Gaetano Salvemini - Mimmo Franzinelli

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Gaetano Salvemini - Mimmo Franzinelli
Mimmo Franzinelli
Per una guerra di giustizia e libertà. Gaetano Salvemini
Sin da inizio secolo Salvemini propugna l’uscita italiana dalla Triplice e l’affiancamento all’Inghilterra nella lotta contro la Germania, in difesa della democrazia internazionale e per un riassetto europeo imperniato sull’indipendenza dei popoli. A
questa posizione era sottesa la convinzione che il protrarsi dell’alleanza con le due
potenze autarchiche danneggiasse anche sul piano interno gli equilibri politici nazionali, piegandoli in senso reazionario. In ambito socialista la linea di Salvemini è
affine a quella del riformista Leonida Bissolati, almeno sino all’estate 1911, quando
l’intellettuale pugliese lancia dal periodico «La Voce» una campagna demistificatrice contro il mito colonialista della Libia d’oro. A fine anno, chiusi i rapporti con il
periodico fiorentino di Prezzolini, vara il settimanale «L’Unità», contrario – per valutazioni di convenienza materiale – all’avventura coloniale, ma Salvemini finirà tuttavia per auspicare la vittoria italiana, onde evitare alla patria danni peggiori. Con
ben altro spirito verranno valutate nell’estate 1914 le prospettive belliche europee. Le
preoccupazioni per l’abisso di violenza su cui il continente è sospeso sono vinte dal
fascino della prova risolutiva contro l’Austria, cui lo studioso vorrebbe partecipare
di persona: «Se usciamo dalla neutralità contro l’Austria, sospendo “L’Unità” e vado alla guerra anch’io», confida a Prezzolini a inizio agosto 19141. In ambito socialista egli apprezza il rivoluzionarismo di Mussolini e rigetta per ragioni di principio la neutralità proclamata dalla maggioranza del PSI: «Il pacifismo “assoluto” non
è teoria socialista. Il socialismo non è la pace: è la giustizia; con la pace, se è possibile; con la guerra, interna o esterna, se è necessario»2. Con un ardito ossimoro, conia lo slogan La guerra per la pace, ravvisando nel conflitto europeo l’ultima guerra, levatrice della pace perpetua:
Affinché questa guerra – dal momento che avviene – produca i maggiori vantaggi
possibili, occorre che essa liquidi il maggior numero possibile delle vecchie questioni
internazionali, dando luogo ad un equilibrio più stabile dell’antico, in cui le forze
della pace possano riprendere in migliori condizioni di efficacia quel lavoro di consociazione dei popoli, che oggi sembra dissipato per sempre, ma di cui ben presto si
ripresenterà a tutti gli spiriti la fatale necessità. Bisogna che questa guerra uccida la
guerra 3.
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Salvemini era stato tra i più convinti avversari dell’irredentismo sin dal 1900,
quando aveva scritto su «Critica Sociale» parole profetiche sul suo sbocco naturale: la guerra, con la rinunzia alla democrazia e all’antimilitarismo, con il rafforzamento della casta militare e dei circoli nazionalisti. Uno sbocco, peraltro, che avrebbe fagocitato gli stessi democratici, asservendoli al programma dei loro nemici interni: «Qualora il Governo accettasse il programma irredentista, noi vedremmo tutti
i repubblicani e i democratici irredentisti correre, come un gregge di montoni, dietro ai nostri generali; tutte le questioni interne verrebbero messe in silenzio; unico
obbiettivo della politica democratico-governativa-militarista la conquista delle frontiere naturali »4. Dimentico delle sue vecchie analisi, nel 1914 lui stesso s’intruppa
con gli interventisti, nel calcolo di spostare l’apparato politico-militare su direttrici
democratiche grazie all’affiancamento di Francia e Inghilterra nella lotta decisiva
contro i regimi autoritari. Da un lato, abbagliato dalla visione della «guerra risorgimentale », coronamento dell’unità nazionale, sottovaluta le rivalità imperialistiche alla base dello scontro ingaggiato tra le grandi potenze, mentre dall’altro considera insostenibile – nell’Europa dilaniata da uno scontro epocale – il mantenimento della neutralità e paventa, in ossequio alla Triplice alleanza, l’ingresso italiano a
