1 Lago gerundo
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QGL121-draghi-e-laghi Bollettino a diffusione interna a cura di RG Quaderni Giorgiani 121 appunti personali domenica 05-04-15 Questi Quaderni non rappresentano una testata giornalistica in quanto vengono aggiornati senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 07/08/2001. Immagini, audio e video inseriti sono reperiti in rete e pubblicati senza alcun fine di lucro; qualora la loro pubblicazione violi diritti d’autore, vogliate comunicarlo per una pronta rimozione. Indice dei contenuti Indice dei contenuti Contents 1 Lago gerundo 1.1 Lago Gerundo 1.2 I draghi del lago Gerundo 1.3 Nelle acque del lago Gerundo - sulle tracce del mostro Tarantasio 1.4 Il Lago Gerundo 1.5 la leggenda del lago gerundo 1.6 Storia di un mare perduto 1.7 Il mistero del Lago Gerundo 1.8 Intervento dello storico Prof. Riccardo Caproni ( 1.9 Le nebbie del Lago Gerundo 1.10 Quel ramo del lago Gerundo 1.11 Lago Gerundo: storia o leggenda? 1.12 quando il drago tarantasio abitava il lago gerundo 1.13 La leggenda del lago Gerundo 1.14 Il drago Tarantasio alla riscossa! 1.15 Le nebbie del Lago Gerundo 1.16 Un cetaceo nella pianura padana 1.17 Il "mare" lombardo fra storia e leggenda 1.18 Il "mare" lombardo fra storia e leggenda 1.19 Brembio e il suo territorio 1.20 Descrizione geologica della provincia di Milano 1.21 Garda, lago di misteri e leggende 1.22 Il biscione di Milano 2 Due ponti e un albero conservano la "memoria" del Cotonificio Dell'Acqua 3 Una famiglia, una saga I " cotonatt " De Angeli Frua 4 Fetonte 5 Il cavaliere in carretta 6 La leggenda di Osiride 7 Da Ponzella a Ponzella 1 Lago gerundo Lago Gerundo 1.1 Lago Gerundo Lago Gerundo Altitudine ca. 100 m s.l.m. Dimensioni Superficie ca. 200 km² Profondità massima ca. 10 m Idrografia Immissari principali Adda, Serio, Brembo, Molgora Emissari principali Adda Il lago o mare Gerundo (o Gerondo) si suppone fosse un vasto specchio d'acqua stagnante, a regime instabile, situato in Lombardia a cavallo dei letti dei fiumi Adda e Serio. Poco o per nulla descritto dalle fonti antiche, conosciuto più per tradizione orale, secondo i dati geologici tale lago sembrerebbe esistito quanto meno in età preistorica. Storicamente la zona è stata sì soggetta ad alluvioni dei fiumi, ma, piuttosto che paludosa, sembra essere sempre stata sostanzialmente poco fertile, costituita essenzialmente da gerali ricoperti da, in media, solo 45 cm di torba. A tale supposto "lago" è strettamente legato il promontorio dell'Insula Fulcheria (forse da pulchra, "bella"), l'unica zona fertile nel centro di un'arida distesa di ghiaia. Etimologia È probabile che il toponimo "Gerundo" derivi dalla géra o "ghiaia" (oppure gérola, "sasso"), e infatti i gerali la fanno da padroni (vedi la toponomastica locale, come in Gera d'Adda). Valerio Ferrari, conoscitore del territorio cremasco, ha suggerito al contrario che il termine possa derivare dal greco gyrus (spira, curva), con riferimento ai meandri fluviali che abbondano nell'area. Un'ipotesi più fantasiosa farebbe invece derivare il termine Gerundo dal greco Acheron, ossia Acheronte, un fiume infernale nella mitologia greca, poiché il lago sarebbe dovuto essere paludoso, e quindi inospitale e malsano[1]. Leggenda La fantasia popolare narra che un tempo nelle acque del Lago Gerundo vivesse un drago di nome Tarantasio che, avvicinandosi alle rive, faceva strage di uomini e soprattutto di bambini e che ammorbava l'aria circostante con il suo alito asfissiante. Le esalazioni, in effetti, erano dovute alla presenza nel sottosuolo di metano e di idrogeno solforato, un fenomeno misterioso per la popolazione che, pertanto, incolpava esseri sconosciuti e fantasiosi. Il fantomatico mostro, secondo la leggenda, fu ammazzato da uno sconosciuto eroe che prosciugò anche il lago: altri non era che il capostipite dei Visconti di Milano che, dopo tale prodezza, adottò come suo stemma l'immagine del biscione. Alcune fonti popolari attribuiscono il prosciugamento e la bonifica del lago a san Cristoforo, che avrebbe sconfitto il drago, o a Federico Barbarossa. La bonifica del territorio fu in realtà fatta dai monaci delle abbazie vicine. Si ritiene comunemente che in verità le acque scomparvero in seguito a progressive opere di bonifica in atto già da tempo, in particolare il potenziamento del canale della Muzza da parte dei lodigiani, oltre a fattori di drenaggio e assestamenti geologici, come il livellamento di depositi morenici nei pressi dell'immissione dell'Adda nel Po. Ubicazione Il lago occupava un ampio tratto di territorio tra Adda e Serio, ma anche, secondo alcuni, Brembo e Oglio. Tale localizzazione comprende quindi le provincie di Bergamo, Lodi e Cremona e Milano. La costa est del lago, secondo alcuni autori, raggiungeva Fara Olivana e proseguiva, passando ad est di Crema, sino a Grumello Cremonese; continuando poi ad occupare parte delle valli del Chiese e dell'Oglio sin quasi alla sua immissione nel Po. In particolare, si può osservare una vasta zona delimitata da una scarpata che indica l'antico alveo del lago, o meglio la zona più profonda; tale demarcazione è oggi fortemente visibile nei pressi della sponda occidentale dell'Adda, da Cassano a Castiglione. L'ampiezza massima del lago, comprendente le zone paludose, è andata comunque oltre, a causa dell'abbandono delle opere di bonifica durante il medioevo. Al centro del lago si ergeva una lunga e stretta striscia di terra che iniziava presso Caravaggio, raggiungeva Crema e proseguiva sin oltre Castelleone. Il suolo declina verso il letto attuale dei fiumi alle volte con suggestive concrezioni e/o pendenze, come nel territorio di Truccazzano, sulla strada provinciale 14 "Rivoltana", a Formigara, e a Chieve. Numerosi sono i comuni che dedicano una via al lago scomparso, mentre nella parte bergamasca del comune di Cassano d'Adda, esiste la località Taranta, probabilmente derivata dalla leggenda del drago. Realtà storica Datazioni geologiche permettono di rilevare che già 5000 anni fa la valle dell'Adda era già formata, e si presentava così come è ora. Il fiume ha comunque mostrato ampliamento di meandri e divagazioni del corso in misura maggiore che non l'Oglio, per esempio. La zona era inoltre abitata, essendo stati ritrovati insediamenti gallici (III e II secolo a.C.) e romani, nonché una strada romana da Milano a Cremona, in pieno "lago Gerundo". Bibliografia Defendente Lodi, Discorsi historici in materie diverse appartenenti alla città di Lodi, Lodi, Bertoetti, 1629, ISBN non disponibile. Livia Feroldi Cadeo, Il Gerundo. Antico lago di Lombardia dall'Adda all'Oglio, Soncino, Museo della Stampa, 1980, ISBN non disponibile. Italo Sordi, Leggende sulle acque in Lombardia, Brescia, Grafo, 1997, ISBN non disponibile. Carlo Fayer e Mario Signorelli, Racconti del Gerundo. Aspetti di un territorio, Milano, SIED, 2001, ISBN non disponibile. Autori vari, L'araldica della regiona Lombardia, Istituto regionale di ricerca della Lombardia, Milano, 2007, ISBN non disponibile. virtusloci.it portale per lo studio e la conoscenza del territorio cremasco Premio letterario Il Premio Letterario ispirato dal Lago Gerundo e dal suo drago Che sia esistito o no un “Lago Gerundo” ed in quale esatto perimetro, lasciamo agli studiosi il compito arduo di portare a definizione una questione ancora irrisolta. Il Comune di Paullo ed il suo assessorato alla cultura hanno inteso comunque adottare i valori simbolici della leggenda in quanto costruzione dell’uomo parallelo allo svolgimento della sua storia. Per informazioni: lagogerundo.org. 1.2 I draghi del lago Gerundo I draghi del lago Gerundo Che cosa si nascondeva veramente nelle acque di questo lago lombardo oggi scomparso? - di Lorenzo Rossi Che cosa si nascondeva veramente nelle acque di questo lago lombardo oggi scomparso? Benché al giorno d'oggi non ne esista più alcuna traccia, se non nella storia dei sedimenti geologici e nelle antiche toponimie, il territorio lombardo attualmente compreso tra la parte meridionale di Bergamo e il nord di Cremona era in passato il bacino di una vastissima area acquitrinosa formata dalle esondazioni dei fiumi Adda, Oglio, Serio, Lambro e Silero, conosciuta con il nome di lago (o mare) Gerundo. Le testimonianze storiche più antiche circa la sua esistenza sembrano risalire all'epoca romana, tramite alcuni accenni contenuti nelle opere di Plinio il Vecchio, ma le informazioni più significative sono datate al 1110 d.C. e provengono dal monaco Sabbio, che parla di torri dotate di anelli per l'ormeggio delle barche, le cui rovine sono sopravvissute sino ai nostri giorni. Particolarmente interessanti da un punto di vista criptozoologico risultano essere le numerose testimonianze e aneddoti inerenti a misteriose creature che ne infestavano le acque, alle quali la tradizione popolare diede il nome di "draghi". Generalmente descritti come grandi animali serpentiformi dall'alito pestifero, erano sicuramente considerati ben più di una leggenda dalle popolazioni che abitavano le coste del Gerundo, basti considerare che gli abitanti di Calvenzano eressero delle mura alte tre metri e lunghe quindici chilometri per proteggersi dalle sortite del mostro lacustre che si credeva vivesse in quella zona e che la contrada principale del paese, a ricordo della vicenda, era chiamata "via della biscia". La credenza nella reale esistenza di simili creature è testimoniata anche da alcuni interessanti reperti ossei che fanno ancora mostra di sé in diverse chiese, un tempo stanziate lungo le propaggini dell'antico lago Gerundo, considerati per lungo tempo dalle popolazioni locali i resti appartenuti ai temibili draghi acquatici. Dal soffitto dell'abside della chiesa di Almenno S.Salvatore pende una gigantesca costola animale della lunghezza di 260 cm, che secondo la tradizione sarebbe appartenuta a una creatura catturata nei pressi del fiume Brembo. A soli tre chilometri di distanza in linea d'aria, un altro reperto simile, della lunghezza di 180 centimetri, è conservato all'interno del Santuario Natività della Beata Vergine di Sombreno. Si narra che provenisse da un drago del Gerundo, ucciso da un giovane eroe. La costola attirò l'attenzione del naturalista Enrico Caffi, al quale è dedicato il Museo di Storia naturale di Bergamo, che la identificò come appartenente ad un mammuth. Infine nella parrocchia di Pizzighettone, presso la sacrestia della chiesa di S.Bassiano, è custodita una costola lunga 1,70 centimetri. Gli abitanti di Lodi erano talmente spaventati e abituati alla presenza di un grande "serpente" acquatico al punto da affibbiargli persino il nome proprio di "Taranto" o "Tarantasio", anticipando così di molti secoli la popolazione scozzese di Inverness, che verso gli anni Trenta ribattezzò "Nessie" la più famosa delle creature lacustri leggendarie: il mostro di Loch Ness. Si narra che agli inizi del 1300, a seguito delle opere di bonifica avviate nel XII secolo, a Lodi, presso l'Adda, fu rinvenuto lo scheletro di Tarantasio, successivamente custodito nella sua interezza all'interno della chiesa di S.Cristoforo. Col tempo però se ne persero le tracce, ma verso il 1800 il medico di Lodi Gemello Villa riuscì a riportarne alla luce e ad esaminarne una presunta costola. I suoi studi non lasciano intendere informazioni di particolare interesse, se non nel passaggio in cui si afferma che "la costola ha la pellucidità delle ossa fresche", lasciando così intuire che possa non trattarsi di reperto fossile. Lo stemma dei Visconti L'elemento più caratteristico dell'iconografia araldica dei Visconti, antichi signori di Milano, è senza dubbio il sinuoso "serpentone" ritratto nell'atto di ingoiare uno sventurato essere umano, ma le leggende circa la sua reale origine sono talmente diversificate e numerose che risalire a una sicura genesi storica è impresa praticamente impossibile. Lo stemma dei Visconti a Milano raffigura un serpente che divora un giovane uomo. Secondo alcuni il serpente sarebbe proprio il mostro del lago Gerundo ucciso da Umberto Visconti nel 1200. Lo stemma dei Visconti a Milano raffigura un serpente che divora un giovane uomo. Secondo alcuni il serpente sarebbe proprio il mostro del lago Gerundo ucciso da Umberto Visconti nel 1200. Nel suo De Magnalibus Mediolani Bonvesin de la Riva riporta quanto segue: "Viene offerto dal comune di Milano a uno della nobilissima stirpe dei Visconti che ne sembri il più degno un vessillo con una biscia dipinta in azzurro che inghiotte un saraceno rosso: e questo vessillo si porta innanzi ad ogni altro: e il nostro esercito non si accampa mai se prima non vede sventolare da un'antenna l'insegna della biscia. Questo privilegio si dice concesso a quella famiglia in considerazione delle vittoriose imprese compiute in Oriente contro i saracini da un Ottone Visconti valorosissimo uomo". Il cronista Galvano Fiamma, riferendosi sempre allo stesso episodio, lo ha tramandato ai posteri con maggiore dovizia di particolari, spiegando che durante l'assedio di Gerusalemme Ottone sconfisse in un duello il terribile nobile saraceno Voluce il quale, per sottolineare la sua presunta invincibilità, era solito combattere sotto il simbolo di un serpente che ingoiava un uomo. Un'altra versione vuole che, dopo la morte di San Dionigi, un drago giunse nei dintorni di Milano trovando dimora in una grotta situata oltre le mura della città. Dopo diversi infruttuosi tentativi di uccisione da parte di disparati cavalieri, giunse a Milano Uberto Visconti che affrontò e sconfisse il mostro prima che quest'ultimo potesse ingoiare del tutto un fanciullo che aveva già cominciato a ghermire tra le sue fauci. I più romantici saranno di certo disposti a collegare tra loro la leggenda di Uberto e quella dei draghi dell'antico Gerundo, ma a ben vedere pare proprio che lo stemma del serpente fosse simbolo della città di Milano molto prima dell'arrivo dei Visconti, tanto che, secondo alcuni, la sua origine risale all'epoca di Desiderio, ultimo re dei Longobardi, che successivamente tramandò lo stemma ai Visconti, suoi successori. Possibili spiegazioni Pur ammettendo che le leggende inerenti agli antichi mostri dello scomparso lago Gerundo potessero avere un fondo di realtà, ipotesi sulla quale ritorneremo in seguito, esistono molti buoni motivi per escludere categoricamente che le gigantesche costole conservate come relique possano realmente essere appartenute a questi ultimi. Anticamente i pellegrini erano infatti soliti portare in dono ai santuari i più esotici e singolari reperti. Non è affatto da escludere l'ipotesi che le ossa attualmente custodite nel bergamasco e nel cremonese potessero essere appartenute ad animali quali elefanti o cetacei, successivamente donate alle chiese in qualche modo legate alle leggende sui draghi. A tal proposito è interessante notare come la chiesa di S.Salvatore sia consacrata a S.Giorgio, il più famoso uccisore di draghi della tradizione cattolica. Una ricostruzione del Lago Gerundo (da M. Mosca). Un'ipotesi ancora più plausibile può essere presa in considerazione se, affidandoci alle cronache sino a noi pervenute, le misteriose costole non sarebbero state portate da pellegrini e viaggiatori, ma effettivamente rinvenute in territori prossimi alle chiese e santuari che le espongono... Nel 1995 il Corriere della Sera riportò questa notizia: "Cremona Un'enorme vertebra di un animale preistorico è stata ritrovata nei fondali del fiume Adda nei pressi di Pizzighettone (Cremona). Il reperto ha un'altezza di 75 centimetri, una base di 39 e la sede circolare ha un diametro di 16 cm. Ritrovamenti di questo tipo non sono nuovi in una zona che millenni fa ospitava le paludi del lago Gerundo. A scoprire il reperto è stato Walter Valcaregni, un muratore di 47 anni che in passato ha già donato fossili al museo civico di Pizzighettone. Un paleontologo incaricato dal museo dovrà stabilire a quale animale la vertebra appartenesse e a quale epoca risalga". In effetti ritrovamenti di ossa appartenenti a mammuth e a rinoceronti dell'era glaciale non sono infrequenti in quelle zone. Simili reperti vengono scavati a monte dalle correnti e poi trascinati sino a valle, spiegando così i misteriosi ritrovamenti tutt'ora esposti in alcune chiese. Per quanto ne sappiamo però, tutte le costole che rientrano all'interno di una documentazione storica più o meno attendibile, sono posteriori alla bonifica delle zone ed al prosciugamento del Gerundo: questi reperti avrebbero così contribuito ad alimentare la leggenda di Tarantasio e dei suoi simili, ma non è altrettanto certo che siano anche state la causa della loro origine, per risalire alla quale si rende forse necessario affrontare una particolare caratteristica dei draghi milanesi: il loro alito pestilenziale... Nel Medioevo non era infrequente attribuire morti improvvise o inspiegabili alla minacciosa presenza di misteriosi rettili e il caso del basilisco è un esempio lampante di ciò. Molto spesso questa mitologica creatura, che secondo la tradizione nasce da un uovo di gallo covato da un rospo, prendeva dimora in pozzi le cui acque avrebbero avvelenato tutti coloro i quali vi avessero attinto. Secondo la leggenda, nel IV secolo San Siro liberò la città di Genova da un basilisco che si era insidiato in un pozzo, mentre a Vienna sarebbe esistita una lapide le cui iscrizioni indicavano che nell'anno 1202 un pozzo infestato da un basilisco fu sotterrato dopo che numerose persone erano morte per essersi lì abbeverate. Nel suo volume Dall'unicorno al mostro di Loch Ness il criptozoologo "ante litteram" Willy Ley spiega che in passato la presenza di falde acquifere sature di idrogeno solforato a causa del loro odore di uova marce hanno potuto contribuire alla leggenda delle esalazioni pestifere del basilisco. Se ora consideriamo che in passato gli acquitrini del Gerundo rendevano l'area malsana provocando numerose vittime per malaria, gli abitanti del tempo avrebbero potuto attribuirne la causa a grandi serpenti pestiferi, cioè a basilichi a misura di lago. Considerando però che i meccanismi che stanno dietro alla nascita di ogni leggenda sono sempre più complessi e vari di quanto una spiegazione univoca e semplicistica possa talvolta fare pensare, è giunto il momento di affrontare come precedentemente accennato, una possibile spiegazione zoologica che possa avere contribuito, se pure in piccolissima parte attraverso sporadici e fugaci avvistamenti, alle tradizioni popolari sui mostri del lago. Stando al criptozoologo Maurizio Mosca che ha affrontato il problema sulle pagine del suo libro Mostri lacustri edito da Mursia, i possibili candidati possono essere due: - storioni presenti nel fiume Po, che in passato raggiungevano dimensioni molto più ragguardevoli di quelle alle quali siamo abituati ai nostri giorni e che, benché innocui per l'uomo, possiedono caratteristiche anatomiche talmente peculiari e diverse da quelle degli altri pesci europei da conferire loro un aspetto minaccioso e vagamente "rettiliforme"; - coccodrilli importati che secondo alcune leggende si erano adattati a vivere nel fiume Serio, come testimonierebbe l'affascinante reperto custodito nella chiesa di Ponte Nossa: un coccodrillo impagliato lungo tre metri, di cui parla un documento conservato presso la Curia di Bergamo, risalente al 1594. Ma, mentre sappiamo che questi rettili vivevano in alcuni fiumi della Sicilia sino al 1600 dopo che furono importati dagli arabi, individui di una popolazione presumibilmente esigua difficilmente avrebbero potuto sopravvivere a lungo nel Nord Italia. Lorenzo Rossi Gruppo Criptozoologia Italia, www.criptozoo.com Si ringrazia Francesco Brusoni Bibliografia Le terre del Gerundo (1994), Centro Studi della Geradadda. Aldrovandi U. (1640), Historiae serpentum et draconum. Cordier U. (1986), Guida ai draghi e ai mostri d'Italia. Izzi M. (1989), Il dizionario illustrato dei mostri. Mosca M. (2000), Mostri dei laghi. 