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Appendice
di Giuseppina Melis
Generi dello spettacolo musicale leggero
Avanspettacolo
Parente stretto ma povero del → varietà, nasce intorno agli anni Trenta del Novecento, mentre il cinema conosce un crescente successo. Viene proposto nelle sale
cinematografiche prima delle proiezioni o in alternanza con queste, da cui il nome.
Le sale sono frequentate da un pubblico povero e marginale, che non può accedere
al varietà e alla → rivista e per il quale l’immaginario cinematografico rimane troppo lontano. L’a., viceversa, propone la vecchia complicità tra sala e palcoscenico,
con personaggi in carne e ossa. Tra i protagonisti dell’a., affidato a piccole compagnie girovaghe, figurano, oltre a girls dai nomi esotici, il cosiddetto compère, ossia
il conduttore che annuncia i diversi numeri, e l’attore comico. Quest’ultimo può
inventare a piacimento testi e battute; i suoi sketch, che a volte lo vedono in duo
con la soubrette, si alternano a coreografie di ballerine non sempre bravissime ma
‘vistose’, a numeri di giocolieri, all’esibizione di un cantante ecc. Il divertimento è
assicurato soprattutto dalle reazioni del pubblico: oltre che con applausi e risate,
risponde con pernacchie, con il lancio di ortaggi e perfino di gatti morti in scena
(una ricostruzione dell’atmosfera che regnava nei cinema durante gli a. è efficacemente resa da Federico Fellini nel film Roma, 1972). Nelle tante compagnie di a.
attive in Italia nei primi decenni del Novecento, si formano molti degli attori —
comici e no — del teatro italiano, come Macario, Nino Taranto, Anna Magnani,
Renato Rascel, Tino Scotti, Carlo Dapporto, Totò. È proprio sui palcoscenici dell’a.,
e poi della rivista, che quest’ultimo definisce il suo personaggio, vestito di una «logora bombetta, un tight troppo largo, una camicia lisa col colletto basso, una stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni a ‘saltafossi’». L’a. raggiunge il massimo splendore nel periodo antecedente il secondo conflitto mondiale. Negli anni
Cinquanta decade, soppiantato definitivamente dal cinema.
Cabaret
Il termine designava in Francia le taverne e le mescite di vino, da cui l’estensione
ad una forma d’intrattenimento che in questi locali vede la luce negli anni Ottanta
dell’Ottocento. Nati per volontà di certi artisti e intellettuali e destinati ad una cerchia ristretta di spettatori, gli spettacoli di c. si caratterizzano da subito per la polemica più o meno aspra verso il potere costituito, l’anticonformismo e l’uso della
satira. Le forme, invece, si differenziano a seconda dei Paesi e delle epoche. Le due
prime espressioni di questo genere di spettacolo sono il c. artistico francese fin de
siècle, dominato dalle figure dello chansonnier e del conférencier, e il c. letterario
tedesco, palestra di poeti e drammaturghi. Il primo c. francese, lo Chat Noir, viene
fondato a Parigi, nel quartiere di Montmartre, da Goudeau e Salis, membri di un
gruppo di intellettuali e artisti d’avanguardia che amano chiamarsi Hydropathes.
Nel suddetto locale questi prendono a riunirsi e a esibirsi in canzoni, sketch, monologhi. Le serate sono molto animate e tra gli ospiti figurano personaggi notissimi al
tempo, come i poeti-chansonnier Bruant, Mac-Nab e Jouy, gli scrittori Goncourt e
Zola, i musicisti Debussy e Satie. Nascono, così, a Parigi altri c. Molto frequentato è
Le Mirliton, soprattutto per la presenza di Aristide Bruant, il «poeta di strada»
creatore della canzone detta canaille, nella quale celebra, in un argot duro e violento, gli eroi negativi del bassifondi. A lui si deve quel particolare stile che sarà poi
tipico delle canzoni da c. Nei primi anni del Novecento sono le nuove avanguardie
che s’impossessano del c., facendone una sorta di banco di sperimentazione. Luogo
privilegiato delle loro performance è Le Lapin Agile, fondato da Bruano, ritrovo di
artisti come Picasso e Apollinaire. Nell’immediato dopoguerra, con l’arrivo a Parigi
di Tristan Tzara, il c. ospita le provocazioni dadaiste. In questi anni le avanguardie
vanno scoprendo e assimilando il → jazz; naturale, perciò, che il nuovo stile musicale si diffonda proprio dai c. Le Boeuf sur le Toit, animato dal regista Jean Cocteau
e dal musicista Erik Satie, ne diventa il centro di propulsione. I due si sono fatti
sostenitori della musica sperimentale del Gruppo dei Sei (Auric, Milhaud, Poulenc
ecc.), accomunati alcuni dalla predilezione per le musiche da circo e per il jazz, in
polemica con la musica ‘dotta’ e con la «sofisticata raffinatezza armonica dell’impressionismo». Dal Boeuf passano tantissimi musicisti; dal pianista Wiéner, che
insieme al sassofonista Lowry vi suona ragtime e fox-trot, al pianista Rubinstein,
dal compositore Ravel ai jazzisti neri più famosi. Interrotta dalla guerra, la tradizione dei c. rinasce a Parigi dopo il 1945, nelle caves di Saint Germain des Prés
(Rose Rouge, Tabou) e all’insegna dell’esistenzialismo. Ora i frequentatori famosi
si chiamano Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Albert Camus, Raymond
Queneau. Oltre che dalle letture di poesia e di filosofia e dall’ascolto del jazz, la
novità del c. esistenzialista è data soprattutto dalle canzoni, frutto della collaborazione di poeti e scrittori come Prévert, Queneau, Aragon, di compositori come
Kosma, di grandi interpreti come Greco, Mouloudij, Vian, Brassens, Brel, Ferré,
Robert. Nasce una chanson molto curata nelle parole e nella melodia, che rifiuta la
‘facilità’ per perseguire il valore poetico del testo più che la sua attualità. Nei Paesi
di lingua tedesca il c. compare all’inizio del Novecento: i suoi centri sono Berlino e
Monaco. A Berlino il primo c. che si ricordi è l’Uberbrettl (1901), che aprirà la strada ad altri come il Die Brille e lo Schall und Rauch; a Monaco nasce intanto il Die
Elf Scharfrichter, animato dal drammaturgo Wedekind, seguito poi dal Simplicissimus di Kathi Kobus, legato all’omonima rivista satirica. In generale, il c. tedesco si caratterizza più come centro delle avanguardie che come luogo di intrattenimento e ciò ne determina la tendenza verso la forma del teatro letterario e la
critica politica. Negli anni della Repubblica di Weimar a Berlino le due tendenze
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sono rappresentate dal Katakombe di Finck, che segue la strada del c. politico, e dal
Kabarett der Komiker, attento alle esperienze del teatro contemporaneo. L’apporto
più originale di questo tipo di c., legato ai movimenti politici di sinistra, molto ironico e critico nei confronti della società borghese, è la creazione di un nuovo tipo di
canzone. Totalmente basata sul valore del testo (celebri le ballate a sfondo politico
e sociale di Kastner, Tucholsky e dello stesso Bertolt Brecht), sorretta da melodie
scarne, è affidata a voci impostate nel registro medio-grave e arricchita da tutta la
gamma di sfumature, dal parlato al cantato. Provocatorio anche il contrasto tra
questo stile vocale, duro, e gli accompagnamenti, pianistici o per piccole orchestre,
che accolgono modi dei generi ‘leggeri’, da quello canzonettistico al jazz, dal tango
alla marcetta. Il meglio, al riguardo, viene dalla collaborazione di Brecht con il compositore Kurt Weill e con la cantante Lotte Lenya. Osteggiati e poi chiusi dai nazisti,
i c. tedeschi risorgono nel dopoguerra sui temi della responsabilità collettiva, della
colpa e dell’opportunismo ipocrita che aveva permesso l’ascesa del nazismo. Da
allora l’attività del c. tedesco prosegue, conservando il suo spirito e la sua funzione
di critica e di denuncia. Quasi assente nei Paesi di lingua inglese, dove la sua funzione è svolta dai night club e dai teatri off, il c. ha diverse manifestazioni in Austria, in Svizzera — celeberrimo a Zurigo il Cabaret Voltaire (1916), centro d’irradiazione del movimento Dada, fondato da Tristan Tzara — e nei Paesi di lingua
slava; si ricordano a Cracovia Il Palloncino Verde, a Mosca Il Pipistrello (1908), a
Pietroburgo Il Cane Randagio, a Praga il Montmartre. L’esperienza del c. raggiunge anche il Sud America; in particolare Buenos Aires, dove, a partire dal 1913, vengono aperti una serie di c. sul modello parigino e s’impone la moda del tango. In
Italia caratteri del c. presenta la cosiddetta rivista da camera degli anni Cinquanta
del Novecento, creata dal Teatro dei Gobbi (Alberto Bonucci, Vittorio Caprioli e
Franca Valeri) e proseguita con maggiore impegno politico dal gruppo Parenti-FoDurano. Ma è solo negli anni Sessanta che si può parlare di un vero e proprio c.
italiano, quando a Genova nasce La Borsa di Arlecchino, a Milano il Derby Club,
dove iniziano la loro carriera Paolo Poli e Laura Betti e Giancarlo Cobelli presenta
Cabaret 60, con testi di Arbasino e Fusco; più tardi Franco Nebbia apre a Milano il
Cab 64, mentre a Roma Maurizio Costanzo fonda il Cab. Pur rimanendo un’esperienza limitata a quel periodo, questi c. contribuiscono all’affermazione di tanti
nomi prestigiosi dello spettacolo e della cultura italiana (Carmelo Bene, Ennio Flaiano,
Gino Negri, i Gufi, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Ornella Vanoni, Maria Monti).
Café chantant
Genere di spettacolo nato in Francia sul finire del Settecento, deve il nome ai locali
— i café, appunto — che, come forma d’intrattenimento, offrono ai clienti un
sottofondo musicale-canoro o una qualche attrazione di derivazione circense. Storicamente è considerato un antenato diretto del → varietà, cui cede il passo alla
svolta del Novecento. Diffusi dopo la Rivoluzione (1789) — celebri al tempo il Café
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Sauvage e il Café des Aveugles — e ancor più durante il Consolato, i c.c. vengono
proibiti da Napoleone. Ricompaiono sotto il regno di Luigi Filippo nella zona degli
Champs Elisées, molto frequentata d’estate, nella forma di padiglioni all’aperto.
Col tempo la formula dei café o dei bistrot in cui si esibiscono chansonnier più o
meno famosi si consolida, giungendo a maturazione negli anni del Secondo Impero
(1852-70). A tale data, quella che è solo una forma pubblicitaria per il locale si è
strutturata in uno spettacolo vero e proprio, suddiviso in due momenti, uno dedicato ai numeri di canto e l’altro alle attrazioni: un balletto o numeri di comici,
giocolieri, mimi e trasformisti. Vi è ammesso esclusivamente pubblico maschile,
mentre alle artiste spesso è fatto obbligo sedere ai tavoli dei clienti per intrattenerli
e incrementare la consumazione. Anche l’estetica dei locali muta: arredati in uno
stile sempre à la page, talvolta dotati di balconate da cui i clienti possono assistere
ai numeri dall’alto, fanno dell’ornamento e dello sfarzo i loro elementi centrali. I
più frequentati sono l’Eldorado (1858), l’Alcazar (1860), il Bataclan (1864); cui si
aggiungono, alla fine del decennio, la Gaité, Le Folies Bergère e il Moulin Rouge.
Più vasti e dotati di grandi palcoscenici che consentono vere e proprie messe in
scena, questi ultimi, all’inizio del Novecento, prenderanno il nome di teatri di varietà. La differenza tra c.c. e varietà è data, infatti, principalmente dal luogo della
rappresentazione, che non è più il locale pubblico ma il teatro. In Italia la moda del
c.c. si afferma a metà dell’Ottocento e coinvolge sia i caffè più eleganti sia quelli più
popolari. Si va dal grande locale in stile parigino, secondo una mania francesizzante
comune a tutta l’epoca, dove si esibiscono grandi vedettes, anche internazionali, e
dove la borghesia fa mostra di sé sfoggiando abiti alla moda, alla bettola dove gli
artisti sono accolti con schiamazzi e commenti salaci e impietosi. Alla fine dell’Ottocento ai tradizionali c.c. si affiancano anche in Italia i teatri di varietà (Salone
Margherita, Trianon, Eden tra i tanti). Tuttavia, poiché il passaggio al vero varietà
avviene negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, anche
per questi teatri si continuerà a parlare fino ad allora di c.c. Di questi mantengono
persino l’uso della consumazione: ogni poltrona ha, infatti, sul retro dello schienale una ribaltina dove appoggiare bibite e liquori. Anche in Italia gli spettacoli dei
c.c. si presentano come una commistione di generi diversi. Oltre ai numeri di attrazione provenienti dal circo e dalle esibizioni di piazza, una gran parte vi ha la canzone e la sua interprete, la canzonettista, che a Napoli — dal francese chanteuse —
è detta sciantosa . La canzone napoletana la fa da padrona nei c.c., con interpreti di
rilievo come Emilia Persico, proveniente dall’operetta, che canta i testi di Salvatore
di Giacomo, o come Gennaro Pasquariello ed Elvira Donnarumma. Altra figura di
spicco legata alla tradizione napoletana è quella del comico e canzonettista Nicola
Maldacea, al quale si deve l’applicazione dell’arte del ‘recitar cantando’ all’intrattenimento leggero e, per questa via, la creazione della macchietta satirica, con cui
mettere alla berlina caratteri e figure di attualità. Molti degli artisti del c.c. italiano
diventano famosi anche sui palcoscenici internazionali: la cantante Lina Cavalieri
si esibisce persino alle Folies Bergère e Leopoldo Fregoli, trasformista «di una ve-
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locità quasi futurista», genera innumerevoli imitatori, entra nella stessa lingua coniando il termine fregolismo e affascina il pubblico di mezza Europa prima di approdare in America. All’inizio del Novecento il c.c. si è diffuso in tutta Italia e il
pubblico che lo frequenta è essenzialmente maschile. Più tardi, anche per far fronte alla concorrenza del cinema, nascono gli spettacoli per famiglie, programmati in
genere al pomeriggio. Sono questi gli anni della trasformazione del c.c. in varietà
vero e proprio.
Café concert
È sinonimo di → café chantant; si utilizza, tuttavia, quando in un caffè si esibisce
da sola un’orchestrina.
Commedia musicale
Espressione italiana equivalente all’inglese → musical. Nel nostro Paese si afferma
a partire dagli anni Cinquanta del Novecento grazie alla ditta Garinei & Giovannini,
che ha già dato prova di sé nella → rivista. L’intenzione è reinventare in chiave
italiana il genere teatrale di maggior successo negli Stati Uniti, cioè la commedia
umoristica basata su pochi personaggi, molti equivoci, tanto sentimento, un pizzico di nazionalismo latente e belle coreografie. Gli attori sono, in parte, gli stessi che
si sono fatti conoscere sui palcoscenici della rivista: Carlo Dapporto, Renato Rascel,
Walter Chiari, Nino Manfredi, Paolo Panelli, Domenico Modugno, Delia Scala. Con
quest’ultima si afferma una nuova femminilità sbarazzina, all’opposto del modello
ormai desueto rappresentato, nella rivista, da Wanda Osiris. Alle musiche collaborano compositori di musica leggera come Armando Trovajoli e Gorni Kramer. Tra
i tanti titoli prodotti da Pietro Garinei e Sandro Giovannini si ricordano Buonanotte
Bettina! (1956), Un paio d’ali (1957), Rugantino (1962), Ciao Rudy (1965), Alleluja,
brava gente (1970) e Aggiungi un posto a tavola (1974).
Concerto
Il termine viene fatto derivare dal latino conserere (‘congiungere’, ‘unire’). Nel XVI
secolo viene chiamato c. una composizione di ‘insieme’, sia vocale sia strumentale.
Claudio Monteverdi intitola Concerto il suo settimo libro di madrigali (1619), contenente pezzi per voci con accompagnamento strumentale. Nel XVIII secolo Johann
Sebastian Bach usa il termine per alcune sue Cantate sacre. Successivamente si
intende per c. una composizione puramente strumentale, in cui alcuni strumenti
intervengono come solisti, in ‘dialogo’ con tutti gli altri, che agiscono come gruppo
collettivo. Si chiama c. anche l’esecuzione per un uditorio di una o più composizioni musicali. A seconda del numero degli esecutori, al genere delle composizioni e
alle formazioni da queste richieste, un c. può essere solistico (in tal caso è chiamato
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anche recital), vocale, strumentale, da camera, sinfonico, corale, bandistico. Fino
alla seconda metà del Seicento i c. si tengono presso le corti, le chiese, le case degli
aristocratici e dei ricchi borghesi, offerti a ristrette cerchie di invitati. Nel Settecento si diffondono i c. pubblici a pagamento e si formano le prime società concertistiche,
spesso dotate di propri complessi, orchestre e cori. A partire dalla seconda metà del
Novecento, con l’imporsi di nuovi generi musicali, in particolare il rock e i suoi
derivati, s’impone anche un nuovo tipo di c. Al chiuso o all’aperto, condotti da una
o più band, i c. rock e pop si caratterizzano innanzitutto per il pubblico, composto
esclusivamente da giovani, per il numero dei partecipanti (nel 1969 ai c. di
Woodstock e poi dell’isola di Wight si contano nell’ordine del mezzo milione), per
la crescente spettacolarizzazione, attraverso l’impiego di giganteschi e sofisticati
impianti acustici e scenografici.
Minstrel show
Genere di spettacolo nato negli Stati Uniti all’inizio del XIX secolo, è composto di
canti, danze, parodie e sketch comici interpretati perlopiù da bianchi con il volto
dipinto di scuro, che, con intenti generalmente caricaturali, imitano le movenze, i
canti e le danze dei neri. La struttura dello spettacolo comprende tre parti. Nella
prima gli attori disposti in semicerchio, di modo che l’interlocutor o middleman,
l’unico non truccato da nero, si trovi nel mezzo, alternano battute comiche, canzoni
e musiche eseguite con strumenti d’ascendenza africana (bones, banjo e tamburi),
cui si aggiungono in seguito violini e fisarmoniche; segue una danza generale
(breakdown) ed una danza in tondo (walk around). Nella seconda parte, denominata olio (miscuglio), attori solisti presentano numeri di varietà; conclude un
hoedown, consistente in ritmi scanditi con mani e piedi, in canzoni eseguite secondo la tecnica del call and response e in brani di virtuosismo strumentale. La terza
parte è costituita da un burlesque denominato Ethiopian Opera , i cui temi sono
tratti da tragedie (di Shakespeare, per esempio) e da opere liriche. Il m.s. si conclude, quindi, con plantation songs (canti delle piantagioni) eseguiti coralmente. È la
compagnia dei Virginia Minstrels a rendere definitivo questo tipo di struttura. Daniel
Decatur Emmett, leader del gruppo, scrive anche numerose minstrel songs e walk
around estremamente popolari; come Dixie Land, trasformata in inno patriottico
durante la guerra civile. Dopo il 1870 i m.s. diventano più spettacolari e le compagnie crescono fino a comprendere anche un centinaio di attori. Nei primi decenni
del Novecento il m.s. decade, soppiantato dal → musical e dal → varietà, ma anche
dal → jazz, rispetto al quale svolge un ruolo determinante. Oltre che negli Stati
Uniti, i m.s. hanno grande fortuna in Inghilterra; in particolare a Londra, dove si
formano compagnie come la Moore and Burgess Minstrels. Il primo m.s. viene portato nella capitale inglese nel 1836 dal più celebre minstrel americano, Thomas
Dartmouth Rice, detto Jim Crow. Da allora e fino al 1920 il m.s. ha a Londra anche
una sua sede, il St. Jame’s Hall.
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Musical
Abbreviazione di musical comedy o musical play, è un genere di spettacolo consistente in una rappresentazione teatrale composta da dialoghi parlati, canti e balli.
Fiorito a partire dalla seconda metà dell’Ottocento in Inghilterra e negli Stati Uniti,
trova in questi ultimi, negli anni Venti del Novecento, il suo luogo di elezione, favorito anche dalle possibilità offerte dalle riduzioni cinematografiche, che ne amplificano la fortuna. Fino a questo momento, il m. non si discosta troppo dalla → rivista
per la ricerca di effetti spettacolari e per il suo carattere di pura evasione, spesso
basato esclusivamente sull’esotismo e sull’avvenenza delle soubrette più che sul
legame tra il parlato, la musica e la danza. Il primo m. nel quale le parti cantate
sono ben ancorate alla narrazione è considerato Show Boat (1927), musiche di Kern
su libretto di Wodehouse e Hammerstein. Al 1927 risale pure il film Il cantante di
jazz, diretto da Alan Crosland, primo esempio di cinema sonoro e di legame tra il
mondo teatrale di Broadway e quello cinematografico di Hollywood. Ma il periodo
è segnato soprattutto dal genio musicale di George Gershwin, che, in coppia col
fratello Ira come paroliere, riscuote un gran successo con m. come Lady be good
(1924), Tip toes (1925), Girl crazy (1930), Of thee I sing (1931, che ottiene il premio
Pulitzer), Porgy and Bess (1935, considerato il suo capolavoro). Qualche anno dopo
la coppia Rogers (compositore) e Hammerstein (librettista) rivoluziona ancora i
canoni del genere con Oklahoma! (1943), tra i m. più popolari, cui seguono Carousel
(1945), South Pacific (1949) e The king and I (1951). Di questi anni anche gli ultimi
lavori del compositore tedesco Kurt Weill (Street scene , 1947; Love life, 1948; Lost
in the star, 1949) che ottengono un tiepido successo, mentre oltre 2.700 repliche
ha la riproposizione off-Broadway della sua The threepenny opera (su testo di Bertolt
Brecht) nel 1954. Negli anni Cinquanta spiccano i m. di Cole Porter (Kiss me Kate,
1948; Can Can, 1953; Silk stocking, 1955), della coppia Lerner e Loewe (My fair
lady, 1956, tra i più grandi successi di tutti i tempi), della coppia Sondheim e
Bernstein (West side story, 1957). Alla fine del decennio alla realtà di Broadway si
contrappone la cosiddetta ‘off-Broadway’, ovvero l’insieme dei teatri ‘alternativi’
della zona newyorchese del Greenwich Village, dove vengono rappresentati alcuni
clamorosi successi. Lungo gli anni Sessanta e Settanta l’off-Broadway ospita tutto
il m. d’avanguardia, spingendo spesso anche Broadway ad aprirsi alle nuove tendenze musicali. Il 1964 è un anno storico per il m. Vanno in scena Fiddler on the
roof, musiche di Bock; Hello Dolly, parole e musica di Herman; Funny girl, musiche di Styne. Altri successi di questi anni: Sweet Charity (1966; trasposizione teatrale del film di Federico Fellini Le notti di Cabiria, 1957), che riunisce Cy Coleman
per le musiche, Neil Simon per la sceneggiatura, Bob Fosse per la regia e la coreografia; Cabaret (1966); Hair (1968), il primo spettacolo di Broadway legato alla
cultura giovanile. Esperienza quest’ultima che prosegue nel 1971 con Jesus Christ
Superstar, degli inglesi Andrew Lloyd Webber, per la musica, e Tim Rice per i testi
(nel 1979 bisseranno il successo con Evita). Ancora basati sul rock si contano due
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m. off-Broadway: Grease (1972) e The Rocky Horror Show (1974). In questo periodo molti registi si dividono tra Hollywood e Broadway. Tra loro Bob Fosse, che
realizza le versioni cinematografiche di Cabaret (1972) e All that jazz (1979), mentre per il teatro firma Pippin (1972), Chicago (1975) e Dancin’ (1978). Numerose
pure le trasposizioni teatrali di biografie di noti musicisti, come Ain’t misbehavin’
sulla vita del jazzista Thomas ‘Fats’ Waller e Sophisticated ladies su Duke Ellington.
