesca dopo il 1945 pone una serie di problemi di fondo, da un lato perché i concetti-chiave trauma, generazione o transgenerazionalità - sono stati presi in prestito da altre discipline e per un
lungo tempo non sono stati usati nella storiografia. Sebbene i dibattiti sull’intreccio delle relazioni
tra la storiografia e la psicologia risalgano nel frattempo ad alcuni decenni fa, purtuttavia non si può
certo affermare che ne sia scaturito un rapporto di lavoro molto produttivo. Al contrario,
l’atteggiamento degli storici per un lungo periodo fu caratterizzato piuttosto da una profonda
insicurezza a causa della questione problematica delle fonti. Per questa ragione ancor oggi tali
concetti vengono impiegati nel campo della storiografia con una certa cautela.
Alla luce di ciò non è certamente un caso che uno dei più importanti saggi della storia tedesca del
dopoguerra, proveniente dalla penna degli psicoanalisti Alexander e Margareta Mitscherlich sulla
“Incapacità dei tedeschi di portare il lutto“ dell’anno 1967 suscitò all’epoca un enorme scandalo
parlando del passato nazionalsocialista “non superato” come concetto psicoanalitico, purtuttavia
non ha avuto una risonanza duratura nelle discipline storiche1. Dall’altro lato si devono considerare
le fonti, su cui gli storici basano le loro ricerche. Sebbene gli atti ufficiali, come cartelle cliniche o
documenti privati contenessero informazioni precise sul ruolo svolto dalla memoria o dal trauma a
seguito di esperienze violente, tuttavia gli storici non avevano accesso a gran parte di tale materiale,
ma spesso le questioni da essi sollevate non necessitavano comunque l’utilizzo di tali fonti. Sebbene
i contemporaneisti si stiano dedicando già da decenni ai metodi della oral history, permangono
tuttavia notevoli riserve sull’uso storico affrettato di concetti come generazione o trauma2. Spesso
sorgono dubbi sulla rappresentatività dei casi studiati. Infatti, recentemente un progetto frutto di una
collaborazione tra storici e psicoanalisti sul cosiddetto “La tempesta di fuoco di Amburgo”
(Hamburger Feuersturm), con cui si intendono i bombardamenti avvenuti sulla città di Amburgo
nel luglio/agosto 1943 (codice militare: Operazione Gomorrah) con 35 mila morti e 125mila feriti,
ha dimostrato ancora una volta quanto sia difficile una collaborazione tra storici e psicoanalisti,
anche se in singoli casi tale collaborazione possa aver portato a buoni risultati3. L’ipotesi che la
seconda generazione dopo il 1945 abbia avuto la funzione di contenitore per il passato rimosso dei
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A. Mitscherlich e M. Mitscherlich, Die Unfähigkeit zu trauen. Grundlagen kollektiven Verhaltens, München, Piper
1967 (Traduzione inglese: The inability to mourn. Principles of collective behavior, New York, Grove, 1975).
Per un dibattito recente sui metodi della oral history cfr. Es gilt das gesprochene Wort. Oral History und
Zeitgeschichte heute, a cura di K. Andresen et al., Wallstein, Göttingen 2013.
Zeitzeugen des Hamburger Feuersturms 1943 und ihre Familien. Forschungsprojekt zur Weitergabe von
Kriegserfahrungen, a cura di U. Lamparter, S. Wiegand-Grefe e D. Wierling, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen
2013.
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loro genitori, viene considerata dagli storici in modo piuttosto scettico, in quanto si coinvolgono
troppo velocemente persone, per le quali tale fenomeno chiaramente non vale.
Volendo formulare questo concetto in modo polemico: molte ipotesi di questo tipo sembrano
piuttosto problematiche per grandi strati della società tedesca negli anni dopo il 1945/49 già solo
perché né gli appartenenti alla generazione della seconda guerra mondiale e dell’olocausto, né i loro
figli – qui definita la seconda generazione – negli anni Cinquanta e per gran parte degli anni
Sessanta non si confrontarono pubblicamente e privatamente con le memorie di questa storia4. Il
discorso del trauma dovuto alle esperienze della guerra o le ripercussioni dei crimini di massa dei
nazionalsocialisti non poteva affatto sorgere, perché anche tra gli psicoterapeuti (che dovevano
inizialmente occuparsi dei molti ex-soldati della Wehrmacht), predominavano atteggiamenti di
rifiuto a volersi confrontare con le conseguenze e le ripercussioni psicologiche delle esperienze
belliche. La psichiatria militare tedesca era fermamente convinta fino alla fine della guerra 1945 che
la guerra in sé non potesse essere considerata causa di disturbi psichici e questa concezione non
cambiò neanche nei decenni successivi5. Un famoso psichiatra constatò all’epoca in modo laconico:
“Quando si vive in condizioni estreme, non si ha tempo di ammalarsi!”. Determinante in tutto ciò fu
il fatto che la psichiatria si basava a livello internazionale su esperienze della prima guerra mondiale
e da allora si era affermata la convinzione che la guerra non potesse essere considerata causa di
psicopatologie di lunga durata.