1.3 Nelle acque del lago Gerundo - sulle tracce del mostro Tarantasio Nelle acque del lago Gerundo - sulle tracce del mostro Tarantasio Ad Arzago è conservata una colonna che il sindaco abbraccia fisicamente quando giura fedeltà dopo la sua elezione e che, secondo gli anziani, veniva utilizzata come punto d'attracco per le barche: ma quali barche, visto che l'Adda scorre a chilometri dal paese? A Pontirolo metà dell'abitato si trova più in basso rispetto al resto del paese e, dietro la chiesa parrocchiale di San Michele, che svetta nella parta «alta» del territorio, c'è una strada che si chiama via Costiola: ma a quale «costa» si fa riferimento? E ancora: tra Fara d'Adda e Cassano si trova la località Taranta, ma qual è l'origine di questo strano nome? La risposta a tutti questi interrogativi sta nel lago Gerundo, un vastissimo specchio d'acqua che, secondo la tradizione, avrebbe occupato secoli fa il territorio dell'attuale Gera d'Adda, fino alle attuali province di Crema e Lodi, e a cavallo con il Milanese. Anzi, Crema sarebbe nata proprio su una delle isole in mezzo al lago, l'isola Fulcheria, mentre Lodi spuntava sul monte Eghezzone, altra altura che fuoriusciva dal lago. Il nome Gerundo deriverebbe da «gera», vale a dire ghiaia. Durante le invasioni barbariche (tra il II e il V secolo d.C.) il lago raggiunse i 35 chilometri di larghezza, i 50 di lunghezza e i 25 metri di profondità: talmente grande da essere chiamato mare, benché «mara» in latino significhi anche palude. Alimentato dai fiumi Adda, Brembo, Serio e Molgora, il Gerundo veniva navigato con delle piroghe. Residui di questo leggendario lago sarebbero stati prosciugati attorno all'anno Mille, nel corso di una bonifica fatta da monaci di quella che ormai era diventata una zona acquitrinosa e pericolosa per la salute. Proprio l'aria insana che fuoriusciva dal lago ha dato origine al mito nel mito: anche il lago Gerundo, come tutti i laghi che si rispettino, aveva il suo mostro. Si chiamava Tarantasio, aveva un alito pestilenziale, faceva affondare le barche e mangiava i bambini. A seconda delle zone, il Nessie di casa nostra si presentava con una diversa «forma»: serpente, mostro alato, drago, leone di mare, enorme cane. E, sempre a seconda del territorio, sono diverse anche le leggende tramandate sulla sua uccisione: ammazzare Tarantasio significava diventare eroi o consacrare il proprio eroismo. E infatti i «candidati» all'uccisione del mostro del Gerundo sono nomi noti della storia, non solo locale. I più conosciuti sono cinque. Primo: il patrono delle acque San Cristoforo che, secondo la tradizione, portava Gesù sulle spalle e per questo, grazie alla sua intercessione, venivano salvati dal lago i bambini che rischiavano di essere uccisi da Tarantasio. Secondo: il vescovo di Lodi Bernardo de Talente, alla guida della diocesi dal 1296 al 1307. Grazie a lui Tarantasio sarebbe apparso l'ultima volta il giorno di San Silvestro del 1299: il primo gennaio 1300 il mostro scomparve del tutto e il lago evaporò. Terzo: San Colombano, lo stesso che venne dagli abitanti di Inverness per uccidere il mostro di Loch Ness. Agilulfo, re longobardo, gli chiese di fare lo stesso con Tarantasio. Sarebbe riuscito nel suo intento dove oggi sorge il comune milanese di San Colombano al Lambro. Quarto: nientemeno che Federico Barbarossa. Dopo il 1150 la sua fama fu molto esaltata in Lombardia e, proprio per questo, non si sarebbe potuto che addebitare a lui anche l'uccisione di un mostro lacustre. Nello stemma della sua casata, gli Hohenstaufen, è inoltre presente un leone che richiamerebbe Tarantasio. Infine la leggenda più «bergamasca»: Tarantasio sarebbe stato ucciso nel XII secolo dal capostipite dei Visconti, Umberto. I Visconti governarono Milano dal 1277 al 1447 alimentando leggende sulla loro origine. Umberto uccise Tarantasio nella campagna di Calvenzano: da qui l'origine del simbolo della casata, il Biscione che mangia un bambino, citato anche da Dante nel canto VIII del Purgatorio – «la vipera che il milanese accampa» – e ripreso dal Comune di Milano e, in tempi più recenti, da Mediaset, dall'Inter, dall'Alfa Romeo. Tarantasio è poi noto a livello internazionale, anche se pochi lo sanno, perché l'Eni avrebbe preso spunto da Tarantasio per disegnare il cane a sei zampe dell'Agip, visto che il primo giacimento di metano venne scoperto nel 1944 a Caviaga, frazione di Cavenago d'Adda, nel Lodigiano, in piena zona Gerundo. Di Tarantasio restano dunque oggi parecchie testimonianze (compresa una costola, in realtà riconducibile a un animale preistorico), così come del lago. Le più evidenti sono le coste (da Pontirolo a Casirate è chiaro il dislivello del terreno), poi i toponimi (Gera d'Adda, via Gerola, via Costiola) e alcuni reperti come le colonne per gli ormeggi delle navi (ad Arzago, Pandino, Rivolta, Casirate, Truccazzano). In realtà, 25 mila anni fa l'intera Pianura Padana era sommersa d'acqua, che si è poi prosciugata: in alcuni punti rimasero specchi d'acqua e il Gerundo sarebbe stato tra questi. Il primo a citarlo fu Plinio il Vecchio, cronista d'epoca romana: nella «Naturalis historia» (77 d. C.) fece riferimento ad alcune zone da bonificare, compreso il Gerundo. In epoca longobarda Paolo Diacono scrive: «Causa l'incessante e torrenziale pioggia, l'irruenza dei fiumi Adda, Serio e Oglio, straripando sulla pianura in massa enorme e incontrollabile, creano il grande lago». Umberto Cordier, nella sua «Guida ai draghi e mostri in Italia» del 1896, scriveva: «La realtà fisica del Gerundo è indiscutibile: si fonda su macroscopiche prove geologiche, paleontologiche, archeologiche, documentali». Insomma, benché prosciugato, il lago Gerundo è ancora lì, nella Gera d'Adda. E basta poco per vederlo. Fabio Conti 1.4 Il Lago Gerundo Il Lago Gerundo Lago Gerundo (o Gerondo, da Gera o Gérola, “sasso”) era un vasto lago a carattere principalmente paludoso che occupava un’antica, profonda depressione alluvionale in cui esondavano le acque dell’ Adda, del Serio e dell’Oglio, nell’area occupata dalla parte meridionale dell’odierna provincia di Bergamo, dalla parte orientale della provincia di Lodi, dal Cremasco. Secondo le leggende tramandate dalla tradizione locale, che solo in parte sono state confermate da studi di natura storica e geomorfologica, il lago occupava un ampio tratto di territorio che iniziava a nord poco dopo Brembate per raggiungere a sud Pizzighettone, estendendosi ad ovest lungo l’attuale corso dell’Adda sino a lambire la città di Lodi. La costa est del lago, secondo alcuni autori, raggiungeva Fara Olivana e proseguiva, passando ad est di Crema, sino a Grumello Cremonese; continuando poi ad occupare parte delle valli del Chiese e dell’Oglio sin quasi alla sua immissione nel Po. In particolare, si può osservare una vasta zona delimitata da una scarpata che indica l’antico alveo del lago, o meglio la zona più profonda; tale demarcazione è oggi fortemente visibile nei pressi della sponda occidentale dell’Adda. L’ampiezza massima del lago, comprendente le zone paludose, è andata comunque oltre, a causa dell’abbandono delle opere di bonifica durante il medioevo. Al centro del lago, secondo le cronache romane e tardo medievali, si insinuava una lunga e stretta striscia di terra che iniziava presso Caravaggio, raggiungeva Crema e proseguiva sin oltre Castelleone: si tratta con ogni probabilità della cosiddetta isola Fulcheria, frequentemente citata nelle cronache antiche. La città di Crema vi fu edificata attorno all’anno 1000. Memoria di questa zona paludosa è, nelle vicinanze di Bozzolo (oggi in provincia di Mantova), l’antica abbazia benedettina dedicata a Santa Maria della Gironda, ora azienda agricola privata. Secondo le leggende popolari, il lago Gerundo sarebbe stato abitato da un dragone chiamato Tarànto o più comunemente conosciuto come Tarantasio, il quale si sarebbe nutrito soprattutto di bambini. Sono sorte poi numerose leggende riguardo al drago, le quali sono tutte accomunate dalla concomitanza tra l’uccisione di Tarànto e il prosciugamento del lago. Alcune fonti popolari attribuiscono il prosciugamento e la bonifica del lago a san Cristoforo, che avrebbe sconfitto il drago, o a Federico Barbarossa. La più suggestiva riguarda l’uccisione del drago da parte del capostipite dei Visconti, il quale avrebbe poi adottato come simbolo la creatura sconfitta, ovvero il biscione con il bambino in bocca.Si ritiene comunemente che in verità le acque scomparvero in seguito a progressive opere di bonifica in atto già da tempo, in particolare il potenziamento del canale della Muzza da parte dei lodigiani, oltre a fattori di drenaggio e assestamenti geologici, come il livellamento di depositi morenici nei pressi dell’immissione dell’Adda nel Po. 1.5 la leggenda del lago gerundo la leggenda del lago gerundo scritto da stefano todisco. Quella che oggi è la zona tra le province di Bergamo, Milano, Cremona, Mantova e Lodi, in quel tratto che da Cassano d’Adda va fino quasi a Cremona per una lunghezza totale di circa 60 km, era chiamato, nel Medioevo, Lago Gerundo al cui centro si trovava la spesso citata Insula Fulcheria, isola dal toponimo longobardo. Una vasta porzione di acquitrini, paludi e depressioni idrografiche ricordate dal mito antico ma non rintracciabili dalla scienza geologica sono state il terreno di scontro fra gli abitanti del luogo e una terribile mostro acquatico che infestava la regione. Le cronache parlano di un drago chiamato Tarantasio, un enorme rettile seminatore di morte. La morte della creatura sarebbe avvenuta per mano di un coraggioso eroe poi inquadrato come un membro della famiglia ducale dei Visconti. In realtà il lago Gerundo si estese mai come nella leggenda poiché molti insediamenti sia celtici sia romani e poi longobardi si trovavano sul luogo della vallatastemma visconti acquitrinosa ipotizzabile come l’insieme di zone stagnanti e di alvei del fiume Adda. Ancora oggi sopravvive il toponimo di località Taranta, una frazione di Cassano d’Adda, e il ricordo della sconfitta del drago è ricordata dallo stemma visconteo in cui compare una biscione crestato con in bocca un essere umano. Interpretazione del mito L’associazione acqua-mostro-forze demoniache, a partire soprattutto dall’era cristiana, è un disegno di propaganda ideologica molto forte e ben riuscita: il regno animale e le forze naturali inesplorate hanno incusso da sempre sentimenti di ansia e soggezione nelle civiltà antiche. Come nel caso dei fondali acquatici, il timore per le acque salmastre, paludose e stagnanti riporta alla sfera dell’ignoto. Nell’agiografia cristiana già San Columba di Iona e San Brendano di Clonfert poterono vincere forze avverse, con sembianze di mostri lacustri e marini. La belva, reale che possa essere o inventata, rappresenta il mondo demoniaco più che una reale creatura terrificante; la forza del credo cristiano poté ribadire la propria forza annientando le fobie degli esseri umani dei secoli medievali, pervasi da simbologie esoteriche e mistiche piene di mostri zoomorfi e diabolici. Laddove il mostro non si contrappone a pii uomini di fede, nascono comunque leggende legate a figure dell’uomo eroico che combatte e vince contro l’immensità del Caos primordiale e delle forze maligne della natura. 1.6 Storia di un mare perduto Storia di un mare perduto Anticamente, fra Milano, Lodi e Cremona si stendeva un grande lago chiamato Gerundo : di quelle acque restano solo pochi ricordi suggestivamente animati da varie leggende. A MILANO manca soltanto il mare. E i milanesi, di vecchia stirpe o adottivi, ne sentono da sempre la mancanza. Ne hanno costruito uno minuscolo, l'idroscalo, insieme ad autostrade che collegano la città alla Liguria e alla più lontana Riviera adriatica. Il mare a Milano è anche un "desiderio" che ha fatto nascere molte leggende. Una delle più famose raccontava di un, bacino d'acqua salata situato in una grande caverna sotto piazza del Duomo, tanto vasto che ci si poteva andare in barca. La costruzione della metropolitana e delle relative stazioni hanno cancellato per sempre questa favola, che è parziale realtà nel caveau di una banca milanese, scavato a molti metri di profondità, dove, per mezzo di un oblò e di un potente faro, si può penetrare con lo sguardo dentro una grande polla d'acqua sotterranea. Acqua salata: probabilmente è davvero ciò che resta del mare Padano che esisteva al posto dell'attuale pianura, prima che il Po e gli altri fiumi, scendendo dalle montagne, trasportassero terra e detriti. Questo succedeva oltre un milione di anni fa, quando Milano e la Lombardia intera non esistevano. Considerato che questo vasto golfo adriatico arrivava a lambire le zone dove oggi sorgono Mondovi, Saluzzo e Cuneo. Poi la crosta terrestre cominciò a sollevarsi e, contemporaneamente, il clima fresco e piovoso provocò l'aumento dell'azione erosiva dei fiumi che scendevano dagli Appennini. Ancora oggi la terrà continua ad avanzare nell'Adriatico e un giorno potremo andare in macchina da Comacchio alla Juogoslavia senza fare curve, e Venezia sarà una città lontana dal mare e asciutta. C'è tempo comunque. La città padana sorta sull'isola drago Tarantasio cartina gerundoTornando al mare sognato dai milanesi, non è escluso anche il ricordo ancestrale del mare Gerundo. Questa volta non parliamo di un mare sotterraneo, e neppure di un'epoca lontana migliaia e migliaia di anni, o di luoghi molto distanti dalla metropoli lombarda. La storia del lago Gerundo (chiamato anche "mare" per la sua vastità) è poco nota perfino in Lombardia, se si escludono alcuni libri di storia locale, e pochi ricercatori che si sono dedicati all'argomento. Soltanto in questi ultimi anni, grazie a singoli studiosi, quali Livia Feroldi Cadeo e gli appassionati che si raccolgono attorno alla rivista "Insula Fulcheria", le ricerche sul mare Gerundo hanno preso un indirizzo scientifico. La rivista in questione è edita dal Museo Civico di Crema che custodisce un'ampia documentazione sul Gerundo e sulle popolazioni che abitavano le sue rive, nonché sull'isola Fulcheria, che si trovava al centro del Gerundo e sulla quale è sorta la città di Crema il cui nome deriva dalla radice prelatina cre o crem che vuole dire altura, collinetta. Ancora in epoche relativamente recenti abbiamo notizia di grandi aree padane allagate in maniera permanente, tanto da diventare dei veri e propri laghi che i fiumi, non disciplinati da argini e canalizzazioni, alimentavano, soprattutto nei mesi primaverili e autunnali. Nella parte orientale della Padania, il Po si diramava in sette braccia che penetravano in una regione sempre incerta tra le terre e le acque, selvaggia, abitata da gente tagliata fuori da ogni consorzio civile. La regione era detta "Septem Marie", o Sette Mari, e di queste immense paludi restano oggi soltanto le Valli di Comacchio. C'era poi il lago Bondeno, a sud del Po, tra Ferrara e la Mirandola, tanto vasto e profondo che una leggenda locale lo considerava fundo carens, senza fondo, e direttamente collegato al Paese degli Antipodi. A nord del Po, fino a poco più di cent'anni fa, si stendevano le Grandi Valli Veronesi. A sud, verso Bologna, la palude di Crevalcore sfiorava quella dei Sette Mari. Ma nessuno di questi specchi d'acqua, un poco lago e un poco palude, era ricco di acque e navigabile quanto i Gerundo. Come gli altri bacini di pianura, il Gerundo non è mai stato di una vastità costante. Dipendeva dai fiumi che lo alimentavano, l'Adda, l'O glio e il Serio (con qualche apporto forse anche dal Lambro), e perciò dall'andamento climatico; e dipendeva da gli uomini che abitavano la Padania. I coloni del periodo romano sicura mente ne prosciugarono grandi tratti bonificando i terreni per coltivarli. Alcune strade consolari lo attraversarono, a dimostrazione che in talune epoche il Gerundo non era un'unica superficie lacustre, ma un insieme di bacini. L'epoca della sua massima espansione fu sicuramente quella che coincide con la caduta dell'impero romano e le successive invasioni barbariche, quando l'Italia tornò in gran parte preda delle foreste e delle paludi, e così fino all'Xl secolo, quando l'uomo della pianura cominciò a riconquistare il territorio partendo soprattutto dai monasteri benedettini, centri di lavoro e di studio, oltre che di preghiera. Nell'Alto Medioevo, quando il Gerundo era un'unica gigantesca superficie con al centro l'Insula Fulcheria", i suoi confini dovevano sfiorare (partendo da nord) i luoghi dove sorgono attualmente i paesi di Vaprio, Cassano, Lodi, Cavena, Cavacurta, Pizzighettone, Grumello (risalendo verso nord), Cortemadama, Madignano, Offanengo, Vidolasco, Castelgabbiano, Caravaggio (verso ovest), Treviglio, Brembate. I confini dell'isola Fulcheria, nel bel mezzo del Gerundo, erano grosso modo delineati dagli attuali centri abitati di Azzano, Palazzo Pignano, Casaletto, Montodine, Formigara, San Bassano, Ripalta Arpina, Crema, Ombriano, Trescore. Chi volesse rendersi conto della grandezza del Gerundo non ha che da tracciare su una moderna carta stradale le, linee che uniscono questi centri abitati. In un dattiloscritto conservato presso la Biblioteca Comunale di Cremona, intitolato "Il Lago Gerundo" e firmato da G. Cugini in data 1947-1948, troviamo una funzionale suddivisione della storia nato rale del lago Gerundo in quattro epoche. Un'epoca remotissima che risale al periodo postglaciale dell'Olocene, quando le alluvioni corrosero il materiale facilmente asportabile depositato in precedenza, creando così un ampio bacino, con l'eccezione dell'allungato conoide dell'isola Fulcheria e di altre isole più piccole. Un'epoca remota, quando i fiumi della zona riunirono le loro acque formando la distesa lacustre sulle cui sponde cominciarono a insediarsi i primi nuclei di uomini; siamo nell'epoca in cui la gente del neolitico conquista la pianura. Un'epoca di mezzo, caratterizzata dalle progressive bonifiche dell'uomo, con successivi abbandoni e altri recuperi del territorio; i fiumi vengono adagio disciplinati, vengono costruiti fossi scolmatori e canali, gli acquitrini prosciugati e i