Il m. influenza fortemente anche l’industria cinematografica, che — negli Stati Uniti, in particolare —, sull’onda del successo riscosso nei teatri, produce una lunga
sequenza di film musicali. Alcuni sono la trascrizione fedele dell’omonimo spettacolo teatrale; altri, invece, originali e talvolta contraddistinti dalla ricerca di uno
stile autonomo. Su questa strada si muove Busby Berkeley, grandissimo coreografo e regista ( Gold diggers of 1935, 1935; Hollywood Hotel, 1937; Babes on
Broadway, 1941), attivissimo negli anni Trenta e Quaranta, che eleva il m. a vera e
propria arte. La sua lezione viene raccolta negli anni Cinquanta da registi come
Stanley Donen e Gene Kelly, co-autori dello splendido Singin’ in the rain (1952); o
come Vincente Minnelli, autore di alcuni dei capolavori del genere. In anni più
recenti si manifesta la tendenza a riproporre famosi m. del passato, facendo ritenere a molti critici che il genere sia in crisi. Tale interpretazione è, però, confutata dal
costante successo di pubblico.
Music hall
Genere di spettacolo di varietà diffuso in particolare in Gran Bretagna, propone
soprattutto canzoni e musica, numeri acrobatici, pantomime, giochi di prestigio ed
è, generalmente, privo della componente coreografica. Si suole farlo derivare dagli
spettacoli di varietà in uso sia negli aristocratici pleasure gardens tra Sei e Settecento, sia nei song and suppers club e nelle night cellars del primo Ottocento; ma
la discendenza più diretta pare esserci nelle taverne, frequentate sia dalla classe
lavoratrice, sia da un pubblico borghese e piccolo borghese. Molte delle canzoni
che vi vengono intonate fanno parte di quella tradizione di bawdy songs (canti
osceni), di cui si trovano esempi persino in Shakespeare e in Purcell. Col tempo
questi luoghi di divertimento si dotano di palcoscenici non dissimili da quelli teatrali, spesso di una balconata che corre su tre lati del locale. La consumazione, invece, diviene poco più che accessoria e lo spettacolo ne prende completamente il
posto. I locali da m.h. proliferano nella seconda metà dell’Ottocento: nella sola
Londra si passa dagli otto del 1848 ai novantadue del 1854. Vi si eseguono pantomime, harlequinades, melodramas, ma anche opere colte. Il pubblico partecipa in
modo vivace alle rappresentazioni con strilli, fischi, battute. Accanto alle halls nascono, in questo periodo, veri e propri teatri di varietà, ma l’espressione inglese
più usata continua a essere music hall. Per limitarsi alla sola Londra, si ricordano il
Coliseum, l’Empire (passato alla storia della musica grazie a Satie e alla sua Diva
dell’Empire), il Palladium, il Metropolitan, il Palace. Dopo la prima guerra mon-
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diale il m.h. declina rapidamente, soppiantato dal → varietà e dalla → rivista, ma
anche dalla radio. Nel 1923, infatti, la Bbc inizia le trasmissioni di uno spettacolo di
varietà radiofonico, spostando progressivamente l’attenzione del pubblico prima
sulla radio e poi sulla televisione. Lo spirito del m.h. sopravvive in alcuni night
club, oltre che in alcuni teatri tuttora funzionanti. Nel m.h. si formano molti nomi
famosi dello spettacolo: Charlie Chaplin e Stan Laurel, in particolare, entrambi nella
compagnia girovaga di Fred Karno.
Operetta
Genere di spettacolo teatrale che sta tra la commedia e l’opera lirica, in cui si alternano parti recitate e cantate (arie, duetti, terzetti, couplets, assolo e corali), scene
di massa e danze; il tutto in una cornice scenica e coreografica generalmente ricca
e sfarzosa. Più che sulla trama drammatica, solitamente semplice e lineare, l’o. si
fonda sulla musica: briosa, divertente, d’immediata godibilità. Il vertice della
spettacolarità scenico-musicale lo raggiunge con la danza, sempre molto suggestiva, sui ritmi di walzer, mazurke, marce e, negli anni Venti del Novecento, fox-trot.
Il termine o., diminutivo dell’italiano opera, compare nel lessico teatrale europeo
verso la metà del XVII secolo, a indicare, in tedesco, una composizione teatrale di
genere drammatico-musicale, di tono leggero e modeste proporzioni. Passato in
Francia, intorno alla metà dell’Ottocento si afferma col significato che gli si attribuisce tuttora. I precedenti più prossimi dell’o. sono il Singspiel tedesco e l’ opéra
comique francese, entrambi derivanti dall’opera buffa italiana: stessa alternanza
di canto e recitazione, medesimo carattere giocoso dell’intreccio drammatico, uguale
leggerezza e gioiosità dell’elemento musicale. Più che un genere di spettacolo del
tutto nuovo, pertanto, l’o. rappresenta il punto di arrivo ad un’inconfondibile autonomia formale mediante una complessa parabola artistica. L’o. francese ha i suoi
primi e grandi autori in Jacques Offenbach, che le imprime carattere satirico, e in
Hervé (pseudonimo di Florimond Ronger). Del primo, creatore di un centinaio di
o., si ricordano Orphée aux enfers (1858) e La belle Hélène (1864); del secondo
Don Quichotte et Sancho Pança (1848) e Mam’zelle Nitouche (1883). L’o. viennese,
dapprima sotto l’influenza e la diretta iniziativa di Offenbach, acquista successivamente un carattere diverso da quella francese: assente l’elemento satirico, è tutta
passione, nostalgia del «buon tempo antico» (l’epoca del Congresso), sensualità e
gioia di vivere, specialmente se firmata da Strauss figlio, il cui segno stilistico è
principalmente il walzer. Delle o. da lui composte si ricordano soprattutto Il pipistrello (1874), considerata un capolavoro assoluto del genere, Lo zingaro barone
(1885) e Sangue viennese (1889). Dopo la prima guerra mondiale, con la fine dell’Impero Asburgico, l’o. viennese trasmigra a Berlino, dove, con Lincke (Frau Luna,
1899), si fonde con le tradizioni musicali della città e acquista carattere autonomo.
Dall’o. francese e viennese derivano anche quella inglese, rappresentata da Sullivan
(H.M.S. Pinafore, 1878; The Mikado, 1885) e da Jones (The Geisha, 1896), e quella
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statunistense. Quest’ultima, dopo le felici prove firmate Herbert, Friml, Romberg,
si distanzia nettamente dalla tradizione ‘classica’ di derivazione europea per approdare, con Gershwin, Rodgers e Porter, al → musical propriamente detto. In Italia l’o., considerata poco seria e di qualità secondaria rispetto all’opera, stenta a
imporsi. E anche quando a impegnarvisi saranno librettisti e musicisti d’indiscusso valore, l’o. italiana si muoverà sempre sulla scia di quella francese e viennese,
senza caratterizzarsi come prodotto nazionale. Gli anni di miglior fortuna dell’o.
italiana vanno dal 1910 al 1930 e i nomi più importanti sono quelli di Costa (Scugnizza, 1922), Ranzato (Il paese dei campanelli, 1923; Luna park, 1924; Cin-CiLà, 1925; I merletti di Burano, 1928), Pietri (Addio giovinezza, 1915; Il signor Ruy
Blas, 1916; L’acqua cheta, 1920; Primarosa, 1926). Nei primi anni Trenta l’interesse per l’o. va esaurendosi; cambiano il costume e gli atteggiamenti delle masse piccolo borghesi, cui essa principalmente è rivolta, mentre avanza la moda della →
rivista e soprattutto del cinema.
Rivista
Genere di spettacolo leggero, a metà fra il teatro musicale e l’ → operetta, nato in
Francia intorno alla fine dell’Ottocento e diffusosi in diversi Paesi nei primi decenni del Novecento. Si compone di una serie di quadri in cui intervengono, al pari del
→ varietà, prosa, musica e danza. A differenza del varietà, però, il susseguirsi di
questi elementi avviene in rassegna (da cui rivista), cioè secondo un filo conduttore, che conferisce così unità allo spettacolo. Altri elementi che caratterizzano il genere e ne giustificano il maggior richiamo rispetto al varietà sono: i temi, generalmente ispirati all’attualità, ai fatti di cronaca, ma presentati in chiave caricaturale e
ironica; il ritmo, rapido e brillante; la sempre maggiore importanza via via assunta
dal balletto e dall’apparato coreografico. La parte musicale della r. è affidata in
genere ad un’orchestra annessa alla compagnia, che esegue perlopiù rielaborazioni
e pots-pourris di canzoni e danze già note. Fin dalle origini, la r. si differenzia in
due filoni: la r. à grand spectacle, caratterizzata da scenografie imponenti, dall’ampiezza del corpo di ballo, dalla partecipazione di grandi vedette e da una forte
componente musicale e coreografica; la petit revue o r. da camera, di dimensioni
ridotte, dove spesso sono soppresse scenografia e coreografia, incentrata su testi
comico-satirici. A Parigi i nomi più famosi che si alternano sui palcoscenici delle
Folies Bergère, del Lido, del Casino, templi della r. oltre che del varietà, sono Maurice
Chevalier, Josephine Baker e Mistinguett. In Italia la r. appare negli ultimi decenni
dell’Ottocento e si forma, a Milano, sul modello francese. Gli autori sono scrittori,
commediografi, poeti e giornalisti. Una delle caratteristiche della prima r. italiana
è la satira politica, che si andrà poi attenuando, negli anni del fascismo, a favore
della pura spettacolarità. Sempre a Milano, su iniziativa dell’attore Carlo Rota, nasce la prima compagnia stabile di r., che trova ospitalità nel vecchio teatro Eden,
già tempio del varietà, rimodernato per l’occasione. Nel Sud Italia, in particolare a
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APPENDICE
Napoli, la r. si afferma legandosi soprattutto agli attori del teatro dialettale, come
Eduardo Scarpetta, e incentrandosi anche qui sulla satira politica. Alla fine degli
anni Venti nascono le prime vere compagnie italiane di r., che continueranno la
loro attività fin dopo la seconda guerra mondiale. La più importante è la Za-Bum,
di Mario Mattioli e Luciano Ramo. Contemporaneamente, però, la r. cambia stile:
compaiono ‘autori di r.’ specializzati, s’introducono elementi propri del → café
chantant, oltre che del varietà e dell’operetta, va perso quel carattere di satira politica e del costume che l’aveva caratterizzata originariamente e si va verso la r. à
grand spectacle, alla francese, con grandi corpi di ballo e ricche scenografie. La r.
degli anni Trenta e Quaranta è, pertanto, sempre segnata dal lusso e dalla fastosità
della messa in scena e, in quanto tale, riservata quasi unicamente alla ricca borghesia, che in quel lusso si riconosce; la r. satirica, osteggiata dal regime fascista, quasi
scompare. Figura emblematica della r. così concepita è la mitica Wanda Osiris,
nome d’arte di Anna Menzio, la diva biondo-platino tutta lustrini e scale infinite da
scendere contornata dai porteurs. Al suo fianco, due importanti personificazioni
dell’umorismo italico: Erminio Macario e Carlo Dapporto. Negli anni della guerra
sui palcoscenici della r. appaiono, insieme a volti già noti, artisti e comici nuovi:
Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Alberto Sordi e poi Renato Rascel, il Quartetto Cetra,
Walter Chiari, Ugo Tognazzi. Gli spettacoli, conformandosi al clima di guerra, puntano su una comicità facile ed evasiva e su un repertorio di canzoni sentimentali.
Ma non tutti i comici si omologano al clima generale; tra questi Rascel, con canzoni
sconclusionate e ironia surreale. Nell’immediato dopoguerra tornano alla ribalta
gli attori e gli autori osteggiati dal regime. Più di tutti si afferma la coppia Totò e
Magnani, prima del definitivo passaggio al cinema. Ricompare anche la satira politica, ma con gli anni Cinquanta è di nuovo la r. ‘à grand spectacle’ a farla da padrona. E sarà proprio questa tendenza a segnarne il declino, per i costi sempre più alti
e la sempre più scarsa qualità dei testi. Al suo posto si afferma la → commedia
musicale, reinventata da Garinei & Giovannini.
Singspiel
Genere teatrale composto di parti cantate e di parti recitate, nato nei primi anni del
Settecento in Germania e di qui diffusosi in Austria. Sulla sua formazione, che risponde all’esigenza del teatro musicale tedesco di affrancarsi dall’opera italiana e
di valorizzare forme legate alla propria tradizione popolare, espressa in particolare
dal lied , influiscono sia la ballad opera inglese (sorta di commedia di argomento
perlopiù satirico-popolaresco, inframmezzata da brani cantati), sia l’opéra comique
francese, sia la zarzuela spagnola. Coltivato nella sua forma primitiva ad Amburgo
da compositori come Kusser, Keiser e Telemann, il s. viene perfezionato nella seconda metà del secolo da Hiller e Haydn, ma tocca le vette massime con Mozart,
Beethoven e Weber. Nel Novecento, alla sua tradizione, si richiamano Bertolt Brecht
e Kurt Weill.
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APPENDICE
Varietà
Forma di spettacolo d’intrattenimento in cui brevi rappresentazioni di genere musicale, comico o drammatico si alternano a numeri di tradizione circense. Si distingue dalla → rivista per l’assenza di un filo conduttore che unisca un numero all’altro. Il v. ha i suoi diretti antecedenti nel → café chantant e nel → musical; ma,
tornando progressivamente indietro nel tempo, un unico filo lega questo genere di
spettacolo ai divertissements in voga in Europa tra Sette e Ottocento, alla tradizione del circo e della Commedia dell’Arte, agli spettacoli popolari fioriti con lo sviluppo delle fiere e alle esibizioni dei giullari medievali. Quale diretto discendente del
café chantant il v. si sviluppa a Parigi negli ultimi decenni dell’Ottocento prima di
diffondersi, dalla Francia, al resto del mondo. Con il sempre maggior successo di
pubblico, infatti, al café chantant si preferiscono locali più vasti, in grado di contenere un uditorio più ampio e dotati di veri e propri palcoscenici. Nascono così a
Parigi, alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento, quelli che saranno i futuri teatri
di varietà, come la Gaité, le Folies Bergère e il Moulin Rouge. A parte la struttura
del locale, il v. si distingue dal café chantant per la sempre minore importanza attribuita alla consumazione rispetto allo spettacolo in sé, per il carattere internazionale delle vedettes, per l’eterogeneità delle attrazioni. Nella versione francese gli
spettacoli del v. comprendono una serie di numeri come introduzione, una parte
centrale dedicata alle grandi vedette sia del canto sia della danza e, infine, un breve
atto unico comico. Altro elemento costante è il presentatore che introduce ciascun
numero. Tra i tanti artisti che si esibiscono sulle scene parigine sullo scorcio dell’Ottocento si ricordano la cantante e diseuse Yvette Guilbert, le danzatrici Bella
Otero, Mata Hari e Paulette Darty, gli chansonnier Botrel, Jean Bastia, Léon Michel.
Tra i numeri di danza si ricorda, al Moulin Rouge, il celeberrimo can-can, immortalato da Toulouse-Lautrec, che diverrà simbolo della Belle Époque. Con l’inizio
del Novecento, mentre il café chantant comincia a perdere importanza, sui palcoscenici del v. parigino approdano anche personaggi internazionali come il trasformista Fregoli o la grande vedette Gaby Deslys, che, nel 1917, importa in Europa una
delle prime ragtime band. Dagli anni Venti ai Quaranta i nomi più famosi, che si
ritrovano anche nella rivista, sono invece quelli di Maurice Chevalier, Josephine
Baker e Mistinguett. In Italia, intanto, teatri di v. e café chantant verranno considerati sinonimi almeno sino alla prima guerra mondiale. Nondimeno il termine v.
subentra gradualmente alla locuzione café chantant quando cominciano a interessarsene le avanguardie artistiche, in particolare il Futurismo. In rotta con il teatro
contemporaneo, considerato ‘passatista’ per la sua propensione allo psicologismo
e al naturalismo, oltre che per la passività cui costringe gli spettatori, il futurista
Filippo Tommaso Marinetti vede nello spettacolo di v. l’unica forma di teatro possibile, per lo stretto rapporto che consente fra pubblico e palcoscenico, ma soprattutto per l’aspetto più grottescamente comico e funambolico di attori come Petrolini
e Viviani. Il rapporto tra v. e Futurismo inizia a Napoli nel 1914 con le domeniche
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APPENDICE
futuriste di Raffaele Viviani e Francesco Cangiullo, organizzate perlopiù in gallerie
d’arte che espongono gli avanguardisti (Boccioni, Soffici, Carrà, Balla e altri). Musica — che i compositori tradizionali definiscono ‘rumore’ —, recitazione di versi
liberi e poemi ‘paroliberi’, azioni polemiche, esibizioni di cantanti, attori comici e
macchiettisti ne sono gli ingredienti. Raffaele Viviani, Ettore Petrolini e Rodolfo
De Angelis sono gli artisti del v. che, per scelta o affinità, più si avvicinano alle
istanze futuriste. Il café chantant o v. raggiunge l’apice del successo contemporaneamente agli esperimenti futuristi e allo scoppio della guerra, con le compagnie di
Angelo Musco, Antonio Gandusio e dello stesso Petrolini che fanno il tutto esaurito
ogni sera. Ma dal primo dopoguerra la situazione cambia: la recessione economica,
l’occupazione delle fabbriche e gli scioperi, il fascismo in ascesa sono la cornice
entro cui si determina la crisi del genere. L’‘epoca bella’ è tramontata, trascinando
con sé la sua luccicante incarnazione, il v. appunto. Molti attori, come Petrolini e
Viviani, si rivolgono alla prosa; altri all’ → operetta. Anche il gusto musicale si trasforma: in Italia come nel resto d’Europa s’impone, infatti, il → jazz e per il v., persi
i valori musicali che ne hanno costituito la premessa, invecchiato nelle sue formule, è un ulteriore motivo di decadenza. Negli anni del fascismo la sua eredità sarà
raccolta dalla → rivista.
Vaudeville
L’etimologia del termine è incerta; alcuni lo fanno derivare da Vau-de-Vire, ‘Valle
di Vire’: località normanna che avrebbe dato il nome ad un tipo di canzone, di contenuto ora satirico e licenzioso, ora encomiastico, là diffusa nel XV secolo.
Gradatamente il termine passa a indicare un genere di spettacolo teatrale misto,
composto cioè di parti cantate e recitate, caratterizzato da una comicità ricca di
equivoci e di scambi di battute salaci e allusive. Nella seconda metà dell’Ottocento,
benché quasi scomparso l’inserimento di canzoni, il termine sopravvive a indicare
un genere di spettacolo comico, che prospera a Parigi e, assumendo varie sfumature, si diffonde in tutto il mondo. Nel Novecento il v. finisce per identificarsi con
varie forme di spettacolo leggero, musicale e cinematografico. Negli Stati Uniti il
termine v. indica lo spettacolo di → varietà tout court. Nasce nel periodo della guerra
civile, come momento di fusione tra la tradizione inglese del → music hall e la tradizione locale dei saloons, legati alla prostituzione, dove si rappresentano spettacoli triviali detti honky-tonks. Anello di passaggio tra questi ultimi e il v. è il cosiddetto burlesque, spettacolo costruito sull’alternarsi di numeri di girls (licenziosi),
di comedians e di acrobati. Di questo il v. mantiene la struttura a numeri, mentre si
libera del carattere più osés, aprendo di conseguenza al pubblico borghese. Data di
nascita il 1881, quando Tony Pastor inaugura il primo locale con tali caratteristiche. Nel giro di pochi anni il v. s’impone al grande pubblico, si formano le prime
compagnie e a New York apre il New York Palace, che diventa il tempio degli spettacoli di varietà, subito imitato dalle principali città degli Stati Uniti, dove vengono
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costruiti appositamente sontuosi teatri. Il tramonto del v. è legato al sempre maggior successo del cinema e allo scadere dell’interesse per il teatro in genere. All’inizio degli anni Cinquanta si può dire definitivamente conclusa la sua parabola.
Zarzuela
Composizione drammatica, in parte cantata. Secondo alcuni prende il nome da un
padiglione immerso nel verde (in spagnolo zarza significa ‘cespuglio’) del parco
reale di El Pardo, nei pressi di Madrid, dove i sovrani di Spagna solevano pernottare durante le partite di caccia: annesso vi era un teatro, in cui, nel Seicento, si rappresentava questo genere di spettacolo. Durante tutto il XVII secolo e i primi decenni del XVIII la z. rimane legata esclusivamente all’ambiente di corte, se non
addirittura al luogo di nascita. A metà del Settecento il poeta don Ramon de La
Cruz le infonde nuova vitalità volgendosi ai temi popolari, anziché mitologici e storici come usava. La prima delle z. a sfondo popolare è Las segadoras de Vallecas,
seguita da Las labradoras de Murcia, con musiche di Rodriguez de Hita. In epoca
romantica la z. riceve nuovo impulso ad opera del compositore Rafael Hernando,
che, insieme a Joaquìn Gaztambide e Asenjo Barbieri, dà vita ad una società artistica avente come scopo la promozione di una musica autenticamente spagnola. Ne
fanno parte anche il tenore Antonio Salas, il poeta Luis Olona, i compositori Oudrid
e Inzenga. La società così costituita prende in affitto il Teatro del Circo e apre il
ciclo delle rappresentazioni. Il 6 ottobre 1851 viene rappresentata la z. Jugar con
fuego, di Barbieri, considerata una delle più belle di tutti i tempi. La produzione di
z. si fa molto consistente e il successo presso il pubblico è in continuo aumento.
Piace soprattutto la semplicità delle composizioni, in parte cantate e in parte recitate, dotate di musiche orecchiabili e melodiose, costruite su argomenti che riflettono scene di vita quotidiana osservate in chiave comica o ironica. Ormai il genere
è creato e la sua sopravvivenza assicurata. Si decide pertanto di costruire un teatro
apposito, il Teatro de la Zarzuela, inaugurato nel 1856. Tra l’ultimo ventennio dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento il genere viene distinto in z. grande
e z. chica: la prima in due atti (eccezionalmente tre), la seconda in un atto solo; ed
è quest’ultima a imporsi soppiantando la z. classica. Tre sono le personalità eminenti nel campo della z. chica: Federico Chueca, Tomàs Bretòn e Ruperto Chapì.
Temi prediletti: la vita dei quartieri popolari di Madrid e la satira nei confronti di
persone, cose, costumi del tempo. Il repertorio di z. giunto fino a noi è costituito
proprio dai lavori di género chico di questa generazione di autori. Di Chueca sono
famose La gran via (1886) e Agua, azucarillos y aguardiente (1897), di Bréton La
verbena de la paloma (1897), di Chapì La revoltosa (1897) e El punao de rosas
(1902). Contemporaneo ai tre è Jerònimo Jiménez — cui si deve una delle z. più
popolari, La boda de Luis Alonso (1897) —, il quale segna il punto di transizione
verso le ultime generazioni di musicisti che coltivano la z.: Amadeo Vives, José
Serrano, Pablo Luna, Jesùs Guridi, Jacinto Guerrero. La rinascita del genere, nel
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secondo dopoguerra, è legata ai nomi dei compositori Federico Moreno Torroba e
Pablo Sorozabal. Data decisiva il 1956, anno in cui, con la rappresentazione di Doña
Francisquita di Vives, viene riaperto il Teatro de la Zarzuela. Da allora le stagioni
teatrali di z. si susseguono senza interruzione in Spagna, soprattutto a Madrid, segno del grande interesse che il pubblico continua a mostrare verso questo genere di
spettacolo.