Sulla base di tali considerazioni dunque non ci si deve sorprendere, se solo negli anni Ottanta
l’interesse della ricerca interdisciplinare sulle patologie di lunga durata a seguito della persecuzione
e del terrore subìti durante il periodo nazista portò a nuove ricerche, le quali in seguito vennero
allargate lentamente anche ai figli dei colpevoli, di coloro che sapevano e coloro che si limitarono a
guardare. Tuttavia passò parecchio tempo prima che nella società tedesca si accendesse un ampio
dibattito sulle conseguenze traumatiche della guerra aerea. In ciò assunsero significativamente un
ruolo dominante, scrittori come Günter Grass (nato nel 1927) con il suo romanzo Il passo del
gambero o anche un rappresentante della generazione dei figli, Winfried G. Sebald (nato nel 1944)
con il suo libro sulla Storia naturale della distruzione6. In generale si può dire che la società tedesca
impiegò moltissimo tempo per ritrovare se stessa e riuscire a parlare pubblicamente e privatamente
delle sue esperienze durante gli anni della guerra. Questo vale ancora di più per le molte persone
con ricordi angoscianti legati all’olocausto e ai crimini di guerra di massa.
In questo contesto la tesi sostenuta dallo psicologo sociale e sociologo Hermann Lübbe nel 1983
provocò un certo scalpore, quando postulò che la tesi della rimozione più volte sostenuta, che
implicava fatali conseguenze socio-politiche, ma anche psicopatologie individuali, fosse falsa7. A
differenza dei Mitscherlich e di molti altri autori Lübbe definì “il silenzio comunicativo” del passato
nazista negli anni Cinquanta e anche negli anni successivi come assolutamente necessario per
raggiungere l’integrazione sociale e la pacificazione politica della giovane Repubblica Federale. A
differenza dei Mitscherlich, che avevano sottolineato i costi morali e politici dell’ “incapacità” di
assumere un atteggiamento critico nei confronti del passato, Lübbe pose al centro delle sue
argomentazioni l’effetto stabilizzante che esso ebbe a lungo termine.
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Schweigen und Reden einer Generation. Erinnerungsgepräche mit Opfern, Tätern und Mitläufern des
Nationalsozialismus, a cura di G. Botz, Mandelbaum, Wien 2005.
S. Goltermann, Die Gesellschaft der Überlebenden. Deutsche Kriegsheimkehrer und ihre Gewalterfahrungen im
Zweiten Weltkrieg, DVA, München 2009.
G. Grass, Il passo del gambero, Einaudi, Torino 2002 (tedesco: Im Krebsgang, DTV, München 2002); W. Sebald,
Luftkrieg und Literatur, mit einem Essay zu Alfred Andersch, Hanser, München 1999.
H. Lübbe « Der Nationalsozialismus im deutschen Nachkriegsbewußtsein », in Historische Zeitschrift 236 (1983),
pp. 579-599.
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Partendo da questi argomenti polarizzanti cercherò di esaminare alcuni stadi e rapporti
generazionali nella memoria delle due società tedesche della seconda guerra mondiale e
dell’olocausto a partire dal 1945/49. Nel far ciò pongo prima di tutto al centro dell’attenzione il
ruolo della generazione della seconda guerra mondiale, ossia di coloro che già adulti vissero
direttamente gli eventi in qualità di criminali, di vittime o spettatori o talvolta in tutti e tre i ruoli.
Passo a considerare in un secondo momento i cosiddetti “45” (fortyfiver), con cui si intendono
coloro che vissero il Terzo Reich nella loro gioventù e che in seguito, dopo il crollo del Terzo
Reich, furono costretti a ravvedere i loro principi morali, che avevano dovuto imparare molto
presto, e ad adattarsi a un mondo completamente cambiato8. In questo modello generazionale
comprendo anche i figli della seconda guerra mondiale e dei primi anni del dopoguerra, in quanto
crebbero nelle case dei loro genitori che avevano letteralmente la guerra ancora nelle ossa. In una
terza parte conclusiva tratterò brevemente il problema di una crescente identificazione delle vittime,
in cui i nipoti della generazione di coloro che vissero la seconda guerra mondiale acquistano un
ruolo sempre più importante.