fianco degli Imperi centrali, col rischio di fornire un decisivo apporto alla sconfitta dei paesi democratici. In accezione neo-mazziniana il conflitto armato viene individuato quale strumento idoneo ad affermare le ragioni delle nazionalità oppresse dagli imperi austriaco e ottomano. La guerra dovrà plasmare una nuova realtà
continentale, strutturata su una pace stabile e garantita dalla «consociazione dei popoli». Durante le «radiose giornate» di maggio l’intellettuale pugliese si colloca dinamicamente dentro il fronte antineutralista e polemizza a un tempo con i giolittiani, da lui sempre combattuti, e con i socialisti, dai quali si è separato con una
scia di risentimenti dopo un decennio di intense lotte politiche: «Atteggiandosi a
sostenitore della neutralità, il Ministro della mala vita sa benissimo di tendere un
tranello all’opinione pubblica italiana. E i deputati socialisti ufficiali, che possono
finalmente darsi la soddisfazione di proclamarsi apertamente giolittiani sulla piattaforma della neutralità, sanno benissimo di rappresentare la più indegna delle farse»5. L’intervento italiano è ritenuto un passaggio obbligato: «Si tratta di scegliere
fra la guerra contro gl’Imperi Centrali fatta dal Ministero Salandra, e la guerra contro la Triplice Intesa fatta da un ministero di tedeschizzanti». Ingaggiati i combattimenti, esorta gli intellettuali a fare la loro parte: «Non possiamo continuare a pesare il pro e il contro, a criticare, a polemizzare, a fare opera di coltura a lunga scadenza, mentre tutte le forze della patria devono essere concentrate ad un fine solo
immediato; agire, vincere»6.
Il cammino di Salvemini s’incrocia con quello di un intellettuale cattolico come il barnabita Giovanni Semeria che, da pacifista filotolstojano, si è trasformato
in ardente alfiere dell’intervento italiano, arruolandosi volontario come cappellano
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militare per assistere spiritualmente il suo gregge e sospingerlo al combattimento7.
Il laico Salvemini vuole accorrere tra i contadini meridionali chiamati alle armi; ottenuto l’agognato inserimento nella macchina bellica, confida a un amico di essere
«venuto qui mica a fare il militare di professione, bensì a prendere cura d’anime»8.
L’opzione meridionalista gli fa vantare la combattività delle truppe reclutate nel Sud:
«I soldati, che vengono dal Mezzogiorno, hanno tutti uno spirito ottimo: specialmente i siciliani sono meravigliosi»9.
La domanda di arruolamento si perde nei meandri burocratici e Salvemini la reitera, tramite i buoni uffici delle conoscenze personali10. Anela l’immersione nel popolo e l’adempimento di una missione pedagogica; l’investitura a «guerriero» si traduce alfine nella nomina a ufficiale di complemento. La realtà contraddice aspettative così elevate. Assegnato in luglio all’Ufficio notizie di Bologna, con l’incarico di
comunicare ai familiari il decesso dei loro cari, sente tremare le fondamenta dell’edificio interventista: «Vi sono momenti, in cui mi sento preso dal dubbio dinanzi
a tanto dolore umano, se non era preferibile accettare il dolore della tirannia tedesca a quello che nasce da tanta strage. E se non ci fosse in me qualcosa che si ribella alla servitù invincibilmente, e pone la giustizia e la libertà al di sopra della vita,
ti confesso che mi pentirei di aver voluta la guerra. Stando a Bologna, si vede passare sotto gli occhi tanto dolore che il cuore non regge alla prova»11.
Compiuti i due mesi regolamentari d’istruzione, viene assegnato a un reggimento di fanti veneti, a lui estranei per indole e sensibilità. Proteste veementi si riversano nella corrispondenza con gli amici più fidati:
Una sola cosa non inghiotto in nessun modo: invece di mandarmi in un reggimento del distretto di Barletta, mi hanno messo in un reggimento di veneti. Ne sono indignato e disgustato. Non che i veneti non mi piacciano: no, sono ottimi figliuoli.