Generi musicali
Acid rock
Particolare stile del → rock affermatosi in California intorno alla seconda metà
degli anni Sessanta del Novecento. L’espressione a.r., che allude all’uso e al culto
delle droghe allucinogene, viene coniata in analogia con gli acid test, rituali di
iniziazione all’Lsd (acido lisergico). In questi anni, infatti, alcuni scienziati americani come Ken Kesey, l’inventore dell’‘acido’, e Timothy Leary, dell’Università di
Harvard, sperimentano su se stessi e sui loro adepti gli effetti di questa sostanza,
ritenendola capace di stimolare le attività creative e di «espandere la coscienza»,
ovvero liberare la mente da tutto ciò che la reprime. L’avventura lisergica di Kesey
e Leary va inquadrata nel movimento hippy californiano, debitore, a sua volta, a
livello ideologico, della beat generation newyorchese. Anticonformismo, libertà
sessuale, uso di sostanze stupefacenti, misticismo di stampo orientale, pacifismo,
comunitarismo autarchico sono alcuni dei suoi caratteri salienti. In un primo tempo vi aderiscono soprattutto intellettuali che rifiutano l’American way of life, col
suo mito del successo e del denaro, protagonisti della grande stagione delle marce
di protesta, come quella di Berkeley (1963). Ma in breve il movimento si allarga e
verso San Francisco convergono giovani da tutti gli States, attratti dal miraggio di
una vita diversa, straordinaria. Durante la Love Summer del 1967 si contano oltre
500.000 runaways (giramondo) venuti a chiedere accoglienza presso le comunità
hippy locali. Tra le tante esperienze che li attendono, l’Lsd ed un rock speciale. Il
mondo musicale più vicino alla cultura hippy, infatti, ha dato il via ai primi esperimenti di rock psichedelico, che celebra le lodi del trip, il ‘viaggio con l’acido’. L’effetto è raggiunto essenzialmente con l’impiego di sintetizzatori e amplificatori potentissimi, che creano distorsioni e altri effetti speciali, e con strumenti orientali.
L’accento viene posto soprattutto sulle note lente e scivolose, sui suoni modali, con
assenza quasi totale di cambiamenti di accordo. Tra i gruppi che praticano questo
tipo di musica spiccano Grateful Dead e Jefferson Airplane. Entrambi esordiscono
nel 1966. I primi hanno un leader indiscusso in Jerry Garcia, soprannominato
Captain Trips: ha sviluppato uno stile chitarristico rapido e incisivo, dovuto al suo
passato di suonatore di banjo in una jug band (formazione di folk acustico che usa
strumenti di fortuna). I secondi, nati come formazione → folk-rock, sono animati
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in particolare dalle personalità di Paul Kantner (chitarra acustica) e Grace Slick
(voce). Fin dal secondo album, Surrealistic Pillow, gli Airplane si affermano come
i paladini del movimento hippy, con testi poetici che celebrano gli allucinogeni, il
libero amore ed un certo impegno sociale. Teatro delle loro gesta, ma anche delle
formazioni che sulla loro scia vengono lanciate (i Quicksilver, i Mad River, gli One,
gli It’s A Beautiful Day), alcuni locali underground di San Francisco come l’Avalon
Ballroom, il Matrix, il Carousel, ma anche i festival rock e i primi grandi raduni,
come gli Human Be-In di Golden Gate Park.
Barrelhouse
Forma ballabile di blues rurale (→ blues), eseguita al pianoforte e caratterizzata
dall’uso percussivo, quasi da tamburo, dei tasti. Nato in Louisiana, deve il nome ai
locali in cui viene suonato originariamente: baracconi annessi ai cantieri ferroviari
in cui i lavoratori, neri perlopiù, trascorrono le ore di svago bevendo birra e ballando. Successivamente il b. si diffonde negli altri Stati del Sud e poi del Nord degli
Stati Uniti, seguendo i movimenti migratori dei neri. Il distacco dal blues rurale
avviene a Kansas City, dove si forma uno stile rozzo, ritmico e percussivo; e a Chicago,
dove nel 1938 esplode la moda del → boogie-woogie, versione per bianchi del b.
Beat
La carica originaria di novità e anticonformismo del → rock and roll, che negli Stati
Uniti viene presto riassorbita dall’industria dello spettacolo, trova terreno fertile in
Inghilterra: per la lingua comune; per la minore invadenza dei tabù morali, politici
e razziali; per la presenza di un proletariato giovanile, sensibile ai segnali di ribellione. Qui, come nel resto d’Europa, il rock and roll è arrivato attraverso i juke-box,
i film, le basi della Nato, come pure le tournée di Fats Domino, Little Richard, Eddi
Cochran, Gene Vincent, che suscitano entusiasmo e desiderio di emulazione. Ma
ancora prima del rock and roll, sono il → blues e il → rhythm and blues a trovare
nelle grandi città inglesi — in particolare Londra, Liverpool e Manchester — un
discreto seguito di appassionati e già nella seconda metà degli anni Cinquanta si
moltiplicano i gruppi di dilettanti formati da giovani che si rifanno esplicitamente
alla musica nero-americana. In scantinati e piccoli locali questi gruppi si dedicano
alla rilettura e alla riproposizione dei classici del blues urbano di Elmore James,
Muddy Waters, B.B. King, Howlin’ Wolf… A Londra si afferma il trad (che sta per
‘traditional jazz’), a Liverpool lo skiffle, stile nato nell’America della Grande Depressione e in Inghilterra assimilato al jazz → Dixieland. Quando i gruppi musicali
di Liverpool sostituiscono agli strumenti — ‘poveri’, come washboard e kazoo —
dello skiffle la batteria, il basso e la chitarra elettrica, si può dire nasca il b. Svariati
sono, quindi, i punti di contatto del b. con l’esperienza d’oltreoceano; lo stesso termine b. rimanda sia al jazz, nel cui ambito sta a significare la ‘pulsazione’ ritmica;
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sia, a livello ideologico, al movimento letterario della ‘beat generation’, che pure
aveva nel jazz la sua musica di elezione. Sono da rimarcare, tuttavia, alcune sostanziali differenze, che porteranno, nel corso degli anni Sessanta, ad una divaricazione
piuttosto netta tra la natura del movimento rock inglese e americano. Negli Stati
Uniti la nascita del rock and roll, fatti salvi i presupposti sociali e culturali, è un
fatto principalmente discografico: i suoi interpreti più rappresentativi acquistano
un seguito solo grazie a indovinate incisioni, diffuse poi da radio e televisione. In
Gran Bretagna, invece, il rock, o b., si configura da subito come un movimento dal
basso: il disco e la prospettiva professionistica si pongono come traguardo dell’attività dilettantesca svolta, in precedenza, dai musicisti; questi muovono i primi passi
a stretto contatto con un pubblico di appassionati che gli è perfettamente omologo,
dal quale non si differenziano né negli atteggiamenti né nello stile di vita. Nei club
di Londra non esiste una separazione netta tra chi agisce sul palcoscenico e chi
siede in platea: gli uni e gli altri fanno parte di un unico universo giovanile, con i
medesimi bisogni e inclinazioni. Se negli Stati Uniti i protagonisti del rock and roll
vengono proposti subito come stars , quindi come modelli d’identificazione distanti e praticamente irraggiungibili dai teenager, in Gran Bretagna, almeno inizialmente, il musicista proviene dal gruppo dei coetanei e con esso si confonde. La
propensione ad un minor individualismo è provata, d’altronde, anche dal modesto
rilievo che nel b. assume la figura del cantante, protagonista assoluto invece nel
rock and roll americano. Mentre in quest’ultimo il gruppo musicale ha quasi esclusivamente una funzione di sostegno e accompagnamento dell’esibizione del vocalist,
sulla scena inglese è l’intero complesso a essere protagonista. Prova ne sia la scelta
della denominazione del gruppo, non più incentrata sul nome del leader. Ma il b. si
va differenziando dal rock and roll anche musicalmente. Oltre che una maggiore
cura dei contenuti dei testi, spesso incentrati su episodi della vita di tutti i giorni, il
rock inglese manifesta una crescente attenzione per il sound: ciascun gruppo ricerca una cifra timbrica specifica, in grado di caratterizzarne la produzione e distinguerla dagli altri. L’organico standard è basato su una chitarra elettrica solista ed
una con funzione ritmico-armonica, su una chitarra basso e sulla batteria, cui si
affianca talvolta una tastiera. Successivamente — sull’esempio di gruppi trainanti
come Beatles e Rolling Stones — si afferma anche l’impiego di altri strumenti, mutuati da contesti culturali o geografici diversi. Ecco allora il sound di questo o quel
complesso arricchirsi della sonorità di un violino o di un violoncello, di particolari
percussioni o strumenti esotici. L’aspetto elettronico, inoltre, diventa sempre più
importante; non solo in sala d’incisione, ma anche dal vivo. Da molti commentatori si suole individuare due anime sostanzialmente diverse nel fenomeno b.: una
avrebbe i suoi capiscuola nei Beatles, l’altra nei Rolling Stones. I Beatles, di Liverpool,
si presentano come bravi ragazzi della media borghesia, alfieri di una musica intrisa di allegria e spensieratezza, che trae ispirazione dal rock and roll, ma anche dal
gospel, dal vaudeville, dalla musica bandistica e dalla canzone sentimentale; musica che si affida principalmente al disco, che ora è inteso come concept album. I
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Rolling Stones, di Londra, si affermano come antagonisti dei primi, portavoce rabbiosi dell’emarginazione metropolitana, coinvolti in prima persona in scandali, arresti, con un idioma musicale fedele al rhythm and blues di matrice afroamericana
(il nome stesso del gruppo deriva dal titolo di un celebre brano di Muddy Waters),
di cui ricalcano, reinterpretandola, anche la diretta fisicità, espressa massimamente nelle esibizioni dal vivo. I Beatles possono essere letti, pertanto, come un prodotto innocuo del sistema politico-sociale dominante; i Rolling Stones come i veri ribelli, gli antagonisti del sistema. Ma, in realtà, si tratta di uno schematismo che
poco spiega la reale complessità del fenomeno. Le due band rappresentano le facce
della medesima medaglia: un mondo musicale intimamente connesso alla produzione industriale, tanto da finire per identificarsi col disco. La macroscopica — e
affascinante — contraddizione di tutto il rock sta proprio nell’essere, da un lato,
espressione autentica di una cultura giovanile per molti versi antitetica a quella
della società capitalistica e, dall’altro, perfettamente funzionale e integrata nei suoi
modi di organizzazione.
Be-bop
Nel 1944, ad Harlem, un gruppetto di giovani musicisti neri, quasi tutti immigrati
di recente dal Sud o dal Sud-Ovest degli Stati Uniti, capitanati dall’altosassofonista
Charlie Parker e dal trombettista John ‘Dizzy’ Gillespie, danno vita ad un nuovo
modo di suonare il → jazz, basato sulla totale improvvisazione solistica e sulla varietà ritmica, emozionalmente più vicino allo spirito del → blues. Fraseggio nervoso e dinamico, discontinuità melodica e ritmica, predilezione per i tempi velocissimi ne sono le caratteristiche salienti. A queste modalità allude il termine stesso con
cui si designa la nuova avanguardia del jazz, l’onomatopeico be-bop (o re-bop, o
bop). Anche il ruolo dei singoli strumenti della sezione ritmica è sottoposto a revisione: il contrabbasso e la batteria diventano molto più importanti, mentre la mano
sinistra del pianista limita all’estremo i suoi compiti. Storicamente, il passaggio dal
jazz piacevole e orecchiabile dell’«era dello swing» a questa musica per iniziati,
difficile e ostica, si spiega con i rivolgimenti provocati nella condizione dei neri. La
guerra, infatti, li pone a stretto contatto con i bianchi, dando l’illusione che il ‘mondo migliore’ tanto propagandato avrebbe riguardato entrambi. Tornata la pace, però,
le minoranze di colore tornano a essere discriminate nelle scuole e nei luoghi pubblici, quando non addirittura perseguitate. Tutto ciò determina un profondo risentimento nei neri, manifestato pure musicalmente. Si spiega così anche il comportamento dei protagonisti del b.-b., che rasenta quello dei membri di una setta: usano
un gergo incomprensibile ai più, portano baschi e occhialoni neri tartarugati e —
per sottolineare il distacco dalla società americana — praticano la religione musulmana. Oltre ai due capiscuola sopra citati, fanno parte della consorteria del b.-b.
il compositore Thelonius Monk, che però è figura isolata nel panorama jazz, nonché altri grandi che contribuiscono a riformare il linguaggio solistico dei singoli
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strumenti (i batteristi Kenny Clarke e Max Roach, il trombettista Miles Davis, il
pianista Bud Powell, il trombonista Jay Jay Johnson). Ciascuno è di fatto un
caposcuola, con un numero infinito di discepoli e imitatori negli Stati Uniti come in
Europa. Al grosso pubblico questo nuovo modo di suonare il jazz non piace affatto:
troppo veloce, poco orecchiabile, ritmicamente sconcertante per il profano, inadatto al ballo. Disturba, inoltre, l’atteggiamento ostentatamente scontroso dei musicisti. Ne deriva l’ostruzionismo concorde della stampa, delle radio, dei gestori delle
sale da ballo e dei locali notturni; ma soprattutto delle case discografiche, che vedono compromessi i loro lauti guadagni. Già sul finire degli anni Quaranta, i boppers
si vedono perciò costretti a modificare, rendendola più accettabile, la loro musica.
Gli artisti più impegnati, tuttavia, non disarmano; qualcuno, anzi, persiste e inventa il → cool jazz.
Blues
Genere vocale e strumentale nero-americano, si forma a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento. Se la sua terra di origine sono gli Stati dell’Unione lungo il delta del
Mississippi, in particolare la Louisiana, da cui poi si diffonde nel resto del Sud, la
sua principale ascendenza sono gli hollers e le work songs, rispettivamente le grida
di richiamo e i canti di lavoro intonati dagli schiavi nelle piantagioni; canti che
spesso assumono forma responsoriale (call and response), in cui, cioè, a frasi
solistiche si alternano risposte corali. Questi elementi si sarebbero fusi con altri
tratti dalle musiche importate negli Stati Uniti dagli immigrati europei; in particolare, avrebbero influito sul b. delle origini le ballads di derivazione anglosassone.
Agli inizi il b. è un’espressione prevalentemente vocale, di carattere profano — distinguendosi, in questo, dallo → spiritual — e improvvisatorio. Più tardi comincia a
essere accompagnato da strumenti a corda (soprattutto chitarra), dall’armonica a
bocca, dal pianoforte, dal clarino e dal sassofono. Nella sua forma più tipica il tema
del b. è costituito da un ritornello di dodici battute basate armonicamente su accordi di tonica, dominante e sottodominante, e da uno schema strofico strutturato in
tre versi musicalmente distribuiti in quattro battute ciascuno. Altra caratteristica
del b. è l’‘incertezza modale’, che si rivela soprattutto nell’uso frequentissimo della
blue note. La trasposizione dell’intonazione propria del b. vocale su questi strumenti avviene tramite particolari accorgimenti, come l’impiego di glissandi e vibrati sulla chitarra, di cluster pianistici (blue note clusters), dell’armonica a bocca
in funzione antifonica, o con effetti di parlato ottenuti con l’apertura e la chiusura
delle mani attorno al corpo dell’armonica stessa. Artefici della fusione dello holler
e delle ballads, e quindi della creazione del b., sono i songsters, cantautori e strumentisti itineranti della regione del Delta. Il più importante è Charley Patton, considerato il capostipite del country blues (b. rurale). In seguito il b. si diffonde
nel Texas e nella Georgia, coltivato da b. singer spesso non vedenti (perciò inadatti
a svolgere altri lavori), che l’inseriscono nel repertorio con cui intrattengono, nelle
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APPENDICE
ore libere, i lavoratori di quelle regioni: Lemon Jefferson ‘Blind’, Huddie Ledbetter
‘Leadbelly’, i fratelli Charlie e Robert Hicks (‘Laughing Charlie’ e ‘Barbecue Bob’).
Oltre che dalla chitarra, il b. inizia a essere accompagnato in questa fase da string
bands formate da violino, chitarra o banjo e contrabbasso. A partire dai primi anni
Venti, in seguito ai movimenti migratori dei neri verso le grandi città industriali
(Atlanta, Memphis, Saint Louis, Chicago, Detroit), si va affermando anche un city
blues (b. urbano), più soggetto a contaminazioni del country b. Da espressione soggettiva, il b. diventa spettacolo, in particolare nell’ambito del → varietà. E il ritmo
si fa più veloce, con il pianoforte al posto della chitarra. Variante veloce del b. è il →
boogie-woogie, suonato da pianisti come Clarence ‘Pine Top’ Smith, Jimmy Yancey,
Clarence Lofton. Ma sono soprattutto le cantanti a caratterizzare questo periodo,
poi definito del blues classico: Ida Cox, ‘Ma’ Rainey, ‘Chippie’ Hill, Clara Smith,
Sara Martin, Bessie Smith, ‘Mamie’ Smith. Ad accompagnarle, nelle esibizioni come
nell’incisione dei primi dischi, le jazz bands; un contatto, questo del b. con il →
jazz, che avrà conseguenze rilevanti per entrambi. Negli anni Trenta il boogie-woogie
trova una sua forma orchestrale a Kansas City, dove, a opera di Jimmy Rushing, si
afferma anche un genere di shounting blues (b. urlante), preludio del → rhythm
and blues; e mentre le grandi vedette classiche cedono il passo a cantanti giovani
(Amos Easton ‘Bumble Bee Slim’, James Arnold ‘Kokomo’, Joe McCoy, Memphis
Minnie e Georgia White), si sperimentano nuove combinazioni strumentali, come
la coppia pianoforte-chitarra Leroy Carr e Hillman Blackwell ‘Scrapper’. Con John
Lee ‘Sonny Boy’ Willliamson l’armonica a bocca raggiunge in questo periodo il più
alto livello tecnico ed espressivo, anche se comincia a essere sostituita da clarino e
sassofono contralto o tenore, dal sound più aggressivo. Altro bluesmen influente
tra gli anni Trenta e Quaranta è il chitarrista e cantante Big Bill Broonzy, faro del
bluebird beat di Chicago. Negli Stati del Sud, frattanto, continua la tradizione del
b. rurale, rappresentato da singers come Robert Johnson, Eddie ‘Son’ House, Willie
Wilson, Booker Washington White, Tommy Johnson, Johnny Temple, Little
Brother, Bo Carter. Nel secondo dopoguerra si impongono due correnti principali
del b.: il down home blues e il rhythm and blues. Il primo, radicato nella tradizione
del b. rurale, ha il suo massimo rappresentante nel prolifico e creativo Lightnin’
Hopkins, che lo innerva di sonorità moderne anche per l’impiego della chitarra
elettrica. Ma è soprattutto il secondo a conquistare il pubblico giovanile. Artefici
del passaggio dal b. al rhythm and b. sono Pete Johnson e Joe Turner, i chitarristi
Aaron ‘T-Bone’ Walker, Eddie Durham, Charlie Christian, che iniziano un nuovo
genere di accompagnamento per la chitarra elettrica, oltre a una schiera di b. singers
di Kansas City come Sonny Parker, Benjamin Clarence (Bull Moose) Jackson,
Clarence ‘Gatemouth’ Brown e altri. Negli anni Cinquanta si affermano pianisti
come Ray Charles e Antoine ‘Fats’ Domino, mentre continua l’ascesa di John Lee
Hooker, tra i musicisti b. più famosi e imitati. La sua voce scura e aspra accompagnata dalle note sguaiate della chitarra — che poi si fa elettrica — riveste di nuovi
significati il b. delle origini e della tradizione, ponendosi come anello di congiun-
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APPENDICE
zione col nascente → rock and roll. Notevole influenza sul → beat e sul rock ha
Howlin’ Wolf (Lupo Ululante, alias Chester Burnett), cantante, armonicista, chitarrista attivo a Chicago, con cui suonano anche i Rolling Stones. Altri cantantistrumentisti che, pur seguendo in parte le nuove tendenze, mantengono caratteri
autentici del b. sono Jimmy Reed e B.B. King, cantante e chitarrista, caposcuola di
una nuova generazione, quella di Otis Rush, Albert King, Freddie King, Magic Sam
Maghett e Buddy Guy, le cui caratteristiche comuni sono arpeggi fluenti, improvvise esplosioni sonore, impiego di riffs, del vibrato e simili. Un altro filone che assume caratteristiche proprie del rhythm and b. ma è ancor più contaminato dal pop,
è il → soul.
Boogie-woogie
Genere di → blues pianistico dall’andamento molto veloce, costruito su un ritmo di
8/8, nasce nel Middle West e si afferma a Chicago negli anni Venti e a New York
negli anni Trenta del Novecento. Sua componente fondamentale è l’accompagnamento insistente del basso, ottenuto con accordi ascendenti e discendenti all’ottava (eight-to-the-bass), spesso in controtempo con gli interventi ritmico-melodici
della mano destra (accordi spezzati, trilli, brevi formule melodiche). Il termine b.w. appartiene allo slang e starebbe a significare ‘danza sconveniente’. In concomitanza con la forma pianistica, infatti, nasce una danza, a coppia, impostata sul medesimo schema ritmico. La prima incisione discografica in cui il termine compare è
Pine Top’s boogie-woogie, di Clarence ‘Pine Top’ Smith (1928). I più importanti
pianisti del genere sono Meade Lux Lewis, Jimmy Vancey, Clarence Lofton, Albert
Ammons, Speckled Red, Pete Johnson. Le fortune del b.-w. proseguono durante
l’«era dello swing», sul finire degli anni Trenta, quando se ne vuole dare anche una
versione orchestrale. Ed è proprio perché accolto ed eseguito dalle grandi orchestre (come quella di Count Basie, a Kansas City) che il b.-w. s’impone all’attenzione
del pubblico, statunitense prima e poi europeo.
Bop
→ Be-bop.
Bossa nova
Forma musicale brasiliana derivata dal ritmo della → samba e dall’abile miscela
con elementi armonici del → jazz. Nata sul finire degli anni Cinquanta, ha nei compositori Antonio Carlos Jobim e Luiz Bonfà — autore delle musiche del film Orfeo
negro (Orfeu negro, di Marcel Camus, 1959) — gli interpreti più prestigiosi, mentre
è grazie all’opera di divulgazione di João Gilberto e della moglie Astrud se riesce a
varcare i confini brasiliani e affermarsi a livello internazionale. Considerata erro-
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APPENDICE
neamente dai più una semplice musica da sottofondo, adatta a creare atmosfere
soffuse, a causa della delicatezza delle melodie, la b.n. in realtà si presta a interessanti interpretazioni in chiave jazzistica, in particolare da parte di esponenti del →
cool jazz provenienti dall’esperienza della West Coast, come il tenorsassofonista
Stan Getz, o del → be-bop, come il pianista Johnny Alf.
Calypso
Canto popolare dell’America centrale e delle Antille (Giamaica, Barbados, Trinidad),
affine alla → rumba. Diffuso tra gli schiavi delle piantagioni, in origine improvvisato nella melodia e nelle parole.