terreni asciutti messi a coltura; dove il lago era più profondo restano banchi di ghiaia e di sabbia; restano anche, fino a pochi anni fa, piccole chiazze di palude vera e propria, dette Mosi. II Gerundo non doveva essere molto profondo, perché era pur sempre un lago "di pianura", e non di origine tettonica e neppure glaciale: gli unici esempi ancora visibili sono i laghi di Mantova, tre laghi acquitrinosi che costituivano fino a pochi anni fa un interessante biotipo padano: oggi restano poche tracce di flora palustre, con carici, felci idrofile, scirpo, potamogeti, ninfee e castagne d'acqua. Infine un'epoca moderna, che è la nostra, durante la quale ogni traccia del lago è sparita, almeno per un osservatore non specialista e non attento: il paesaggio è quello padano classico, con campi coltivati organizzati in una rete di canali di scolo che impediscono ogni ristagno delle acque; con l'eccezione delle zone dove l'acqua sgorga dal suolo dalle cosiddette risorgive. Eppure, per un "esploratore" un pochino più attento, e un pochino più informato, le tracce del lago o mare Gerundo non sono poi così introvabili e invisibili. Sulla sua esistenza abbiamo prove geologiche, archeologiche, documentali. L'esplorazione del territorio del Gerundo, e cioè la provincia di Bergamo nella parte meridionale, la provincia di Cremona nella parte superiore, oltre al Lodigiano e a tutto il Cremasco, muovendosi tra musei, chiese, ruderi, cave di ghiaia, remoti angoli di campagna dove il terreno è "inspiegabilmente" fatto come la sponda di un lago, consente un viaggio dentro una storia che i libri ignorano. Una storia che sul posto però non è stata dimenticata. Ad esempio a Lodi e a Crema possiamo trovare strade dedicate alla leggenda: Via Lago Gerundo, Vicolo Gerundo. La parola "gera", o "ghera", che significa ghiaia e dà il nome al lago Gerundo (lago Ghiaioso potremmo tradurre oggi), ricorre spesso proprio al centro dell'area ex lacustre, nella zona detta Gera d'Adda, con i toponimi Brignano Gera d'Adda, Fara Gera d'Adda, Misano di Gera d'Adda, solo per citarne alcuni. lavori sul gerundovecchie fotografie che illustrano la faticosa opera degli scarriolanti: costruendo argini e canali, questi operai contribuirono a controllare i fiumi padani che portavano acqua alle paludi. A dimostrazione che il mare Gerundo era navigabile, percorso da barche di pescatori e da piccole (ma non tanto) navi mercantili e da battaglia, esistevano fino a pochi decenni fa gli anelli e i ganci utilizzati per l'ormeggio, come scrive Ambrogio Curti nel suo "Tradizioni e leggende di Lombardia" (1856): «Delle origini del lago Gerondo, che l'arte degli uomini e il tempo vennero affatto disseccando, sì che più non ne rimangono adesso altre vestigia che nei grossi anelli ed lavori sul gerundoarpioni che in più di un luogo si trovano; onde da tutti si congettura con giustezza che servissero ad affrancare navigli, che per quella vastità di acque correvano a commerci, alla pesca, ed alle comunicazioni coi limitrofi paesi...». Uno di questi grossi anelli da ormeggio era infisso alla base dell'antichissima torre Poccalodi, che modificata divenne la cappella di San Bernardino nella chiesa di San Francesco a Lodi. Il porto di Lodi sul Gerundo era in località Monte Eghezzone, dove sorgeva la chiesa di San Nicolò. Altre torri adibite un tempo a porti fortificati si trovano anche a Pandino, Truccazzano e Soncino. Qui è più viva che altrove una tradizione popolare fatta di fiabe, leggende e aneddoti legati all'epoca in cui le onde del mare Gerundo lambivano il paese. La più nota delle leggende attribuisce la responsabilità del prosciugamento del Gerundo al Barbarossa. Sparita l'acqua, i pesci morirono e con loro molti uomini a causa di una conseguente pestilenza. Sopravvisse soltanto una donna, una certa Soresina che se ne andò a fondare un paese non lontano da Soncino, paese che porta ancora il suo nome. drago TarantasioProprio a Soncino un'altra leggenda vuole che sia nato il drago Tarantasio, o Tarànto, il più famoso degli abitatori del mare Gerundo, seminatore di terrore e di lutti. Il nome gli derivava dal fatto che, benché rettile, aveva gambe numerose e lunghe, come quelle della tarantola. Lo storico Francesco Castiglioni, nella sua opera "Antichità di Milano", riporta un testo conservato presso l'archivio dei monaci Olivetani: «Nell'anno 1300 dalla natività di Cristo Signor nostro, Bravi intorno alla città di Lodi un certo lago, che per la ingente larghezza e per la grandissima inondazione dell'acqua che vi era fluita, appellavisi mare Gerondo. Su questo medesimo lago apparve prodigiosamente un velenoso e mostruoso serpente, che col solo alito pestifero infestava tutta la città; per cui molti dal pessimo puzzo ammorbati, morivano. «Contagio e infermità facendosi di' giorno in giorno maggiori e scemandosi assai il numero degli abitanti, e la città dalla furia dell'acqua essendo invasa, grandemente i cittadini se ne accoravano, e tanto più l'affluizione s'aumentava, quanto meno fosse sperabile rinvenire rimedio che valesse a guarire gli infetti, o a prosciugare l'acqua, o ad estinguere l'animale stesso. «Epperò stando tutti gravemente ín angustia, si rivolsero alla Divina Maestà, colla ferma speranza ch'essa nessuno respinga che con puro cuore le si raccomandi. Ma perché più facilmente ciò che tanto bramavano avessero a conseguire, il Reverendissimo Bernardino Tolentino, allora vescovo della città, convocato il clero e tutto il popolo, tenne loro pietoso sermone in cui efficacemente pregavali perché con tutto il calore del cuore e con tutta la pietà levassero preghiere a Dio, onde sì degnasse liberare questo suo popolo da quella pestifera strage. «Il medesimo Reverendissimo Vescovo sancì che si facessero per tre giorni continui solenni processioni e si stabilisse un voto: che se Dio operasse che, preso da compassione di quella mortalità, gli avesse a campare da quella velenosa fiera, erigerebbero un tempio in onore della santissima Trinità e del glorioso martire Cristoforo. «Né fu certamente quella una vana speranza, perché compite le processioni, e dato il voto, in quello stesso giorno, che fu il primo di gennaio, si ottennero due memorabilissimi miracoli, che morisse cioè l'infestissimo drago e si prosciugasse quell'immenso lago. Laonde i pii cittadini, di questo beneficio immensamente riconoscenti, edificarono un magnifico tempio, come avevano promesso col voto, il quale tempio fu poi più augustamente riedificato dai Reverendi Padri della Congregazione Olivetana nell'anno 1563». Se al posto del drago Tarantasio, dall'alito pestifero e ammorbante, che causava contagi capaci di uccidere, mettiamo le febbri malariche e altre malattie di palude, vediamo che tutto diviene credibile e logico, come la richiesta dei cittadini di Lodi di prosciugare l'immenso acquitrino. In ogni leggenda di originepopolare c'è sempre del vero. Se poi preferiamo credere nell'esistenza dei draghi, non mancano gli indizi per accettare e accertare la loro presenza nel Gerundo. Cominciando dall'inizio, dalla nascita del Tarantasio proprio a Soncino. "Padre" della leggendaria bestia sarebbe nientemeno che Ezzelino da Romano, vicario imperiale e genero di Federico 111, signore di un territorio che comprendeva gran parte del Veneto e Brescia. Un condottiero tanto feroce che papa Innocenzo IV lo scomunicò e bandì una crociata contro di lui nel 1254, affidandone il comando ad Azzo VII d'Este. A Cassano d'Adda, nel 1259, Ezzelino fu sconfitto e mortalmente ferito. Secondo la tradizione sarebbe stato sepolto proprio a Soncino. Un arciprete, vissuto in quel paese nel secolo scorso, testimonia di aver trovato sotto la chiesa un sepolcro contenente lo scheletro di un uomo gigantesco, qual era Ezzelino secondo quanto riportato dai contemporanei. Proprio in quel sepolcro, riferisce la credenza popolare, era nato il drago Tarantasio, come una specie di reincarnazione malefica del crudele signore. Tracce di carattere più "scientifico" erano, e sono, custodite in alcune chiese del territorio, sotto forma di ossa gigantesche rinvenute in quelli che un tempo erano i fondali del Gerundo. Secondo Luciano Zeppegno, grande cronista delle curiosità e delle stranezze sparpagliate nelle nostre contrade, nella chiesa di Sant'Andrea di Lodi era custodito addirittura uno scheletro completo di Tarantasio. Un osso gigantesco, e precisamente una costola di drago del Gerundo, è ancora oggi visibile appesa al soffitto della sacrestia della chiesa di San Bassiano, a Pizzighettone. La costola, probabilmente, appartiene a una balena fossile o a un elefante. Scheletri di balene sono stati spesso rinvenuti sulle Prealpi e, soprattutto, sull'Appennino che si affacci sulla Pianura Padana. Più interessanti, dal punto di vista storico, altri ritrovamenti che dimostrano l'esistenza dell'enorme specchio d'acqua detto mare Gerundo. Ci riferiamo alle numerose piroghe rinvenute nei fiumi che interessano il territorio. Uno degli esemplari più belli e meglio conservati è visibile nel cortile del Museo di Crema, restaurato con sostanze speciali che ne hanno arrestato il processo di dissoluzione. Le piroghe del Gerundo sono monossiliche, cioè ricavate da un unico tronco (immaginiamo quanto dovevano essere enormi le querce roveri delle foreste lambite dal Gerundo) e di grandezza variabile a seconda dell'impiego: per la pesca, il commercio o la guerra. La grandezza e la forma delle piroghe dimostra che erano impiegate in acque paludose o lacustri, essendo inadatte alla navigazione fluviale. Si tratta di imbarcazioni costruite nell'Alto Medioevo con tecniche che risalgono al neolitico. In epoche più recenti, il Gerundo è stato attraversato da vere e proprie navi, le medesime che percorrevano i fiumi e i laghi di tutta l'Europa, fino a raggiungere il mare aperto. Cocche, burchi, bucintori e galee che parteciparono anche a battaglie navali, qui come nella parte più orientale della Padania, dove le flotte fluviali di Venezia e di Ferrara si scontrarono spesso in furibonde battaglie combattute da marinai d'acqua dolce non meno esperti navigatori di quelli delle acque salate. L'"Insula Fulcheria", la più grande delle isole del mare Gerundo, prendeva il nome da Fulcherio, il duca longobardo che l'aveva avuta in feudo dopo la conquista della Lombardia. Crema, per lunghi anni, è stata il capoluogo di un'isola difficilmente conquistabile, protetta da fortif icazioni con bastioni e torri i cui relitti erano visibili fino a pochi decenni or sono a Vaiano (ne parla Antonio Zavaglio nel volume "Terre nostre", pubblicato a Cremona nel 1946). Ci volle un'alleanza coi cremonesi, pratici del Gerundo, perché l'imperatore Barbarossa riuscisse a espugnare Crema dopo un assedio durato dal luglio del 1159 al febbraio del 1160. Anche Cremona, come Crema e Lodi, non ha dimenticato il mare Gerundo (che però lambiva soltanto una piccola parte del suo territorio) e ha voluto una Via Fulcheria, una Via Lago Gerundo e una Via Mosa. Il Moso era la palude, profonda mediamente cinque metri, formata dalle acque sorgive e dalle piene del Serio, che si allargava nella bassa bergamasca fino a nord di Cremona: praticamente un'ansa del Gerundo più antico, e una delle tante paludi del Gerundo più recente, quando gli specchi d'acqua si alternavano a terre asciutte e polesini. Le cronache dell'epoca del Barbarossa riferiscono che i cremonesi si recarono all'assedio di Lodi e di Crema "con apparato nautico per le interposte paludi". Conquistato il territorio, il Barbarossa donò l'isola di Fulcheria al cremonese Tinto, detto Muso di gatta, con un atto del 17 maggio 1159. Alla sparizione del lago Gerundo hanno naturalmente contribuito molti fattori, anche se la fantasia popolare, come abbiamo visto nel caso di San Cristoforo e del drago Tarantasio, preferisce spiegazioni miracolose o eroiche. I fattori climatici sono sicuramente da porsi in primo piano: il periodo di maggiore espansione del lago, quando fu definito addirittura "mare", coincide col periodo caldo dell'Alto Medioevo. Scioglimento dei ghiacciai e grande piovosità favorirono la formazione nella Pianura Padana di acquitrini e valli, proprio nel momento in cui l'uomo si accingeva a riconquistare quelle plaghe che erano state fertili ai tempi dei romani. Dal XIII secolo in avanti il clima cambia andamento ed entriamo in quella che i climatologi hanno definito la Piccola Età Glaciale, durata fino a metà del secolo scorso e caratterizzata dal prosciugamento delle paludi assecondato dall'opera dell'uomo. Non va dimenticato il lavoro dei monaci che fecero di Nonantola, San Benedetto, Pomposa e altre località padane importanti centri agricoli, in osservanza alle regole dettate da Sant'Oddone, abate di Cluny, che a partire dal 910 aveva riformato l'ordine dei Benedettini indirizzandolo verso la cura dei poveri, l'assistenza ai pellegrini e, soprattutto, la colonizzazione delle terre vergini o tornate incolte a causa delle invasioni barbariche che avevano cacciato la gente dalle campagne. Intorno all'anno Mille, l'abate Sant'Ugo il Grande incrementò la fondazione di monasteri cluniacensi in Lombardia. Nell'area interessata al lago Gerundo sorsero le abbazie di Caravaggio, Barbata, Bottaiano, Ombriano, Crema, Madignano, Carreto, Trignano. La costruzione di canali e fossati favorì lo smaltimento delle acque. Adagio le zone occupate dall'acquitrino diminuirono. Oggi uniche testimonianze di quell'abbondanza di acqua sono i fondali, o risorgive (o sorgenti di affioramento): vere e proprie sorgenti di pianura, caratteristiche della Padania, microambienti con una ricca vegetazione naturale di sambuchi e di sanguinelli, e con diverse specie di anfibi che prosperano tra le erbe acquatiche. Una limpida ricchezza che un tempo andava ad alimentare il lago Gerundo, e che oggi l'uomo ha domato e convoglia verso le campagne di Lombardia, tutte coltivate e ordinate, dove passando in macchina è difficile immaginare il selvaggio mare di un tempo che sembra appartenere solo alle favole. fonte : Storia di un mare perduto ( di Giuseppe Pederiali), informazioni per far conoscere le nostre origini e leggende. www.crsoresina.it/soresina/storia/lago_gerundo.html 1.7 Il mistero del Lago Gerundo Il mistero del Lago Gerundo Tra Adda, Serio e Oglio, un tempo c'era un lago d'acqua dolce di epoca post glaciale: il Gerundo, o Gerundio, o Girondo che per la prima volta appare citato in certe carte notarili dell'inizio del secolo XIII. Questo lago era poco profondo ma molto esteso (circa 35 Km da est a ovest e 50 Km da nord a sud). Emergevano isole e isolette molto allungate parallele alla direzione della corrente. La più grande era l'isola Fulcheria su cui si sviluppò la città di Crema. Lodi era città costiera affacciata alla sponda ovest del lago. A nord il lago raggiungeva Vaprio, a sud Pizzighettone. Il lago doveva essere una distesa di acqua alimentata dagli straripamenti dei tre fiumi e dalle risorgive di provenienza sotterranea. La profondità variava dai dieci ai venti metri con punte sui venticinque. Nelle aree meno profonde erano frequenti le formazioni paludose; a Genivolta venne trovata un'ara, conservata oggi al museo di Cremona, dedicata alla dea italica Mefite, sovrana delle paludi. L'uomo era insediato sulle sue sponde e sulle isole sia su terraferma che su palafitte (la pretesa città di Acquaria nei pressi di Soncino) e navigava sul lago con piroghe scavate da un unico tronco di quercia, di cui si sono rinvenuti alcuni esemplari. Si nota, inoltre, in molte località, la presenza di torri con infissi grossi anelli di ferro cui si ancoravano presumibilmente queste piroghe, le navi del lago Gerundo. A causa di frequenti intense piogge e dell'abbandono delle opere di bonifica che erano state incominciate dai romani, l'estensione del lago Gerundo è aumentato progressivamente spingendosi anche molto lontano verso sud. Ulteriori indicazioni della presenza umana vengono dai toponimi come Gerola, Girola, Gera d'Adda, derivati dalla radice gera, ossia ghiaia, che compare nel nome stesso del lago Gerundo. L'acqua si stendeva, infatti, su un fondo ghiaioso di origine glaciale e oggi, in alcune zone, dopo un primo strato argilloso spesso un paio di metri, dovuto ai sedimenti del mitico lago, si trova un banco di ghiaia, profondo circa otto metri in cui si riconosce il sedimento dovuto alle acque di scioglimento dei ghiacciai, infine, un nuovo fondo argilloso, lasciato dal mare vero che occupava la pianura padana prima dell'era glaciale. Attorno al Mille e nei primi secoli successivi il lago cominciò a ritirarsi. Il drenaggio del lago fu in massima parte opera dell'uomo: le bonifiche dei benedettini, cluniacensi e cistercensi, poi i canali costruiti dal comune di Lodi o da famiglie feudali come i Borromeo o i Pallavicino il cui nome è ancora legato a rogge o navigli. Del lago Gerundo sono rimasti ricordi e leggende. Anche il Gerundo ebbe il suo drago: il drago Tarànto, un grosso biscione con la testa così grande da sembrare un drago che terrorizzo le campagne tra Lodi e Crema. Una leggenda attribuisce l'uccisione del drago a Federico Barbarossa. All’uccisione del drago, seguirono il ritiro delle acque, la scomparsa del lago ed il recupero di immense e buone terre da coltivare che ancora oggi sono il perno fondamentale 1.8 Intervento dello storico Prof. Riccardo Caproni ( Intervento dello storico Prof. Riccardo Caproni ( www.youtube.com/watch?v=2VWR1gag9rM Pubblicato il 23/ott/2012 Intervento dello storico Prof. Riccardo Caproni ( Ateneo Scienze Lettere ed Arti di Bergamo) chiarisce che il Lago Gerundo difficilmente era presente durante l'Impero Romano, in quanto le centuriazioni che disegnarono per ridistribuire la terra ai legionari erano estese anche sulle terre che qualcuno ritiene fossero invece coperte dal lago. E' possibile, invece, che con la caduta dell'impero, i canali e i fontanili, senza manutenzione, si siano così degradati da non controllare più il flusso delle acque e quindi consentire, nelle stagioni piovose come l'autunno e la primavera, esondazioni e grandi pantani. www.youtube.com/watch?v=rzy0IAfEM74 1.9 Le nebbie del Lago Gerundo Le nebbie del Lago Gerundo Paolo Zanoni L’acqua non c’è più da un pezzo, drenata a fatica negli alvei dell’Adda, del Serio e dell’Oglio, ma le strade rettilinee sono delle rotte sicure per navigare tra leggende suggestive e paesi interessanti sorti sulle emergenze in altre epoche inglobate nel mitico lago Gerundo. Ancella inseparabile e misteriosa in questo viaggio virtuale, ma non troppo, nelle profondità del tempo, la nebbia. Terra, acqua e nebbia sono gli elementi che fanno da sfondo alle vicende; il Medioevo è il tempo in cui sono ambientate. Ingredienti indispensabili per imbastire un racconto accattivante. Nell’Età di Mezzo l’area compresa tra i fiumi menzionati appariva come una grande palude, le cui acque stagnanti si alzavano e abbassavano secondo il regime stagionale delle piogge. In mezzo all’immenso acquitrino, impropriamente chiamato lago o mare, emergevano delle