Ma io avevo chiesto di andare coi miei contadini, e questo mio desiderio doveva essere rispettato. Questo non nell’interesse mio, ma in quello del servizio.
Ogni uomo deve essere utilizzato meglio che si può: ed io qui non sono utilizzato
come dovrei. [...] Quello che io ho il diritto di chiedere e di ottenere è di essere mandato coi contadini miei. Possibile che a Roma non capiscano la utilità per lo spirito pubblico della terra di Bari di una mia destinazione in quel senso? 12
Il battesimo di fuoco si celebra a novembre, sul fronte del Carso. Ne scrive a Fernande Dauriac (che sposerà l’anno successivo) in missive improntate a ottimismo
di maniera, alternate a passaggi più problematici, in cui – pur nella critica alla propaganda bellicista – riafferma il significato della sua presenza al fronte: «Chi proclama la bellezza e l’esteticità della guerra, vorrei che fosse sul monte che occupiamo, nelle nostre trincee! Ma hanno quelli preferito rimanere a casa. Quanto a me,
pur in mezzo ai disagi della guerra vera, non di quella dei letterati, sono contento
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di essere venuto. Se non fossi venuto ne avrei avuto rimorso e umiliazione per tutta la vita. Sarei stato morto di fronte a me stesso»13. Anche in questa occasione Salvemini – affascinato dalle teorie mazziniane sulla guerra di popolo – si trova al fianco di Bissolati, a vestire il grigio-verde nell’ultima guerra d’indipendenza, condotta
nell’interesse della patria e delle nazionalità oppresse, per la dissoluzione dell’AustriaUngheria. Il sergente degli alpini Bissolati (classe 1857) rimane al fronte per un anno, riportando due ferite e meritandosi una medaglia d’argento, mentre il sottotenente di fanteria Salvemini (1873) non regge al logoramento della trincea. Il suo fisico crolla in meno di due settimane e un’infezione intestinale lo costringe al ricovero
in un ospedale da campo della III armata. Dal letto di sofferenze confida a un’amica: «Mi pare un sogno di ritornare così presto a casa. Dall’inferno della trincea mi
pareva di non dovere uscire mai»14. Afflitto da febbri reumatiche, artrite e gotta, una
volta trasferito in un più confortevole ospedale di Padova rievoca in chiave antieroica
il battesimo di fuoco: «Tutte le mie imprese militari hanno consistito nello stare per
dodici giorni immobile o quasi nel fango, a vedere e sentir scoppiare granate e shrapnels e miagolare palle, andando a finire all’ospedale»15. A metà dicembre viene
dichiarato inidoneo al servizio militare e collocato in congedo definitivo. Ancora
nel febbraio 1916 risente degli strapazzi bellici: «Ho mali di capo, mali di piedi, mali di reni, mali di cuore»16. L’uscita dalle forze armate s’accompagna a un senso di
mortificazione per «essere stato capace di resistere per così poco tempo»17.
Nel frattempo la guerra miete vittime anche nella cerchia amicale di Salvemini.
All’indomani dell’impiccagione di Cesare Battisti, il dolore per la perdita dell’amico si coniuga con la consapevolezza dell’impoverimento arrecato alla politica postbellica: «Battisti doveva essere, nell’Italia di dopo la guerra, il rappresentante della
parte migliore delle nuove terre italiane: di quella parte che ha visto nella guerra un
dovere da compiere, un ideale da realizzare, e non un affare da utilizzare. Battisti doveva essere uno dei condottieri nel lavoro di ricostruzione»18.