1. Il silenzio comunicativo fino a metà anni Sessanta
Dopo la seconda guerra mondiale non si può certo dire che i tedeschi avessero completamente
taciuto o addirittura rimosso il periodo nazionalsocialista e gli anni della seconda guerra mondiale
nei due stati tedeschi, purtuttavia il confronto pubblico e conscio con il passato passò sicuramente in
secondo piano, perché molti tedeschi si sentivano vittime della guerra, vuol dire in primo luogo dei
bombardamenti. Milioni di persone che avevano subìto i bombardamenti, prigionieri, sfollati e
rifugiati dopo il maggio 1945, come tutti coloro sopravvissuti alla guerra nella loro patria, erano alla
ricerca di cibo, di combustibile e soprattutto di un tetto, detto in poche parole si trattava di una
“società del crollo” (“Zusammenbruchgesellschaft”)9. Considerando le sofferenze, le privazioni e le
perdite che si erano protratte per anni, molta gente sentiva di essere già stata “punita” abbastanza,
rifiutando quindi decisamente ogni forma di epurazione politica. Ampi strati della popolazione non
ebbero problemi a essere clementi nei confronti di criminali spesso riconosciuti colpevoli o già
condannati – soprattutto quelli provenienti dalle fila dell’economia e della Wehrmacht. A questo
proposito è significativo che una delle prime leggi varate dal nuovo stato tedesco occidentale fosse
proprio una legge di amnistia per tutti i crimini commessi durante il terzo Reich10.
Alla luce di tutto ciò non ci si deve meravigliare se i dibattiti politici e sociali, ma anche i discorsi
familiari sul passato recente miravano piuttosto a una forma di discolpa psichica. Ciò significa che i
rappresentanti della politica tedesca occidentale tendevano con i loro discorsi e discussioni a
rendere più sopportabile ai loro ascoltatori l’eredità del Nazionalsocialismo come anche della
seconda guerra mondiale, cercando di renderla “meno concreta”11. Conseguenza di ciò fu che nel
discorso pubblico della memoria come anche nell’uso linguistico politico, si fece una netta
distinzione tra i “Nazisti” e i “Tedeschi”, in particolare proprio quando si poneva lo sguardo sulla
fine della guerra, i concetti “il crollo”, “la catastrofe” o “l’umiliazione nazionale” dominavano i
dibattiti e si perseguì con ciò l’interpretazione nazionalsocialista della fase finale della guerra.
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Per un modello sulle generazioni nella Germania post-fascista cfr. Generationalität und Lebensgeschichte im 20.
Jahrhundert, a cura di J. Reulecke, Oldenbourg, München 2003; per gli storici fra la generazione dei 45 cfr.
Geschichtswissenschaft im Geist der Demokratie. Wolfgang J. Mommsen und seine Generation, a cura di C.
Cornelissen, Akademie Verlag, Berlin 2010.
C. Klessmann, Kriegsende. Dimensionen, Erinnerungen, Verdrängen in Kriegsende 1945. Verbrechen,
Katastrophen, Befreiungen in nationaler und internationaler Perspektive, a cura di B. A. Rusinek, Wallstein,
Göttingen 2004, pp. 211-218.
N. Frei, Vergangenheitspolitik. Die Anfänge der Bundesrepublik und die NS-Vergangenheit, Beck, München 1996.
C. Cornelissen, „Vergangenheitsbewältigung“ – ein deutscher Sonderweg?, in Aufarbeitung der Diktatur, Diktat der
Aufarbeitung? Normierungsprozesse beim Umgang mit diktatorischer Vergangenheit, a cura di Hammerstein,
Katrin et al, Wallstein, Göttingen 2009, pp. 21-36.