insule, la più vasta delle quali, detta Fulcheria, corrispondeva all’attuale città di Crema col suo territorio. Su questi rialzi, che oggi separano i bacini fluviali, erano ubicati gli stanziamenti umani, poi ingranditi fino a diventare gli odierni paesi. E’ in questo contesto che è nata la leggenda del drago Tarantasio, con le sue varianti e i suoi particolari, tali da far impallidire il recente mito mediatico di Nessy, l’omologo scozzese che non riesce a scaldare la fantasia. Tra acque infide e vapori nebulosi, forse originati dalle sue stesse narici, viveva Tarantasio, una specie di mostro antidiluviano dal corpo di serpente, la grande testa cornuta di sauro, la lunga coda e le zampe palmate. Cibandosi di carne umana, con predilezione per quella dei bambini, esso incuteva terrore e paura tra gli abitanti dei villaggi rivieraschi del mefitico lago Gerundo. Narra la leggenda che dopo la morte del santo vescovo Ambrogio, un drago avrebbe insidiato Milano, divorando gli incauti cittadini che osavano sortirne dalle mura. Fu il nobile Uberto Visconti, armato di coraggio, il solo uomo ad affrontare il mostro e ad ucciderlo presso Calvenzano con un colpo netto di spada. Da allora il biscione con un giovinetto in bocca compare nello stemma della città e della potente famiglia che la tenne a lungo in signoria. Secondo questa versione non c’è dubbio che il biscione fosse proprio Tarantasio. Una seconda leggenda diffusa a Lodi, fa risalire l’ultima apparizione del drago al giorno di San Silvestro del 1299 e la sua scomparsa nel nulla al giorno seguente, capodanno 1300, insieme all’evaporazione del grande stagno in cui viveva, per l’intervento miracoloso di San Cristoforo, patrono delle acque. Il vescovo di Lodi, Bernardo de Talente, che aveva indetto una novena pubblica per invocare la liberazione dal mostro e da una micidiale epidemia in corso, decretò dopo la fine dell’incubo, l’erezione di una chiesa dedicata alla Trinità e al santo. Passati alcuni giorni, nel letto prosciugato della palude venne rinvenuta una costola colossale che i lodigiani attribuirono con sicurezza al drago malefico. I reggenti della città stabilirono il 23 aprile 1307, festa di San Giorgio, di offrire annualmente cento soldi imperiali alla chiesa di San Cristoforo in segno di gratitudine per la liberazione dal mostro. In essa venne collocata la grande costola fossilizzata, forse di un cetaceo, andata perduta nel XVIII secolo insieme alle due lapidi marmoree che ricordavano gli eventi. Un’altra costola misteriosa si può ancora vedere nella chiesa di San Giorgio ad Almenno San Salvatore, nella bergamasca Valle Imagna. In quanto al prosciugamento del lago Gerundo, esso è da attribuire all’opera dei cistercensi e dei benedettini presenti nei monasteri sorti ai suoi margini. Spariti i draghi, trafitti dalle lance dei santi e dei cavalieri, evaporata d’incanto l’acqua melmosa delle paludi, è rimasta la nebbia, la silente signora della pianura. Forse da queste parti transitò nel suo lungo trasferimento dalle brume danubiane a quelle della Loira, il santo cavaliere Martino, che non esitò a dividere il proprio mantello con l’inerme e infreddolito mendicante incontrato per strada. Il periodo intorno alla sua festa regala spesso giorni di pallido sole, la breve estate dei morti che prelude alle tenebre e al freddo invernali. Il passo dalle leggende alla storia non è poi così lungo. Se c’è un luogo in cui, esclusi i mostri acquatici, si fondono alla perfezione il Medioevo, San Martino, la bonifica del lago Gerundo e la nebbia, questo è Palazzo Pignano, paese a pochi chilometri da Crema verso l’Adda. Lì, nel raggio di un centinaio di metri che comprende i resti di una villa tardo-antica e la romanica parrocchiale, dedicata per l’appunto al santo vescovo di Tours, vi è una densità di storia e un concentrato d’arte di eccezionale valore. Paltium Pinianum era un insediamento romano sorto ai margini dell’Insula Fulcheria. L’importanza del sito è testimoniata dalla vasta area archeologica, 25/30 mila mq., scoperta nel 1963 ed acquisita al demanio, nella quale, oltre all’abbondanza di reperti del IV-VI secolo sistemati nel vicino Antiquarium, sono emersi i resti della grande villa appartenuta ai nobili Piniano e Melania, ferventi cristiani vissuti nel V secolo. Morto Piniano nel 432, Melania si ritirò a vita eremitica a Gerusalemme consumando il proprio patrimonio a favore dei poveri e fondando comunità monacali femminili e maschili, meritandosi infine la santità. La villa era costituita da diversi ambienti dotati di pavimenti musivi, prospettanti su un giardino interno e dotata di un portico ottagonale lastricato con marmo rosso di Verona. Nell’area della villa, verso sera, altri scavi hanno riportato alla luce i resti della Cappella del Palatium, una grande chiesa a pianta circolare con fonte battesimale. Scavi che hanno interessato anche la navata destra dell’attuale chiesa parrocchiale sotto il titolo di San Martino, eretta nel secolo XI. Tra le due chiese, in epoca carolingia, era sorta la pieve, e questo giustifica la dedicazione al santo vescovo di Tours, caro ai Franchi. La successiva sovrapposizione di chiese è dovuta anche alle due distruzioni subite da Palazzo Pignano nel torno di un secolo. La prima nel 951 ad opera degli Ungari e la seconda nel 1059. Tra il IX e il X secolo il paese era una curtis soggetta al monastero benedettino di San Savino di Piacenza, diocesi alla quale appartenne in alternanza con Cremona, prima di finire nel 1580 in quella cremasca di nuova costituzione. Nel suo stile basilicale di transizione, la parrocchiale di Palazzo Pignano esercita un potente richiamo evocativo dell’epoca in cui fu costruita. La vasta navata centrale, con copertura a capriate lignee, è chiusa dall’abside semicircolare in cui i restauri del 1967 hanno evidenziato lacerti di affreschi rinascimentali. Si tratta di una Madonna del Latte, di un’altra Madonna della Rosa, di una Crocifissione, di un San Martino e di altri santi. Colpisce per il senso drammatico che emana, all’inizio della navata sinistra, il gruppo di otto grandi statue in terracotta che compongono il Compianto del Cristo morto, quattrocentesca opera di Agostino de Fondulis. Provenienti dalla soppressa chiesa cremasca di San Marino, esse furono donate negli anni Ottanta dell’Ottocento alla parrocchia locale dai conti Vimercati Sanseverino che a Palazzo Pignano avevano vaste proprietà. E’ davvero straordinario questo borgo spesso avvolto nelle nebbie che esalano dai campi e dalle rogge, per il notevole patrimonio storico ereditato, in grado di riservare in futuro altre piacevoli sorprese, oggi celate dal verde manto dei suoi prati. www.virtusloci.it/web/virtus-loci/nelle-nebbie-del-lago-gerundo 1.10 Quel ramo del lago Gerundo Quel ramo del lago Gerundo Il Lago Gerundo è protagonista della storia e delle leggende del Lodigiano, del Bergamasco e del Cremonese, territori che nel medioevo erano sott'acqua Il lago Gerundo Lodi, 31 gennaio 2011 - Draghi, eroi e misteri: il Lago Gerundo è protagonista della storia e delle leggende del Lodigiano, del Bergamasco e del Cremonese, perché era così vasto da ricoprire con le sue paludi buona parte di questi territori. Tra le leggende più diffuse, quella di Tarantasio il drago. Uno dei racconti lo vuole ucciso da Azzone, il primo dei Visconti: «Per questo, secondo alcuni, sullo stemma del casato c’è un enorme biscione che mangia un bambino», spiega lo studioso Valerio Ferrari. Altre trame raccontano che ad annientare la bestia fosse stato San Cristoforo: «A Lodi, nella chiesa intitolata al santo — aggiunge Ferrari — c’era appesa una costola ritenuta del drago». Infatti, queste storie sono nate da oggetti ritenuti strani o da fatti inspiegabili per gli uomini del tempo.Proprio come «alcuni resti animali — spiega Damiana Tentoni, responsabile del museo di Pizzighettone —. Come la costola di mammuth trovata nel letto dell’Adda, che conserviamo nella sezione paleontologica del museo». La costola del museo è simile a un «osso appeso nella chiesa di San Bassiano a Pizzighettone — racconta Tentoni —: non è ancora stato analizzato, ma o è di mammuth o di cetaceo, il che ci riporta all’epoca antichissima in cui la pianura Padana era sommersa dal mare». «Un tempo le chiese erano usate come fossero musei, ci venivano messi anche antichi reperti — sottolinea Valerio Ferrari, che conferma —: dalle ossa ritrovate sono sorte molte leggende». Ma il mito ricorda anche la Tarasque (mostro della tradizione provenzale, ndr) uccisa da Santa Marta. «E forse non è un caso se in molti paesi che si affacciavano sul Gerundo ci siano chiese dedicate a Santa Marta, come a Pandino o a Rivolta d’Adda», assicura Ferrari. Oltre che dalle ossa, le leggende prendevano spunto anche dai miasmi della palude: «Secondo la gente del tempo la puzza era l’alito del drago, mentre i fuochi fatui erano segnale della sua presenza», racconta Silvano Vicardi, presidente dell’Associazione medioevale di Corneliano Bertario, che l’anno scorso in occasione della manifestazione storica che si tiene in paese ogni settembre, ha portato in scena la leggenda del drago. «Il mito del mostro nel lago è comune a molte culture. Si pensi ad esempio a Loch Ness e al suo famoso mostro», sottolinea Ferrari. La casa di Tarantasio era in realtà un insieme di stagni che si sono originati in un periodo di forte piovosità, tra il 400 e il 750 dopo Cristo. Come ricordano gli studiosi Giancarlo Dossena e Antonio Veggiani, in un articolo apparso su “Insula Fulcheria” nel numero 14 del dicembre 1984, per questi mutamenti climatici le bonifiche fatte dai Romani vennero messe in crisi, anche per l’innalzamento dell’alveo del Po che provocò un grande sovralluvionamento. Furono coinvolti anche i percorsi dell’Adda e del Serio: alla fine si formò una grande zona paludosa, appunto il Lago Gerundo. Valerio Ferrari racconta che «si parla per la prima volta di questa palude nel Codice Diplomatico Laudense del 1204, dove si tratta la permuta di un terreno, di cui si dice che confinava a oriente con la costa e la ripa del Mare Gerundo». Il termine “mare” deriva dal medievale “mara” «che significa palude», suggerisce Ferrari. «I terreni sono stati bonificati, ma si vedono ancora oggi dei campi a mezzaluna — svela Ferrari —: indicano che in quel punto l’Adda ha modificato il suo percorso, formando paludi». Testimoni della presenza delle paludi sono anche le cronache dell’attività di bonifica dei monaci di Abbadia Cerreto, che dal 1139 si prodigarono per ricavare dalle paludi aree destinate all’agricoltura. «Dopo la fase di sovralluvionamento altomedioevale ci fu un periodo, tra il 750 e il 1150, con scarse precipitazioni e aumento della temperatura media», scrivono i due studiosi Dossena e Veggiani, raccontando quindi il “periodo caldo medioevale”. L’alveo del Po si abbassò, così fecero anche gli altri fiumi, Adda compreso. Il lago Gerundo si svuotò, finché secondo alcuni studiosi, «prima del mille, la vasta plaga occupata dal lago non esisteva più». Tuttavia, il passato del Gerundo ha lasciato segni e reperti che sono arrivati fino ai nostri giorni. Ad esempio, l’articolo di Dossena e Veggiani ricorda che «nel Museo di Crema si trovano undici piroghe monossili rinvenute, a iniziare dal 1972, nel letti dei fiumi Oglio, Adda e Po». I reperti sono di origine altomedioevale date le loro grandi dimensioni. Di una di queste piroghe si ipotizza che fosse usata tra il 400 e il 750 dopo Cristo, perché è apparsa dopo l’erosione di alcuni depositi alluvionali che contenevano tracce fluviopalustri del Lago. In ogni caso, sia solo un racconto per bambini o uno spunto di studio per scienziati e storici, il lago Gerundo è un elemento essenziale del patrimonio culturale lodigiano. di N.P. www.ilgiorno.it/lodi/cronaca/2011/01/31/451637-storia.shtml 1.11 Lago Gerundo: storia o leggenda? Lago Gerundo: storia o leggenda? Scritto da Marco 12 luglio, 2006 Lago Gerundo: storia o leggenda? C’era una volta, verso l’anno 1000, al posto di Merlino, un lago, di cui parlò già Plinio il Vecchio… Fin dall’età medievale si tramanda la memoria del mitivo Lago Gerundo (esisterebbe una bitta per l’attracco delle imbarcazioni a Fara Gera d’Adda) popolato, secondo la tradizione, da mostri. Esistono infatti ampie testimonianze, anche in epoca storica, che attestano la presenza di una vastissima zona lacustre e paludosa che occupava l’ampio territorio compreso fra la provincia bergamasca meridionale e la provincia superiore di Cremona, con tutto il Cremasco e il Lodigiano. Il grande acquitrino era formato dal confluire delle acque dei fiumi Adda, Oglio, Serio e, probabilmente, anche del Lambro e del Silero. Il regime alluvionale di questi fiumi dava confini continuamente mutevoli a questo grande bacino, e in esso esistevano alcune “isole” (la più vasta fu la Fulcheria di Crema) sulle quali sorsero anticamente le città della zona. L’instabile lago era chiamato Gerundo (da «gera», volgarizzazione del latino glarea, ghiaia), ma la vera curiosità legata al lago riguarda le innumerevoli tradizioni orali e scritte sulla presenza di grossi rettili sconosciuti (chiamati «draghi»), forse sopravvivenze di animali preistorici che abitavano quegli acquitrini. Anche il dragone visconteo, vinto da Uberto Visconti e rappresentato nello stemma cittadino, è stato messo in relazione con questo nutrito filone di tradizioni, ma per chi ha bisogno di prove tangibili per credere alle leggende rendiamo noto che a Lodi si conservano due resti di un drago del Gerundo, che la tradizione chiamava Tarantasio (uno scheletro nella chiesa di Sant’Andrea, e una costola che ancora alla fine del Settecento si vedeva nella chiesa di San Cristoforo appesa alla volta); un’enorme costola animale, lunga m 2,60, è poi conservata nella chiesa di S.Giorgio ad Almenno San Salvatore e una di m.1,80 pende dal soffitto del Santuario della Natività della Beata Vergine a Paladina (BG). www.merlinolandia.it/2006/07/12/lago-gerundo-storia-o-leggenda 1.12 quando il drago tarantasio abitava il lago gerundo quando il drago tarantasio abitava il lago gerundo 9 Dicembre 2013 Scritto da Chiara Inzani itinerari lodigiani drago tarantasioForse non tutti i Lodigiani sanno di vivere dove anticamente esisteva il lago Gerundo, prosciugatosi intorno al XIII secolo. Si trattava di un vasto specchio di acque paludose e mefitiche a causa delle esalazioni di gas metano che si sprigionavano dal sottosuolo; gli abitanti della regione però attribuivano questi "sbuffi sulfurei" ad un drago di nome Tarantasio, che viveva nel lago e che si nutriva di bambini. Dico che tale drago "viveva" e non "si credeva che vivesse", perché gli abitanti dell'epoca ne erano assolutamente certi, tanto che nel corso dei secoli hanno anche prodotto delle prove a sostegno: infatti, nella sagrestia della chiesa di San Cristoforo a Pizzighettone è conservata una "costola di drago", un reperto di forma oblunga, simile ad un omero umano, ma molto più grande, del quale non si è data una spiegazione scientifica. E questa non è l'unica parte del drago che è rimasta a testimoniare la sua esistenza: anche nella chiesa di San Giorgio di Almenno San Salvatore nella bergamasca sono custodite delle ossa di grosse dimensioni appartenute, si dice, ad una gigantesca creatura non meglio identificata. Per concludere questo elenco di strane reliquie, non si può non menzionare la stessa chiesa di San Cristoforo a Lodi, dove nel passato era custodita l'intera carcassa ossea di Tarantasio, andata però perduta nel corso del Settecento. Si intuisce facilmente da questo breve elenco che le chiese in cui le ossa del terribile mostro sono conservate sono tutte legate a santi che hanno "avuto a che fare", nella loro storia, con figure serpentine o draconiane. Di San Giorgio è comune infatti l'iconografia che lo ritrae nell'atto di uccidere il serpente, o il drago, simbolo del peccato originale. E San Cristoforo? Ebbene, in questo caso è proprio la storia lodigiana e in particolare il "nostro" caro draghetto a fornirci una leggenda: si narra infatti che, agli inizi del 1299, i Lodigiani incaricarono un certo Egimaldo (o Eginaldo) Cadamosto, giovane molto valoroso e coraggioso, di uccidere il mostro. Una notte, Egimaldo partì per la missione con dei compagni a seguito; arrivato al centro del lago Gerundo, Tarantasio comparve, ma, colpito dal giovane, si inabissò subito nelle acque; Egimaldo tornò in città, dove venne festeggiato per giorni, nonostante egli non fosse sicuro di aver ucciso il drago. Qualche tempo dopo, agli inizi dell'estate, Egimaldo e i giovani che lo avevano accompagnato nell'impresa si ammalarono di una febbre altissima che in breve contagiò tutta la popolazione; con l'arrivo dell'autunno, la situazione però precipitò ulteriormente, in quanto, a causa dell'arrivo di abbondanti piogge, il lago e l'Adda esondarono, allagando tutta la zona. È a questo punto della storia che "entra in gioco" San Cristoforo, patrono delle acque: infatti, i Lodigiani invocarono il suo aiuto e, miracolosamente, le acque iniziarono a ritirarsi a partire dalla notte del 31 dicembre; ma non è tutto: sul fondo del lago ormai completamente prosciugatosi, i Lodigiani trovarono la carcassa del drago, che fu trasportata, come già detto, nella chiesa di San Cristoforo a Lodi. In tal modo, la città fu salvata contemporaneamente dall'alluvione e da Tarantasio! Esistono più versioni relative alla morte del mostro: mi è piaciuto ricordare questa, perché ha come protagonista un nostro "compaesano"... Vorrei concludere citando solo un ultimo punto: nel 1945, quando Enrico Mattei assunse la direzione dell'Agip (precursore dell'attuale ENI), venne a sapere che nella zona della Bassa Padana era stato individuato un giacimento di gas naturale; dopo aver trovato altri pozzi di gas in seguito ad ulteriori trivellazioni, decise di scegliere come simbolo della sua azienda proprio Tarantasio, raffigurato come un cane a sei zampe, dalla cui bocca esce una rossa lingua di fuoco, rendendo in tal modo immortale il mostro che per tanti anni aveva terrorizzato gli abitanti delle nostre zone. www.lodicitta.it/territorio/itinerari-lodigiani/quando-il-drago-tarantasio -abitava-il-lago-gerundo 1.13 La leggenda del lago Gerundo La leggenda del lago Gerundo scuola elementare De Amicis - Pizzighettone Tanti e tanti anni fa, tra il paese di Pizzighettone e la città di Lodi, vi era un lago chiamato Gerundo, che era così grande e profondo che tutti lo chiamavano mare. Nella cittadina di Lodi viveva Sterlenda, una giovane bella e gentile, innamorata di Eginaldo, un giovane coraggioso. Tra la gente di Lodi circolava una voce: si diceva che nel lago Gerundo vivesse un drago enorme e feroce, più grande d'un elefante. La sua bocca era grandissima e rossa, fornita d'un'infinità di denti bianchi e aguzzi; il suo alito era infuocato come un lanciafiamme e puzzolente come l'acqua marcia. Le mamme, per paura, non lasciavano uscire di casa i bambini e le bambine, e nessuno di questi giocava mai sulla sabbia