Risoltosi a rieditare «L’Unità» insieme a Antonio De Viti De Marco, essenzialmente per fiancheggiare lo sforzo bellico sul «fronte interno», pubblica sul primo
numero della nuova serie un combattivo articolo sul modo migliore di «schiacciare la Germania» e di conseguire «lo sfasciamento dell’Austria-Ungheria»19. Egli si
distingue dai nazionalisti nel prefigurare assetti internazionali equi, senza «esigere di
terre slave un solo centimetro quadrato, che non risponda ai nostri diritti nazionali»20. Deluso da Salandra, diffida di Sonnino («crispino-imperialista» e intimamente
germanofilo)21, paventa il rientro di Giolitti sulla scena pubblica e confida principalmente in Bissolati. Il trapasso governativo tra Salandra e Boselli è commentato
con asprezza; il nuovo presidente del consiglio è definito «un vecchio rimbecillito
e imbecille fino dalla nascita»22. La tenuta della compagine interventista e il rischio
di una ripresa dei neutralisti gli impongono comunque l’adattamento a situazioni
sgradevoli. Un testo sulla Questione dell’Adriatico, contrario alle direttrici della po-
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litica estera sonniniana, viene bloccato in bozze e la censura si accanisce nel togliere da «L’Unità» articoli sull’autodeterminazione dei popoli, in chiave polemica con
«gli estremi nazionalisti [italiano e slavo], sfruttati dalla stessa mano»23.
Deluso dall’appannamento delle istanze democratico-interventiste, vede allontanarsi il sogno dell’Europa dei popoli, contraddetto dalla politica estera italiana;
nell’aprile 1917 l’intervento statunitense nel conflitto europeo riaccende le aspettative di giustizia internazionale, sotto gli auspici del presidente Wilson, di cui Salvemini appoggerà nel gennaio 1918 la piattaforma in 14 punti per la pace e la delimitazione delle frontiere secondo linee di nazionalità chiaramente riconoscibili.
Impegnato in cicli di conferenze in numerose città del centro-nord, investe con
verve polemica giolittiani, cattolici e socialisti, nell’ambito di una serrata campagna
antidisfattista. Sull’altro versante, critica Mussolini e quanti alimentano « la slavofobia colla Dalmazia»24; il quotidiano «Il Popolo d’Italia» viene squalificato sia
per le posizioni filoimperialiste sia per i proventi ricevuti dalla massoneria e dai trust dell’acciaio, Ansaldo in primis 25. L’intervento nell’agosto 1917 al consiglio provinciale di Bari contro una mozione « pro Dalmazia italiana » esprime il senso di
un’improba lotta sui due fronti. L’amata Puglia gli riserva più d’una preoccupazione. Un episodio del giugno 1917, avvenuto a Molfetta, attesta la debolezza del fronte interno: alcune maestre che avevano chiesto «l’oro alla patria» vengono scacciate da una torma di popolane con una fitta sassaiola. Salvemini trova parole di comprensione per la vicenda, che pure lo rattrista: « Siamo giusti: dopo due anni di
guerra noi abbiamo il dovere di star fermi al nostro posto di combattimento: perché la nostra cultura ci permette di comprendere l’importanza della lotta e la necessità di certi sacrifici. Ma le povere donne del popolo non possono fare il nostro
sforzo. Soffrono da due anni, per una causa che non comprendono, dolori non mai
visti. Ed è naturale che la prima voce, che le ecciti stupidamente e malvagiamente trovi facile eco»26. Il giudizio ammette il fallimento del progetto di immedesimazione intellettuali-popolo che stava alla base degli sforzi dello studioso pugliese, nonché l’isterilimento delle istanze interventistico-democratiche in una posizione di
principio senza alcuna rispondenza tra la cittadinanza.
La rotta di Caporetto viene ricondotta a responsabilità plurime («L’opera di smidollamento morale fatta da giolittiani, socialisti, preti e secondata dagli infausti errori del Governo civile e militare»)27, che chiamano in causa la condotta bellica cadorniana («La colpa del disastro non è dei soldati: più incoscienti che colpevoli. Le
colpe sono più in alto»); le giornate della disfatta sono vissute con intima angoscia,
in una prostrazione affine a quella provata nel dicembre 1908 per la perdita dei familiari: «Rimarranno nella mia memoria come le più dolorose della mia vita, dopo quelle – superiori a ogni forza umana – di Messina»28.