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Questi riferimenti sono per me fondamentali, perché il concetto di generazione nella ricerca storica
recente viene concepita soprattutto come una “comunità narrante” (Erzählgemeinschaft) che
sviluppa un modello comune di memoria tramite una narrazione controllata12. A ciò gli appartenenti
alla generazione della seconda guerra mondiale dopo il 1945 allacciarono la strategia di rifiutare
ogni accusa di colpa collettiva, anche quando essa non era stata affatto mossa. Con ciò fecero sì che
la memoria concreta della violenza potesse scomparire dietro una cortina di concetti vaghi come
“eventi terribili”, “periodo del terrore” o anche “un passato scuro”. Inoltre un concetto generale di
vittima faceva scomparire la differenza tra i veri perseguitati e i fedeli collaborazionisti e
collaboratori. Nell’Europa orientale invece inizialmente le circostanze del genocidio, dell’olocausto
e dei crimini di guerra su altri fronti non vennero affatto tematizzate pubblicamente. Le poche
vittime ebree che cercarono di farsi ascoltare già negli anni Cinquanta non ebbero nessun successo
nella società tedesca. Lo stesso si può dire per gli storici ebrei, le cui ricerche sui crimini di guerra
nazionalsocialisti furono completamente ignorate dai rappresentanti non ebrei della storiografia
tedesca. Sebbene il silenzio tra le generazioni nelle famiglie non fosse in fin dei conti così diffuso
come spesso affermato, purtuttavia anche qui tutto si muoveva su un livello generale, mentre le
questioni della partecipazione personale o della testimonianza dei crimini non vennero mai
discusse13.
2. Sul cambiamento dalla metà degli anni Sessanta e il ruolo dei “45”
Nel corso degli anni Sessanta si è rotto lentamente il silenzio grazie soprattutto ai processi giuristici
pubblici – all’inizio il processo Eichmann del 1961, poi in seguito anche il cosiddetto processo
Auschwitz di Francoforte del 1963/64. Tali processi vennero diffusi ampiamente dai mass media,
anche se nel frattempo si dubita che essi ebbero un’efficacia sociale veramente profonda14. Anche
se nei dibattiti parlamentari si trattò dell’abolizione della caduta in prescrizione per i crimini di
violenza nazionalsocialisti che per molti tedeschi erano temi “spiacevoli”, tuttavia rimase all’ordine
del giorno il rifiuto delle accuse della colpa collettiva.
Allo stesso modo i più giovani, che nell’anno 1945 non avevano più di 15 o 16 anni, iniziarono nel
corso degli anni Sessanta la loro carriera professionale e un poco alla volta arrivarono a ricoprire
nella società delle posizioni dirigenti. Nei dibattiti di questi ultimi anni essi sono stati definiti in
modo diverso o come “i 45” o “i 29”. Per il nostro scopo è determinante il fatto che in sostanza
soltanto gli strati dell’esperienza del dopoguerra in collegamento con le controversie politiche,
intensificatesi negli anni Sessanta, dovevano portare a un legame generazionale dei “45” come
anche alla loro tematizzazione. Soprattutto a partire dagli anni Ottanta la curva congiunturale
dell’uso concettuale va decisamente verso l’alto, ciò significava nel momento in cui gli appartenenti
alla generazione dei figli della guerra e giovani della seconda guerra mondiale si ritiravano dal
mondo del lavoro, hanno fatto sentire pubblicamente la loro voce (tramite convegni, gruppi di
esperienza e pubblicazioni di libri) parlando delle esperienze personali nel periodo
nazionalsocialista e della sua memoria15. In questo senso è di notevole importanza che quasi un
terzo dei bambini in Germania, nati tra il 1933 e il 1945, crebbero senza padre a causa della guerra,
per più di un 30 per cento il padre era mancato per un lungo periodo16.
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B. Weisbrod, German generations. The anxiety of belonging in modern German history in Generation und
Erwartung: Konstruktionen zwischen Vergangenheit und Zukunft , a cura di K. Gerland, Wallstein, Göttingen 2013,
pp. 269-285.
Cfr. U. Jureit e C. Schneider, Gefühlte Opfer. Illusion der Vergangenheitsbewältigung, Klett-Cotta, Stuttgart 2010.
W. Renz, Der 1. Frankfurter Auschwitz-Prozess 1963-1965 und die deutsche Öffentlichkeit : Anmerkungen zur
Entmythologisierung eines NSG-Verfahrens in NS-Prozesse und deutsche Öffentlichkeit. Besatzungszeit, frühe
Bundesrepublik und DDR a cura di J. Osterloh, Wallstein, Göttingen 2011, pp. 349-362.
Esempi popolari di questo tipo sono i libri di S. Bode, Die vergessene Generation, Klett-Cotta, Stuttgart 2004; Ibid.,
Kriegsenkel, Stuttgart, Klett-Cotta, 2009; I. Kogan, Der stumme Schrei der Kinder, Fischer, Frankfurt a.M.1998.