Cool jazz
In inglese cool significa ‘fresco’, ‘rinfrescante’, ma anche ‘calmo’. Con questa parola, in chiara contrapposizione al → jazz hot, cioè ‘caldo’, si designa il modo in cui i
jazzmen bianchi interpretano il → be-bop, stile affermatosi a partire dalla seconda
metà degli anni Quaranta del Novecento, che ha i massimi esponenti in Charlie
Parker, Dizzy Gillespie e altri innovatori. Di questo il c.j. può dunque ritenersi la
variante bianca, caratterizzandosi per la ricerca di sonorità più pure e rarefatte,
sommesse, ricercate e preziose, talora estetizzanti. Punto di riferimento musicale,
la musica colta europea, barocca, ma soprattutto atonale. Paradossalmente, tuttavia, la nascita del c.j. viene attribuita al più altero dei musicisti neri: Miles Davis. Le
sue registrazioni per la Capitol del 1949, infatti, sono talmente significative per la
nascita del c.j. che nelle successive edizioni verranno raggruppate col titolo Birth of
the cool. Oltre a Davis, che si avvale dell’arrangiamento di Gil Evans, vi figurano i
sassofonisti Stan Getz, Gerry Mulligan, Lee Konitz, tutti esponenti del c.j. e dotati
di sonorità vellutate, quasi prive di vibrato, ereditate da Lester Young. Poco dopo
Davis si sposta verso altre forme, che daranno poi origine all’ → hard bop, affidando il nuovo genere a musicisti prevalentemente bianchi. Figura di spicco nel panorama newyorchese è quella del pianista Lenny Tristano; la sua musica, soggetta a
chiare influenze classiche, dalle atmosfere limpide e assorte, influenza molti giovani jazzisti cool, in particolare Lee Konitz e Warne Marsh. Con Stan Kenton e Woody
Herman il c. si radica sulla costa occidentale degli Stati Uniti, in California, stemperandosi nel ‘West Coast jazz’. Rispetto al be-bop e al cool newyorchesi, infatti, il
jazz della West Coast, pure nella diversità di apporti e nella molteplicità di correnti,
sembra caratterizzarsi per un minore radicalismo e, d’altro canto, per un certo
lirismo e intimismo. Negli stessi anni approdano in California gli scrittori della
beat generation. La musica cui fanno riferimento è il jazz e spesso partecipano con
i jazzmen californiani a esperimenti che associano musica e letteratura. Lungi dall’essere spensierato e intimista, il jazz della West Coast diventa il linguaggio della
gioventù in rivolta contro la borghesia da cui proviene, ne interpreta il male di
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APPENDICE
vivere rivelandosi, al contempo, innovativo, sia per le contaminazioni che instaura
con la musica classica, sia perché anticipa quelle ‘libertà’ che il → free jazz introdurrà negli anni Sessanta. Tra i suoi interpreti — tutti bianchi, attratti da Charlie
Parker e Lester Young — figurano Art Pepper, Gerry Mulligan, Zoot Sims, Shorty
Rogers, Shelly Manne, Frank Rosolino, Stan Getz, Dave Brubeck, Jimmy Giuffre,
Paul Desmond, Chet Baker.
Country and western
→ Country music.
Country music
L’espressione si riferisce alla musica popolare dei gruppi etnici bianchi di lingua
inglese degli Stati Uniti. La c.m. comprende tanto un repertorio tradizionale, la ‘old
time music’, formatosi nel corso di diversi secoli e tramandatosi per via orale di
generazione in generazione fino all’avvento della radio e della registrazione su disco; quanto una produzione relativamente recente, nata per imitazione e volgarizzazione del repertorio originale, meglio nota come country and western. Quest’ultima espressione, coniata dall’industria discografica, ha finito per comprendere anche il repertorio autentico, venendosi così a confondere l’integrità dell’originale e la
distorsione della copia, le esigenze culturali popolari e quelle commerciali. Comunque sia, il c. affonda le radici nel complesso di tradizioni musicali che i coloni britannici importano nel Nuovo Mondo a partire dal XVII secolo: ballate e canzoni (la
ballata è una canzone narrativa nata in Europa in epoca feudale e legata alla danza,
da cui il nome), melodie popolari per fiddle (un antenato del violino, utilizzato per
accompagnare anche balli e danze rurali), canti sacri. Questo materiale subisce profonde modificazioni, sia perché ‘rifunzionalizzato’ alle diverse condizioni di vita dei
coloni rispetto alla madrepatria; sia per l’incontro con altre culture, in particolare
quella degli schiavi neri. Da questi ultimi i bianchi assimilano nuove tecniche vocali, la tendenza ad una maggiore libertà improvvisativa, una più decisa caratterizzazione ritmica. Altre influenze derivano dalle polke centroeuropee, dagli jodel svizzeri, dalle melodie hawaiane, dal mariachi messicano, dal cajun franco-canadese.
La natura composita del c. è riscontrabile, del resto, nella varietà degli strumenti
impiegati: dal violino al dulcimer, dalla chitarra al banjo (derivato dal bahnjour
dell’Africa occidentale, introdotto dagli schiavi e reso popolare dai → minstrel show),
dal mandolino alla fisarmonica. Legata ad un mondo prevalentemente rurale, la
‘old time music’, nelle sue diverse forme (ballate sentimentali e religiose, folklore
da cowboy, canzoni di lavoro, ballate cronachistiche di vita americana) sopravvive
più a lungo nelle regioni che mantengono questo carattere, cioè negli Stati del Sud e
in particolare nella regione montagnosa degli Appalachi (Virginia), tra le più povere e isolate. Perciò, quando, nei primi anni del Novecento, l’interesse degli
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etnomusicologi viene attratto dalla tradizione folklorica, è qui che viene rinvenuta
la produzione più antica e genuina del c., da cui la falsa credenza che essa sia la culla
del genere nel suo complesso. Gli anni Venti segnano importanti novità per la musica c., perché, grazie alle prime incisioni su disco, ma soprattutto alla radio, incomincia a essere conosciuta anche fuori dalle aree rurali del Sud. E giacché i primi a
entrare in una sala di registrazione sono esecutori provenienti dalla Virginia, il filone musicale che da loro prende avvio viene chiamato hillbilly (da ‘hill’, collina; e
‘billy-goat’, specie di capra diffusa in zona), termine vagamente spregiativo con cui
venivano appellate quelle genti di montagna. In un primo tempo l’accompagnamento è sostenuto soltanto dalla chitarra; ma ben presto si aggiungono altri strumenti e si formano le prime string bands, dette così perché utilizzano prevalentemente strumenti a corda (chitarra, banjo, mandolino). Celeberrima quella della
Carter Family (Alvin, Sara, Maybelle Carter), che, in quattordici anni (da ’27 al ’41)
di registrazioni e concerti dal vivo, recuperando molti brani tradizionali tramandati
oralmente e componendone altri diventati a loro volta dei classici, incide quasi trecento canzoni, tra le più importanti testimonianze della musica tradizionale
nordamericana. Altra figura molto nota dell’hillbilly rurale, con oltre cento canzoni
all’attivo, è quella di Jimmie Rogers. Con lui si afferma quello stile blue yodel che
caratterizzerà una seconda fase, più evoluta ed elaborata, del genere. Né vanno trascurate le influenze, specie nella Louisiana, del linguaggio del → jazz, in particolare
del nascente → Dixieland. Negli anni Trenta, durante la Depressione, il c. subisce
ulteriori trasformazioni. Intanto, poiché le antiche ballate tendono a scomparire e
c’è il rischio di perdere il repertorio musicale tradizionale, la Library of Congress
inizia, nel 1933, una capillare raccolta di tutte le registrazioni di musica popolare. In
secondo luogo, mentre l’industria discografica subisce gli effetti della crisi economica, l’industria radiofonica conosce una forte crescita. Nelle radio, soprattutto quelle
‘pirata’, la musica hillbilly trova un potente canale di diffusione. E se per i musicisti
ciò si traduce in un aumento delle possibilità di lavoro, per il genere significa affrancarsi dalla matrice sudista per espandersi verso il Texas, l’Oklahoma, il Missouri,
l’Arkansas, fino alla California, dove non tarda ad assumere configurazioni diverse.
In Texas, in particolare, si crea un forte legame tra musica c. e cinema western, al
punto che il termine western finirà per sostituire quello di hillbilly. I primi a divulgare il country western sono Gene Autry e Roy Rogers, entrambi interpreti di numerosi film di cowboy oltre che di brani divenuti storici. Contemporaneamente il
texano Bob Wills, attivo dal ’32, lancia il western swing, fusione del c. western dei
cowboy con lo swing delle grandi orchestre bianche cittadine: con questo stile viene
a identificarsi tutta la c.m. durante il New Deal. Un cenno a parte meritano gli hobo,
viaggiatori solitari con la chitarra in spalla. La crisi economica degli anni Trenta,
con i suoi pesanti strascichi di vite distrutte, miseria diffusa, soprusi e ingiustizie,
offre nuovi stimoli alle loro ballate, che ora assumono i toni della protesta e dell’impegno sociale e politico. È cantando la grande tempesta di sabbia del Dust Bowl —
vasta area desertica del Texas e dell’Oklahoma, che nel ’35 getta sul lastrico i conta-
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APPENDICE
dini della sua terra — che esordisce Woody Guthrie (Dusty old dust), hobo leggendario, padre della canzone d’autore nordamericana, ispiratore del movimento del
folk revival degli anni Sessanta (→ folk music). Nel secondo dopoguerra il c. western riscuote enorme successo con interpreti di primo piano come Webb Price,
George Jones e Carl Smith. Ma l’artista che dà il maggior impulso al genere è Hank
Williams, autore di tante canzoni fortunate, anche perché sorretto da una voce nasale calda e avvolgente, che guadagna subito una fitta schiera di imitatori. Fra i
quali Johnny Cash, Buck Owens, Bill Monroe. Quest’ultimo è ritenuto l’inventore
dello stile bluegrass (dalla denominazione della sua band, The Blue Grass Boys),
versione veloce e virtuosistica della mountain music strumentale, in pratica un
Dixieland in chiave c. western: con un banjo a cinque corde, violino, chitarra e l’intervento di mandolino e contrabbasso, Monroe riesce a produrre una musica rapida e filtrante, anche per il virtuosismo degli esecutori, spericolati e acrobatici nelle
loro peripezie sonore; tra questi, il chitarrista Lester Flatt e il banjoista Earl Scruggs.
Negli anni successivi il bluegrass verrà coltivato come il filone più vicino alla tradizione classica del c. Allorché molti musicisti → rock (Jerry Garcia, Los Lobos, The
Byrds) si volgono al c., sul finire degli anni Sessanta, è nel bluegrass che compiono
proficue incursioni. Il maggior centro attorno al quale gravita il c. western diventa
allora Nashville, nel Tennessee, già sede di un famoso programma radiofonico ad
esso dedicato, il Grand Ole Opry, seguito ogni sabato sera da milioni di appassionati. Dal ’45 la città si riempie di case discografiche, negozi di dischi e di strumenti
musicali e soprattutto di musicisti c. in cerca d’ingaggi, così da conquistarsi l’attributo di «Music City of the U.S.A.». Qui nasce il tipico ‘Nashville sound’, caratterizzato da tecniche vocali raffinate e accattivanti e da basi sempre più dolci: baritoni
nasali, effetti slide della chitarra acustica, niente batteria. Il brano che sancisce l’inizio dell’epoca d’oro del c. di Nashville è Tennessee waltz (1951), scritto da Roy Acuff
e Fred Rose, due delle vedette musicali della città. Tra gli anni Sessanta e Settanta
l’ondata di contestazione che attraversa gli Stati Uniti coinvolge anche la musica e
per il c. di Nashville, ritenuto conservatore, inizia una lunga crisi. Contro quello
stile, alcuni musicisti riscoprono il più genuino e creativo honky-tonk , genere già in
auge in Texas negli anni Quaranta. E poi c’è il rock, che proprio in questi anni sfonda anche nella cittadella del c. e la invade di chitarre elettriche e batterie. Nasce il →
country rock e si rivitalizza, contemporaneamente, lo stile bluegrass. Tale processo
culmina negli anni Ottanta con il new country, che rilancia in chiave più attuale
bluegrass, western swing e honky-tonk, ossia i filoni considerati più genuini del c.
artefatto e commerciale ormai imposto da Nashville.
Country rock
Per tutti gli anni Sessanta del Novecento la → country music è in subordine rispetto al → rock and roll, almeno per quanto riguarda il pubblico dei giovani, che non
lo amano, considerandolo un genere legato a valori che rifiutano, retorico, perbenista
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APPENDICE
e reazionario. È la musica dei loro padri e, in quanto tale, ormai vecchia. Verso la
fine del decennio, però, sulla spinta del movimento hippy californiano e della sua
rivalutazione della tradizione folklorica, star del rock come Bob Dylan, Byrds, Buffalo
Springfield e Grateful Dead cominciano a manifestare interesse per un certo c. In
particolare per lo stile bluegrass , più vicino alle tradizionali string bands del passato, meno sdolcinato e commerciale del ‘Nashville sound’. E poiché questi musicisti operano in California, è alla West Coast che il c.r. lega il suo nome. Ciò non toglie
che anche Nashville non reagisca alla nuova moda e non manifesti, a sua volta, una
certa apertura nei confronti del rock. Tant’è che Dylan registra l’album Nashville
skyline (1969) proprio nella città del Tennessee, duettando con un maestro del genere quale Johnny Cash. Sulla scia di Dylan e dei gruppi storici su citati, altri musicisti, alcuni provenienti dalla precedente esperienza → folk rock, iniziano a contaminare le sonorità rock con quelle del c.: i Flying Burrito Brothers di Gram Parsons,
i Poco, Ry Cooder, i Loggins & Messina, Steve Still (leader di Crosby Stills Nash &
Young), gli Eagles, Little Feat. Altri ancora compiono il percorso inverso e, maturati nell’ambito del c., fanno propri i fraseggi e i canoni del rock: Charlie Daniels, Kris
Kristofferson, Waylon Jennings e lo stesso Johnny Cash. Un discorso a parte meritano gli innovatori, divisi in due scuole: quella dell’American primitive guitar, che
fa capo a John Fahey e comprende i solisti della chitarra Leo Kottke, Robbie Basho
e Peter Lang; e quella progressive folk, costituita da compositori sperimentali che
considerano il c. solo un mezzo di espressione, tramite il quale pervengono ciascuno ad uno stile personale. A questa schiera appartengono tra gli altri Sandy Bull,
David Bromberg (già chitarrista di Dylan), John Hartford. L’ala più radicale del progressive folk, contaminata dalle esperienze creative del → jazz di Chicago, genera a
sua volta una corrente denominata new acoustic music , o newgrass, o jazzgrass, cui
possono essere ricondotti i Dixie Dregs del chitarrista Steve Morse, che applicano al
rock ogni sorta di virtuosismi funky, bluegrass e jazz. Del movimento fanno parte
anche solisti sperimentali come il bassista acustico Rob Wasserman, la suonatrice di
dulcimer Claudia Schmidt e il chitarrista Eugene Chadbourne.
Disco music
La ‘musica da discoteca’ nasce da un’evoluzione o involuzione del → funk. I musicisti
funky avevano portato alle estreme conseguenze l’equazione musica-ritmo, annullando quasi del tutto la melodia e le variazioni armoniche e aprendo, per questa via,
ad una musica esclusivamente da ballo. Le sue prime prove la d.m. le fa nell’ambito
dei dance party delle comunità nere: i dj dell’epoca, per far ballare il più a lungo
possibile i teenager di colore inventano una pratica che consiste nel riesumare vecchi
hit, di → rhythm and blues per esempio, ed estenderne la pulsazione ritmica, intervenendo, alla maniera dei giamaicani, sui break (→ rap). Nasce così il famosissimo
Soul Makossa di Manu Dibango. Scoperta subito dalle case discografiche, la d.m.
diventa una musica per produttori, nel senso che sono questi ultimi a crearla diretta-
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mente, servendosi di strumentazioni elettroniche sia per il ritmo sia per il dub
(sovraincisione, manipolazione effettistica di una registrazione). Divenuta un prodotto curatissimo e ipertecnologico, sfruttando il ritorno in auge dei locali da ballo e
delle discoteche anche presso i bianchi, la d.m. si diffonde dapprima negli Stati Uniti,
poi in Europa e nel resto del mondo. Ai ragazzi in cerca di divertimento che affollano
questi luoghi, abili produttori e arrangiatori offrono ora dei dischi perfettamente
funzionali al ballo e al movimento, disimpegnati e scopertamente commerciali. Tra i
primi e più influenti produttori-arrangiatori, l’italiano Giorgio Moroder. Formatosi
musicalmente in Germania, a Monaco, alla scuola di Pete Bellotte, attratto dalle
sonorità tecnologiche dei Kraftwerk e dalle colonne sonore dei film di fantascienza,
nei primi anni Settanta Moroder si lega in fruttuoso sodalizio con la cantante di colore Donna Summer, con la quale crea i più clamorosi disco-hit della seconda metà del
decennio. In seguito Moroder si dedica prevalentemente alle colonne sonore, tra le
quali — per restare in tema — Flashdance (id. di Adrian Lyne, 1983), che gli valgono
una serie di Oscar, Golden Globe e Grammy Awards. È nel 1977, anno in cui esce il
film La febbre del sabato sera (Saturday night fever, di John Badham, 1977), interpretato da John Travolta, che ‘la disco’ esplode a livello di massa. Tra i nomi di spicco
il gruppo di colore degli Chic, quello dei Trammps e dei Taste of Honey, oltre ad una
lunga schiera di stelline come Gloria Gaynor, Grace Jones, Thelma Houston, Irene
Cara. È la prima volta nella storia della popular music che le interpreti femminili
riscuotono un tale successo, anche se alle spalle continuano ad avere produttori maschi. Ma alla d. si danno anche non poche cantanti di valore, come Aretha Franklin,
Tina Turner, Chaka Khan. All’era ‘disco’ o ‘post-disco’ appartiene pure una lunga
schiera di musicisti neri destinati alla discoteca, ma impegnati nella ricerca di un
suono funky più creativo: Michael Jackson, Prince, Billy Ocean, Lenny Kravitz, Terence
Trent D’Arby, per citarne alcuni. In anni più recenti la d. evolve in house, techno,
techno progressive, underground, jungle e acid house.
Dixieland
Termine d’incerta origine con cui anticamente, nel gergo popolare, s’indicava il
Sud degli Stati Uniti. In seguito passa a designare lo stile delle prime band di →
jazz composte da musicisti bianchi formatesi a New Orleans intorno ai primi anni
Venti del Novecento. Tra queste la Original Dixieland Jazz Band, diretta dal
cornettista di origine italiana Nick La Rocca, che nel 1917 ha la ventura d’incidere il
primo disco di jazz. La denominazione D. viene successivamente estesa a tutti gli
stili maturati a New Orleans e a Chicago ad opera di musicisti bianchi (→ jazz).
Fado
Canzone popolare documentata fin dall’Ottocento in Portogallo, specie a Lisbona e
a Coimbra. La sua origine è incerta; secondo l’ipotesi più accreditata deriverebbe
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APPENDICE
dalla fusione del lundù brasiliano e della portoghese modinha (canto di carattere
sentimentale). Peculiare del f. è una certa vena ‘esistenzialista’, triste e malinconica
(del resto il termine deriva dal latino fatum, che significa ‘destino’). Oggi è prevalentemente cantato e accompagnato dalla chitarra (f. cantado); in origine, però,
era anche danzato e chiamato f. batido, in virtù di una tipica mossa della fadista
che ‘batteva’ con il ventre un altro ballerino. La melodia del f. è, in genere, improvvisata su un semplice schema armonico e l’abilità del/la fadista consiste nel saperla
variare con ogni genere di artifizio vocale.
Folk music
Espressione angloamericana corrispondente all’italiana musica popolare: musica
prodotta e fruita, cioè, dalle classi popolari. Oggetto di ricerca da parte dell’etnomusicologia, la f.m. — o, più semplicemente, f. — costituisce, in certi Paesi già a
partire dagli anni Trenta del Novecento, un termine di confronto per altri generi
musicali e in particolare per la musica ‘leggera’. Negli Stati Uniti un f.m. revival,
ovvero un tentativo di rivalutazione e di rivitalizzazione del patrimonio musicale
popolare, inizia durante il New Deal, come risultato dell’interesse del nuovo radicalismo nordamericano verso gli strati sociali subalterni. È Alan Lomax, eminente
studioso del folklore americano, a comprendere per primo l’autonomia formale e
culturale delle forme musicali tradizionali. La sua attività si svolge sia sul versante
etnomusicologico, tesa al reperimento e allo studio del materiale originale, sia sul
piano della definizione e dell’attuazione dei principi alla base di un autentico f.
revival. Lomax è anche scopritore di autentici talenti, come il bluesmen Huddie
Leadbelly (lo aiuterà a ricostruirsi una vita dopo lunghi anni trascorsi in un penitenziario del Texas) e Woody Guthrie. Quest’ultimo, sensibile interprete e cantore
delle classi subalterne, rappresenta un modello per il movimento revivalista; e non
solo musicale, ma anche morale. Sulla via da loro indicata si muovono molti musicisti, tra i quali vanno ricordati Butch Hawes, Cisco Houston, Oscar Brand, Lee
Hays, Joe Glazer, Jean Ritchie, Mike Seeger, Sonny Terry e Big Bill Broonzy. Ma è
Pete Seeger il primo vero rappresentante del f. revival. Cantante, chitarrista, compositore, Seeger è anche un attivo promotore d’iniziative musicali e organizzatore
di concerti, nonché leader di gruppi importanti per lo sviluppo del movimento; nel
1940 convince Guthrie a suonare con lui negli Almanac Singers, band che lega la
sua attività ai raduni sindacali e agli scioperi. Negli anni Cinquanta il movimento
revivalista si lega alle iniziative dei college universitari, specie del Greenwich Village
di New York, e — se pure marginalmente — al movimento della beat generation. In
effetti, il rinnovato interesse per la cultura musicale tradizionale esprime una netta
reazione verso il mondo della canzone industriale. Sennonché la contraddizione
alla base del f. revival, espressione di un’élite di intellettuali, diventa manifesta
quando l’industria discografica in cerca di nuove mode da lanciare sul mercato si
rivolge al mondo popolare. Da una parte la scoperta del → country and western e il
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APPENDICE
successo commerciale del Kingston Trio, dall’altra l’esplosione del → rock and roll
portano ad una profonda crisi del movimento revivalista; che fatica sempre più a
conservare la propria integrità ideologica e filologica, finendo per confondersi con
mode industriali. In Europa il f. revival conosce sufficiente diffusione, all’inizio degli
anni Sessanta, solo in Gran Bretagna (Albert Lloyd, Ewan McColl, Peggy Seeger) e
in Italia. Qui, ancor più che negli Stati Uniti, viene sentito fortemente e a lungo
dibattuto il problema di come preservare l’aderenza stilistica dell’esecuzione all’originale etnico, nel tentativo di creare pure una forma comunicativa valida per il
mondo contemporaneo. Nelle diverse esperienze, vanno ricordati il gruppo del
Nuovo Canzoniere Italiano; i cantanti-esecutori Fausto Amodei, Sandra Mantovani,
Gualtiero Bertelli; la cantante, chitarrista e compositrice Giovanna Marini.
Folk rock
Nei primi anni Sessanta del Novecento l’America giovane scopre l’impegno politico. Preparata dalla ribellione individuale della beat generation e dal diffuso movimento pacifista, alimentata da eventi drammatici quali la crisi di Cuba (1960), gli
incidenti razziali culminati nella strage di neri in Alabama (1963), l’assassinio di
John F. Kennedy (1963), l’escalation militare in Vietnam (1964), la contestazione
esplode nei campus universitari e tocca l’apice nei disordini di Berkeley del settembre del ’64. In questo clima di tragedia incombente, un ruolo importante di aggregazione e identificazione collettiva hanno le canzoni e, in particolare, la → folk music
impegnata di Woody Guthrie, Pete Seeger, Cisco Houston, Oscar Brand, che ora si
arricchisce di nuove presenze, vicine ai movimenti di protesta, quali Phil Ochs, Eric
Andersen, Joan Baez, Bob Dylan. Luogo di propagazione del nuovo f. è il Greenwich
Village, la zona più bohémienne di New York, già dagli anni Cinquanta centro della
‘controcultura’, sia bianca sia nera. Qui, accanto a locali riservati al → jazz (famoso
il Village Vanguard, di Max Gordon), fioriscono numerosi i folk club, dove convergono musicisti e cantautori da ogni parte degli Stati Uniti. Qui, dal Minnesota, dov’è nato, approda nel ’61 Bob Dylan, figura carismatica del movimento. Cresciuto
alla scuola del rock di Little Richard, del country di Hank Williams, ma soprattutto
delle protest-songs di Woody Guthrie, viene indicato da Seeger come l’erede di quest’ultimo. Ma, con grande scorno dei fondamentalisti, Dylan s’impone subito come
un ribelle. Dopo un esordio con ballate pacifiste e di protesta, che fanno da colonna
sonora ai sit-in e alle marce antimilitariste dei primi anni Sessanta (Blowin’ in the
wind, The times are a’ changing), sconvolge il mondo del f. aprendo al rock. Accompagnato dalla Butterfield Blues Band, si presenta al festival f. di Newport con la
chitarra elettrica. Corre l’anno 1965 e nasce un nuovo genere, il f.r. Per la musica
giovanile inizia un periodo denso di contaminazioni tra realtà sonore diverse. L’aspetto più propriamente acustico del f. comincia a confrontarsi col suono degli strumenti elettrici, così come le tecniche vocali dei folksinger si adeguano a ritmi più
incisivi, creando una musica di grande effetto. Sempre nel ’65 i Byrds raggiungono
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APPENDICE
i primi posti delle classifiche con una cover rock di Mr. Tambourine man di Dylan,
una rivisitazione che molti critici considerano il primo, importante esempio di f.r.