Il varo del governo Orlando è valutato positivamente per le attenzioni verso gli
«slavi dell’Austria», le nazionalità oppresse dagli Asburgo, con le quali allearsi per
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l’obiettivo comune della disgregazione dell’Impero austriaco. Aperture di credito
presto rimangiate, poiché il ministro degli Esteri Sonnino ripiega sulle tradizionali
posizioni slavofobe, avversate sdegnosamente dall’intellettuale pugliese: « Se la va
avanti di questo passo, divento giolittiano. Giolitti ci disonora, ma ci ritira dalla
guerra: Sonnino ci tiene in guerra, ci porta alla rovina e ci disonora. [...] Il nemico
l’abbiamo in casa. È Sonnino»29. La preoccupante piega bellica e il deludente indirizzo politico governativo suscitano in Salvemini un’autocritica per il ruolo degli
interventisti democratici, risultato subalterno ai nazionalisti. L’ammissione dell’errore di fondo si accompagna alla rinnovata campagna antisonniniana dalle colonne del foglio fiorentino: « Bisogna rendersi conto della funzione dell’”Unità”: dimostrare sistematicamente che i nazionalisti mentono»30.
Nel marzo 1918 Salvemini viene arruolato nei servizi propagandistici militari,
col compito di rinsaldare gli animi di ufficiali e truppa. Su invito di Giuseppe
Lombardo-Radice, addetto all’Ufficio propaganda della V armata, si reca a Schio
per istruire centinaia di ufficiali sui temi più idonei per far breccia nell’animo dei
soldati. Raccomanda di insistere sulla « santità della causa per cui si combatte »,
sull’insostenibilità del neutralismo, sulla compenetrazione della causa dell’indipendenza italiana con la libertà delle altre nazioni, sul pericolo portato dalla
Germania alla libertà dei popoli, sul rilievo strategico rivestito dal « morale delle
popolazioni ». Posizioni sintetizzate in pubblicazioni destinate ai propagandisti militari e riecheggiate sulle colonne de « L’Unità »31. L’interlocutore elettivo di Salvemini è il contadino-soldato meridionale, contrapposto all’operaio-imboscato del
nord. L’esperimento risulta talmente appagante da fargli desiderare un impiego
su più larga scala, insieme a un paio di amici fidati e a un piccolo contingente di
collaboratori; di ciò scrive da Schio a Ugo Ojetti, interlocutore elettivo nella mobilitazione degli animi:
Che bella cosa sarebbe se il duca d’Aosta incaricasse te della propaganda nelle nostre file e in quelle degli altri. Potremmo venircene con te, al tuo ufficio, io, ZanottiBianco con una mezza dozzina di czechi, sloveni, serbi, polacchi, rumeni, ecc. –
gente sicura. E forti della esperienza di Lombardo-Radice e della iniziativa nostra,
potremmo fare assai, assai. Io mi butterei a corpo perduto in questo lavoro: oltre che
preparare giorno per giorno i manifesti, potrei fare corsi di lezioni agli ufficiali come quelli che faccio qui.
Il congresso dei popoli assoggettati all’Austria-Ungheria, svoltosi a Roma l’8-10
aprile 1918 alla presenza di delegati cechi, slovacchi, iugoslavi, romeni, polacchi e italiani, segna il punto più alto della strategia salveminiana di assetti postbellici basati sull’autodecisione dei popoli e sull’erezione di stati sorretti dal principio di nazionalità. Il governo Orlando accorda un momentaneo avallo all’iniziativa, che però
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rimane priva di seguito, anche a causa dell’eterogeneità dei promotori del congresso (dal liberale Albertini al nazionalista Federzoni all’eclettico Mussolini), ognuno
dei quali riprende ben resto a tessere la propria tela.