Vaterlosigkeit in vaterarmen Zeiten. Beiträge zu einem historischen und gesellschaftlichen Schlüsselthema, a cura di
B. Stambolis, Basel 2013.
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Al centro delle autointerviste, discusse pubblicamente, ci sono quindi innumerevoli racconti della
vita di uomini cresciuti senza padre che dagli anni Ottanta hanno incominciato a concepire la loro
biografia individuale sempre più come parte della più ampia storia tedesca. Tra i fenomeni più
spesso indicati si registrano una generale sensazione di insicurezza, dubbi sulla propria capacità di
amare, difficoltà nei rapporti sociali e personali, ma dall’altro canto anche la capacità di raggiungere
ottimi risultati e una precoce indipendenza. Leggendo tali racconti si ha tuttavia l’impressione che
la mancanza del padre spesso venga presa come spiegazione di problemi e conflitti che forse
avrebbero comunque fatto parte della loro biografia, quindi qui ci sono delle questioni aperte.
Per quanto riguarda la tematizzazione della colpa per gli appartenenti a questa seconda generazione
è stata di fondamentale importanza l’esser riusciti ad avviare ampi dibattiti pubblici sui colpevoli
del nazionalsocialismo e gli accademici tra di loro hanno contribuito con i loro studi a diffondere le
conoscenze sulla politica criminale del nazionalsocialismo. Da qui si sono poi avute importanti
ripercussioni sulla cultura della memoria inscenata pubblicamente, così che nei discorsi politici si
poteva riconoscere una lenta concretizzazione della responsabilità per i crimini commessi durante la
guerra. Ma c’è dell’altro: il cambiamento è indice in generale di una svolta – benché ancora
titubante – da un discorso delle vittime riferito dunque a se stesso a un discorso sui colpevoli. Al
contempo si osserva che i costi psicologici, che la ricerca interdisciplinare aveva accomunato sotto
il concetto freudiano di “eredità di sentimenti” (Gefühlserbschaft), sono stati presi in considerazione
solamente molto tardi17. Sebbene già alla fine degli anni Cinquanta gli psichiatri avessero sempre
più spesso incominciato a mettere in collegamento nei loro studi sui “figli dell’olocausto” i sintomi
psichici con il termine “trauma”, tuttavia per un lungo periodo non riuscì a diventare la convinzione
dominante18. Dovettero passare anni e anni prima che la trasmissione del contenuto rimosso della
generazione della guerra ai loro figli potesse essere riconosciuto come causa di una forte instabilità
psicologica. Solo molto tardi la politica e la società in Germania erano disposte ad ammetterlo. Una
causa di ciò è da ricercare nel fatto che anche nella seconda fase perdurò il silenzio tra gli
appartenenti la generazione della guerra e la seconda generazione, perché tra di loro esistevano dei
profondi legami emotivi che gli impedirono di approfondire concretamente la questione della colpa
e collaborazione dei genitori. Quindi molti figli tramandarono una conoscenza generale sulle
circostanze storiche relative alla situazione concreta dei membri della propria famiglia che spesso
per vergogna o per paura temevano di porre domande troppo dirette. Ma anche nei casi in cui lo
fecero veramente, nella maggior parte delle volte non ricevettero dai loro genitori delle risposte
precise.
3. La svolta sulla concentrazione della vittima e la scoperta del trauma
Nella retrospettiva storica gli anni Ottanta rappresentano la decade caratterizzata da una continua
mobilitazione della politica della memoria. Oltre alle innumerevoli manifestazioni politiche si
sviluppò nella Repubblica Federale, anche grazie a una serie di lezioni universitarie, una cultura
storica che discuteva pubblicamente, dettagliatamente e che si occupava in modo approfondito degli
anni del nazionalsocialismo. È a quel fenomeno, noto come “la storia dal basso”, che va
riconosciuto in parte il merito di tale mutamento19. Solo nel momento in cui la storia diventava
un’attività di massa di cittadini impegnati, che volevano rintracciare la memoria insabbiata del
passato nazionalsocialista e in particolare dei crimini nei loro paesi, sono cambiati profondamente
anche i contorni della cultura della memoria locale e nazionale. Le discussioni hanno fatto sì da un
lato che anche i gruppi di vittime e prigionieri, fino allora ignorati, venissero inclusi negli atti
ufficiali della commemorazione. Dall’altro la pressione politica proveniente dal basso era così forte
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Il testo classico è S. Freud, Erinnern, Wiederholen, Durcharbeiten (1914), in: S. Freud, Studienausgabe,
Ergänzungsband, Frankfurt a. M. 2000, pp. 200-215.