Simon & Garfunkel elettrizzano la loro Sound of silence, rendendola, nella nuova
versione, un grande successo commerciale. I Lovin’ Spoonful, Carole King, i Beau
Brummels sono altri protagonisti della trasformazione. Negli Stati Uniti come in
Gran Bretagna gli esempi si moltiplicano e il genere si consolida grazie ad artisti
come Fairport Convention, Pentagle, Joni Mitchell, Crosby Stills Nash & Young.
Fox-trot
Danza nata negli anni Dieci del Novecento negli Stati Uniti e, di qui, diffusasi in
Europa. Ha un ritmo sincopato, quasi in tempo di marcia.
Free jazz
Il ‘jazz libero’, come l’espressione sta a significare, viene così definito all’inizio degli
anni Sessanta del Novecento, anche se la nascita del movimento è databile alla fine
del decennio precedente. Il nome (da qualche critico sostituito con new thing, new
jazz e free music) riveste un duplice significato, tecnico-musicale e culturale. Musicalmente la ‘libertà’ è da schemi e strutture precedenti, specialmente dai vincoli
della successione armonica. Altra caratteristica saliente è l’importanza di suono e
timbro. Quest’ultimo risulta essere il punto focale, vero e proprio motore della fase
improvvisatoria. L’improvvisazione torna a essere collettiva, com’era alla nascita
del → jazz. La globalità musicale è data dall’esibizione di ogni musicista che suona
contemporaneamente per se stesso e per i propri partner su base poliritmica, abbandonando spesso il sistema tonale. In sintesi, suo carattere saliente è la supremazia dell’improvvisazione sulla scrittura. Culturalmente, invece, il desiderio di
libertà si riferisce all’autonomia di una ritrovata radice afroamericana nei confronti dell’establishment bianco. Non a caso la nascita del genere coincide con la diffusione, negli Stati Uniti, del movimento per i diritti civili; nelle sue diverse anime:
quella non violenta che ha il suo leader in Martin Luther King e quella più radicale
delle Pantere Nere, animate da Malcom X. Risultato dell’evoluzione del j. iniziata
dal → be-bop e proseguita dall’ → hard bop, il f.j. ha tra i padri fondatori Ornette
Coleman. Alla fine degli anni Cinquanta questo giovane sassofonista del Texas ha
già respinto l’aspetto armonico dell’eredità di Charlie Parker: vuole conservarne
l’essenza; per lui contano solo l’emozione e l’autenticità dell’espressione, le questioni tecniche sono secondarie. La ‘teoria armolodica’, che svilupperà nel tempo,
sfugge alla comprensione dei musicologi. Infatti, è un discorso filosofico — persino
poetico — più che tecnico. Al di là di Parker, la sua arte ricorda l’autenticità dei field
holler. Le strutture fanno ancora riferimento al → blues, ma ricordano più le incertezze dei primi bluesmen che non lo stile accademico in dodici battute. Già i titoli
delle sue registrazioni sembrano dei manifesti del nuovo j.: Something else! (qual-
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APPENDICE
cosa di diverso), The shape of jazz to come (la forma del jazz futuro). Nel 1960
Coleman registra, con un doppio quartetto, un album dal titolo Free jazz, con cui
sigla l’affermazione del nuovo movimento. Inizialmente, tuttavia, la nuova musica
viene chiamata new thing (cosa nuova): si tratta di un j. che non è solo ‘free’, cioè
libero — nel senso in cui lo erano le prime improvvisazioni di Lennie Tristano, o di
Jimmy Giuffre (→ cool jazz) —, ma che vuole sottrarsi a tutte le definizioni di j.
formulate dalla critica, proveniente, in generale, dalla cultura bianca. «È la nostra
musica» proclama Coleman con l’album This is our music, affiancandosi ai pensatori
neri che contestano ai bianchi il diritto di parlare di un sound che non gli appartiene. I criteri di bellezza, purezza del suono, logica della forma, adeguamento ad un
testo preesistente devono passare in secondo piano. Riallacciandosi ai primi canti
neri americani, il f.j. arriva a rinunciare alle convenzioni del j., alla regolarità ritmica, allo swing. Conserva esclusivamente i caratteri distintivi della musica nera rispetto a quella occidentale: l’energia, il coinvolgimento del corpo, il suono grezzo,
l’improvvisazione, la creazione in stato di necessità; è una musica dell’istante, dell’immediato, del provvisorio. Conseguenza di questa posizione è anche che il f.j.
mostra rinnovato interesse per le culture extraeuropee, per la musica araba, orientale, africana. Altro padre fondatore del genere è il pianista Cecil Taylor, che trasforma la tastiera in strumento percussivo all’interno di lunghe esecuzioni caratterizzate da aggressive improvvisazioni prive di tema musicale. Albert Ayler,
tenorsassofonista, è invece il caposcuola della seconda generazione del f.j. Con Ayler
il genere raggiunge forse l’espressione più completa, recuperando sonorità popolari e arrivando a influenzare molta musica successiva anche appartenente ad altri
generi. Dei numerosissimi artisti legati al f.j. si ricordano ancora il contrabbassista
Alan Silva; il pianista, arrangiatore e direttore d’orchestra Sun Ra, che recupera
certa tradizione strumentale e ritmica africana; il trombettista di origini pellerossa
Don Cherry; il sassofonista, pianista e compositore Archie Shepp. Ancora più numerosi i musicisti non etichettabili in maniera strettamente ‘free’, ma che — per un
certo periodo della loro carriera — subiscono l’influenza del genere; tra loro Miles
Davis, protagonista di tutte la fasi fondamentali del j. moderno. Con Davis collabora a lungo John Coltrane, considerato un modello per i sassofonisti free, dei quali,
a sua volta, raccoglie suggestioni ed esperienze che si materializzano in Ascension.
Strumentalmente, il f.j. predilige il sassofono; in particolare il sax tenore, che, andando dal registro grave, spesso rabbioso, al sopracuto più esasperato, consente la
massima immediatezza espressiva. Tre sassofonisti free come Pharoah Sanders,
Archie Shepp e Albert Ayler sfrutteranno al massimo tale prerogativa. Ma il f.j.
accentua in generale il polistrumentismo, già praticato da molti jazzmen. Roland
Kirk arriva a suonare simultaneamente tre sassofoni, canta dentro il flauto e ricorre a ben quarantacinque strumenti, tra i quali i sassofoni ‘stritch’ e ‘manzello’, nonché vari fischietti e sirene. Rumori accidentali e parassitari (stecche, sonorità dei
fiati alterate dall’accumulo di saliva, movimenti incontrollati delle dita, cigolii dell’archetto o degli sgabelli ecc.) vengono integrati nel discorso musicale; si fa di tut-
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APPENDICE
to, anzi, per moltiplicare gli accessori destinati a provocarli. La fortuna del f.j. declina rapidamente allo scoppio della beatlemania e molti interpreti si vedono costretti a cercare fortuna in Europa, oppure a contaminare la loro musica nella speranza di riconquistare le simpatie del grosso pubblico. Intorno al 1970 l’esperienza
del f.j. può considerarsi conclusa, almeno oltreoceano, mentre cominciano a moltiplicarsi gli ibridi tra j. e rock.
Funk
In slang americano funk indica l’odore del corpo; di conseguenza funky sta per
‘sporco’, ma anche ‘sexy’, ‘attraente’. In ambito musicale il termine entra in uso
negli anni Cinquanta del Novecento per indicare una qualità cultural-musicale tipica di certo → jazz e, in particolare, dell’hard bop, con il suo recupero delle radici
della musica nera americana, ovvero di elementi del → blues e del → gospel. Iniziatore di questo stile jazz-soul-funk è considerato il pianista Horace Silver. Come
genere ‘leggero’ il f. esplode negli anni Settanta quale derivazione aggressiva del →
soul, o — almeno alle origini — in reazione alla sua sofisticazione e commercializzazione. Nondimeno è proprio in questo soul che ha i suoi padrini (James Brown,
Stevie Wonder, The Temptations), oltre che nel ‘black rock’ di Jimi Hendrix e nel
‘jazz rock’ di Miles Davis, Herbie Hancock, Eumir Deodato. Iniziatori del f. sono
complessi di strada che contaminano il soul col rock psichedelico, come quello di
Sly and Family Stone, attivo a San Francisco, o di Kool & The Gang. L’epicentro del
fenomeno è, però, sull’asse Detroit/Chicago. A Detroit lo stile viene lanciato da
George Clinton, personaggio eccentrico e guru del movimento, che, dal ’68 dirige
contemporaneamente due complessi: i Parliaments e i Funkadelic, sostanzialmente un mix di pop commerciale e controcultura freak. A Chicago operano, invece, gli
Earth Wind & Fire e gli Ohio Players. Questi ultimi aprono la strada alle big band
fiatistiche da discoteca, come Brass Connection (misto di f., salsa, swing, reggae) e
Gap Band. Al confine, ormai, con la → disco music si situano i Lipps e i BT Express.
Una variante originale del f. dei ghetti di Detroit e di Chicago è quello tropicale di
Miami, rappresentato dalla K.C. & The Sunshine Band (ben sei percussionisti e tre
trombe, tutti neri), che introduce nel genere lo spirito esuberante dei balli tropicali.
In era ‘disco’ il f. si trasferisce nei locali snob della gioventù bene, mettendo la sua
teatralità al servizio di spettacoli da music hall intellettuale, come nel caso di August
Darnell e dei radical chic di New York; oppure aggiornando il suono delle big band
alla tecnologia del rap e dei balli latini, come nel caso dei Konk. Geni riconosciuti di
questo f. ‘leggero’ sono Maurice Starr e Quincy Jones.
Fusion
Termine inglese con cui vengono indicate le contaminazioni, nella popular music,
tra generi o culture differenti. Negli anni Ottanta del Novecento si è chiamato f. il
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→ jazz rock, il cui carattere saliente è un accentuato impiego virtuosistico degli
strumenti elettrici ed elettronici. Tra coloro che rientrano in questa corrente figurano i superacclamati Weather Report, la cui musica, in particolare con l’arrivo nel
gruppo di Jaco Pastorius, il più originale virtuoso del basso elettrico, e del batterista
Peter Erskine, si orienta verso una fusione d’influssi diversi, del rock e delle musiche tropicali; i fratelli Michael e Randy Brecker, animatori prima dei Dreams, con
John Abercrombie e Billy Cobham, poi dei Brecker Brother, infine degli Steps Ahead.
Altro esponente brillante della f. è il sax alto David Sanborn.
Gospel
Con questo termine — riduzione di gospel song, letteralmente ‘canto evangelico’ —
viene indicato il genere vocale di carattere sacro coltivato, fin dagli anni Trenta del
Novecento, dai neri negli Stati Uniti. Storicamente il g. rappresenta una versione
urbana, ritmicamente legata al → jazz, della tradizione del canto religioso nero
(negro spiritual). Di questo mantiene originariamente il carattere di fondo, che è
quello di pregare insieme cantando, nonché la struttura responsoriale (call and
response) ereditata a sua volta dai canti delle piantagioni, che prevede una voce
solista ed una risposta corale. I contenuti sono biblico-evangelici e vertono, in particolare, sull’analoga esperienza della schiavitù vissuta dagli ebrei in Egitto. Di nuovo
rispetto allo → spiritual, con cui spesso il g. viene confuso, vi è l’uso di tastiere
(piano, oppure organo), un più accentuato ricorso a brevi frasi ritmiche, un ruolo
più spiccato del solista. Tra i primi artefici della trasformazione dello spiritual in g.
il pianista → blues Thomas A. Dorsey, attivo a Chicago negli anni della Depressione, autore di svariate composizioni religiose da lui stesso diffuse da una chiesa all’altra. Lungo gli anni Quaranta il g. è tenuto vivo da una miriade di gruppi vocali,
in prevalenza quartetti, come i cosiddetti ‘Jubilee Quartet’, caratterizzati da un accentuato virtuosismo polifonico (Dixie Humming, Five Blind Boys of Mississippi e
Golden Gate Quartet tra i più rappresentativi). Parallelamente, però, il genere cessa di essere esclusivamente religioso per cominciare a imporsi anche in versione
profana, secolarizzata, attirando sempre più l’attenzione dell’industria discografica.
A partire dal secondo dopoguerra — reso popolare a livello mondiale da artisti
prestigiosi come Mahalia Jackson, la cantante melismatica di New Orleans, e
Dorothy Love Coates, ritenuta dalla critica la vera regina del genere — il g. vive il
suo periodo d’oro. Sull’onda di un crescente successo di pubblico, anche bianco, col
g. si cimentano grandi interpreti quali Wilson Pickett, Aretha Franklin, Sam Cooke,
Dionne Warwick, Al Green, Salomon Burke, Roberta Martin.
Habanera
Canzone — e danza, il cui movimento caratteristico è l’oscillazione lenta e ritmica
dei fianchi — cubana derivata dalla fusione di elementi africani e spagnoli, diretta
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precorritrice del → tango. Prende il nome dall’Avana (La Habana), dove si diffonde
tra la gente di colore dei quartieri poveri a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. L’accompagnamento è dato da strumenti a percussione come claves, xilofono,
maracas, bongos, conga. In versione stilizzata riecheggia nelle composizioni di
musicisti europei come Maurice Ravel e Claude Debussy; una celebre h. è nel primo atto della Carmen di Georges Bizet.
Hard bop
Il → cool jazz — che invade il mercato durante la prima metà degli anni Cinquanta
del Novecento — porta alcuni artisti neri a lasciarsi tentare dalla raffinatezza e dalla compostezza di quello stile bianco, col rischio di edulcorare l’originalità della
loro cifra espressiva. La reazione è inevitabile. Più che una semplice radicalizzazione
del → be-bop, l’h.b. rappresenta un ritorno alle radici della musica afroamericana:
il → blues e il → gospel. È anche l’occasione di riallacciare i contatti con il pubblico
nero, sviato dagli aspetti avanguardistici del → jazz moderno. La moda del → rhythm
and blues è al culmine e s’incomincia a parlare di → soul music. L’h.b. è espressione della comunità di colore, minoritaria, ma orgogliosa della propria identità, certa
della fondatezza e del buon esito delle proprie idee. Complesso guida del genere
sono i Jazz Messenger con il loro leader Art Blakey, capace di un drumming invadente e violento. Blakey è anche un grande scopritore di talenti: Wayne Shorter,
Freddie Hubbard, Keith Jarrett. Tutto s’impernia sulla batteria. Se, infatti, presso i
primi boppers la sezione ritmica enuncia gli accordi e mantiene il tempo, offrendo
al solista un contrasto stimolante, ora, invece, ha il ruolo di creare il clima secondo
formule ripetitive che s’ispirano ai canti gospel e alla musica soul. Come nel rhythm
and blues, la pulsazione si appoggia fortemente sul controtempo della misura tradizionale in quattro quarti. Quest’ultima, però, non ha più l’esclusiva degli anni
Venti e, anzi, la misura a tre quarti diventa sempre più frequente. Il che equivale a
mettere in discussione la definizione stessa di → swing, valore essenziale della
musica nera americana. Art Blakey riscopre anche la poliritmia africana e i ritmi
latini: calipso giamaicano, mambo afrocubano, bossa nova brasiliana non costituiscono più tocchi esotici, ma diventano a poco a poco parte integrante del linguaggio del jazz, contribuendo al successo dell’h.b. Gli arrangiamenti a più voci esaltano l’efficacia dei temi, che s’ispirano spesso al blues o al gospel. Invece di rielaborare i brani di successo (i cosiddetti ‘standard’) dei musical di Broadway, come avevano fatto spesso i boppers, gli hardboppers li evitano, preferendo le proprie composizioni, che sono più asciutte, caratterizzate da una certa brutalità sia armonica sia
ritmica. Nel be-bop le rapide successioni degli accordi impongono ai solisti continui scarti melodici; l’h.b. conserva, invece, gli accordi che si susseguono senza rapporto apparente, ma impara a salvaguardare la continuità melodica delle frasi. Un
accordo può durare molte misure: allora il solista ha tutto il tempo di costruire la
propria improvvisazione melodica, inventare formule ritmiche inedite, preparare
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APPENDICE
l’accordo successivo e, infine, concepire un clima che governerà il profilo drammatico di tutto l’assolo.
Hard rock
Quando l’h.r. s’impone sulla scena, alla fine degli anni Sessanta del Novecento,
sono appena scomparsi alcuni degli idoli musicali del momento (Brian Jones, Jimi
Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison). Inizialmente è solo una versione più dura
del blues rock (→ blues), ben rappresentato dai Cream (Ginger Baker, Jack Bruce
ed Eric Clapton): violenza sfrenata degli strumenti (chitarra, basso, batteria), mortificazione della melodia a favore di un riff grezzo e ossessivo. In seguito, però, la
corrente si emancipa per assumere una fisionomia dura e violenta. In Inghilterra il
genere esplode nel 1969, quando emergono le due band più rappresentative: i Led
Zeppelin di Jimmy Page (con Robert Plant alla voce) e i Deep Purple (Richie
Blackmore, Jon Lord). Vicini all’h.r. sono anche i Queen di Freddy Mercury. Una
deviazione più o meno commerciale del genere è considerato il dark rock, il rock
della magia nera e dello spiritismo perverso, capostipiti i Black Sabbath. Dal ceppo
h.r. trapiantato nell’America dell’ → heavy metal ha origine il fenomeno dei ‘super
chitarristi’ (guitars heroes) degli anni Settanta, eredi di Hendrix.
Heavy metal
Rispetto all’ → hard rock, col quale condivide la comune origine dal blues rock (→
blues), l’h.m. si caratterizza per un’ulteriore radicalizzazione del sound attraverso
l’uso e abuso di suoni possenti e duri — metallici, appunto — di strumenti elettrici
spinti al limite delle possibilità, di ritmi accentuati e distorsioni, ma anche per il
contesto in cui nasce. Cronologicamente l’h.m., il ‘metallo pesante’ (espressione
attribuita allo scrittore beat William Burroughs) nasce a Detroit, città statunitense
proletaria per eccellenza, per la presenza di numerose fabbriche automobilistiche,
teatro negli anni Sessanta di violenti scontri tra le masse operaie, perlopiù nere,
comunque fortemente politicizzate (raccolte attorno ai due movimenti Black Panters
e White Panters) e la polizia. Dall’entourage delle White Panthers e del loro leader
John Sinclair scaturiscono gli MC5 — gruppo cult capitanato da Wayne Kramer,
primo grande chitarrista h. —, portabandiera degli operai bianchi immigrati dal
Sud e degli studenti della Mayne State University: suonano alle manifestazioni e
persino durante gli scontri con la polizia. Il loro sound, a base di percussività sfrenata e potente amplificazione, è un incitamento alla violenza. Sono arrabbiati anche gli Stooges di James Osterberg, alias Iggy Pop, leader morboso e decadente di
autentici esponenti del sottoproletariato urbano, che iniziano a suonare nei garage
per pochi seguaci. Scoperti da John Cale — fondatore, con Lou Reed, dei Velvet
Underground — pubblicano due album: The stooges (1969) e Fun house (1970),
considerati i capolavori della ‘punkitudine’. Dal Canada provengono invece gli
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APPENDICE
Steppenwolf di John Kay, anello di congiunzione col blues rock psichedelico
californiano. Gruppo sufficientemente politicizzato, propongono testi sempre significativi, ora esaltando il sesso e la droga, ora gridando il malessere generazionale, ora inveendo contro l’America. Riservato dapprincipio ad una nicchia ristretta
di fan, l’h.m. conquista il grande pubblico quando piega verso il lato commerciale;
musicalmente mediocri e poco originali, i Grand Funk Railroad sono, nei primi
anni Settanta, il gruppo più osannato e i loro dischi i più venduti. Con gli anni Settanta, passata la stagione dei sit-in e delle marce per la pace, messa fuori gioco l’ala
estremista del movimento con arresti, esili e omicidi, l’h.m. finisce per essere una
parodia infelice dell’antenato. In questo decennio il genere fa presa soprattutto sulla
East Coast, dove si esprime in maniera più teatrale. A New York sono i Blue Oyster
Cult a imporre quello che diventerà il modello locale, riscoprendo i rituali satanici dei
Black Sabbath. Vi s’ispirano gli Aerosmith e i Kiss, con i quali nasce ufficialmente
l’horror shock, sposato fuori degli Stati Uniti dagli australiani AC/DC e dai canadesi
Rush. Nei tardi anni Settanta l’epidemia h. migra in California (Van Halen) e di qui a
Seattle, dove origina un filone che condurrà fino ai Nirvana. In Gran Bretagna gli
eredi di Deep Purple e Black Sabbath si chiamano Judas Priest, Motorhead, Saxon,
Iron Maiden, Def Leppard; in Germania Scorpion, Ufo, Accept; in Svizzera Krokus e
Celtic Frost; in Olanda God e Mercyful Fate. Negli anni Ottanta la popolarità dell’h.m.
è alle stelle. Nascono infiniti sottogeneri, come lo speed, detto anche trash metal
(Metallica, Megadeth, Slayer, Anthrax, Guns n’ Roses); il death, h.m. in versione horror
macabro (Death, Morbid Angel, Deicide, Obituary); l’hardcore, h.m. ‘a luci rosse’ che
mescola violenza, erotismo e satanismo (Twisted Sisters, Motley Crue, Wasp).
Hillbilly
→ Country music.
Hip-hop
Il termine designa sia la musica ritmico-elettronica, come il rap , ma anche il
raggamuffin (sorta di → rap giamaicano), lo ska (precursore del reggae), il dub
(modo di recitare il testo basato su un forte uso delle percussioni); sia le frasi ritmiche dei dj. In realtà l’h.-h. è venuto a significare uno stile di vita di cui la musica e la
relativa danza (breakdance) sono solo gli aspetti più evidenti, includendo fenomeni come il graffitismo o la maniera di abbigliarsi (berretti da baseball, scarpe Adidas
senza lacci, tute sportive).