Cessati i combattimenti, Salvemini si propone di «organizzare in una Società di
libere Nazioni l’attuale irresistibile orrore contro la idea di nuove guerre», per rinnovare l’Europa in un’ottica pacifista32. L’Italia, forte del patrimonio mazziniano,
dovrebbe garantire l’attuazione del diritto di nazionalità nell’Europa sudorientale,
in chiave antigermanica: con la rinunzia a vantaggi territoriali sull’onda della vittoria militare, il nostro Paese disinnescherebbe focolai di nuovi conflitti. Progetto utopico, dal momento che la guerra ha indebolito le forze democratiche a tutto vantaggio dei nazionalisti e dei socialisti massimalisti, in un contesto europeo di sciovinismi e aspirazioni di rivalsa. L’intellettuale pugliese e i suoi pochi compagni di
viaggio sono esposti al fuoco di chi li aveva preceduti nell’interventismo e ora guida la deriva nazionalista: Benito Mussolini lo ribattezza «Slavemini», in sprezzo alla sua posizione sulla sorte della Dalmazia. La clamorosa contestazione organizzata
l’11 gennaio 1919 da Mussolini e Marinetti al teatro La Scala contro il «rinunciatario » Bissolati dimostra l’isolamento degli alfieri dell’autodecisione dei popoli. La
schiera degli interventisti democratici è ridotta al lumicino, come «L’Unità» deve
ammettere: «Molti democratici interventisti nei lunghi contatti coi nazionalisti, nei
fasci, nei comitati di salute pubblica, nelle unioni patriottiche, si sono lasciati poco a poco assimilare, hanno assunta una psicologia nazionalista, l’hanno rivelata
agli altri ed a se stessi nell’ora della vittoria, e sono passati a bandiere spiegate al vero e proprio nazionalismo »33. L’illusione di organizzare i combattenti su basi democratiche si rivela di breve durata, con un seguito limitato alle realtà della Sardegna, della Puglia e del Bresciano. L’ascesa di Mussolini al potere confermerà l’irrimediabile sconfitta delle posizioni democratico-interventiste e chiarirà lo sbocco del
mito dell’«ultima guerra», non certo quello di una pace giusta. Di ciò lo stesso Salvemini si renderà conto nelle riflessioni diaristiche del 1923, che illustrano un
profondo travaglio interiore e giudizi disincantati su alcune posizioni da lui impersonate nel 1914-1834.
L’itinerario salveminiano nella grande guerra deve essere contestualizzata nella
condivisione di quell’esperienza con i compagni di strada, appartenenti alla generazione precedente (Leonida Bissolati), alla sua epoca (da Cesare Battisti a Giuseppe Prezzolini) e a quella successiva (da Umberto Zanotti-Bianco a Piero Calamandrei); un’interpretazione che prescinda da questo contesto umano, ideale e pratico,
rinchiudendo Salvemini nel recinto di un soggettivismo esasperato e di sbalzi umorali, ne rende indecifrabile l’operato35. Un quarto di secolo più tardi, ancora una
volta la preoccupazione per gli esiti della democrazia europea è alla base della mobilitazione salveminiana per l’intervento degli Stati Uniti e di volontari italiani antifascisti nella guerra contro l’Asse; insieme alle evidenti diversità di ordine interno
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(l’Italia non è più sospesa tra Giolitti o Salandra, ma dominata da Mussolini) e alle analogie internazionali (il progetto tedesco di dominio europeo), affiorano, nei
tempi lunghi, linee di continuità nella biografia salveminiana che gettano luce retrospettiva sul suo interventismo-democratico del 1914.
Note
1 Lettera di Gaetano Salvemini a Giuseppe Prezzolini, 5 agosto 1914, in Gaetano Salvemini, Carteggio 1914-1920, a c. di
Enzo Tagliacozzo, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 16.
2 Id., La neutralità “assoluta”, in «L’Unità», 7 agosto 1914.
3 Id., La guerra per la pace, in «L’Unità», 26 agosto 1914.
4 L’irredentismo, edito originariamente su «Critica Sociale» del 1° gennaio 1900, figura in Gaetano Salvemini, Come siamo
andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a c. di Augusto Torre, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 3-10.
5 Id., Il tranello, in «L’Unità», 14 maggio 1915.
6 Id., Oportet studuisse, «L’Unità», 28 maggio 1915.
7 Cfr. Mimmo Franzinelli, La coscienza lacerata. Padre Semeria e la grande guerra, in « Italia contemporanea », n. 197,
dicembre 1994, pp. 719-46.
8 Lettera a Umberto Zanotti-Bianco, 31 agosto 1915, in Salvemini, Carteggio 1914-1920 cit., p. 187. Abbastanza curiosamente,
questa considerazione è omessa nel carteggio Zanotti-Bianco e Salvemini, edito nel 1983 a Napoli dalle edizioni Guida,
con prefazione di Fulvio Tessitore e saggio introduttivo di Alessandro Galante Garrone.