della riva del lago. Si diceva, poi, che quando scoppiava un temporale, il drago lasciasse il centro del lago e s'avvicinasse minacciosamente alla città. Una notte d'estate dell'anno 1299 il cielo, divenuto nero, annunciò una terribile burrasca: lampi, fulmini, tuoni riempivano il buio, e il vento alzava onde spumeggianti alte come case. Eginaldo, giovane coraggioso, chiamò alcuni compagni: - Presto, prendiamo una barca, armiamoci di lance e di bastoni e catturiamo il drago! I giovani s'avventurarono nell'acqua. La barca, tra le onde, saliva e scendeva, ora si vedeva, ora spariva… Sterlenda, sulla riva, stringeva preoccupata le mani al petto: sarebbe tornato il suo Eginaldo? Sei imbarcazioni salparono per soccorrere i giovani valorosi, e ben presto tutti ritornarono sani e salvi. Il mostro, però, non era stato catturato. Si festeggiò il ritorno con un gran banchetto, e i racconti sull'aspetto del drago, chiamato con il nome di Tarantasio, iniziarono a circolare tra la gente: - E' un drago enorme... e i suoi muggiti hanno la forza del tuono... l'aria è piena del suo alito asfissiante... I giovani, che avevano affrontato il drago, s'ammalarono di febbre altissima e con il caldo dell'estate si diffuse in città una terribile pestilenza: tanti s'ammalarono, le botteghe chiudevano, gli stranieri scappavano, le campane suonavano tristi rintocchi... tante persone morirono. Eginaldo, però, si salvò e guarì. Passarono i mesi, ma la pestilenza non diminuì. L'autunno, con le sue piogge, peggiorò le cose: il lago Gerundo straripò e allagò la campagna. La gente, non sapendo più cosa fare, si rivolse a Dio e, dopo tante preghiere, promise che, se la pestilenza e l'inondazione fossero finite, sarebbe stata costruita una nuova chiesa. Nella notte del 31 dicembre, le acque iniziarono a ritirarsi e, nel giorno di Capodanno, il lago Gerundo si prosciugò completamente. E... sorpresa! Sul fondo ormai asciutto si vide spuntare una costola enorme, lunga sette piedi! Era una costola del drago. Il mostro era ormai scomparso e la gente ricominciò a vivere senza paura. Sterlenda ed Eginaldo si sposarono nella chiesa di S. Francesco, con una bellissima cerimonia, il 2 febbraio 1300. Le maestre Maria Cristina, Maria Rosa, Rossella; gli allievi Marta, Federica, Ambra, Laura, Lorenzo, Alessandra, Marco, Massimo, Francesco, Salima, Zaid, Arianna, Daniela, Elisa, Roberto, Marika, Roberta, Fabio e Carlotta - scuola elementare De Amicis Pizzighettone 1.14 Il drago Tarantasio alla riscossa! Il drago Tarantasio alla riscossa! Livio Mondini Lo confesso, sono affezionato al drago Tarantasio, o Tàranto se si preferisce. Detto drago era una specie di mostro antidiluviano: aveva il corpo di serpente, la testa enorme di sauro con enormi corna; una lunga coda e zampe palmate. Aveva la sua tana nelle profondità del Mare Gerondo e quando saliva alla superficie eruttava fuoco dalla enorme bocca e fumo dalle narici, spargendo morte e paura. L'ultima apparizione dello spaventoso drago avvenne a San Silvestro del 1299 e si dissolse nei nulla, con le acque del mare, il capodanno del 1300 per il miracoloso intervento di San Cristoforo, il Santo delle acque. Ci resta a testimonianza la cronaca del tempo che dice: "...alla fine dell'anno 1299 il Vescovo di Lodi Bernardo de Talente indice una novena pubblica con la promessa di erigere, cessata l'epidemia che già tanti morti aveva causato, un grande tempio in onore della Santissima Trinità e di San Cristoforo...". Nei primi giorni del 1300 le acque si ritirarono, ebbe fine la epidemia, e nella palude miracolosamente prosciugata, venne trovata una "costola colossale" che il popolo ritenne essere parte del Drago, causa del malefizio. Di questo drago parlavano pure due tavolette di marmo immurate nella chiesa di S. Cristoforo (eretta dai lodigiani a scioglimento del voto fatto nel 1299) dove era stato collocata anche l'enorme costola di cetaceo fossilizzata. Nelle due tavolette di marmo (andate perdute con il grande osso) era scritto del "... serpente che appestava Lodi e che per l'intercessione del Santo Cristoforo nella calenda di gennaio ucciso il drago e prosciugato il lago ove viveva..." Un'altra prova dell'esistenza di questo favoloso drago Tarantasio la troviamo in un atto del 1307. Il 23 aprile di quell'anno la Comunità di Lodi stabiliva di offrire annualmente 100 soldi imperiali alla Chiesa di San Cristoforo per la "liberazione dal drago". A Soncino, qui vicino, in questi giorni sarà pieno di mezzi uomini, Elfi, maghi, orchi. E può mancare Tarantasio a una occasione del genere? Sono certo che farà la sua apparizione. Comunque, inutile prenotare per la cena elfica. I posti sono andati a ruba, ma io non sarei tranquillo... non si capisce bene chi fa da cena e a chi. In ogni caso, se Tarantasio in questi giorni avesse altri impegni, non mancherà di certo alla cena di maggio. Oppure farà la comparsa a tutte e due, chi lo sa, son strani questi draghi. E per primi si mangerà questi Uruk Hai. Ok, lo so che quella che si vede nei campi la mattina è umidità, foschia, ma se fosse l'alito del drago invece? Come esserne certi? Per ora sembra che l'unica ad averlo visto di recente sia Michelle Pfeiffer quando è venuta al castello di Soncino per girare alcune scene di Lady Hawke. Pare che alla sua vista abbia esclamato "ammazza che drago!", e io non ero nemmeno nei dintorni quindi non parlava di me. E che non aveva visto l'orango padano, o yeti dell'Oglio. Livio Mondini 1.15 Le nebbie del Lago Gerundo Le nebbie del Lago Gerundo Paolo Zanoni L’acqua non c’è più da un pezzo, drenata a fatica negli alvei dell’Adda, del Serio e dell’Oglio, ma le strade rettilinee sono delle rotte sicure per navigare tra leggende suggestive e paesi interessanti sorti sulle emergenze in altre epoche inglobate nel mitico lago Gerundo. Ancella inseparabile e misteriosa in questo viaggio virtuale, ma non troppo, nelle profondità del tempo, la nebbia. Terra, acqua e nebbia sono gli elementi che fanno da sfondo alle vicende; il Medioevo è il tempo in cui sono ambientate. Ingredienti indispensabili per imbastire un racconto accattivante. Nell’Età di Mezzo l’area compresa tra i fiumi menzionati appariva come una grande palude, le cui acque stagnanti si alzavano e abbassavano secondo il regime stagionale delle piogge. In mezzo all’immenso acquitrino, impropriamente chiamato lago o mare, emergevano delle insule, la più vasta delle quali, detta Fulcheria, corrispondeva all’attuale città di Crema col suo territorio. Su questi rialzi, che oggi separano i bacini fluviali, erano ubicati gli stanziamenti umani, poi ingranditi fino a diventare gli odierni paesi. E’ in questo contesto che è nata la leggenda del drago Tarantasio, con le sue varianti e i suoi particolari, tali da far impallidire il recente mito mediatico di Nessy, l’omologo scozzese che non riesce a scaldare la fantasia. Tra acque infide e vapori nebulosi, forse originati dalle sue stesse narici, viveva Tarantasio, una specie di mostro antidiluviano dal corpo di serpente, la grande testa cornuta di sauro, la lunga coda e le zampe palmate. Cibandosi di carne umana, con predilezione per quella dei bambini, esso incuteva terrore e paura tra gli abitanti dei villaggi rivieraschi del mefitico lago Gerundo. Narra la leggenda che dopo la morte del santo vescovo Ambrogio, un drago avrebbe insidiato Milano, divorando gli incauti cittadini che osavano sortirne dalle mura. Fu il nobile Uberto Visconti, armato di coraggio, il solo uomo ad affrontare il mostro e ad ucciderlo presso Calvenzano con un colpo netto di spada. Da allora il biscione con un giovinetto in bocca compare nello stemma della città e della potente famiglia che la tenne a lungo in signoria. Secondo questa versione non c’è dubbio che il biscione fosse proprio Tarantasio. Una seconda leggenda diffusa a Lodi, fa risalire l’ultima apparizione del drago al giorno di San Silvestro del 1299 e la sua scomparsa nel nulla al giorno seguente, capodanno 1300, insieme all’evaporazione del grande stagno in cui viveva, per l’intervento miracoloso di San Cristoforo, patrono delle acque. Il vescovo di Lodi, Bernardo de Talente, che aveva indetto una novena pubblica per invocare la liberazione dal mostro e da una micidiale epidemia in corso, decretò dopo la fine dell’incubo, l’erezione di una chiesa dedicata alla Trinità e al santo. Passati alcuni giorni, nel letto prosciugato della palude venne rinvenuta una costola colossale che i lodigiani attribuirono con sicurezza al drago malefico. I reggenti della città stabilirono il 23 aprile 1307, festa di San Giorgio, di offrire annualmente cento soldi imperiali alla chiesa di San Cristoforo in segno di gratitudine per la liberazione dal mostro. In essa venne collocata la grande costola fossilizzata, forse di un cetaceo, andata perduta nel XVIII secolo insieme alle due lapidi marmoree che ricordavano gli eventi. Un’altra costola misteriosa si può ancora vedere nella chiesa di San Giorgio ad Almenno San Salvatore, nella bergamasca Valle Imagna. In quanto al prosciugamento del lago Gerundo, esso è da attribuire all’opera dei cistercensi e dei benedettini presenti nei monasteri sorti ai suoi margini. Spariti i draghi, trafitti dalle lance dei santi e dei cavalieri, evaporata d’incanto l’acqua melmosa delle paludi, è rimasta la nebbia, la silente signora della pianura. Forse da queste parti transitò nel suo lungo trasferimento dalle brume danubiane a quelle della Loira, il santo cavaliere Martino, che non esitò a dividere il proprio mantello con l’inerme e infreddolito mendicante incontrato per strada. Il periodo intorno alla sua festa regala spesso giorni di pallido sole, la breve estate dei morti che prelude alle tenebre e al freddo invernali. Il passo dalle leggende alla storia non è poi così lungo. Se c’è un luogo in cui, esclusi i mostri acquatici, si fondono alla perfezione il Medioevo, San Martino, la bonifica del lago Gerundo e la nebbia, questo è Palazzo Pignano, paese a pochi chilometri da Crema verso l’Adda. Lì, nel raggio di un centinaio di metri che comprende i resti di una villa tardo-antica e la romanica parrocchiale, dedicata per l’appunto al santo vescovo di Tours, vi è una densità di storia e un concentrato d’arte di eccezionale valore. Paltium Pinianum era un insediamento romano sorto ai margini dell’Insula Fulcheria. L’importanza del sito è testimoniata dalla vasta area archeologica, 25/30 mila mq., scoperta nel 1963 ed acquisita al demanio, nella quale, oltre all’abbondanza di reperti del IV-VI secolo sistemati nel vicino Antiquarium, sono emersi i resti della grande villa appartenuta ai nobili Piniano e Melania, ferventi cristiani vissuti nel V secolo. Morto Piniano nel 432, Melania si ritirò a vita eremitica a Gerusalemme consumando il proprio patrimonio a favore dei poveri e fondando comunità monacali femminili e maschili, meritandosi infine la santità. La villa era costituita da diversi ambienti dotati di pavimenti musivi, prospettanti su un giardino interno e dotata di un portico ottagonale lastricato con marmo rosso di Verona. Nell’area della villa, verso sera, altri scavi hanno riportato alla luce i resti della Cappella del Palatium, una grande chiesa a pianta circolare con fonte battesimale. Scavi che hanno interessato anche la navata destra dell’attuale chiesa parrocchiale sotto il titolo di San Martino, eretta nel secolo XI. Tra le due chiese, in epoca carolingia, era sorta la pieve, e questo giustifica la dedicazione al santo vescovo di Tours, caro ai Franchi. La successiva sovrapposizione di chiese è dovuta anche alle due distruzioni subite da Palazzo Pignano nel torno di un secolo. La prima nel 951 ad opera degli Ungari e la seconda nel 1059. Tra il IX e il X secolo il paese era una curtis soggetta al monastero benedettino di San Savino di Piacenza, diocesi alla quale appartenne in alternanza con Cremona, prima di finire nel 1580 in quella cremasca di nuova costituzione. Nel suo stile basilicale di transizione, la parrocchiale di Palazzo Pignano esercita un potente richiamo evocativo dell’epoca in cui fu costruita. La vasta navata centrale, con copertura a capriate lignee, è chiusa dall’abside semicircolare in cui i restauri del 1967 hanno evidenziato lacerti di affreschi rinascimentali. Si tratta di una Madonna del Latte, di un’altra Madonna della Rosa, di una Crocifissione, di un San Martino e di altri santi. Colpisce per il senso drammatico che emana, all’inizio della navata sinistra, il gruppo di otto grandi statue in terracotta che compongono il Compianto del Cristo morto, quattrocentesca opera di Agostino de Fondulis. Provenienti dalla soppressa chiesa cremasca di San Marino, esse furono donate negli anni Ottanta dell’Ottocento alla parrocchia locale dai conti Vimercati Sanseverino che a Palazzo Pignano avevano vaste proprietà. E’ davvero straordinario questo borgo spesso avvolto nelle nebbie che esalano dai campi e dalle rogge, per il notevole patrimonio storico ereditato, in grado di riservare in futuro altre piacevoli sorprese, oggi celate dal verde manto dei suoi prati. 1.16 Un cetaceo nella pianura padana Un cetaceo nella pianura padana Lorenza Pozzi Mi affaccio al balcone e vedo in lontananza due torri a righe bianche e rosse, alte più o meno trecento metri. Due torri gemelle in direzione nord-est. Due camini fumanti che di notte si illuminano di lucine rosse, come fari per gli aerei di passaggio: le torri della centrale termoelettrica. Non è quello che si definisce un bel panorama, ma certe mattine all’alba, quando il sole non è ancora sorto e il cielo è limpido e sgombro di nebbia e fumi e degrada dal rosa al giallo mi sono quasi commossa di fronte alle Alpi, con davanti le torri della centrale e la luna piena che ancora non ha lasciato lo spazio a fratello sole-pallido. La centrale è l’erede di un vecchio impianto degli anni ’50 e sfrutta le acque fredde dei canali che le stanno intorno e i giacimenti di gas naturale, di cui la nostra terra è tanto ricca e di cui resta memoria nella leggenda del Drago Tarantasio. Si narra che un tempo grandi alluvioni ed esondazioni crearono proprio qui un lago, che venne chiamato Mar Gerondo. E dal lago salivano tanti e tali fumi e puzze e esalazioni malsane e pestiferi miasmi che appestavano tutto l’aere e intossicavano e ammalavano e morivano le persone. I più ricchi si diedero alla fuga. I medici non sapevano più che pesci pigliare. - E’ colpa del mostro Tarando che dimora nei pantani del lago – dissero con autorità. E alcuni giurarono anche di averlo visto. Il mostro era un drago e secondo quanto sostengono i latini (e soprattutto: secondo quanto sostiene Aristotile, che non si può certo contraddire!) i draghi non solo esistono ma sono parenti stretti dei rettili e dei serpenti. Da cui il nome Tarando, da tarantola, poi Tarantasio. Tutti sanno che i draghi nascono dalla spina dorsale degli uomini morti e questo drago qui doveva esser nato dal corpo putrefatto di Ezzelino da Romano, quel can feroce figlio del demonio che qualche anno prima era morto nella battaglia presso Cassano ed era stato sepolto da queste parti. Già. Proprio così. Che fare, dunque? Solo un intervento divino poteva cacciare il malefico e mefitico essere immondo. Si chiamarono vescovo, preti, curati, si fecero processioni e voti. E finalmente la notte di San Silvestro del 1299 si verificò il miracolo: il lago si prosciugò e sul fondo, sotto le mura della città presso il Molino della Madonna, furono trovate le reliquie di Tarantasio: una grande costola di drago, che venne spostata di qui e di là e infine esposta nella Chiesa di San Cristoforo, il santo evocato per il miracolo. Passò poi un’équipe di paleontologi e sostenne che trattavasi di costola di cetaceo. Beh, che differenza fa? Chiesero alcuni. Sempre di leviatano si tratta. E la costola magicamente scomparve. Ma si sa che il drago Tarantasio era un drago della specie mista, per cui poteva sopravvivere anche fuori dall’acqua. Secondo me è volato via. Lorenza Pozzi 1.17 Il "mare" lombardo fra storia e leggenda Il "mare" lombardo fra storia e leggenda Uno specchio d'acqua paludosa di epoca romana. Il Lago Gerundo pare si sia originato con il ritiro dei ghiacciai nel Pleistocene e con le esondazioni dei fiumi Adda, Serio e Oglio. La sua scomparsa invece è accreditata alle opere di bonifica dei monaci cistercensi di Marco Agustoni Il drago che emerge dalle acque lacustri Fino al XII secolo le province di Milano, Lodi, Bergamo e Cremona ospitavano un ampio bacino d’acqua, detto Gerundo. Ancor oggi si trovano nel territorio testimonianze tangibili di questo lago paludoso, mentre nell'immaginario della gente permane memoria del leggendario drago Tarantasio che qui viveva. Pur rimandando in maniera istintiva a una forma verbale che indica contemporaneità d’azione, con la sua storia il Gerundo esemplifica la fragilità e la volatilità di ciò che a noi appare immutabile, come un lago o un mare. Per quanto nel terreno lombardo rimangano tracce della presenza di questo ampio specchio d’acqua paludosa, come ad esempio tratti scoscesi di terra che parrebbero indicare l’antica presenza di un bacino idrico, oggi risulta difficile credere che tra le province di Milano, Lodi, Cremona e Bergamo si estendesse un lago tanto imponente da venire spesso citato, nelle cronache storiche, come “mare Gerundo” (anche se, molto probabilmente, tale definizione deriva in realtà dal termine tardo latino “mara”, che significa per l’appunto “palude”). I primi accenni al lago Gerundo risalgono all’epoca romana (se ne fa riferimento, ad esempio, nelle opere di Plinio il Vecchio) ma le descrizioni più dettagliate si hanno nel periodo medievale, negli scritti dello storico del VII secolo d.C. Paolo Diacono e di altri cronisti dell’epoca. Originatosi con tutta probabilità in seguito al ritiro dei ghiacciai durante il Pleistocene, il Gerundo si formò al di sopra di un’ampia zona ghiaiosa grazie alle esondazioni dei fiumi Adda, Serio e Oglio. Il lago, che già a partire dal XI secolo d.C. andò riducendosi di estensione, si prosciugò definitivamente nel corso del XII secolo d.C. Tra le cause più accreditate di questa “misteriosa” scomparsa, vi sono le ingenti opere di bonifica intraprese dai monaci cistercensi, benedettini e cluniacensi prima e dal comune di Lodi poi. In mezzo al lago, l'isola di Crema Dove si trovava il lago Gerundo Più che un vero e proprio lago, è probabile che il Gerundo fosse un insieme di paludi e acquitrini collegati dalle frequenti esondazioni dei fiumi circostanti. Ma come detto, questo bacino insalubre compensava la scarsa profondità (le sue acque non scendevano al di sotto di una decina di metri) con un’estensione ragguardevole. Pur essendo difficile tracciare dei confini precisi, nel momento della sua massima ampiezza il Gerundo è arrivato a spingersi da Brembate (BG) a nord fino a Pizzighettone (CR) a sud, lambendo con le sue acque la città di Lodi a ovest e Grumello Cremonese (CR) a est. Al suo interno, il lago conteneva una lunga striscia di terreno, detta isola della Mosa prima e Fulcheria poi (anche se, nonostante il nome, è possibile che in alcuni punti questa fosse collegata con la terra ferma), sulla quale in un periodo compreso tra il IV e il VI secolo d.C. fu edificata Crema (CR). Testimonianze storiche del lago Gerundo - il cui nome sembra derivare dal termine latino “glarea”, che significa “ghiaia”, di cui come detto la zona era particolarmente ricca - rimangono nella toponomastica di molti paesi della zona, come ad esempio Fara Gera d’Adda (BG), Brignano Gera d’Adda (BG) o Casei Gerola (PV). O, in maniera ancora più esplicita, nei nomi di vie o piazze, come ad esempio a Zelo Buon Persico (LO), dove si trova tutt’oggi una piazza Lago Gerundo. Ma nell’immaginario e nei luoghi della pianura padana, ancor più che del lago Gerundo, sono rimaste le tracce di un suo antico abitante, ovvero il Tarànto, Tarantasio o Tarando, un leggendario drago acquatico che ne avrebbe infestato le acque sino al suo prosciugamento. Proprio da questa mitologica creatura prenderebbero il nome Taranta, frazione di Cassano d’Adda (MI), così come le numerose vie della Biscia site nei paesi che all’epoca si ritrovavano lungo le coste del lago (per quanto oggi molte di queste strade abbiano mutato nome). Ma una testimonianza ancor più tangibile, in tutti i sensi, la si aveva a Calvenzano (BG), dove gli abitanti del luogo avevano eretto un muro alto tre metri per difendersi dagli attacchi del mostro. San Cristoforo contro il drago Tiziano Vecellio, San Cristoforo (1523 - 1524). Affresco Venezia, Palazzo Ducale Il Tarantasio, nelle leggende popolari, era rappresentato come un’enorme biscia oppure come un drago acquatico, da cui secondo alcuni avrebbe preso spunto il simbolo del cane dell’Eni, che proprio nell’area occupata dal Gerundo scoprì vasti giacimenti di gas metano. Questa bestia mitologica sarebbe finita anche in un altro stemma, ovvero quello dei Visconti, sul cui scudo è rappresentato un biscione intento a divorare un bambino, divenuto poi simbolo della città di Milano. Tra le varie storie riguardanti la morte del Tarantasio, una accredita infatti l’uccisione del biscione a Uberto Visconti, giunto in soccorso di un fanciullo. Tuttavia tale ipotesi riguardo la leggendaria origine del simbolo di Milano sarebbe poco plausibile, dato che l’adozione dello stemma del drago da parte del capoluogo lombardo sarebbe antecedente la nascita di Uberto. A contendersi il merito dell’uccisione del Tarantasio con il Visconti è nientemeno che San Cristoforo in persona, che secondo una leggenda locale sarebbe stato invocato dal vescovo di Lodi Bernardo Tolentino e avrebbe fatto prosciugare il lago Gerundo provocando così la morte del suo “fastidioso inquilino”. Di qui il voto di far restaurare la chiesa di San Cristoforo a Lodi, effettivamente ristrutturata nel 1300. 