Jazz
L’etimologia del termine — nonostante le accurate ricerche compiute, soprattutto
negli Stati Uniti — resta sconosciuta. Pare indubbio, però, il riferimento sessuale
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APPENDICE
del significato originario e l’uso nel Sud degli Stati Uniti fin dalla seconda metà
dell’Ottocento. È anche certo che appaia stampato per la prima volta relativamente
ad una forma musicale nel 1913 in un giornale di San Francisco. La musica j. nasce,
ad ogni modo, dall’incontro di due diverse culture: quella africana, arrivata
oltreoceano, attraverso gli schiavi, dalla fine del Quattrocento; e quella occidentale, portata nel Nuovo Mondo dai coloni europei. Suoi diretti antecedenti sono pertanto considerati, nell’ordine: le → work songs, i → gospel e gli → spiritual, il →
blues e il → ragtime. Con il blues, che precede di poco il j. e ne rappresenta uno dei
principali elementi costitutivi, compaiono per la prima volta nella musica dei neri
d’America gli strumenti europei, innanzitutto la chitarra. L’introduzione degli strumenti si deve ai creoli, che, rispetto ai neri, godono di particolari privilegi sociali. Si
verifica così una più incisiva contaminazione tra le due culture, che trova la sua più
sofisticata espressione nel ragtime, musica per piano totalmente strumentale e
quindi importante anello di congiunzione tra il canto popolare e il j. Va detto, tuttavia, che quanto arriva ai creoli è soprattutto la sottocultura occidentale, rappresentata da marce e quadriglie diffuse nelle ex colonie francesi. Il primo j. è pertanto
una fusione di elementi del blues, della musica bandistica creola e del ragtime.
Determinante per la nascita del j. è però l’adozione da parte dei neri degli strumenti musicali lasciati un po’ ovunque, nel Sud, dai combattenti della Guerra di
Secessione: cornette, trombe, clarinetti, tromboni e tamburi. I bassi prezzi di questi strumenti rendono possibile la costituzione di numerose fanfare (brass band),
che, nei primi anni del Novecento, diventano un elemento caratteristico della città
di New Orleans. La musica di queste bande, diretta discendente delle marce suonate dalle bande militari, accompagna feste, matrimoni, raduni politici, funerali. Vi
militano i pionieri del genere, per la maggior parte di etnia nera. Gli stessi musicisti
è possibile ascoltarli nelle case di piacere e nelle bettole di Storyville, il quartiere
malfamato della città. La loro musica sta a metà strada tra il ragtime e il j. Tra gli
strumenti, oltre al classico terzetto delle bande (cornetta, clarino, tromba), figurano il pianoforte, il banjo — poi sostituito dalla chitarra — e i tamburi, mentre il
contrabbasso prende talvolta il posto del basso tuba o del sousaphone. Pochissimi
tra i componenti delle brass band e delle orchestrine di Storyville sanno leggere la
musica; si suona, perciò, ‘a orecchio’ e spesso improvvisando sulle armonie del tema
prescelto. E l’improvvisazione rimarrà una delle caratteristiche essenziali del genere. Fino al 1917 il j. rimane praticamente confinato a New Orleans. Accanto a quella
dei pionieri si afferma una nuova generazione di musicisti, alcuni destinati a fama
internazionale: tra i neri, il trombettista e cantante Louis Armstrong, appena adolescente già conteso dalle migliori orchestre della città; tra i bianchi, quanti si raccolgono intorno a Nick La Rocca e alla sua Original Dixieland Band. Paradossalmente, sarà proprio questa orchestra di musicisti bianchi nati a New Orleans a
incidere, nel 1917, a New York, il primo disco di j. e a far conoscere al mondo la
nuova musica. La denominazione → Dixieland verrà poi estesa a tutti gli stili maturati a New Orleans e a Chicago. Nel ’17 il quartiere di Storyville, in seguito a disor-
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dini, viene sbaraccato delle case di piacere. Gran parte dei musicisti j., rimasti senza lavoro, raggiungono le grandi città del Nord, in particolare Chicago. Nel ’22 ‘King’
Oliver, leader della Creole Jazz Band, chiama a Chicago Louis Armstrong, col quale
incide i primi dischi l’anno successivo. A partire da questa data si può dire abbia
inizio il secondo periodo della storia del j., quello di Chicago. Per molti è l’epoca
d’oro della nuova musica americana. Nella grande città dell’Illinois si ritrovano,
infatti, nei primi anni Venti, tutti i più grandi musicisti di j. provenienti dal Sud.
Qui s’incominciano a incidere quei dischi che sarebbero stati considerati i classici
dello stile New Orleans e, più in generale, del j. Risalgono allo stesso periodo le
registrazioni, in parte effettuate a New York, delle grandi cantanti di blues. Sulla
scia dei musicisti neri, anche molti giovani bianchi si cimentano nella nuova musica e grande consenso ottiene il cornettista Leon ‘Bix’ Beiderbecke. Sempre a Chicago,
nel decennio che lo scrittore Francis Scott Fitzgerald battezza «l’età del jazz», si
distinguono i pianisti di → boogie-woogie. Altro importante centro di musica j.
negli anni Venti è New York, dove operano diverse grandi orchestre di ragtime e
dove viene lanciato il → fox-trot. Qualche anno più tardi nella comunità nera si
affermano pianisti (come Thomas Walzer) che si distinguono per un particolare
stile, lo stride piano, in cui si conciliano ragtime e blues, caratterizzato dal poderoso, martellante accompagnamento della mano sinistra, impegnata a suonare alternativamente i bassi e gli accordi. Nella New York degli anni Venti, per merito di
Fletcher Henderson e Don Redman, nasce il j. orchestrale. Il problema — consistente nel conciliare l’improvvisazione jazzistica con le parti d’assieme, necessariamente scritte, dato il numero dei musicisti — viene risolto fondendo le parti solistiche, improvvisate, con quelle collettive, scritte. Ad Harlem aprono, allora, molti locali dove si possono ascoltare orchestre di j. Al celebre Cotton Club (cui è dedicato l’omonimo film diretto da Francis Ford Coppola nel 1984) coglie i primi successi il pianista Edward ‘Duke’ Ellington, tra i massimi esponenti del genere. L’epoca
eroica del j. si conclude bruscamente nel ’29, quando, con l’inizio della grave crisi
economica, quasi tutti i musicisti di j. si ritrovano disoccupati. In questo periodo il
genere sopravvive a Kansas City, nel Missouri, dove la vita notturna è più intensa e
prospera che mai perché protetta dalla corrotta amministrazione della città. Qui,
anzi, si sviluppa uno stile di j. con caratteristiche abbastanza peculiari, grazie alla
soverchiante influenza del blues e alla presenza di musicisti di spessore, come il
pianista e caporchestra William ‘Count’ Basie e il tenorsassofonista Lester Young.
A New York riescono a cavarsela alla meno peggio alcuni jazzisti bianchi, come il
clarinettista Benny Goodman, i trombonisti Tommy Dorsey, Glenn Miller, il
cornettista Red Nichols e altri. Paradossalmente, tuttavia, è proprio nel suo periodo più buio che il j. si fa conoscere in Europa e comincia a essere studiato. Il genere
rifiorisce dopo il ’35, grazie al successo riportato dalla grande orchestra costituita e
diretta da Benny Goodman. Incomincia la swing craze, la ‘follia per lo swing’, versione mondata ed edulcorata del vecchio j., di cui lo swing è sempre stato uno degli
elementi più caratteristici, oltre che più difficilmente definibili. Per swing (lette-
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ralmente ‘dondolio’, ‘oscillazione’) s’intende la particolarissima dinamica della buona musica j.: quella certa capacità di trascinare con dolcezza, quella forza tranquilla ed elastica che ogni esecuzione, ogni ‘a solo’ devono possedere. Dopo il successo
di Goodman, per alcuni anni, non si parlerà più di j. ma di swing. Oltre a quella di
Goodman e a quella di Ellington, si affermano presto le grandi formazioni di Tommy
e di Jimmy Dorsey, di Jimmie Lunceford, di Chick Webb, di Artie Shaw, di Count
Basie. Vengono alla ribalta molte nuove cantanti, come Billie Holiday ed Ella
Fitzgerald; e nuovi cantanti, tra cui Jimmy Rushing, che rinnova i fasti del blues più
genuino nella versione urlata tipica di Kansas City. L’enorme popolarità guadagnata
dal j. ha, tuttavia, delle ripercussioni sulla qualità di gran parte della musica prodotta in questi anni, per il tentativo, col ricorso a effetti facili e arrangiamenti standardizzati, di renderlo accettabile al grosso pubblico. Questi aspetti negativi si accentuano negli anni della seconda guerra mondiale, che vedono i trionfi delle orchestre
di Harry James, di Lionel Hampton e soprattutto di Glenn Miller (che si esibisce su
vari fronti di guerra, prima di perdere la vita, nel dicembre del ’44, in un incidente
aereo). Con la fine del conflitto finisce l’«era dello swing» e inizia una nuova fase
della storia del j., quella del cosiddetto ‘j. moderno’, per la quale si rimanda qui alle
singole voci, corrispondenti alle altrettante forme assunte nel corso della seconda
metà degli anni Cinquanta: be-bop, cool j., free j., funk, fusion, hard bop, j. rock.
Jazz rock
Intorno al 1970, quando, almeno negli Stati Uniti, l’esperienza del → free jazz può
dirsi conclusa, cominciano a moltiplicarsi gli ibridi tra → jazz e → rock. Inizialmente percorsa da pochi musicisti bianchi, la strada del cosiddetto j.r. è intrapresa
anche dai neri dopo il successo ottenuto nel ’70 da Miles Davis, che, abbandonato il
suo stile lirico e ricercato, si fa portabandiera della nuova estetica adottando strumenti elettricamente amplificati, moltiplicando gli strumenti a percussione e gli
effetti acustici tipici del rock. Nel ’68 Davis incontra il virtuoso della chitarra Jimi
Hendrix e, ascoltandolo, comprende che questo strumento è destinato ad un ruolo
da protagonista anche nel jazz. D’altra parte, tutti gli strumenti cominciano a elettrificarsi. E non aumenta solo la potenza del suono del complesso, ma appaiono
nuove sonorità. Nel ’69 Miles Davis compie numerosi esperimenti e si avvicina ad
una svolta importante. Fa venire dall’Inghilterra un giovane chitarrista, John
McLaughlin, col quale registra In a silent way. Oramai, l’elettronica gli appartiene.
Limitando la scrittura a poche misure indicative e collegando la tromba ad un pedale wah-wah, Davis scatena vere e proprie orge elettroniche: vi si mescolano chitarra elettrica, basso, tastiere varie, percussioni dal mondo intero e il martellante
binario tipico del rock di Tony Williams. Dei numerosi musicisti che fanno parte
della sua orchestra, molti tenteranno di prolungare l’esperienza musicale del j.r.
per proprio conto. Così McLaughlin, che, fin dal ’71, riscuote un bel successo con la
sua Mahavishnu Orchestra. Con una sonorità incantatrice ereditata da Coltrane,
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anche lui mistico e affascinato dall’India, combina la raffinatezza metrica e modale
della musica orientale con l’efficacia ritmica e armonica del rhythm and blues. E
così anche il tastierista Chick Corea, che, dopo aver contribuito all’elettrificazione
del gruppo di Davis, costituisce i Return to Forever, con cui pratica prevalentemente → fusion. Su un percorso simile si muove il pianista Herbie Hancock, che forma
i Headhunters e propone con successo contaminazioni di pop e funky. E Wayne
Shorter, prestigioso collaboratore di Davis, che, insieme al pianista Joe Zawinul,
fonda un gruppo che farà storia nell’ambito del j.r. prima e poi della fusion: i Weather
Report.
Mambo
Danza cubana in ritmo veloce di 4/4, derivata dalla fusione di elementi del → jazz
con componenti desunti dalla → rumba. In origine è una danza folklorica dedicata
al dio cubano della guerra, Mambo appunto; assume, quindi, la struttura ritmica
attuale ad opera del compositore e direttore d’orchestra cubano Arsenio Rodriguez.
Adottata dalle orchestre jazz contribuisce alla loro evoluzione importandovi il suo
bagaglio strumentale, ricco di percussioni (maracas, caxambu, bongos ecc.). Viene
quindi lanciata a livello internazionale da direttori d’orchestra e compositori sudamericani come Perez Prado e Xavier Cugat, divenendo un ballo di sala molto in
voga negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento.
New wave
L’espressione n.w. non si riferisce ad un movimento, né indica un particolare stile
musicale. Definisce bensì quell’anomala esplosione di band, quella brillante confusione di musiche non facilmente classificabili verificatasi tra la seconda metà degli
anni Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento sull’impulso del → punk e della
sua logica, all’insegna del «tutti possono farlo». Non è, però, un modo del punk e
neanche una sua evoluzione. La n.w. è un rapido, esuberante rinascimento dalle
macerie della ‘generazione vuota’, che manifesta gli istinti creativi della generazione successiva, la sua sete di conoscenza e di rielaborazione del passato, la sua curiosità a confrontarsi con i nuovi linguaggi elettronici (concerti multimediali e videoclip nascono con la n.w.). Alcuni artisti riprendono i caratteri di urgenza e basilarità
del punk; ma altri li rinnegano, preferendo chi un approccio intellettuale, chi soluzioni estrose, chi atmosfere introspettive. Per tutti vale la regola di suonare prima
di saperlo fare. E sono migliaia i musicisti autodidatti che — negli Stati Uniti come
in Europa (in Italia i Gaznevada) — s’impegnano in azzardate, oltre che fantasiose,
contaminazioni. Oltreoceano il nuovo fervore creativo, marcatamente underground,
si manifesta soprattutto a New York, in Ohio e in California. In molti casi prende le
forme di un ritorno ad un rock grezzo, ruspante, che guarda alle esperienze passate
degli MC5, degli Stooges e dei Velvet Underground, ma tradotto da nuove sensibi-
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APPENDICE
lità. Ne sono un esempio il garage-surf dei Ramones, il beat dei Blondie, la
psichedelia dei Television, il rock and roll free del Patti Smith Group, l’elettronica
esasperata dei Suicide, il rock blues dei Heartbreakers, il pop nervoso e mutante
dei Talking Heads. A San Francisco i Residents e i Chrome rendono omaggio alla
tradizione rock citandola, ma anche ironizzandoci, decostruendola o sfregiandola
attraverso un uso anticonformistico dei rumori e delle nuove macchine elettroniche. Dall’Ohio arrivano gli esperimenti dei feroci e crudelissimi Electric Eels, dei
Pere Ubu, dei Devo. Un percorso particolare, con il rifiuto di ogni regola predefinita,
è quello della no wave predicata a New York dai Dna di Arto Lindsay e dai
Contortions di James Chance. In Gran Bretagna, sulle orme di punk pentiti come i
Public Image di John Lydon, Siouxsie and The Banshees, Slits, si snodano diversi
filoni, come quello del gothic (in Italia ribattezzato dark), figlio del progressive e
della psichedelia più tetra, nonché della poesia noir di David Bowie e di Lou Reed.
Un genere ora teso e ossessivo (Bauhaus, Sisters of Mercy, Joy Division), ora morbido e raffinato (Cocteau Twins, Modern English, Cure). L’elettronica esce dai laboratori sperimentali e penetra prendendo pieghe dadaiste e cupe con Cabaret Voltaire o
Clock Dva, melodiche con The The, easy pop con Soft Cell, Depeche Mode e Human
League. Resa più ricca e istintiva da Teardrop Explodes, Echo and The Bunnymen,
Sound, Wha!, torna in auge la psichedelia. Anche il decadentismo di derivazione Roxy
Music rifà capolino, ma con un gusto per la sintesi di stampo post-punk (Ultravox,
Magazine, Japan); un tono disimpegnato hanno, invece, gli Spandau Ballet e i Duran
Duran. L’elenco delle varie declinazioni n.w. è lunghissimo. C’è il rock epico degli U2
e dei Simple Minds; la musica industriale dei Throbbing Cristle; il tribalismo oscuro
dei Virgin Prunes; le litanie rarefatte ed eteree dei Durutti Column e dei Dead Can
Dance, che anticipano gli scenari dell’ambient e della new age.
Pop jazz
Genere in cui si mescolano elementi del pop → rock e stilemi del → jazz. Influenzato dal jazz è il rock progressivo inglese, anche se solo pochi musicisti possono rientrare a buon diritto nel p.j.: l’organista Brian Auger, gli If di Dick Morrissey, i Brand
X fondati da Phil Collins, i Camel del tastierista Pete Bardens, in parte i King Crimson. Ma è soprattutto la cosiddetta ‘Scuola di Canterbury’ a segnare il momento in
cui il rock inglese riesce a liberarsi dal retaggio, ormai ingombrante, del → folk e
del → blues per avvicinarsi alle dottrine più colte del jazz d’avanguardia. La leggenda di Canterbury ha i suoi eroi in Robert Wyatt, Kevin Ayers e David Allen. Insieme
a Mike Ratledge, i tre danno vita nel 1966 ai Soft Machine (che devono il nome al
titolo di un romanzo di William Burroughs). Più che il pubblico inglese, ancora
ubriaco di beat, i loro primi concerti impressionano quello francese; a tal punto da
indurre i patafisici (rappresentanti del movimento d’avanguardia ispirato all’opera
antiborghese di Alfred Jarry, autore di Ubu roi ) a insignirli dell’ordine ubuesco
della Grande Gidouille. Personalità carismatica del gruppo — che, persi Ayers e
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Allen, nel ’69 acquista Hugh Hopper — è Robert Wyatt, compositore e arrangiatore, oltre che geniale batterista e cantante. Wyatt lascia il gruppo nel ’71, dopo l’uscita di un album difficile (Third), e fonda i Matching Mole. Dal ’74, dopo un incidente
che lo lascia invalido, prosegue la sua attività in altre formazioni come cantante e
tastierista. Altri rappresentanti del p.j., tutti riconducibili alla Scuola di Canterbury,
sono i Nucleus di Ian Carr; i Gong, fondati da David Allen, dopo l’uscita dai Soft
Machine, e dalla sua compagna, la cantante Gilli Smith; i Caravan di Dave Sinclair
e Pye Hastings; i Whole World di Kevin Ayers, con David Bedford alle tastiere,
Mike Oldfield alla chitarra e Lol Coxhill al sassofono. In Italia una certa contaminazione tra pop e jazz si verifica a partire dagli ultimi anni Sessanta e oltre con New
Trolls, Orme, Premiata Forneria Marconi, Banco del Mutuo Soccorso, Area.
Pop music
Con l’espressione popular music si indica nei Paesi anglosassoni una molteplice ed
eterogenea produzione musicale; ‘popolare’ nel senso di consumata a livello di massa
e perciò distinta sia dalla musica autenticamente popolare, legata cioè alle tradizioni orali e alle comunità pre-industriali (per definire la quale gli inglesi utilizzano il
termine folk), sia dalla musica colta. La locuzione inglese ‘popular music’ è da considerarsi, pertanto, il corrispettivo di quella italiana ‘musica leggera’. Nondimeno,
l’espressione pop music — o, più semplicemente, pop — entra nell’uso comune internazionale a partire dagli anni Sessanta del Novecento per indicare un preciso
ambito musicale, quello derivato dal → rock and roll storico degli anni Cinquanta;
perciò il beat inglese, il rock e tutte le sue successive emanazioni (acid rock, blues
rock, folk rock, free rock, hard rock, jazz rock, progressive rock, punk rock ecc.).
L’espressione p.m. diventa, pertanto, sinonimo di una musica creata e fruita esclusivamente dai giovani, in rotta con gli schemi formali della canzone tradizionale,
essenzialmente melodica, cui viene contrapposto il momento ritmico e sonoro; e
anche sinonimo di ‘musica del dissenso’, per l’utopia che inizialmente l’anima e che
vede nel rock un movimento non assimilabile dal sistema costituito e in grado di
organizzarsi secondo forme e regole alternative a quelle dello show business. Col
tempo tali accezioni perderanno, in parte, questi significati. In primo luogo perché
non si smette di ascoltare — o di fare — p.m. solo perché non si è più giovani dal
punto di vista anagrafico; in secondo luogo perché, sconfitta quell’utopia, anche il
termine ‘pop’ assume il significato negativo di musica commerciale, facile, disimpegnata, in contrapposizione a forme e modi di fare musica sempre nuovi che vanno a collocarsi su un versante più sperimentale.
Psichedelia
Verso la metà degli anni Sessanta del Novecento, negli Stati Uniti, con epicentro
nella città di San Francisco, ma anche nell’ambito dell’underground newyorchese,
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si crea un filo diretto tra il → rock and roll e la cultura delle droghe psichedeliche
(→ acid rock). L’uso di sostanze dotate di poteri allucinogeni è diffuso presso popolazioni primitive in molte parti del pianeta prima d’essere riscoperto dagli ‘artisti’
per espandere la coscienza, stimolando fantasia e creatività. Il termine stesso rimanda, nell’etimologia, allo svelarsi dell’anima; o meglio, di quella parte segreta
della psiche che è l’inconscio. Quella ‘psichedelica’ è, pertanto, musica visionaria e
sensoriale, mirante a suscitare visioni e sensazioni più che idee. Di qui la particolare cura nella spettacolarizzazione delle esibizioni; fino ai light show, che ne diventano il marchio di fabbrica. Esistono varie versioni di p., oltre a quelle dell’underground newyorchese e dell’acid rock californiano. È, anzi, a partire da queste che
nascono una miriade di imitatori, molti dei quali finiscono per svalutare anche il
senso dell’originale. A qualsiasi complessino bastano un po’ di fari colorati ed una
luce stroboscopica per autoproclamarsi ‘psichedelici’ e acquistare quel fascino trasgressivo che la musica, da sola, non garantirebbe. In Europa forse gli unici capaci
di riprendere l’esperienza dei light show e di svilupparla, anche musicalmente, in
forme autonome sono gli inglesi Pink Floyd. Formatisi negli ambienti underground
londinesi che gravitano intorno alle riviste «International Times» e «Oz» e a locali
di tendenza come Marquee e Roundhouse, i Pink Floyd, con il loro leader Sid Barret
(e dopo l’abbandono di questi, con David Gilmour), concentrano il loro interesse
sugli aspetti elettronici della musica e sull’impatto sensoriale che questi finiscono
per avere sull’ascoltatore. I loro album — sia il primo, The piper at the gates of
dawn (1967), sia i più noti Ummmagumma , Atom heart mother, The dark side of
the Moon, The Wall — sono caratterizzati dal tentativo di costruire sequenze sonore su lunghi, ostinati armonici forniti da sintetizzatori, da chitarre, da cori o da una
vera orchestra, sequenze in cui l’elemento ritmico perde gradatamente importanza
a favore di suggestioni timbriche insolite e ricercate, ovvero di ciò che essi stessi
chiamano «suono dipinto». La ricerca di atmosfere e mondi sonori capaci di suscitare meraviglia e sgomento, sconfinanti nell’incubo e nella fantascienza (strida di
uccelli, rumori industriali, luci accecanti…) suggeriscono per la loro musica l’etichetta di «musica cosmica». Ed è soprattutto nei concerti che le capacità visionarie
dei Pink Floyd hanno modo di dispiegarsi completamente. Sul palco, infatti, il gruppo
è immerso in un vero e proprio spettacolo luminoso: la musica è il perno attorno al
quale ruotano fasci di luce cromaticamente assortiti, anelli di fuoco, fumi colorati e
quant’altro di volta in volta le rinnovate risorse tecnologiche mettano a disposizione. Il loro stile onirico, di cui The dark side of the Moon è emblema, influenza vari
gruppi, soprattutto tedeschi (Amon Düül II, Tangerine Dream, Klaus Schulze).