9 Lettera a Giustino Fortunato, 1º giugno 1915, in Salvemini, Carteggio 1914-1920 cit., p. 158.
10 Cfr. la lettera alla figlia del generale Alfredo Dallolio, Gina Dallolio, 5 giugno 1915, ivi, p. 161.
11 Lettera a Titina Benzoni, 30 luglio 1915, ivi, p. 171.
12 Lettera a Umberto Zanotti-Bianco, 31 agosto 1915, in Zanotti-Bianco e Salvemini, a c. di Galante Garrone cit., p. 76.
13 Lettera a Fernande Dauriac, 12 novembre 1915, in Salvemini, Carteggio 1914-1920 cit., p. 216.
14 Lettera a Elsa Dallolio, 24 novembre 1915, ivi, p. 219.
15 Lettera a Pietro Silva, 8 dicembre 1914, ivi, p. 224.
16 Lettera a Umberto Zanotti-Bianco, 8 febbraio 1916, ivi, p. 237. Anche questa frase è espunta (senza nemmeno dare
indicazione di omissis) nel carteggio Zanotti-Bianco e Salvemini, a c. di Galante Garrone cit., p. 77.
17 Lettera a Elsa Dallolio, 26 dicembre 1915, in Salvemini, Carteggio 1914-1920 cit., p. 231.
18 Lettera a Ernesta Battisti, 13 luglio 1916, in Salvemini e i Battisti. Carteggio 1894-1957, a c. di Vincenzo Calì, Temi, Trento
1987, p. 95.
19 Gaetano Salvemini, La guerra per la successione d’Austria, «L’Unità», 8 dicembre 1916.
20 Lettera a Ugo Ojetti, 6 aprile 1916 e 26 gennaio 1917, in Salvemini, Carteggio 1914-1920 cit., pp. 248, 293. In altri passaggi
epistolari Sonnino è peraltro valutato positivamente (cfr. la lettera a Giustino Fortunato, 18 giugno 1916, ivi, pp. 260-61).
21 Lettera a Umberto Zanotti-Bianco, 28 marzo 1916, ivi, p. 245.
22 Lettera a Giuseppe Prezzolini, 14 ottobre 1916, ivi, pp. 281-82.
23 Gaetano Salvemini, Al salvataggio dell’Austria, «L’Unità», 29 dicembre 1916. Integralmente censurato, è riprodotto nel
IV volume della ristampa anastatica curata nel 1970 dall’editore Forni e in Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura, a c. di
Carlo Pischedda, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 38-42.
24 Lettera ad Arcangelo Ghisleri, 24 maggio 1917, in Id., Carteggio 1914-1920 cit., p. 309.
25 Cfr. la lettera a Giuseppe Prezzolini, 8 luglio 1917, ivi, p. 314.
26 Lettera a Giacinto Panunzio, 30 giugno 1917, ivi, pp. 311-12.
27 Lettera a Pietro Silva, 7 novembre 1917, ivi, p. 336.
28 Lettera a Bernard Berenson, 25 novembre 1917, ivi, p. 339.
29 Lettera a Zanotti-Bianco, 12 gennaio 1918, ivi, p. 351.
30 Lettera a Pietro Silva, 21 marzo 1918, ivi, p. 366.
31 Cfr. La guerra nel 1918, in «L’Unità», 10 gennaio 1918, e l’opuscolo Schemi di conferenze ai giovani Ufficiali Subalterni e
di Conversazioni coi soldati, pubblicato nella primavera 1918 dal X corpo d’armata. Si veda a questo proposito Mario Isnenghi,
Giornali di trincea 1915-1918, Einaudi, Torino 1977, pp. 30-32, 59-62.
32 Ognuno al suo posto!, in «L’Unità», 30 novembre 1918.
33 Cleanto Boscolo, Ognuno al suo posto, in «L’Unità», 1º febbraio 1919.
34 Cfr. Gaetano Salvemini, Memorie e soliloqui. Diario 1922-1923, a c. di Roberto Pertici, Il Mulino, Bologna 2001,
pp. 187-93.
35 È il limite maggiore della biografia di Gaspare De Caro, Gaetano Salvemini, UTET, Torino 1970, che riflette un’immagine sempre unilaterale e a tratti macchiettistica dell’intellettuale pugliese.