1.18 Il "mare" lombardo fra storia e leggenda Il "mare" lombardo fra storia e leggenda di Marco Agustoni Biscioni, storioni, coccodrilli: tutti insieme nel Gerundo Il biscione dello stemma dei Visconti Sorge spontaneo chiedersi da dove tragga origine la leggenda del Tarantasio. Una spiegazione può venire in parte dalla natura paludosa delle acque del Gerundo: in molti casi, nei secoli passati, le esalazioni mefitiche e la diffusione di particolari malattie erano attribuite al fiato di bestie immonde, come ad esempio il basilisco, responsabile secondo le credenze popolari di avvelenare le acque dei pozzi. Ecco che allora, per spiegare la diffusione della malaria in area padana, le credenze popolari chiamarono in causa il fiato pestilenziale del Tarantasio. Secondo il cripto-zoologo Maurizio Mosca (autore, tra gli altri, del volume “Mostri dei laghi”, edito da Mursia) inoltre, le leggende sul drago potrebbe essere state fomentate dalla presenza nel Gerundo di storioni di eccezionali dimensioni, in grado per la loro conformazione anatomica di essere scambiati per grossi biscioni, o di coccodrilli importati da terre esotiche che, secondo alcuni documenti, erano poi sopravvissuti nelle acque del fiume Serio (a sostegno di questa teoria vi sarebbe uno scritto del 1954, secondo cui presso la chiesa di Ponte Nossa (BG) era custodito un coccodrillo impagliato lungo tre metri). Prima del Tarantasio, mammuth e dinosauri Una raffigurazione dei Mammuth Ma alla base della leggenda del Tarantasio è probabile che ci siano i numerosi reperti conservati tuttora o in passato nelle chiese del bergamasco, del cremonese e del lodigiano. Si tratta di ossa di eccezionali dimensioni custodite come reliquie e attribuite proprio al temibile abitante del lago Gerundo. La presenza di questi curiosi oggetti non deve però stupire, dato che spesso ossa di animali esotici, come ad esempio capodogli o elefanti, erano portate in dono da pellegrini giunti da terre lontane. Inoltre, non dobbiamo rimanere perplessi nemmeno di fronte alle cronache dell'epoca, secondo cui le ossa sarebbero state rinvenute in loco, dato che nell'area del Gerundo non sono infrequenti i ritrovamenti di ossa fossili appartenute a mammuth o altri animali preistorici. Del resto, dietro la nascita di molte leggende sui draghi ci sarebbero proprio i resti di dinosauri o di altri giganteschi esseri del passato. In ogni caso la leggenda del Tarantasio, ben lungi dal finire archiviata assieme ai documenti d’epoca, dopo aver acceso l'immaginazione dei nostri antenati continua ad affascinare anche i contemporanei. Non per niente, proprio il già citato Maurizio Mosca ha scritto assieme a Marco Bono un romanzo fantastico sulle vicende del mostro, intitolato “L’enigma del mare lombardo” (edizioni Aracne) in cui si intrecciano diverse linee temporali e in cui la storia del Tarantasio arriva a coinvolgere studiosi del presente e antichi abitanti della pianura padana. Chissà, in fondo, che il recupero in chiave folcloristica di questa storia tradizionale non possa giovare al turismo della zona un tempo occupata dal Gerundo. Sulle tracce delle leggende popolari San Giorgio ad Almenno San Salvatore Ma se si volesse compiere un viaggio alla ricerca delle tracce del lago Gerundo e del suo misterioso abitante, dove ci si potrebbe recare? Innanzitutto, si potrebbe cominciare col visitare gli edifici religiosi, spesso anche di notevole interesse artistico, in cui sono custoditi i resti attribuiti al Tarantasio, come ad esempio le chiese romaniche di San Giorgio ad Almenno San Salvatore e di San Bassiano a Pizzighettone (CR). Poi, ci si potrebbe recare a Trucazzano (MI), presso l'edificio storico noto come Torrettone, dove è possibile trovare alcuni antichi attracchi per le imbarcazioni usate un tempo per solcare le acque del Gerundo. Se si vogliono invece vedere con occhio le tracce lasciate da questo bacino, la visita a paesi come Castiglione d’Adda (LO) o Maleo (LO), così come altre località del lodigiano, dimostra come questi si trovino oggi in cima a terreni rialzati, un tempo rive di un ampio specchio d’acqua. Infine, nulla vieta di compiere una scappatella nella già citata Calvenzano per rendere omaggio al defunto Tarantasio, che secondo la leggenda qui fu ucciso da Uberto Visconti. Certo, forse nel giro non si troveranno molte tracce di queste antiche storie di mostri e di mari, ma sarà comunque una buona scusa per visitare luoghi affascinanti al di fuori dei tradizionali itinerari turistici. (30/06/10) 1.19 Brembio e il suo territorio Brembio e il suo territorio IL LAGO GERUNDO Brembio e il suo territorio La realtà fisica del lago Gerundo è indiscutibile; si fonda sopra macroscopiche prove geologiche, paleontologiche, archeologiche, documentali. È cosa nota che l'attuale pianura padana venne formata nel corso di lunghe ere dai detriti erosi dalle Alpi e dagli Appennini, e trasportati dal Po e dai suoi affluenti. In precedenza v'era solo mare, ed ancora oggi la pianura padana lentamente continua ad ingrandirsi colmando il fondale adriatico. Meno noto invece è il fatto che, fino a tempi vicinissimi a noi, molte zone della pianura padana erano ancora invase dalle acque assai abbondanti e non regolate dei fiumi, che si allargavano disordinatamente a formare vasti laghi e sterminate paludi. Il progressivo innalzamento dei depositi alluvionali e, soprattutto, l'opera di bonifica e incanalamento dell'uomo hanno trasformato questo immenso acquitrino in una fertilissima pianura, rimasta comunque fortemente irrigua ed umida. Fra i laghi paludosi della pianura padana, uno dei più notevoli e tardi a scomparire fu senza dubbio il lago Gerundo. Questa grande regione acquitrinosa era formata dal disordine alluvionale dei fiumi Adda, Oglio e Serio (ed anche del Lambro e del Silero), e perciò copriva - pur confini continuamente variabili - l'intero ampio territorio compreso fra la provincia bergamasca meridionale e la provincia superiore di Cremona, con tutto il Cremasco e il Lodigiano. Con ogni probabilità, man mano che nel corso dei secoli le acque del Gerundo si prosciugavano, si raccolsero nelle zone più basse della padana, verso il Po; in quei luoghi infatti si trovano i ricordi più recenti. Ad esempio, il grande lago lambiva il maniero di Maccastorna, uno dei castelli medioevali meglio conservati della Lombardia.1 Proprio qui, presso il Po, in tempi non molto lontani esisteva ancora una distesa d'acqua chiamata lago Barrili; occupava un bacino sui cui bordi - oggi asciutti - si trovano i paesi di Retegno, Fombio, guardamiglio e San Fiorano,2 a sud di Codogno. Il lago Gerundo, o Gerondo, o Gerundio, oppure anche Gherundo, trasse il nome da "gera" (o ghera), cioè ghiaia, con allusione al suo fondo spesso ghiaioso. Ancora oggi moltissime località in questa zona ed in quelle limitrofe possiedono nomi che comprendono la radice "gera": a cominciare dalla Gera (o Ghiara) d'Adda, tutta la regione pianeggiante delimitata ad ovest e a sud dal fiume omonimo, ad est dal Serio e a nord dalla roggia detta Fosso Bergamasco, antico confine tra i territori di Milano e Venezia.3 Capoluogo della Gera d'Adda è oggi Treviglio, ma nei dintorni troviamo Brignano Gera d'Adda, Fara Gera d'Adda, Misano di Gera d'Adda, ecc. L'immenso lago Gerundo non aveva confini stabili, a causa del variare in livello e distribuzione delle sue acque alluvionali; per lo stesso motivo, la sua superficie era interrotta da secche ed isole mutevoli. Solo le collinette più elevate potevano esser quindi le isole permanenti dell'acquitrino, e fu proprio sulle più estese di esse che vennero fondate le importanti città della regione. Gli insediamenti umani più antichi risalgono tuttavia ad epoche preistoriche; gli abbondanti ritrovamenti mostrano l'esistenza di tutta una serie di civiltà primitive. Un elemento costante di questi popoli è l'uso di abitazioni su palafitte, come c'è da aspettarsi in un ambiente essenzialmente paludoso. Accenni a questa immensa palude sembrano trovarsi già in Polibio e in Plinio il Vecchio; pare anche che gli antichi romani vi avessero realizzato opere di bonifica. La zona tornò tuttavia allo stato brado in seguito alla caduta dell'impero e alle distruzioni barbariche, modificando continuamente nei secoli il suo assetto, in conseguenza del regime naturale delle acque. L'iniziale storia scritta di queste terre è invece strettamente legata dapprima alla dominazione longobarda in Italia, ed in seguito alle lotte dei Comuni. Com'è noto, i Longobardi entrarono nelle vicende italiane a partire dal secolo VI, ma gli avvenimenti più celebri sono quelli del secolo XII, quando l'imperatore germanico Federico I - detto il Barbarossa - varcò le Alpi a più riprese (1154-74), restaurando l'autorità longobarda su tutta l'Italia settentrionale, finché fu sconfitto a Legnano (1176). Lo stesso nome di Lombardia deriva da questa passata dominazione. Quando i re longobardi suddivisero il suolo della Longobardia fra i loro duci, anche le terre del Gerundo furono spartite. Il capitano Fulcherio fu investito della maggiore di queste isole, che prese quindi il nome di Isola Fulcheria,4 in parte coincidente con l'attuale Gera d'Adda. In seguito, con un atto del 17 maggio 1159, questo territorio fu donato dal Barbarossa al cremonese Tinto, detto Muso di Gatta:5 era l'architetto al seguito dell'imperatore, artefice di numerose opere. In precedenza, questo stesso territorio - emergente dalle paludi del Gerundo - aveva il nome di Isola Mosa: mosa, che significa "pantano, palude", è un altro toponimo comune in Lombardia.6 Sopra un'elevazione del terreno, che si chiamava Dosso dell'Idolo, sorgeva un tempo una chiesetta: Santa Maria in Palude. Era stata fondata, secondo una leggenda, da cristiani alla ricerca di un luogo remoto per sfuggire alle persecuzioni di Diocleziano. Quando nell'anno 568 i guerrieri longobardi di Alboino invasero l'Italia, nuovamente questo luogo servì da rifugio, dove gli abitanti delle plaghe vicine all'Adda e al Serio decisero di vivere, aspettando che passasse la furia delle guerre. Ma con il tempo, dal nucleo primitivo intorno alla chiesetta si sviluppò presto una nuova città, cinta di mura, alla quale venne posto il nome di Crema (dalla radice prelatina "cre" o "crem", altura, rialzo). La piccola chiesa di S. Maria della palude fu dunque la prima della nuova città di Crema e con il passare degli anni fu ingrandita fino a diventare l'attuale Duomo.7 In tal modo Crema rimase per secoli il capoluogo della grande isola nella palude, fino a quando lo sterminato acquitrino fu trasformato in rigogliose campagne. Ancora oggi, nella toponomastica della città possiamo trovare una via Lago Gerundo e una piazza Fulcheria. Presso il Museo Civico di Crema è raccolta una ricca documentazione sulle civiltà che si svilupparono intorno all'Isola Fulcheria e al lago Gerundo; vi sono persino alcune grandi piroghe. Anche Cremona, l'attuale capoluogo di provincia lambito dal Po, fu marginalmente interessata all'antica geografia della regione. Ne resta traccia nella toponomastica cittadina, con una via Lago Gerundo e una via Fulcheria (entrambe verso il Po), e anche con una via Mosa, presso i resti delle mura di sud-est, dove si apriva appunto l'antica Porta Mosa. Dalle instabili acque del lago Gerundo emergeva almeno un'ulteriore isola di rilievo, legata alle vicende antiche di un'altra importante città padana: Lodi. Il centro abitato originario (oggi Lodi Vecchio) si trovava 7 km ad ovest di quello attuale, e venne distrutto dai Milanesi nel 1157, tranne la bella basilica di S. Bassiano. La città fu rifondata l'anno seguente su un'altura chiamata Colle Eghezzone o Enghezzone, dal proprietario Enghezzone degli Alboni, console di Lodi nel 1152.8 La ricostruzione della città venne appoggiata dal Barbarossa; e architetto fu il già citato Tinto detto Muso di Gatta, come testimonia il cronista lodigiano Ottone Morena (e ancora oggi, a memoria dei possessi di Tinto, una località periferica di Lodi, sulla strada piacentina, è detta "Gatta"). Nella toponomastica della città non mancano una via Lago Gerundo, a sud-est, e una via Colle Eghezzone, a nord. Nei pressi di Lodi (oggi lambita dall'Adda), ai tempi del Gerundo si nominavano almeno altre due "isolette", o spazi elevati dalle acque: Vigadore e Portatore.9 Da quest'ultimo toponimo prendono il nome le località attuali di Portadore alto e Portadore basso; infatti "Insula Portatoris" deriva da portatore, cioè traghettatore. Il suo nucleo primitivo, sorto su un'altura emergente da un vasto allagamento dell'Adda, fu già porto di barche da tragitto.10 Il Gerundo infatti era navigabile e pescoso, tanto da meritarsi l'appellativo popolare di "mare". Lo attestano molti cronisti, fra cui il già citato Morena, attendibile testimone oculare, ed anche il Sigonio (entrambi, descrivendo l'assedio posto a Lodi dalla Lega Lombarda, scrissero delle imbarcazioni usate dai Cremonesi). L'abate olivetano don Vincenzo Sabbia, nelle sue memorie manoscritte di Lodi, ne descrive il porto nella costa di Monte Eghezzone, dov'era la chiesa di S. Nicolò, e suppone che le torri limitrofe fossero asservite al porto stesso, constatando che ognuna recava grossi anelli di ferro, usati per legare le imbarcazioni. Simili torri - aggiunge - si trovano anche presso Trucazzano e Pandino, entrambe località interessate dal Gerundo. Pier Ambrogio Curti, nella sua ampia narrazione sul Gerundo, a proposito degli ancoraggi navali, scrive di propria penna: "è forza ora intrattenerci delle origini di questo lago Gerondo, che l'arte degli uomini ed il tempo, vennero affatto disseccando, sì che più non ne rimangan adesso altre vestigia che ne' grossi anelli ed arpioni che in più d'un luogo si trovano; onde da tutti si congettura con giustezza che servissero ad affrancare navigli, che per quella vastità di acque correvano a commerci, alla pesca, ed alle comunicazioni co' limitrofi paesi". Il Curti nota che uno di questi anelli era ad esempio visibile nei fianchi della antica torre Poccalodi, che ribassata divenne la cappella di S. Bernardino nella chiesa di S. Francesco a Lodi.11 Secondo lo storico lodigiano Giovanni Agnelli, una palude pescosa, che si estendeva da Abbadia Cerreto a Chieve, fu prosciugata nei secoli XII e XIII dai monaci dell'abbazia stessa;12 e ancora fino al secolo XVI esisteva appena a Nord di Lodi un lago, chiamato Pulignano, poi prosciugato;13 altri residui del Gerundo presso Lodi furono i laghi di Cavenago d'Adda, Robecco, Cantonada.14 A Valera Fratta (da valle = terreno paludoso, e fratta = macchia folta), c'è una lapide del 1784, fatta collocare da Antonio Settala, proprietario del casale che fu il nucleo primitivo della frazione, la quale ricorda che originariamente il luogo era "avvallato, orrido, paludoso e coperto da boschi e da roveti".15 A proposito di boschi paludosi, famosa era la cosiddetta "Selva Greca". Note. 1 Zanini G., Lombardia sconosciuta, Rizzoli, Milano 1982, itinerario n. 8. 2 Boselli P., Toponimi Lombardi, SugarCo, Milano 1977, p. 153. 3 Touring Club Italiano, Guida d'Italia - Lombardia, T.C.I., Milano 1970, p.172. 4 Boselli P., op. cit., p. 130. 5 Zeppegno L., Guida all'Italia leggendaria misteriosa insolita fantastica, Mondadori, Milano 1971, v.1, p.232. 6 Boselli P., op. cit., p. 191. 7 Spagnol M. - Zeppegno L., Guida alla Lombardia misteriosa, SugarCo, Milano 1968, pp. 242-3. 8 Boselli P., op. cit., p. 121. 9 Curti P.A., Tradizioni e leggende di Lombardia, Battezzati, Milano 1857, v. 4, p. 9. 10 Boselli P., op. cit., p. 220. 11 Curti P.A., op. cit., pp. 12, 8, 3 e 13. 12 Boselli P., op. cit., p. 273. 13 Ibidem, p. 226. 14 Curti P.A., op. cit., p. 81. 15 Boselli P., op. cit., p. 288. Testo tratto da: Umberto Cordier: Guida ai draghi e mostri in Italia SugarCo Edizioni, Milano 1986. 1.20 Descrizione geologica della provincia di Milano Descrizione geologica della provincia di Milano books.google.it/books?id=Jk1C18icTG8C&pg=PA51&lpg=PA51&dq=Il+Gerun do.+Antico+lago+di+Lombardia+dall%27Adda+all%27Oglio,&source=bl&ots= ASXQ-okABC&sig=0hDTF9f-Qxs4Z8xly7G6xA3ZZXs&hl=it&sa=X&ei=ivzgU7 2oO4XJ0QWEj4FI&ved=0CGsQ6AEwCQ#v=onepage&q=Il%20Gerundo.