Punk
Il termine è in uso negli Stati Uniti, nello slang del mondo carcerario e della malavita, fin dagli anni Trenta del Novecento col significato di ‘gangster di mezza tacca’,
‘balordo senza avvenire’, cui si aggiungono nel tempo quelli di ‘alcolizzato’, ‘droga-
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to’, ‘teppista’, ‘emarginato’. Il suo accostamento a certa → pop music è attribuito
invece a Frank Zappa e a due giornalisti di pop-magazines, Lester Bangs e Lenny
Kay, i quali l’utilizzano attorno al 1965 per indicare lo stile particolarmente primitivo e violento che si va imponendo in alcuni gruppi marginali americani. Si tratta
di band di teenager che hanno iniziato a suonare per il gusto di farlo, senza la pretesa di creare un movimento o una scuola. Ed è soprattutto quest’approccio che li
contraddistingue dagli psichedelici ‘colti’, che, negli stessi anni, rappresentano la
tendenza dominante: Jefferson Airplane, Grateful Dead, Velvet Underground,
Doors. Tali gruppi — definiti proto-punk o garage band, perché suonano nei garage
— fanno la loro comparsa quasi contemporaneamente in tre città degli Stati Uniti:
Los Angeles, Detroit, New York. A Los Angeles un imprescindibile punto di riferimento sono i Doors di Jim Morrison e i Seeds di Sky Saxon. A loro, e in particolare
ai contenuti ‘esistenziali’ delle loro canzoni, s’ispirano queste prime formazioni, tra
le quali spiccano i Modern Lovers, guidati da Jonathan Richman. Ma è soprattutto
New York la culla del p. e Lou Reed, con i Velvet, il suo profeta. Si può anzi affermare che la civiltà p. degli anni Settanta nasca proprio sulle macerie dell’underground
newyorchese. Gli anni Settanta sono, in un certo senso, l’esatto opposto degli anni
Sessanta: al boom economico ha fatto seguito una grave crisi ed un bieco materialismo ha preso il posto dell’idealismo; mediocrità, uniformità, qualunquismo si diffondono laddove venivano esaltati il genio, l’eccentricità, la diversità. Per i teenager,
disillusi dalle utopie, spersonalizzati dal riflusso, sono anni davvero bui. I più radicali tra loro approdano ad una filosofia esistenziale del tutto nihilista, che rinnega
qualsiasi valore morale ed entusiasmo per la vita. È su questo sfondo sociale che
nasce il fenomeno p., la forma di dissenso più importante del decennio. Dissenso
che si manifesta anzitutto nel modo di vestire (piercing, trucco pesante, capelli rasati, divise militari, magliette oltraggiose, stivali), antitetico al look floreale e
neoliberty dei ‘figli dei fiori’. Anche il linguaggio si fa rozzo e anti-patetico, al limite
della bestemmia continuata. Anarcoidi e asociali, i p. sembrano godere masochisticamente della crisi economica, sociale e morale. I loro luoghi di elezione sono i
bassifondi, i loro idoli i decadenti (Lou Reed, Iggy Pop, Jim Morrison). L’universo
sonoro della musica giovanile ne risulta ridisegnato: nel giro di pochi anni, vengono spazzati via tutti i sottogeneri del rock per far posto ai nuovi. Punto di riferimento della nuova cultura musicale sono, a New York, i club Max’s Kansas City e Cbgb’s.
È in quest’ultimo che avvengono cose determinanti: la scena è nelle mani di un
manipolo di poeti-musicisti ‘maledetti’ (Richard Hell, Patti Smith, Tom Verlaine e
altri), vagamente attratti dai simbolisti francesi. E, nel ’74, vi esordiscono i Ramones.
La loro musica grezza, potente e veloce, elementare sotto il profilo compositivo ed
esecutivo, naif e qualunquista, verrà etichettata hardcore o anche trash nelle successive emanazioni. Saranno i Ramones ad aprire la strada al p. inglese: la loro
prima tournée europea esporta praticamente il cliché. Rispetto al p. d’oltreoceano,
fenomeno élitario e sotterraneo, quello inglese penetra capillarmente nella società
giovanile, in primis nel sottoproletariato dei centri urbani. Più politicizzato, si con-
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nota anzitutto come reazione al crescente mercantilismo musicale, quindi come
rifiuto dell’ideologia borghese e delle regole che disciplinano il vivere sociale. Netta
è anche la presa di distanza nei confronti del movimento hippie, perché perfettamente integrato alla società borghese e ai suoi modi di espressione e di produzione.
Come quello statunitense, rivendica il diritto all’autogestione e allo spontaneismo,
giungendo al rifiuto di qualsiasi conoscenza tecnico-musicale. È per sottolineare
questa spontaneità, ma anche la prossimità alle bande di teppisti, che le formazioni
del p. rock inglese, tutte rigorosamente composte da giovanissimi, spesso al disotto
dei quindici anni, si definiscono band , come le formazioni → jazz. La loro voce
sono le fanzines (contrazione di fans-magazines), piccole riviste tirate perlopiù al
ciclostile: negli anni d’oro del p. ne escono anche più di cinquanta al mese. Oltre
che per l’ideologia che le sottende — spezzare i monopoli grandi e piccoli dell’informazione, liberare la fantasia e l’irriverenza, esaltare lo sberleffo e la trasgressione,
confondere le abitudini al conformismo — sono interessanti per l’aspetto grafico,
l’esatto contrario del leziosismo psichedelico della controcultura e del pop: dure e
scorrette, non disdegnano l’errore di stampa, il salto di riga, la pessima inchiostratura
su carta ancora più vile; quasi uno sberleffo marinettiano al ‘bel disposto’ di
Gutenberg. Punto di riferimento obbligato della scena p. londinese, precursori della → new wave, sono i Sex Pistols. Istigati da Malcom McLaren, proprietario della
boutique Sex in Kings Road, dove solitamente si ritrovano, nel ’75 decidono che si
può reagire alla mortale apatia e alla noia che ammutolisce i loro coetanei. Battistrada di una rivoluzione che sta per sconvolgere la mortifera quiete del Regno
Unito, cominciano col rifiutare il professionalismo musicale tanto caro alla vecchia
scena e fanno chiaramente intendere che il rock è solo un pretesto. E se la musica
non è a buon livello, acusticamente imperfetta e sgradevole, mal temperata nel
sound, in compenso le parole vanno lontano. Sono slogan che, per la prima volta
nella storia del pop, colpiscono direttamente e intenzionalmente lo Stato, la regina,
il governo, l’establishment. Tutto viene rimesso in discussione; s’inventa persino
un nuovo ballo, il pogo: saltare a piedi uniti il più in alto possibile, cercando di far
perdere l’equilibrio ai vicini. I Pistols, insomma, incitano a giocare col fuoco e i
teenager raccolgono l’invito. Contro il dominio della merce, sempre più cara, e a
ridosso del desiderio di festa, scavano la trincea dei desideri illimitati, tagliano le
catene che intrappolano la vita quotidiana alle ideologie della sopravvivenza. Non
occorrono molte repliche prima che i nuovi barbari, abbigliati con indumenti di
plastica, svastiche e spille di sicurezza sugli abiti stracciati, catene e camicie sporche di vernice, vengano banditi da ogni sala da concerti e da ogni teatro. Il loro
primo 45 giri, Anarchy in the UK, è interdetto da tutte le reti radiofoniche, la Emi si
rifiuta di distribuirlo e le tournèe vengono proibite. Unisce gli avversari della punkculture soprattutto che il movimento abbia eretto la violenza a stile di vita e che
voglia a tutti i costi stabilire delle analogie tra il credo di sinistra e di destra, denunciare la politica come una miserabile ideologia, insultare tutti i regimi in nome
del nihilismo. Ma il fenomeno è inarrestabile e, nel giro di pochi mesi, si contano a
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centinaia complessi analoghi, tutti rabbiosi e incompetenti (Damned, Generation
X, Buzzcoks, Radiators, Siouxsie and The Banshees, Boys, Xray Spexs, Ants,
Vibrators, Chelsea, Adverts, Slaughter & Dogs, London SS, Subway Sect, Eater ecc.).
Più importanti i gruppi politici, capitanati dai Clash, dagli Exploited e, in Irlanda,
dagli Stiff Little Fingers. Ancora più a sinistra i gruppi anarchici, vere e proprie
agit-prop band, come i Crass. Gli happening si svolgono, a rischio e pericolo dei
partecipanti, nei tanti club che si diffondono a macchia d’olio. Il primo e più celebre ritrovo p. londinese è il Roxy, aperto nel dicembre del ’76. Accanto ai locali,
fioriscono negozi di abbigliamento p. Il più famoso a Londra è il Seditionaries, l’ex
Sex di Malcom McLaren, il manager dei Sex Pistols, ora affiancato da Viviene
Westwood (poi stilista di fama internazionale). Nascono anche nuove etichette p.,
come Stiff, Step Forward, Illegals Records. Si riscopre il 45 giri e l’uso del bianco e
nero per le copertine dei dischi, in linea con la rivisitazione degli anni Cinquanta in
atto a vari livelli.
Ragtime
Musica popolare d’ispirazione nera, pianistica, diffusasi negli Stati Uniti a partire
dalla fine dell’Ottocento. Originario del Midwest, dove viene eseguito nei saloon da
pianisti itineranti, si cristallizza successivamente come stile. È caratterizzato da un
ritmo costante di marcia, svolto dalla mano sinistra, e da una serie di figure sincopate
cui presiede la mano destra. In quanto prima espressione strumentale della musica
afroamericana, il r. costituisce un fondamentale anello di congiunzione tra il →
blues e il → jazz. È l’editoria organizzata di Tin Pan Alley, a partire dal 1896, a
diffondere nelle città dell’Est il pianismo da saloon sotto l’etichetta di r. e a venderlo in forma di nastri per pianola. Contemporaneamente, il genere si trapianta nei
→ minstrel show ed entra a far parte della cultura dei neri inurbati. Le scuole principali sono quelle di Sedalia e di Saint Louis, dove opera Scott Joplin, il più importante compositore-esecutore di r. Nel 1903 Joplin compone A guest of honor e nel
1911 Tremonisha, opera nella quale si mescolano r., black → folk music e → operetta europea. Nato come musica scritta, solistica e pianistica, gradualmente il r. viene suonato da piccole orchestre, da band e, infine, da gruppi jazz.
Rap
È l’arte del parlare in rima su una base ritmica, nata intorno agli anni Ottanta del
Novecento per le strade dei ghetti neri nelle metropoli nordamericane. Suoi progenitori sono i dj, più precisamente gli spinners delle discoteche, che da sempre
‘parlano’ sulla musica, a volte pronunciando anche solo semplici onomatopee per
esortare la folla a ballare. Lo stile si specializza con i dj delle discoteche nere del
Bronx: Clive ‘Herculels’ Campbell, Afrika Bambaataa e Grandmaster Flash ne possono essere considerati gli innovatori; in gara tra loro, i tre sperimentano tecniche
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artigianali di missaggio, come quella consistente nell’isolare e poi ripetere all’infinito ciascun break (il punto, cioè, in cui la sezione ritmica riduce la cadenza all’essenziale) di un brano, in genere → funk, o nel crearne un collage mescolando a
velocità vertiginose i frammenti sonori tratti dai dischi più disparati, o quella di
ripetere frasi e cadenze da un disco facendolo ruotare velocemente all’indietro con
la mano (back-spinning). A poco a poco i missaggi si complicano, fino a comprendere versi ritmici e poi vere e proprie liriche. Nascono così sia lo stile di canto r., sia
la break-dance. I primi dischi r. sono quelli di Kurtis Blow (Christmas rapping,
1979) e del trio Sugarhill Gang (Rappers delight , 1980). Quest’ultimo è un prodotto della Sugarhill Records, l’etichetta dove approdano tutti i primi rappers, prima
dell’avvento della Tommy Boy di Tom Silverman, della Def Jam e delle reti di etichette r. comparse tra anni Ottanta e Novanta. Accanto ai r. gioiosi e spensierati dei
gruppi emergenti (Crash Crew, Fearless Four, Spoonie Gee), fin dal 1980 si manifesta un r. militante e politicamente impegnato (Captain Rapp, The Rake). Dal punto
di vista politico-sociale, del resto, il decennio in questione si apre in maniera particolarmente drammatica per gli afroamericani. L’amministrazione Reagan taglia
ogni tipo di sussidio alle classi meno agiate e la vita s’inasprisce; alla povertà e al
degrado si assomma, poi, l’arrivo del crak: i ghetti neri diventano teatro di guerre
tra bande per il controllo del mercato della droga. Questa realtà si riflette sul r., nel
senso che ne ‘radicalizza’ i contenuti. Almeno nelle sue espressioni più estremiste,
infatti, il genere vuol essere una rappresentazione della realtà, anche quella più
dura e violenta. Attraverso la musica, mezzo potente, capace di dare risonanza al
disagio e all’alienazione, il rapper parla del proprio mondo, racconta storie vissute
tutti i giorni, esprime la rabbia provocata dal degrado. Il segnale in questa direzione lo lancia, nell’82, The message, firmato da Grandmaster Flash & The Furious
Five, canzone di rottura sia nei contenuti — un paesaggio urbano infernale, fatto di
scarafaggi in cucina e tossicodipendenti nei giardini pubblici — sia nella musica: lo
storico pezzo si appropria, infatti, dell’estetica fredda e tecnologica dei tedeschi
Kraftwerk, rinunciando di proposito al funk degli inizi. In effetti, in questo periodo,
l’elettronica rivoluziona prepotentemente il mondo della musica e, di conseguenza, le sonorità r. Space cowboy, dei Jonzun Crew, assemblaggio ardito di r. elaborato al vocoder (dispositivo che altera la voce umana rendendola metallica come
quella di un robot), e Planet Rock di Africa Bambaataa, ispirato a sua volta da Trans
Europe Express dei tecnoidi Kraftwerk, sono un esempio della tendenza ‘cosmica’
che invade anche il r. e che condurrà all’elettronica a oltranza e alle tecniche moderne di registrazione (campionamenti, programmazione ecc.). La nuova era, meno
r. e più → hip-hop (vicina, cioè, alla cultura di strada), è annunciata dai Run Dmc,
che inventano la → fusion di heavy metal e dance music destinata a diventare lo
standard dei tardi anni Ottanta. Intanto fanno il loro passaggio nel r. musicisti
appartenenti ad altri universi; è il caso di Stevie Wonder con The crown (1983) e di
Herbie Hancock con Rock it. Prodotto da Bill Laswell, quest’ultimo rappresenta
una sorta di consacrazione ufficiale del r. da parte del jazz; l’alleanza rap-jazz verrà
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rinsaldata pochi anni dopo dalla collaborazione fra Gang Starr e Brandford Marsalis.
Nell’85 nasce l’etichetta Def Jam, che — fondata da un bianco, Rick Rubin (fan di
hard rock e membro occasionale di un gruppo di giovani punk, i Beasty Boys), e da
un manager nero, Russel Simmons — fin dagli esordi segna le tendenze dell’hiphop. Pochi mesi dopo Rubin e Simmons firmano un contratto con il colosso Sony,
assicurando così alla nuova etichetta un’espansione mondiale. Il primo maxi singolo lancia LL Cool J (Ladies love Cool James), che, sedicenne, s’impone come sex
symbol. L’anno successivo è la volta dei bianchi Beastie Boys, gruppo punk
riconvertito al r. Nei loro concerti, gremiti e tumultuosi, sempre sull’orlo della rissa, gli accessori scenici sono un sesso erettile e gonfiabile alto quattro metri e
spogliarelliste in gabbia. Il loro messaggio viene portato alle estreme conseguenze
dai Public Enemy, capitanati dal duo Chuck-D e Flavor Flav, frangia militante
dell’hip-hop. Inventori di un vero e proprio muro del suono, i Public sono in grado
di servirsi di tutte le potenzialità delle nuove tecnologie: le macchine (samplers,
sequencers ecc.) costituiscono la spina dorsale di un sound nuovo e compatto, una
sorta di mix globale che macina tutte le tendenze (funk, soul, rock). I testi, poi, oltre
ad aggredire le icone della cultura bianca, mostrano chiara adesione alle istanze del
Black Power. Loro omologhi gli Ice-T e Nwa, provenienti dai ghetti di Los Angeles,
coi quali nasce il gangsta rap, rigurgitante storie di violenza, di armi, di crack. Ora
il r. è usato anche per insultarsi tra bande rivali. Negli anni Novanta il gangsta r.
californiano trionfa sul r. newyorchese con nomi come Dr. Dre, Snoop Doggy Dogg,
Coolio, mentre crescono le polemiche e le prese di posizione di quanti invocano la
censura e chiedono che i dischi dei gangsta rappers, reputati sessisti e immorali,
vengano proibiti, deplorandone la deriva violenta. Tra le band si leva la voce dei
Lifers Group, collettivo formato da ergastolani o condannati a pene pesanti che
registrano i loro lp in uno studio improvvisato nel cuore della prigione di Rahway,
nel New Jersey: ad una gioventù tormentata e affascinata dalla violenza dicono che
no, non è questa la soluzione. Nel ’92 Ice-T viene criticato da George Bush in persona per aver avuto l’audacia di cantare Cop killer (ammazza il poliziotto): la levata di
scudi che ne segue l’induce ad autocensurarsi e a escludere la canzone incriminata
dall’lp. Mentre il r. californiano cresce in potenza, nel ’94 New York riafferma la
propria supremazia grazie a Wu-Tang Clan, una posse — che in slang giamaicano
significa ‘gruppo’ — di nove rapper di State Island, ispirata all’iconografia del kung
fu. Dopo il trionfo del disco collettivo i vari componenti (Method Man, Ol’Dirty
Bastard, Reakwon, The Chef, Genius) incidono in proprio e s’impongono sul mercato. Continuano, intanto, i contatti con musicisti ‘seri’ come Quincy Jones, Steve
Coleman, Brandford Marsalis. Inafferrabile e multiforme, il r. continua a suddividersi in generi e a evolversi. Si traveste e sa diventare pop, jazzy, funky, hardcore,
porno, religioso, surrealista, barocco, tragico o grottesco. Dopo una lunga quarantena, la cultura r. è ormai parte della cultura statunitense. Insieme alla techno,
corrente bianca ed europea, emerge come maggior fenomeno musicale degli ultimi
due decenni del Novecento, testimone del declino dei divi del rock. I rapper, porta-
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voce dell’era elettronica, rappresentano, infatti, l’abbandono del concetto romantico del musicista come genio artistico ed un ritorno al mito — afroamericano — di
arte collettiva, espressione della comunità. In Italia il fenomeno r. — ma, più in
generale, la cultura hip-hop — esplode intorno al ’90 e trova la sua sede naturale
nei centri sociali, luoghi di aggregazione giovanile che, nel corso del decennio precedente, hanno avuto grande espansione. Non a caso, molte formazioni musicali
rimandano, già nel nome, al legame con i centri: 99 Posse, Isola Posse, Lion Horse
Posse… Altri canali che ne favoriscono l’affermazione sono le radio indipendenti,
nate sul finire degli anni Settanta e legate all’area della sinistra extraparlamentare,
come la romana Onda Rossa o le fiorentine Controradio e Novaradio, impegnate a
sensibilizzare gli ascoltatori su problemi sociali e politici. Il r. nostrano, di conseguenza, mostra una forte consapevolezza politica, espressa ancora una volta dai
nomi scelti dai gruppi, legati ora alla volontà di rappresentare minoranze emarginate
o lontane dal conformismo di massa (Mau Mau, ‘i diversi, gli emarginati’;
Almamegretta, ‘anima migrante’; Sangue Misto, in allusione alla multietnicità),
ora all’esigenza di libertà di espressione (Articolo 31, quello che, nella Costituzione irlandese, garantisce la libertà di pensiero), ora alla scelta di porsi all’opposizione (Assalti Frontali, Nuovi Briganti, Filo da Torcere, Banda Bassotti, Bomba
Bomba, Le Menti Criminali, Devastatin Posse…). In questo clima diventa essenziale l’uso di un linguaggio che rispecchi esattamente la realtà rappresentata. La
scelta di cantare in italiano — o meglio, nei mille italiani parlati nella Penisola —
indica la precisa volontà, da un lato, di non riprodurre passivamente il r. d’oltreoceano e, dall’altro, di ribadire il legame con le storie raccontate, che, per essere
rappresentate in modo vero, hanno bisogno della lingua nella quale vengono vissute. Questo spiega anche la grande varietà di ritmi, alcuni dei quali legati a
sonorità etniche e mediterranee.
Re-bop
→ Be-bop.
Reggae
Genere musicale sviluppatosi in Giamaica verso il 1950 dalla fusione di elementi di
varia provenienza: → rhythm and blues di New Orleans, musica africana e di isole
caraibiche non spagnole. Nato come forma spontanea di espressione del proletariato nero e mulatto, negli anni Sessanta viene scoperto dall’industria discografica;
di qui una serie di incisioni di musicisti locali, che contribuiscono a consolidare
uno stile (ska) caratterizzato da ritmi sincopati assai accentuati e dall’impiego di
strumenti a fiato come base ritmica, favorendo la diffusione del r. fuori dalla
Giamaica. In Gran Bretagna, specialmente, dove sono presenti numerosi immigrati giamaicani. Verso la metà degli anni Sessanta il r., o meglio lo ska, a contatto con
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la → pop music, subisce diverse modificazioni stilistiche, determinate anche dalla
sostituzione dei fiati con chitarre e organi elettrici. Contemporaneamente cambiano i testi, che si aprono ai temi della protesta sociale e politica. Fra gli iniziatori del
nuovo stile, detto anche rock steady, si ricordano i giamaicani Derrick Morgan,
Alton Ellis, Bob Marley, Peter Tosh. Col r. si misurano anche diverse star del →
rock and roll, tra cui Rolling Stones ed Eric Clapton.
Rhythm and blues
Forma di → blues urbano basata sulla caratteristica progressione armonica in
dodici battute di questo, ma irrobustita da una forte scansione ritmica affidata
alla batteria e dall’impiego di chitarre elettriche, pianoforte e, spesso, sassofoni e
ottoni; il tutto su testi molto espliciti e diretti, cantati con vocalità aspra e graffiante. Suoi precedenti si possono considerare il jump-blues, forma ballabile del
blues in voga negli anni Quaranta del Novecento, ed un certo tipo di swing, soprattutto il → boogie-woogie orchestrale. Suo discendente è, invece, il → rock
and roll bianco. Nel secondo dopoguerra il r&b è la musica più ascoltata dai neri
americani — in particolare nelle grandi città a forte concentrazione di gente di
colore, come Chicago e Detroit — e si distingue per la fruizione disimpegnata,
che, viceversa, il → jazz va sempre più negando con il → be-bop. Ma nonostante il
carattere esplicitamente leggero e di evasione, trattandosi di una musica destinata al ballo, alla nascita è ancora confinato nel ghetto della race music, la musica
leggera fatta dai neri per i neri, alla quale difficilmente il pubblico giovanile bianco si accosterebbe. È merito di alcuni conduttori radiofonici di programmi musicali a diffusione locale, come Alan Freed o Bob Smith, che trasmettono il repertorio nero di r&b, se il genere inizia a essere seguito e apprezzato anche dai bianchi;
dai giovani, in particolare. Per lunghi anni — da quando, nel ’49, la rivista statunitense «Billboard» decide di etichettare la propria classifica di vendite discografiche di musica nera con l’espressione rhythm and blues — si fanno rientrare
nel genere personaggi molto diversi tra loro: dagli shouters (cantanti urlatori) di
Kansas City, come Joe Turner e Jimmy Rushing, a esponenti dello shuffle (un
ibrido di r&b e jazz) di Chicago, come Louis Jordan, o la cantante Dinah Washington; dai più sofisticati jump bluesmen di Los Angeles, come Johnny Otis ed Etta
James, a quartetti gospel, come i Soul Stirrers del giovane Sam Cooke, ai gruppi
vocali del cosiddetto doo-wop (ibrido di r&b e gospel), come i Drifters guidati da
Ben E. King. Con l’avvento del rock and roll anche artisti di pelle bianca si volgono al r&b, sconfinando talvolta nella → pop music. La difficoltà a catalogare il
continuo interscambio tra i generi induce «Billboard» a cancellare, nel ’63, la
classifica dedicata al solo r&b. L’influenza del genere nella produzione musicale
internazionale continua a essere però fortissima, tanto che se ne può riscontrare
la presenza nei lavori di artisti alquanto diversi tra loro, come The Animals, Little
Feat, The Temptations; o, in epoca più recente, nei Los Lobos. Anche in Italia un
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musicista come Zucchero costruisce buona parte del proprio, clamoroso successo
sugli schemi del vecchio r&b.