Vererbte Wunden. Transgenerationale Weitergabe traumatischer Erfahrungen, a cura di M. Rauwald , Basel 2013.
Die andere Geschichte. Geschichte von unten, Spurensicherung, ökologische Geschichte, Geschichtswerkstätten , a
cura di G. Paul e B. Schoßig, Bund-Verlag, Köln 1986.
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da sostituire il punto di vista tradizionale catastrofico sulla fine della guerra con un’interpretazione
alternativa. L’8 maggio cambiò, anche se per molte vie traverse, e diventò il giorno della
liberazione20.
Questo topos del cambiamento fu significativo per il passaggio verso una concentrazione sulla
vittima, che doveva aver luogo nello stesso decennio nella cultura della memoria pubblica, in cui
svolsero un ruolo determinante gli appartenenti alla generazione dei bambini e giovani della guerra,
ma in parte anche già dei nipoti. Indipendentemente dal comportamento della prima generazione nei
singoli casi, i figli della seconda generazione li hanno spesso visti o pensati come violenti. La
generazione della guerra cadde sostanzialmente per molto tempo sotto un sospetto generale
(“diffida di tutti quelli sopra i trent’anni”) che portò al contempo gli appartenenti alla generazione
dei figli a rifugiarsi sempre di più nel ruolo della vittima, essi arrivarono addirittura a dichiarare se
stessi vittime di un presunto ritorno del fascismo. La rottura genealogica ad esso connessa fu nella
Repubblica Federale particolarmente forte.
Il conflitto generazionale trovò la sua espressione artistica nel monumento di Berlino in onore degli
ebrei uccisi in Europa che può essere concepito soprattutto come un progetto di quelli nati tra il
1933 e il 1945, ma oramai vi ci si riconosce anche la generazione dei nipoti21. Dagli anni Novanta il
dibattito su questo monumento sta per una sempre più forte concentrazione della memoria pubblica
sulle vittime della violenza sociale e politica. A questo riguardo è significativo che nel frattempo
anche molte voci dei sopravvissuti della generazione della guerra si siano fatte sentire con l’appello
a commemorare come meritano anche le loro vittime negli anni della guerra. Qui si tratta delle
vittime personali decedute a causa dei bombardamenti, a causa degli sfollamenti forzati di massa
durante e dopo la seconda guerra mondiale, ma anche a seguito degli stupri di massa delle donne e
della perdita definitiva della patria d’origine. Tutto ciò riguarda di nuovo milioni di traumi nella
società tedesca, tramandati di generazione in generazione, soprattutto nelle memorie familiari. Essi
formano come un arco teso, caratteristico della società tedesca che giunge fino al nostro presente. Si
tratta in questo caso di un arco teso, ai cui estremi si trova da un lato il focus sulle proprie vittime
nazionali e dall’altro le vittime ebree e di altri gruppi che devono essere annoverate tra le vittime
principali della politica di occupazione e dei criminali nazionalsocialisti. Quest’arco si estende
trasversalmente sulla cultura della memoria di tutte le generazioni della società tedesca giungendo
fino al presente e comprende il loro peculiare legame.
Rimane tuttavia un problema metodologico di fondo che va oltre, ma qui, ormai giunti alla fine,
possiamo solo citarlo. La descrizione, oggigiorno troppo usata e in parte troppo inflazionata, delle
esperienze storiche come esperienze traumatiche, descrivono spesso dei campi di esperienze che i
testimoni hanno spesso concepito e rielaborato in un modo completamente diverso. Quindi si corre
il pericolo di un circolo vizioso da cui dobbiamo assolutamente guardarci.
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J.-H. Kirsch: „Wir haben aus der Geschichte gelernt“: Der 8. Mai als politischer Gedenktag in Deutschland,
Böhlau, Köln 1999.
M. Mügge, Politics, space and material : the 'Memorial to the Murdered Jews of Europe' in Berlin as a sign of
symbolic representation in European review of history 15 (2008), pp. 707-725; U. Jureit, Generationen als
Erinnerungsgemeinschaften. Das Denkmal für die ermordeten Juden als Generationenobjekt in: Generationen. Zur
Relevanz eines wissenschaftlichen Grundbegriffs, a cura di U. Jureit e M. Wildt, Hamburger Edition, Hamburg
2005, pp. 244-269.
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