%20 Antico%20lago%20di%20Lombardia%20dall'Adda%20all'Oglio%2C&f=false Descrizione geologica della provincia di Milano Di Scipione Breislak 1.21 Garda, lago di misteri e leggende Garda, lago di misteri e leggende Tra città sommerse, mostri e mitiche bellezze I bacini e i corsi d'acqua, da sempre, solletica-no le paure e le emozioni umane, e luogo di grande suggestione non poteva non essere il più vasto lago italiano, il lago di Garda. Esteso nel nord Italia per una superficie di 370 km quadrati, di origine glaciale, il lago, chiamato anche Benaco, oggi sotto il profilo amministrati-vo è diviso fra le province di Trento a nord, di Ve-rona a est e di Brescia a ovest. Tre diverse provin-ce, e tre relative differenti regioni di appartenen-za (Trentino Alto Adige, Veneto e Lombardia), non hanno nel tempo intaccato un patrimonio comune di scambi, esperienze, credenze, spesso intrecciate tra loro anche in località fisicamente lontane. Un tempo gli spostamenti di merci e perso-ne tra le sponde avvenivano via acqua e non via terra, fino alla costruzione della Gardesana Occidentale e della Gardesana Orientale negli anni Venti che rivoluzionarono i movimenti nella regione, e perciò paesi e borghi oggi apparente-mente molto distanti erano in realtà collegati in modo diretto grazie a frequenti scambi via barca. Questo forte rapporto interregionale è forse an-che uno dei motivi per cui, spesso, passando di località in località, molte storie, fiabe e leggende locali pur personalizzate e modificate dal raccon-to orale mantengono una radice comune. Di certo è curioso come in diversi punti del lago, da nord a sud, emergano inquietanti leg-gende di città sommerse che, oltre a riuscire a rappresentare le proiezioni della paura dei gar-desani per l'intensa attività sismica nell'area del lago e di Verona (si ricordino i terremoti di Salò del 1901 e del 2004, nonché nel 1810 a Malcesi-ne e Verona, quando crollò l'area esterna dell'A-rena), contribuiscono a scrivere la storia comune tra le sponde. Spesso nei racconti di questi luoghi si parla del misterioso e antico borgo di Benacus, che oggi si troverebbe sotto le acque, situato talvolta sulla sponda bresciana vicino a Toscolano e talvolta ai piedi dell'attuale Garda, sulla parte veronese del lago, ma non solo. - - Sempre per un terremoto, o forse a causa della spinta del bacino lacustre, secondo una leggen-da datata 243 d.C. fu distrutta la mitica città di Benaco, sontuosa e ricca di monumenti, fondata dagli Etruschi e situata ai piedi della Valle delle Camerate, vicino a un bacino lacustre formato dal fiume Toscolano e sovrastato dal monte Gu. Benaco, così importante da dare il nome a tutto il lago, fu travolta da un'enorme massa d'acqua e da una porzione di montagna, che finirono per distruggerla e per inondarla. Ancora oggi è visi-bile la grande frattura, forse in realtà opera di una lenta erosione; in fondo a essa scorre il fiume, e si dice che sul fondo del lago sia possibile vedere le sagome degli edifici devastati e sommersi. Il mito della città sommersa nel lago tocca la costa veronese anche ben più su di Garda, verso Cassone, dove la cittadina di Assenza con il suo nome richiama antichissimi eventi geologici; la Val di Sogno, l'appellativo con cui viene chia-mata la zona, una notte fu scossa da un terribi-le sommovimento tellurico che provocò un'im-mensa voragine tra le pendici del Baldo e il lago, risucchiando la località chiamata Città del Sonno e sommergendola sotto le acque senza lasciare traccia, mentre tutti gli abitanti erano addor-mentati. Di nuovo tra Garda e Bardolino sarebbe giun-ta la caratteristica arena dell'Adige, a causa di un improvviso trabocco del fiume dal lago glaciale di Caprino Veronese. In quell'occasione le acque avrebbero anche travolto e inabissato gli inse-diamenti palafitticoli sorti vicino a Garda, dando consistenza alle leggende che parlano di borghi e villaggi sommersi nel lago. Infine, secondo taluni la città di Benaco sareb-be stata posizionata nei pressi di Torbole, dove una frana l'avrebbe sepolta. Anche Giosuè Carducci, in diverse sue odi, ha ricordato il lago e i misteri a esso sottostanti: - - - Ma sotto le acque del lago di Garda si agitano anche creature misteriose che non sempre si rie-scono ad attribuire al Diavolo. Con le loro acque nere e profonde, impossibili da esplorare attraverso il semplice sguardo, i la-ghi ispirano da sempre storie e leggende di mo-stri. Ogni lago pulsa di vita. Pesci che guizzano improvvisamente, tronchi contorti che percorro-no le superfici immobili con le loro forme sugge-stive, animali che hanno preso dimora in fondo alle acque, bolle o vapori sollevati in seguito a fenomeni naturali, sagome che emergono dalle profondità senza svelare la propria identità: mo-vimenti lenti o repentini che spezzano la magia e il mistero delle acque e che, fin dal passato, han-no portato gli uomini a riempire il vuoto di cono-scenza con la fantasia. Nel XVI secolo, Grattarolo, nella sua "Historia della Riviera di Salò", scriveva di " dell'acqua " Bastava un racconto fantasioso, o una sempli-ce raccomandazione al bambino troppo incauto nell'avvicinarsi all'acqua, per far nascere una leg-genda. Del resto, sempre secondo Grattarolo, " Poi, nel 1965, quella che era solo una storia di paura o una narrazione frammentaria si fa realtà, come testimoniano anche i giornali dell'epoca. Il 17 agosto di quell'anno un fatto straordina-rio e spaventoso suscita profonda impressione a tutta la comunità lacustre e ai turisti in vacanza nella zona del lago. Armati di cineprese e macchine fotografiche, il giorno dopo, gruppi di persone si accalcano in località Punta San Vigilio per immortalare il "mo-stro" della Baia delle Sirene, la creatura che, due giorni dopo ferragosto, alcuni turisti di varie na-zionalità hanno avvistato in una delle località più suggestive del lago. Una trentina di persone, inglesi, tedeschi, italiani e la giovane americana Camille Finglet, hanno assistito all'emersione di "una specie di lungo serpente" lungo una decina di metri, con un diametro di una ventina di centimetri e quat-tro gobbe. Color marrone, la "Nessie" benacen-se " A differenza del suo alter ego scozzese, però, il «mostro» del Garda si rivela una creatura estre-mamente timida nei confronti della popolarità: dopo essere balzato alla cronaca sparisce subito dalla riviera veronese, facendosi avvistare verso la sponda bresciana in una località non precisa-ta tra Gardone e Salò, forse addirittura Gar-gnano. Ciò non basta a placare nell'immedia-to la curiosità e la pau-ra. I turisti sono divisi tra coloro che escono in motoscafo solo per andare alla baia e co-loro che rifiutano di salire sui natanti se è prevista quella rotta. La gente che vuol parlare del «mostro» con i pescatori affolla le osterie, dove gli affari vanno a gonfie vele e dove è pos-sibile parlare con chi conosce bene le acque pro-fonde del lago. Luigi Malfer, un pescatore di Garda, mette in correlazione l'avvistamento del «mostro» con un altro fatto insolito occorso in quegli stessi giorni: le reti lasciate dai pescatori locali nella Baia del-le Sirene, durante quello stesso mese, sono state strappate e oltre cinque quintali di sardelle sono state divorate da un predatore misterioso. - Il «drago» (come viene chiamato da taluni, forse perché le sue caratteristiche corrisponde-rebbero a quelle degli antichissimi sauri erbivori) divide le opinioni della comunità stretta attorno al lago. - In mancanza di avvistamenti successivi e di una spiegazione risolutiva, e data la prossimi-tà territoriale della città di Verona alla località dell'avvistamento, il «drago» viene anche corre-lato alla costola animale custodita nell'Arco della Costa in piazza Erbe, nel pieno centro della città scaligera, e ai due coccodrilli antichi, reperti che si trovano a Grazie di Curtatone, lungo lo scorre-re del Mincio, e presso il santuario di San Michele Extra a Verona. Altre leggende locali hanno contribuito a tes-sere una tela di mistero e di possibilità intorno ai "mostri" del Garda e degli altri laghi morenici: come quella che ipotizza l'esistenza di una rete di cunicoli sotterranei che collegherebbero le ac-que dei diversi bacini, creando così opportunità infinite di passaggio e di nascondiglio tra di essi. Al fascino di avvistamenti e leggende di crea-ture insolite si è affiancato il mito dei draghi che ha trovato, vicino al lago, un ambiente favorevo-le alla sua diffusione. Diverse sono le storie locali che vedono pro-tagoniste queste creature, soprattutto nelle valli trentine a ridosso del lago. Ma anche le località stesse del Benaco non sono immuni dall'essere state, secondo tali racconti, il teatro della lot-ta tra uomini e draghi, come pare sia stato per la Rocca di Garda, reggia del re dei Longobardi Ortnit. Costui rapì una principessa orientale per farne la sua sposa, ma dal suocero offeso ricevet-te un terribile regalo: due uova di drago che si schiusero seminando il panico nella regione be-nacense. Solo l'intervento di un giovane eroe di nome Wolfdietrich, dopo la morte di Ortnit, mise fine alla distruzione operata dai due mostri. Dalla più spaventevole mostruosità alla pura bellezza delle sponde: molte leggende del lago si legano allo splendore di queste rive; come quando Benaco, il dio del lago, sedusse Egle, la più anziana delle sorelle Esperidi (custodi delle mele d'oro degli dèi, rubate con l'astuzia da Erco-le), che portò sul lago i preziosi cedri che ancora oggi danno vita alla Riviera dei Limoni e alle ca-ratteristiche limonaie; oppure quando Nettuno, dio del mare, preferendo in realtà il lago, dichiarò guerra a Benaco per scacciarlo, ma fu sconfitto da Giove, che lo condannò a tributare oro dal mare a Benaco per nutrire i carpioni che prolife-ravano nel lago. Al paesaggio sul Benaco non restarono in-differenti neppure le fate: si racconta che la fata Orcana, di passaggio per andare a trovare nelle terre del Nord la sorella Morgana, vedendo la bellezza del lago ne fu così ingelosita da provo-care una terribile tempesta. La riviera fu invasa da un nugolo di cavallette, che ne divorarono la vegetazione per giorni, e solo una benedizione mise fine allo scempio. Mentre oggi avvistare un mostro benacense è privilegio di pochi, e avvenimento probabil-mente casuale, se si vogliono seguire le orme degli dèi del lago vi è la possibilità di individuare le tracce che essi hanno lasciato lungo le spon-de gardesane. Oltre ai toponimi, qua e là resti di templi antichi, are votive e statue celebrative consentono di seguire le suggestioni che nasco-no dall'incontro tra l'incantevole lago e la mitolo-gia. Così a Manerba sulla Rocca, a San Felice sulla Parrocchiale, nel municipio di Moniga, su Punta San Vigilio a Garda, a Malcesine, a Cassone, a Riva e nell'entroterra trentino, si può cogliere quel sottile e ancestrale patto tra il lago e i suoi dèi. 1.22 Il biscione di Milano Il biscione di Milano Tra miti e leggende VINCENZO DI GREGORIO Era una giornata afosa di fine estate di qualche anno fa, e due amici stavano ar-rampicandosi sulle cime del Monte Barro (922 mt sul livello del mare). Questo monte fa parte della catena montuosa delle prealpi Luganesi e si trova nel triangolo La-riano, e più specificatamente si erge imponente sopra la città di Lecco e del suo Lago. La diffe-renza di quota tra la città di Lecco (circa 200 mt) e quella della cima del Monte Barro (922 mt) ci dice come la montagna si erga con un salto di 700 mt, quasi perpendicolarmente sopra quel ramo del lago di Lecco. Quel giorno i due amici avevano appena rag-giunto la seconda delle tre cime del monte Bar-ro, e per riposarsi si erano sporti ad ammirare la splendida vista che si gode su Lecco e su tutti i territori circostanti. Dopo qualche estasiato mi-nuto uno dei due richiama l'attenzione dell'altro verso uno spettacolo curioso che avveniva nel punto in cui il fiume Adda si allarga diventando "lago". In quel punto è stato costruito uno dei tre ponti che collegano le due sponde in prossimità della città di Lecco. Come si è detto, si era alla fine dell'estate e non vi erano state piogge da mesi. Il livello dell'Adda e del lago era ai minimi storici, e dall'alto con la luce radente del sole al tramonto si riuscivano a vedere le alghe del fondo del fiume Adda. Una cinquantina di metri prima del ponte, lo sguardo dei due amici si soffermò su una insolita scena di "caccia". Uno strano pesce, con andamento si-nuoso, inseguiva una miriade di pesciolini che brillavano sotto il pelo dell'acqua scappando in ordine confuso su un fronte di diverse decine di metri. Il "pesce" sembrava più una biscia che un pesce "tradizionale", per le ampie curve descrit-te dal suo corpo. La scena durò pochi secondi... frazione di tempo che ha impiegato quel gruppo di pesci a nuotare dall'Adda al Lago di Lecco, pas - Il silenzio che era caduto tra i due amici fu in-terrotto solo da una frase pronunciata da uno dei due: La "cosa" infatti, nel passare sotto il ponte, era transitata vicino a un deposito di autobus che si trovava sulla sponda destra del fiume Adda, e solo in quell'istante il confronto con un autobus ha dato, per la prima volta, un'esatta indicazione delle sue reali dimensioni. Quel pesce "sinuoso" era grande quanto un autobus e mezzo... tradot-to in cifre: circa 10/12 metri. Forse Di questo avvistamento si è data comunica-zione, in quegli anni, in vari forum. Nel marzo del 2006 si è tenuto un convegno a Como su quello che viene chiamato il "Lariosau-ro", cioè una specie di "mostro" che saltuariamen-te appare e spaventa la gente del luogo, tanto da meritarsi l'epiteto di LARIO-Sauro. In quel convegno si è parlato anche di questo avvistamento, ma gli "esperti" ivi convenuti han deciso di attribuire poca credibilità al racconto, adducendo l'ipotesi che il "pesce sinuoso" altro non fosse che un insieme di altri pesciolini che si muovevano all'unisono, dando la sensazio-ne di essere un'unico pesce. A volte gli esperti esprimono dei pareri molto "prudenziali", anche se non hanno dati sufficienti per emettere una "sentenza". Per inciso, detta spiegazione è sem-pre stata decisamente rifiutata da chi ebbe ad osservare il fenomeno. Ma questo avvistamento è stato forse l'ultimo di una serie interminabile di altri, tanto che si è pensato fosse opportuno ri-percorrerne la storia al fine di discernere quanto sia "leggenda" dall'effettiva "realtà". Molti conoscono il simbolo di Milano per averlo visto riprodotto, a volte a sproposito e con varianti, sulle magliette del Milan, sulle macchi-ne dell' Alfa Romeo o sulle reti televisive di Me-diaset: un biscione con in bocca "qualcosa". L'origine del Simbolo risale al 1100, come stemma della casata Visconti. Ritrae un serpen-te mentre mangia un "bambino". Mediaset, forse ritenendo troppo cruento il simbolo, ha sostitui-to il bambino con una margherita. Come mai un simbolo così particolare è diventato lo stemma del capoluogo lombardo? Vi sono diverse leggende, ma sostanzialmen-te le più accreditate son due. La prima, riportata da Bonvesin de la Riva nel De magnalibus urbis Mediolani (1288), sostiene che: - - Il serpente in questione non sembra però in-ghiottire un "saraceno rosso", bensì un bambino. Occorre quindi citare la seconda versione dell'origine del "biscione". La leggenda narra che poco dopo la morte di Sant'Ambrogio, a Milano arrivò un drago. La be-stia viveva in una caverna fuori dalle mura. Spes-so qualche viandante finiva mangiato dal drago. Molti cavalieri milanesi tentarono di liberare la città dall'indesiderato ospite, ma finirono tut-ti divorati. La notizia si sparse e in breve tempo la situazione divenne insostenibile; gli abitanti avevano paura ad uscire, le vie di comunicazione con le altre città erano bloccate e il commercio era praticamente scomparso, Milano era blocca-ta. Un giorno Uberto Visconti giunse alla dimora del drago proprio mentre esso stava divorando l'ennesimo bambino. Uberto prima liberò il bam-bino, poi cominciò la sua battaglia con il drago. I cronisti dell'epoca ci dicono che il duello durò due giorni. Solo al tramonto del secondo giorno Uberto ebbe la meglio. Tagliò la testa del drago e rientrò trionfante a Milano. Il Visconti, a futura memoria, decise di raffigurare il drago che divo-rava il bambino sullo stemma della sua famiglia. A riprova di quanto sopra, le cronache riporta-no che il corpo del "drago" fu portato sulla piazza del Duomo per essere mostrato alla folla ricono-scente, e lì fu esposto per una decina di giorni. Poi, a causa del malodore, fu portato a decom-porsi altrove, e lo scheletro fu donato ad una chiesa che, per tenerlo esposto per sempre, lo appese al soffitto. In effetti vi son diverse chiese nel milanese che espongono grosse ossa, ma si-nora si son rivelate solo ossa di qualche cetaceo. La leggenda continua descrivendo altri avvi-stamenti simili tanto da dare un nome al "mo-stro", che ci viene tramandato come "drago Ta-rantàsio". Questo nome è anche intimamente legato a quello di un lago, anch'esso misterioso e scom-parso, quale il Lago Gerundo. Di questo lago però si conoscono molti più dettagli. Fino al XIII secolo le province di Milano, Lodi, Bergamo e Cremona ospitavano un ampio baci-no idrico. Questa grande distesa d'acqua era co-nosciuta come "Mare Gerundo" (o Lago Gerundo o Gerondo). Più che un vero e proprio lago, è pro-babile che il Gerundo fosse un insieme di paludi e acquitrini collegati dalle frequenti esondazioni dei fiumi circostanti. I primi accenni al lago Ge-rundo risalgono all'epoca romana (se ne fa rife-rimento, ad esempio, nelle opere di Plinio il Vec-chio) ma le descrizioni più dettagliate si hanno nel periodo medievale, negli scritti dello storico del VII secolo d.C. Paolo Diacono e di altri cronisti dell'epoca. Del suo prosciugamento esiste inve-ce una data leggendaria: il capodanno del 1300. In realtà già a partire dal XI secolo andò riducen-dosi di estensione e si prosciugò definitivamen-te nel corso del XIII secolo, probabilmente per le ingenti opere di bonifica intraprese dai monaci cistercensi, benedettini e cluniacensi prima e dal comune di Lodi poi. Questo bacino dalla scarsa profondità (le sue acque non scendevano al di sotto di una decina di metri) aveva però un'e-stensione ragguardevole. Pur essendo difficile tracciare dei confini precisi, nel momento della sua massima ampiezza il Gerundo arrivava fino a Brembate (BG) a nord, fino a Pizzighettone (CR) a sud, lambendo con le sue acque la città di Lodi a ovest e Grumello Cremonese (CR) a est. Al suo in-terno, il lago conteneva una lunga striscia di ter-reno, detta originariamente isola della Mosa, e poi isola Fulcheria. Qui, in un periodo compreso tra il IV e il VI secolo d.C., fu edificata Crema (CR). Sulla sua esistenza abbiamo prove geologi-che, archeologiche, documentali. L'esplorazione del territorio del Gerundo, e cioè la provincia di Bergamo nella parte meridionale, la provincia di Cremona nella parte superiore, oltre al Lodigia-no e a tutto il Cremasco, muovendosi tra musei, chiese, ruderi, cave di ghiaia, remoti angoli di campagna dove il terreno è "inspiegabilmente" fatto