Rock
Il termine r. rimpiazza la locuzione → rock and roll nel momento in cui prende
avvio un processo di maturazione linguistica di ques’ultimo, compresa la sua progressiva emancipazione dalla finalità del ballo. Tale processo si attua, all’inizio anni
Sessanta del Novecento, lontano dagli Stati Uniti: precisamente in Gran Bretagna,
con il beat (Beatles, Rolling Stones ecc.). La tappa successiva, intorno al ’64, è la
‘British invasion’, ossia l’esportazione del beat negli Stati Uniti e negli altri Paesi
europei. È a partire da questo momento che s’incomincia a parlare di r. Parallelamente, si avvia — o continua — quel processo di contaminazione con altre forme
musicali che porterà il r. a ramificarsi in una molteplicità di generi e sottogeneri.
Nato come musica generazionale — fatta da e per i giovani — e ‘di rottura’, iconoclasta, in forte antagonismo con l’altra popular music e, più in generale, con il sistema costituito, nel tempo il r., anche per il mutare delle condizioni storiche, cessa di
rappresentare un fenomeno di controcultura per diventare una musica di consumo
al pari di altre, imbrigliata nelle maglie dell’industria discografica. E se pure è vero
che periodicamente affiora un nuovo fenomeno musicale, che, consapevolmente o
meno, rappresenta una rottura rispetto all’ordine precedente (si pensi al → punk o
al → rap), c’è sempre un’industria discografica in agguato, pronta a impadronirsene
e ‘annacquarlo’ per andare incontro ai gusti dei consumatori.
Rock and roll
Alle origini del genere ci sono il → jazz — in particolare il → boogie-woogie di Cab
Calloway —, il → blues urbano elettrico, o → rhythm and blues, e il → gospel. Fin
dagli anni Quaranta del Novecento i suonatori di blues ritmico incrementano i loro
redditi unendosi, nei fine settimana, alle orchestre che fanno ballare le coppiette.
Uno di questi balli si chiama rock and roll (alla lettera: ‘scuotiti e rotola’; ma il
verbo ‘to rock’ allude, nei blues, all’atto sessuale). Certi cantanti — soprannominati
shouters, o screamers — cominciano a scandire i tempi urlando, spesso con il supporto del sassofono; la loro tecnica proviene da quella dei predicatori (→ rocking
and reeling). Spesso questa musica nuova viene registrata in studi di fortuna a New
Orleans, Memphis, Saint Louis e Chicago, sull’antica via della migrazione verso il
Nord. Le radio nere del Sud sono le prime a diffonderla, anticipando perfino metropoli come New York e Los Angeles. Fioriscono le etichette artigianali (Vee Jay,
Stax, King) e le loro star: Howlin’ Wolf, Muddy Waters e Sonny Boy Williamson,
bluesmen sperimentati, che ‘drogano’ il loro vecchio linguaggio col cavo elettrico.
Più a Sud è il regno del piano; Dave Bartholomew e ‘Fats’ Domino suonano una
musica che è r’n’r già alla fine degli anni Quaranta. Quando nel ’54 Sam Phillis,
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titolare dell’etichetta Sun Records di Memphis, lancia il bianco Elvis Presley, che
verrà incoronato «re del rock’n’roll», il genere esiste da tempo ed è musica nera.
«Datemi un bianco che canti come un nero e io ci faccio un milione di dollari»
aveva detto Phillis, intuendo che per ‘sfondare’ presso il pubblico bianco era necessario edulcorare la musica nera, il rhythm and blues, smussarne le asperità e ancor
meglio ibridarla con un tocco di → country. Il più del lavoro, in realtà, l’ha già fatto
Alan Freed, dj presso un’emittente radiofonica di Cleveland, nell’Ohio; la sua trasmissione Moondog’s rock’n’roll party, dal ’51, è interamente dedicata a far conoscere il repertorio nero di rhythm and blues. Passato nel ’54 ad una stazione
newyorchese, Freed si batte affinché vengano trasmesse le versioni originali della
musica nera e non le covers interpretate dai bianchi. Promuove, infine, una serie di
concerti in cui si alternano sul palcoscenico musicisti di rhythm and blues e di r’n’r.
Uno di questi è Bill Haley, che, nell’aprile del ’54, incide Rock around the clock,
primo grande successo della storia del r., destinato ad aprire le porte degli studi
discografici e delle stazioni radio e televisive a tantissimi cantanti e gruppi. I primi
a usufruire dell’esempio di Haley e del momento favorevole sono altri cantanti bianchi provenienti dall’esperienza country, più precisamente dalla corrente hillbilly.
Alcuni iniziano a innervare la propria produzione con alcuni tratti presi dal rhythm
and blues, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto ritmico (a partire dal ’56 fa la
sua comparsa la batteria, in precedenza bandita in quanto elemento ‘nero’), finendo per dar vita alla tendenza rockabilly. Tra questi vi è Elvis Presley, che, nato in
Mississippi, familiarizza fin da piccolo con i grandi nomi del blues, col gospel e il
rhythm and blues. Sam Phillis gli fa incidere un popolare tema rhythm and blues di
Arthur ‘Big Boy’ Crudup, That’s all right Mama, ed è subito successo strepitoso.
Significativo l’abbinamento, sull’altra facciata del 45 giri, di Blue moon of Kentucky,
un classico del country. È questo sincretismo tra una musica nera ed una bianca a
fare la fortuna di Elvis; ma è anche e soprattutto il suo modo di muoversi e interpretare fisicamente i brani — frenetico movimento delle gambe, esplicito
ondeggiamento del bacino — a farne un simbolo di trasgressione e rinnovamento.
In seguito Presley, passato alla Rca, diventerà un protagonista dello star-system e
il suo repertorio comprenderà brani che costituiscono vere e proprie negazioni del
r. Sulla scena r., intanto, si sono affacciati altri cantanti: oltre a Bill Haley e ai suoi
Comets, c’è Jerry Lee Lewis. Anch’egli proviene dal country; ma, nato in Louisiana,
ha consuetudine con il blues e lo spiritual. Ciò che da subito lo differenzia è che non
imbraccia una chitarra, vero simbolo del r., ma suona il pianoforte, la cui immagine è legata al jazz e al rhythm and blues. Solo che il suo pianoforte non è un mezzo
per accompagnare musicalmente le esibizioni, bensì una presenza concreta con la
quale misurarsi, da colpire e offendere, con le mani e coi piedi, in uno scontro fisico
che termina quando lo scatenato interprete si erge in piedi sullo strumento decretandone la sconfitta e la sottomissione. Pianista come Lewis è Little Richard, forse
il più geniale e influente cantante nero di r. I suoi concerti sono vere e proprie
rappresentazioni teatrali: attorniato da valletti, appare sul palco vestito da re. Non
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pone, però, lo strumento al centro del proprio show. La sua musica è rhythm and
blues eseguito a gran velocità, mescolato con spiritual e gospel. Si tratta forse del
primo dichiarato riutilizzo commerciale del patrimonio religioso nero, il che aggiunge un sapore sacrilego alle esibizioni di questo scatenato interprete. I suoi successi incisi tra ’55 e ’58 (Tutti Frutti , Long tall Sally , Rip it up) sono inframmezzati
da provocazioni sonore e paradossi linguistici, nonsense. Anche Gene Vincent, Eddie
Cochran, Vince Taylor, Buddy Holly, provenienti dal country, sono personaggi che
giustificano la cattiva fama del genere, che i mass media non mancano di enfatizzare:
violenza, atteggiamenti provocatori, eccessi di ogni genere, vestiti di pelle nera terrorizzano i genitori, che adesso finiscono per preferire la più rassicurante immagine di Elvis. Fin dal suo apparire, in effetti, il r’n’r è associato al ballo e la sua fruizione
vi è del tutto subordinata. Come in ogni musica da ballo, è rilevante la componente
sessuale: ma intollerabile aggravante appare la sua ostentazione. Non è un caso se
il r’n’r viene subito accusato d’essere il catalizzatore dei peggiori istinti giovanili;
né sfugge la sua provenienza ‘nera’, se pure interpretata da bianchi. Di qui il
boicotaggio e l’ostracismo da parte dei media e dei benpensanti. Ma alla svolta degli anni Cinquanta il r. statunitense sembra aver perso la vitalità degli esordi, la sua
carica corrosiva e trasgressiva, attutita e assorbita dall’industria dello spettacolo.
Tutti i suoi padri fondatori sono usciti di scena. Rimane e va consolidandosi l’idea
di una musica fatta da e per i giovani, spesso in forte antagonismo musicale e ideologico col resto della popular music. Ma è nell’Inghilterra dei primi anni Sessanta
che quest’idea darà nuovi frutti (→ beat).
Rocking and reeling
A partire dagli anni Trenta del Novecento, nelle chiese cristiane frequentate dai neri,
il canto → spiritual subisce una metamorfosi. La messa, in sintesi, viene celebrata
con accompagnamento strumentale — che può essere dato dalla chitarra, dalla batteria, o persino dai fiati — e con danze sfrenate dei fedeli, che rispondono con fragore ai
versi sacri urlati dal predicatore. Questa tecnica, che recupera gli arcaici ring shouts
di origine tribale e, con essi, tutto il rituale canoro e ritmico (l’improvvisazione, il
tempo aggressivo, la melodia bluesy), è fatta propria negli anni Quaranta da certi
cantanti, che, come i predicatori, cominciano a scandire i tempi urlando, spesso con
il sostegno del sassofono. Sono questi cantanti — e, dietro di loro, i predicatori — gli
antecedenti immediati degli urlatori (shouters o screamers) rock (→ rock and roll).
Rock progressivo
Dopo la grande stagione del beat e poi della psichedelia, la rivisitazione del → blues,
del → folk, del → jazz, produce nel panorama → rock inglese, alla fine degli anni
Sessanta del Novecento, la nascita di un nuovo genere, attento più ai risultati artistici che a quelli commerciali, battezzato musica progressiva. I primi segnali arri-
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vano da reduci del beat, che, emigrati negli Stati Uniti, vengono stimolati a cambiare registro e qualità di produzione: Jeff Beck (ex Yardbirds), Van Morrison (ex
Them), Eric Burdon (ex Animals). Con loro nasce la figura del compositore rock
moderno, che scrive partiture complesse e dirige strumentazioni di largo respiro,
spesso mescolando ispirazioni di generi diversi. I tre grandi complessi progressivi
inglesi si formano intorno al 1968: Traffic, Family, Jethro Tull. Sono loro a imporre
il cliché del ‘folk-blues-jazz-rock’, destinato a scalzare presto quello del ‘power trio’
(formazione di chitarra, basso e batteria). I Traffic (Steve Winwood, Chris Wood,
Jim Capaldi, Dave Mason) debuttano nel ’67 con una serie di brani che si rifanno in
eguale misura al folk, al jazz, al → soul e al → gospel. Strumentalmente, lo spirito
progressivo è dato dall’uso raffinato dei fiati, delle tastiere, delle percussioni, oltre
che di strumenti esotici. L’apice il gruppo lo raggiunge nel ’70 con l’lp John Barleycorn must die, ricco di canzoni soul-jazz fitte di assoli, riff, melodie orecchiabili
e suggestivi intrecci sonori. I Jethro Tull, capitanati dall’eccentrico cantautore e
flautista Ian Anderson, nel disco di esordio ibridano motivi tratti dalla musica classica, dal folk (ballate scozzesi), dal jazz. Nel ’71 il gruppo si volge al concept album,
che segna anche l’adozione di un sound più grintoso, con riff da → hard rock, e
comincia a dilatare la forma canzone in composizioni di più ampio respiro (Aqualung). I Family (provetti musicisti: il cantante Roger Chapman, il chitarrista Charlie
Whitney, il sassofonista Jim King, il batterista Rob Townsend, il violinista Ric Grech)
rappresentano il più importante complesso progressivo inglese, attivo tra ’66 e ’73.
La loro musica è il più suggestivo ibrido del movimento progressivo, con elementi
tratti da civiltà musicali diverse, bianche e nere, antiche e moderne, europee ed
extraeuropee. Nel disco di esordio, Music in a doll’s house (1968), conteso tra
l’estetismo art-rock di derivazione psichedelica e il soul-rock progressivo, la ricchezza strumentale e il massiccio ricorso al montaggio di studio li collocano nell’ambito dei collage d’avanguardia rock, di cui è maestro Frank Zappa. Della seconda generazione di r.p., caratterizzata da una fusione di modi romantici, psichedelici
e decadenti, i più famosi sono i Roxy Music, nati nel ’71 dall’unione di Brian Eno
(tastiere), Phil Manzanera (chitarra), Bryan Ferry (voce), Andy Mackay (sassofono) e Paul Thompson (batteria). Il loro primo sound è frutto di spinte retrospettive
(honky-tonk, rock and roll, folk) e avanguardistiche assieme. In seguito, perso per
strada Eno, rimpiazzato da Ferry, spariscono gli arrangiamenti innovativi e le lunghe parentesi strumentali: prende il sopravvento la passione rétro del nuovo leader
per il crooning d’atmosfera, la canzone di classe accompagnata da pose decadenti.
Al confine tra romanticismo e hard rock, i Roxy Music inventano, di fatto, il rock
futurista e fungono da trait d’union con il punk-rock.
Rumba
Danza cubana caratterizzata da un ritmo sincopato, di andamento vivace, divenuta
popolare in America e in Europa negli anni Trenta del Novecento. Si distinguono
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due tipi di r.: uno indigeno, molto veloce, di difficile esecuzione; uno più lento,
eseguito nelle sale da ballo con movimenti flessuosi delle anche e del bacino. L’accompagnamento è fortemente ritmico; caratteristico l’impiego delle maracas. Dalla r. deriva il → mambo.
Samba
Danza popolare brasiliana diffusa nella regione costiera di Sao Paulo, Rio de Janeiro
e Bahia. Di origine africana (il termine pare derivi dalla radice congolese semba,
che significa ‘danza’, o da zambo, cioè ‘negro’) e caratterizzata da ritmo sincopato,
si presenta in due versioni: una rurale, danzata in circolo, con ritmo veloce; una
urbana, eseguita a coppie, in tempo più lento e meno sincopato. Attorno al 1950 la
s. è in voga anche in Europa, come ballo da sala.
Soul music
Il termine soul — in inglese, letteralmente, ‘anima’ — designa la qualità spirituale e
religiosa della musica afroamericana, derivata dallo → spiritual e dal → gospel.
Tale qualità è presente anche in certo → jazz e nel → rhythm and blues; ed è proprio da quest’ultimo che deriva il genere musicale denominato s.m., affermatosi
negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta del Novecento. La storia del s. si svolge parallela a quella del travagliato processo d’integrazione della gente di colore
nella società nordamericana. Gli anni Sessanta vedono l’acuirsi dei conflitti razziali
tra le minoranze nere e l’establishment bianco. All’apartheid praticato dai governi
si affiancano le violenze di gruppi razzistici, che seminano il terrore con stragi e
assassinii dei leader neri (Malcom X nel ’65, Martin Luther King nel ’68). Ma, a
differenza del rock e del jazz, che riflettono gli eventi politici del periodo, il s. non
sposa manifestamente alcuna causa — fatta eccezione per alcuni interpreti, come
Nina Simone — e anzi propone un clima di pura evasione, verificabile nell’assoluto
disimpegno dei testi. Ciò nonostante, diventa un simbolo dell’identità nera; la sua
ascesa nelle classifiche è vissuta come un riscatto dalla gente di colore, è motivo di
orgoglio e, di certo, contribuisce ad una sua più marcata presenza nella vita pubblica. Iniziatori del s. sono considerati i due grandi innovatori del rhythm and blues,
Ray Charles e James Brown: il primo ne rappresenta il sound morbido; il secondo
il sound duro, che sfocerà in seguito nel → funk. Ma ancor prima che gli interpreti
e i musicisti, sono i produttori di coraggiose etichette indipendenti a lanciare il
genere. Sono loro a scriverne i successi, a deciderne l’arrangiamento, a scegliere gli
strumentisti. In pratica, ciascun gruppo di produttori è responsabile del sound della propria casa. Ecco perché le varie correnti del s. s’identificano con altrettante
case discografiche, come la Stax di Memphis, la Motown di Detroit, la Atlantic di
Chicago, la Philadelphia International di Philadelphia. Tra i più grandi interpreti
della stagione del s. — oltre alla già citata Nina Simone — Aretha Franklin, Ben E.
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King, Etta James, Tina Turner, Wilson Pickett, Otis Redding, Diana Ross, Smokey
Robinson, Stevie Wonder, Marvin Gaye.
Spiritual
Canto religioso popolare afroamericano, ispirato a temi biblici ed esistenziali. La
storia dello s. inizia intorno al Seicento, con la tratta degli schiavi neri nel Nuovo
Mondo e la loro ‘evangelizzazione’ ad opera dei missionari. Questi sono i primi a
scoprire la straordinaria propensione per la musica dei neri, la cui vita, in schiavitù, si divide tra il lavoro nei campi e la preghiera in chiesa. In entrambi i contesti si
sviluppano forme di canto profano, i work songs, e di inni religiosi, gli spirituals
songs, appunto. In entrambi i casi si è in presenza di un ibrido, di una contaminazione tra elementi provenienti dalla cultura nera (ritmi sincopati, blue notes) con
altri, melodici, derivati dai canti religiosi occidentali (inni puritani, in particolare).
Per quanto riguarda l’esecuzione, almeno nella pratica originale, caratteristiche
peculiari dello s. sono la prevalenza della struttura antifonica (call and response)
con risposta corale all’unisono e l’elaborazione estemporanea, propria della tradizione orale, mediante l’immissione nei testi base tratti dal Vangelo di contenuti
desunti dalle vicende quotidiane. La pubblicazione della prima raccolta di s. (Slave
songs of the United States, 1867) stimola un grande interesse, che, oltre a concretarsi
in studi sull’argomento, dà origine, sul finire dell’Ottocento, ad un rinascimento
del genere, con la costituzione di complessi famosi, come il Golden Gate Quartet e
i Folk Jubilee Singers, e l’introduzione degli s. nelle corali statunitensi. A partire
dagli anni Venti del Novecento l’inurbamento dei neri influisce anche sul canto
sacro e, nelle chiese battiste, lo s. arcaico si trasforma in un più moderno gospel
song. Insieme a quest’ultimo, lo s. si colloca alle radici del → blues e poi del → jazz.
Tango
In origine è un’ibridazione urbana di danze locali portuali (creole e nere) col ritmo
dell’ → habanera e con elementi melodici, armonici e formali di musiche popolari
(soprattutto italiane e spagnole), introdotti nei porti di Buenos Aires e Montevideo
da immigrati europei alla fine dell’Ottocento. Epoca in cui, praticato nei bassifondi
di Buenos Aires, il t. cosiddetto porteño (ossia ‘portuale’) muove in una diaspora
che lo conduce a impiantarsi in diverse parti del mondo, dove subisce processi di
risignificazione e ibridazione. Parallelamente, al tango-danza si aggiunge col tempo il tango-canzone (1920-45) ed una musica strumentale (1980). Il t. irrompe in
Europa al principio del Novecento, sulla scia della seconda ondata di danze popolari allacciate (cioè dopo il valzer, la mazurka, la polka…) provenienti dal Nuovo
Mondo. Nessuna, però, raggiunge il successo del t. e il suo significato culturale. Noti
ballerini argentini introducono il t. a Parigi, dove viene ‘derotizzato’ e codificato in
passi. Dai salotti aristocratici si diffonde, così, nelle sale da ballo popolari. Dal 1912
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tutta Parigi balla il t., che, da qui, raggiunge le grandi capitali europee. A Londra
nascono i ‘tè-tango’. Ma quello che si balla in Europa e negli Stati Uniti ha poco in
comune col t. originale di Rio de La Plata: ormai c’è un t. europeo, nelle versioni
francese e inglese, caratterizzato da un erotismo più stilizzato, più controllato e allusivo.
Allo scoppio della prima guerra mondiale il t. torna a Buenos Aires per farsi accettare
nei salotti bene della città; è in questa fase che nasce il ‘tango-canzone’, creato da
Carlos Gardel. Tra le due guerre inizia la seconda diaspora del t., adesso accettato,
assieme al jazz, come musica popolare di moda: orchestre argentine di t. girano il
mondo, radio e dischi lo diffondono ovunque. A partire dagli anni Cinquanta inizia
la riscoperta del t. argentino: ballerini e coreografi (Pina Bausch, Maurice Béjart)
lo includono nei loro spettacoli; registi cinematografici (Carlos Saura, Sally Potter)
ne fanno il tema portante dei loro film; celebri compositori (Astor Piazzolla) lo
immortalano nelle loro musiche.
World music/world beat
Con l’espressione w.m. s’indicavano, in passato, tutte le manifestazioni musicali
estranee alla musica colta occidentale: perciò la musica tribale, il folk; ma anche la
musica classica delle civiltà non-occidentali. Registrazioni ne venivano effettuate
dagli etnomusicologi, quindi riprodotte in dischi ad uso quasi esclusivo degli addetti ai lavori. In seguito all’intensificarsi dei fenomeni migratori dai Paesi del Terzo Mondo alle grandi città dell’Occidente, questo patrimonio musicale comincia a
circolare e ad attrarre anche un pubblico di non specialisti. All’inizio degli anni
Ottanta del Novecento discografici statunitensi ed europei, intuendo le potenzialità
commerciali di queste musiche, danno vita ad apposite etichette indipendenti. E,
per definirle, mutuano dall’etnomusicologia l’espressione w.m. Naturalmente tale
dicitura va a comprendere sia il repertorio tradizionale caro agli studiosi, sia gli
ibridi concepiti pensando al mercato. Contemporaneamente, dall’Africa e dalle aree
raggiunte dalle migrazioni africane, come i Caraibi, prende a diffondersi una produzione destinata perlopiù alla danza. È il caso del → reggae giamaicano, che s’inserisce stabilmente nel panorama della → pop music occidentale a partire dagli
anni Settanta. Sull’onda del suo successo nascono nuove etichette, come le britanniche Island Records, Earthwork, GlobeStyle. E nasce anche un nuovo genere, il
world beat. Alcuni musicisti rock, infatti, tra i quali Paul Simon, Peter Gabriel e
David Byrne, approfittando di queste fonti musicali — che, nel frattempo, si sono
estese fino a comprendere musiche provenienti da ogni parte del pianeta — e rispondendo alla crescente domanda del mercato di popular music non occidentale,
iniziano a creare incroci pop tra gli stili del Primo e del Terzo Mondo (alcuni, come
Gabriel e Byrne, fondano anche proprie etichette discografiche specializzate). Ecco
allora che per w.b. si passa a intendere sia l’appropriazione di suoni non-occidentali da parte di musicisti pop rock occidentali, sia l’utilizzo del rock e del pop occidentali da parte di musicisti del Terzo Mondo, sia ancora il consumo di musica folk
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non-occidentale nel mondo occidentale. Il successo del w.b. ha, a sua volta, l’effetto
di stimolare l’interesse dei consumatori del Nord verso quegli stili più tradizionali
delle diverse parti del mondo che vengono commercializzati come w.m., tanto che
diventa sempre più difficile distinguere tra w.m. e w.b. Ad ogni modo la w.m., in
virtù della sua propensione verso tradizioni etniche più acustiche e meno ibridate,
si colloca in prossimità dell’ambito della → folk music; mentre il w.b., decisamente
orientato al ballo e caratterizzato dall’uso di strumenti elettrici ed elettronici, risulta più vicino al → rock. Il w.b. mantiene, inoltre, legami forti ed evidenti con le
radici della tradizione: in certa strumentazione, nei ritmi, nella lingua e/o nelle
combinazioni di suoni tipici.
Work songs
Canti intonati durante il lavoro, nelle piantagioni del Sud degli Stati Uniti, dagli
schiavi neri. Spesso assumono forma responsoriale (call and response): a frasi
solistiche si alternano, cioè, risposte corali. Insieme agli → spiritual e ai → blues
costituiscono le fonti originarie del folklore afroamericano.
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