come la sponda di un lago, consente un viaggio dentro una storia che i libri ignorano. Una storia che sul posto, però, non è stata dimentica-ta. Ad esempio a Lodi e a Crema possiamo tro-vare strade dedicate alla leggenda: Via Lago Ge-rundo, Vicolo Gerundo. La parola "gera", o "ghera", che significa ghiaia e dà il nome al lago Gerundo ( - A Soncino, un paese di questa zona, troviamo una leggenda che lega il lago Gerundo al "drago Tarantasio, o Tarànto, descrivendolo come il più feroce degli abitatori del lago Gerundo. Lo storico Francesco Castiglioni, nella sua opera "Antichità di Milano", riporta un testo con-servato presso l'archivio dei monaci Olivetani: « - parve prodigiosamente un velenoso e mostruoso serpente, che col solo alito pestifero infestava tutta la città; per cui molti dal pessimo puzzo ammor-bati, morivano. Contagio e infermità facendosi di giorno in giorno maggiori e scemandosi assai il numero degli abitanti, e la città dalla furia dell'ac-qua essendo invasa, grandemente i cittadini se ne accoravano, e tanto più l'affluizione s'aumentava, quanto meno fosse sperabile rinvenire rimedio che valesse a guarire gli infetti, o a prosciugare l'acqua, o ad estinguere l'animale stesso. Epperò stando tutti gravemente ín angustia, si rivolsero alla Divi-na Maestà, colla ferma speranza ch'essa nessuno respinga che con puro cuore le si raccomandi. Ma perché più facilmente ciò che tanto bramavano avessero a conseguire, il Reverendissimo Bernardi-no Tolentino, allora vescovo della città, convocato il clero e tutto il popolo, tenne loro pietoso sermo-ne in cui efficacemente pregavali perché con tut-to il calore del cuore e con tutta la pietà levassero preghiere a Dio, onde sì degnasse liberare questo suo popolo da quella pestifera strage. Il medesimo Reverendissimo Vescovo sancì che si facessero per tre giorni continui solenni processioni e si stabilisse un voto: che se Dio operasse che, preso da compas-sione di quella mortalità, gli avesse a campare da quella velenosa fiera, erigerebbero un tempio in onore della santissima Trinità e del glorioso mar-tire Cristoforo. Né fu certamente quella una vana speranza, perché compite le processioni, e dato il voto, in quello stesso giorno, che fu il primo di gen-naio, si ottennero due memorabilissimi miracoli, che morisse cioè l'infestissimo drago e si prosciu-gasse quell'immenso lago. Laonde i pii cittadini, di questo beneficio immensamente riconoscenti, edificarono un magnifico tempio, come avevano promesso col voto, il quale tempio fu poi più augu-stamente riedificato dai Reverendi Padri della Con-gregazione Olivetana nell'anno 1563 Secondo Luciano Zeppegno, grande cronista delle curiosità e delle stranezze sparpagliate nel-le nostre contrade, nella chiesa di Sant'Andrea di Lodi era custodito addirittura uno scheletro completo di Tarantasio. Un osso gigantesco, e precisamente una costola di drago del Gerundo, è ancora oggi visibile appesa al soffitto della sa-crestia della chiesa di San Bassiano, a Pizzighet-tone. La costola, probabilmente, appartiene a una balena fossile o a un elefante. Scheletri di balene sono stati spesso rinvenuti sulle Prealpi e, soprattutto, sull'Appennino che si affaccia sulla Pianura Padana. E si potrebbe andare avanti ancora per molto, citando altre storie e leggende sulla convinzione da parte degli abitanti di questi luoghi che una specie di mostro esistesse davvero e si aggirasse nelle acque melmose di questo lago acquitrino-so. Ma il Gerundo era collegato ad un ricco siste-ma idrico che faceva capo al fiume Adda e quindi al lago di Como/Lecco, con cui l' Adda è collega-to. Giova ricordare che il lago di Lecco è il lago più profondo d'Italia ed il secondo d'Europa. Pochi infatti sanno che nessuno conosce la sua profondità effettiva, che si stima comunque superiore ai 900 metri. Una notevole massa di se-dimenti e di sassi caduti dalle montagne franose circostanti han portato il fondo effettivo del lago intorno ai 420 metri. Infatti vi è stato, in un pas-sato geologicamente vicino, un grosso sposta-mento della parete occidentale del lago di Lecco che ha portato alla formazione delle due più alte montagne in zona (Grignia e Grignetta) e collate-ralmente all'allontanamento delle due sponde. Questo ha creato una specie di "fenditura" dalla profondità di quasi 1000 metri, in cui si è riversa-ta l'acqua del lago di Como, creando il "braccio" del lago di Lecco. Successive frane e smottamenti hanno porta-to il fondale a riempirsi di detriti. Questo fondale pieno di sassi e macigni po-trebbe dare rifugio a specie animali poco studia-te che, per le profondità in questione, potrebbe-ro ben essere chiamate "pesci abissali". L'ipotesi che alcuni hanno avanzato è che questi animali, di norma viventi a quote molto profonde, in occasione di periodi particolarmen-te difficoltosi per l'approvvigionamento di cibo (quali mesi di prolungata siccità), possano por-tarsi a quote "superficiali" ed essere avvistati in queste rare occasioni. Per completezza d'informazione vi è da riferi-re l'origine del nome del "mostro" attuale: LARIO-SAURO. Nel 1839 Balsamo Crivelli fece la prima descri-zione di un esemplare fossile di "pleiosauro" ritro-vato a Perledo (LC), ma reputò - zione divenga un superfluo sinonimo" Trattasi di un "pleiosauro", un fossile di un animale esistito nel periodo del triassico (230 milioni di anni fa) che abitava realmente questo lago, un mostro marino il cui habitat naturale era appunto l'acqua, dove si muoveva agevolmente grazie alle sue pinne. La grandezza dei fossili ri-trovati raggiunge quella di un metro, ma esem-plari di pleiosauri rinvenuti in altre località nel mondo raggiungono facilmente i 10/12 metri di lunghezza. Sarebbe facile saltare alla conclusione che questa "razza" sia sopravvissuta a quelle ere così lontane e che ancora qualche esemplare viva na-scosto negli abissi del lago. In ogni caso, questo rinvenimento ha fatto ribattezzare il mostro del lago di Como/Lecco da Tarantario a Lariosauro (o confidenzialmente "LARRIE"). Ma le descrizioni degli sporadici (ma continui) avvistamenti non si "attagliano" alla figura di un pleiosauro. L'avvistamento citato all'inizio asso-miglia più ad un "regaleco", pesce che ha la forma di un'anguilla schiacciata ai lati. L'unico proble-ma è che questa razza di pesce vive solo in mare, in acqua salata e non in acqua dolce. Ma vi sono state molte altre segnalazioni. Questa è del 1946 e viene raccontata da Giovan-ni Galli nel suo libro A Bellano vi era un abitante che ci viene de-scritto con lo pseudonimo di "partigiano Panàn". - - - - Panàn non aveva avuto alcun credito a Bellano quando raccontava la storia di questo suo mostro e soprattutto quando raccontava che secondo lui c'era questa associazione che cioè il mostro fosse una reincarnazione del duce. Poi un bel giorno esce a pescare insieme al fratello e, non sapendo bene dove andare, si dirigono con la barca nella zona delle Grosgalle, zona costiera che si trova tra Bel-lagio e Lezzeno, nella quale già Paolo Giovio aveva segnalato l'esistenza di alcuni pesci di dimensioni e di comportamento del tutto insoliti che lui aveva definito i burberi delle Grosgalle. Intanto che sono lì a cercare di pescare qualcosa da portare a casa per la cena hanno il secondo incontro con il mostro e questa volta Panàn non è più solo e quindi la cosa comincia ad avere una consistenza. Il mostro si manifesta emergendo dalle acque più o meno come viene dipinto nella copertina del libro, con questo aspetto truculento, con questa bocca piena di denti, probabilmente un po' troppi rispetto a quanti avrebbe potuto averne. Quindi Panàn e suo fratello si prendono proprio un bello spavento. Panàn era abbastanza abituato, ormai, all'idea che ci fosse questo mostro, ma il fratello, che non aveva dato molto credito alle affermazioni di Panàn, questa volta si rende conto che c'è davve-ro qualche cosa nel lago". - Questi scienziati, ci informano che sono og-getti di studio molti laghi per le svariate segnala-zioni di "mostri" simili a quello del lago di Lecco. Il più famoso e popolare mostro lacustre è il mostro di Loch Ness che si dice esistere nel lago Loch Ness in Scozia. Un mostro simile a questo è l'Ogopogo avvistato nel lago Okanagan, nel mezzo della British Columbia. Un certo nume-ro di storie di mostri simili sono inoltre relati-ve ad altri laghi americani come Manipogo nel lago Manitoba e Champ nel lago Champlain. Nel lago Nahuel Huapi, Argentina, si pensa viva Nahuelito. Altri luoghi di avvistamenti sono il lago di Van in Turchia, (http://www.youtube. com/watch?v=0GsxRlGQbso) il lago Flathead in Montana, il lago Tianchi in Cina e il Fiume Bianco in Alabama. Il lago di Fulk vicino a Churubusco nell'Indiana si dice sia abitato dalla bestia di Bu-sco. Anche il lago più profondo, esteso ed antico del mondo, il lago Baikal in Siberia, è stato detto essere dimora di una di queste creature. Per ultimo non possiamo non citare un avvi-stamento descritto da un gruppo musicale lec-chese (Van Der Sfross ), che ha scritto una canzo-ne dedicata proprio a questo "mostro". Sarebbe stata ispirata da un'intervista fatta ad un pescatore anziano in una casa di riposo, che avrebbe avuto un'incontro ravvicinato con que-sta creatura in una notte buia al centro del lago. Per chi volesse leggere l'intero testo riportia-mo un link: http://www.testitradotti.it/canzoni/ davide-van-de-sfroos/el-mustru Per chi volesse sentire l'intera canzone: http:// www.youtube.com/watch?v=M-ri42e7WDA ...Finiamo con la descrizione del pescatore di Van der Sfross: ho visto coprirsi il cielo e la luna cadere giù era fatto come un'anguilla, era grosso come un battello e mangiava tutte le stelle, una biscia incatramata, con la bocca spalancata e occhi dell'altro mondo... un mostro, ma non era il film dell'oratorio un mostro, venuto in un tempo che non era più il suo ho visto il mostro, ho visto il mostro. Vincenzo Di Gregorio - - - Piramidi Lombarde 2 Due ponti e un albero conservano la "memoria" del Cotonificio Dell'Acqua Due ponti e un albero conservano la "memoria" del Cotonificio Dell'Acqua (g.somazzi) - Due ponti (di cui uno in stile Liberty) e un pino. Sono le uniche tracce rimaste, che fanno compagnia al ricco passato industriale, dell'ex Cotonificio Dell'Acqua di cui oggi, lunedì 18 agosto, ricorre il 45esimo anniversario del suo abbattimento. Fino al 1969, infatti, il noto stabilimento sorgeva proprio dove oggi si trova il parcheggio pubblico di via Gilardelli (350 posti auto e dal 2009 gestito da Amga), l'edificio dell'ex Tribunale e il parchetto di via Diaz. E' quindi passato quasi mezzo secolo da quando le ruspe hanno raso al suolo l'enorme cotonificio costruito su un'area di circa 55mila metri quadrati: un cambiamento radicale con il quale è stato modificato completamente il "volto" del centro cittadino. Infatti, nel luogo in cui i legnanesi del XXI secolo posteggiano le loro auto e passeggiano tranquillamente nel parchetto lungo l'Olona, tra la fine del 1871 e al 1967 migliaia di operaie lavoravano nei vasti capannoni di Carlo Dell'Acqua. Una realtà produttiva rimasta impressa in bianco e nero nella memoria collettiva della comunità, come testimonianza dello splendore industriale che ha portato la città a conquistare la definizione di «Legnano, la Manchester d'Italia». Ma l'ex Cotonificio può ancora oggi contare su tre "memorie" sopravvissute fino a oggi: si tratta del vecchio pino all'entrata del parcheggio e di due ponti sull'Olona che collegavano le due parti dell'industria divise dal fiume. E' da ricordare poi che il ponte in stile Liberty costruito nel XIX secolo fu restaurato nel 1992 con il contributo del "Lions Club Legnano Carroccio", intervento ricordato con un cartello e una targa posizionata sul parapetto del passaggio stesso. 3 Una famiglia, una saga I " cotonatt " De Angeli Frua Una famiglia, una saga I " cotonatt " De Angeli Frua Storie di Milano ritrovate in un romanzo Una famiglia, una saga I "cotonatt" De Angeli Frua C' e' la Saga dei Forsythe, ma c' e' anche la Saga dei De Angeli Frua. La racconta, in un suggestivo volume, che e' insieme autobiografia e quadro di costume, Cristina Frua De Angeli. Il libro s' intitola: Ma chi e' questa bella principessa? (Editore Spirali Vel). Ne seguiamo qui le vicende principali. Carlo Frua era nato a Intra nel 1810. laureatosi in medicina divenne pediatra della Ca' Granda, amato come un padre dai trovatelli del Santa Caterina. Dal matrimonio con Teresa Minola ebbe due figli: Giovanni, medico anche lui, che sposo' la figlia naturale di Poldi Pezzoli; e Giuseppe, affettuosissimo ma che gli dava qualche pensiero per il suo carattere un po' troppo vivace. Carlo Frua era molto colto e amava scrivere. A 53 anni pubblico' un libro con un titolo di timbro morale: "Una seria educazione" che ebbe successo di critica e di pubblico. In effetti erano "considerazioni e raccomandazioni" sotto forma di lettere ai figli (Giovanni di 17 anni e Peppino di 12) che dovevano essere lette quando i due ragazzi avessero raggiunto i vent' anni. E fu al raggiungimento di questa data che pubblico' anche il libro. Le sue raccomandazioni erano principalmente rivolte al "diletto figlio Peppino"... "Il celibato e' affar serio... Il matrimonio diventa una necessita' ... Non ti seduca l' idea di sposare una fanciulla anche se onestissima se non ha i suoi rispettivi quattrini... Non un matrimonio di capriccio perche' tutto pagherai dopo". Poi arrivava alla parte pratica. Accortosi che Peppino, piu' che agli studi classici, fosse adatto ai commerci, per poterlo avviare a tale attivita' , riusci' a trovargli un posto in Germania, presso una tintoria tessile. Si trattava, come succede al principio, di un impiego modesto, ma nonostante cio' , il ragazzo si fece ugualmente notare: il principale lo volle nel suo ufficio. Qui si accorse che i maggiori clienti per la coloritura dei tessuti erano lombardi, perche' non essendoci da noi alcun stabilimento del genere dovevano necessariamente rivolgersi all' estero. In Giuseppe scatto' l' orgoglio dell' eta' giovanile: giuro' a se stesso che, una volta rientrato in Italia, si sarebbe dedicato a potenziare il suo Paese nel settore dell' industria tessile. Tornato con questa vocazione, comincio' a girare da porta a porta per vendere scialli per conto del lanificio Caprotti. Ma anche il mestiere di venditore ambulante lo fece per poco, perche' venne assunto dal cotonificio Cantoni. Il giovane, che aveva vent' anni, fu destinato in una delle manifatture dove, come capo responsabile, c' era un tale Ernesto De Angeli. E qui comincia l' avventura. Alla morte del padre, che aveva lasciato la vedova e cinque figli, Ernesto De angeli, ch' era il maggiore, era costretto ad abbandonare gli studi per mettersi a lavorare. Aveva bussato alla porta del cotonificio Cantoni, dove si era presentato con un biglietto di raccomandazione che diceva: "Giovane sveglio, figlio di madre vedova, fratello maggiore di quattro sorelle". Al vecchio Cantoni, banchiere e imprenditore, Ernesto piacque. Ne aveva intuito l' intelligenza e l' intraprendenza e piu' tardi lo mando' in giro, in Germania, in Francia e in Inghilterra perche' acquistasse esperienza nel campo dei tessili. Erano gli anni della rivoluzione industriale e tanta era la fiducia che Cantoni aveva riposta in lui che poco dopo gli affido' l' incarico di acquistare tutto il macchinario necessario per sostituire la vecchia lavorazione a mano con quella meccanica, un compito che svolse con scrupolosa diligenza. Fu allora che Ernesto suggeri' a Cantoni d' impiantare anche una fabbrica di tintura per colorare e stampare le stoffe: un' idea felice che dette subito i suoi frutti. Come si e' detto, alla Cantoni lavorava anche Giuseppe Frua. I due s' incontrarono, si frequentarono, divennero amici e divennero anche cognati: Giuseppe aveva sposato Anna, una delle quattro sorelle di Ernesto De Angeli. Piu' tardi tutti e due lasciarono la Cantoni: Ernesto si mise in proprio impiantando una tessitura; mentre Giuseppe apri' a Legnano una filatura. Qualche anno dopo si fusero riuscendo cosi' a realizzare l' intero ciclo di produzione: dalla filatura, alla tessitura, alla stamperia. La De Angeli, divento' la De Angeli e C. Ernesto De Angeli fu un uomo straordinario. Aveva sentimenti altruisti, che lui chiamava doveri verso la collettivita' : fondo' la Cassa di previdenza per gli operai; istitui' la polizza per gli infortuni sul lavoro; fu l' antesignano della legislazione del lavoro; creo' le strutture per i consumi popolari. Ebbe tutti gli onori, fino alla nomina a senatore. Affascinato dalla Cultura, Ernesto aveva un amore e un orgoglio: il "Corriere della Sera", e dal 1885 ne era diventato con Benigno Crespi e Giovanni Battista Pirelli, uno dei tre proprietari. Egli riuniva di frequente a casa sua i grandi nomi delle arti, delle scienze e dell' industria: da Pirelli a Boito; da Dubini a Luca Beltrami; da Bertarelli a Rovetta; da Ricordi a Giacosa. Un giorno Giacosa arrivo' in compagnia di Luigi Albertini che ne aveva appena sposato la figlia, Piera. A casa De Angeli quella sera c' era anche il direttore del "Corriere" di allora, Eugenio Torelli Viollier. Fu in quell' occasione che De Angeli fece conoscere Albertini a Torelli Viollier, ponendo cosi' la prima pietra alla grandezza albertiniana del giornale di via Solferino. Albertini era molto legato a De Angeli e tutto l' affetto che nutriva per lui traboccava dall' articolo che scrisse il giorno dopo della scomparsa dell' amico che mori' nel gennaio del 1907, a 58 anni. Albertini gli dedico' un' intera pagina nella quale tra l' altro diceva: "...Amo' intensamente le arti e si diede allo studio delle questioni e alla realizzazione delle istituzioni sociali, alla vita amministrativa e alla politica con lo stesso ardore che portava nell' attivita' ... Noi che l' abbiamo seguito nella vita pubblica e privata con quell' ammirazione che a Milano gli dimostrarono avversari e amici, possiamo ben dire che Milano perde uno dei piu' illustri e benemeriti suoi figli d' adozione". Ernesto De Angeli non aveva figli. Aperto il testamento, si trovo' espressa una sua volonta' : in nome della grande amicizia che l' aveva legato per trent' anni a Giuseppe Frua, marito di sua sorella, egli disponeva che il loro primogenito potesse aggiungere al proprio cognome Frua quello di De Angeli. Dopo la morte di Ernesto tutto passo' nelle mani di Giuseppe. Gli stabilimenti continuarono a crescere, il prodotto divenne competitivo anche all' estero e le esportazioni raggiunsero punte altissime. Frua aveva preso a cuore le condizioni degli operai: era convinto che quanto piu' la provvidenza era dalla sua parte, tanto piu' doveva impegnarsi in favore degli altri. Con l' arrivo di Carlo al timone dell' azienda, dopo la morte di Giuseppe, entro' la nuova generazione dei De Angeli Frua: e alla scomparsa di Carlo, nel 1969, arrivo' Ernesto, erede di una stirpe di industriali tessili, cresciuto fra libri preziosi e quadri celebri. Piu' che il piglio dell' industriale Ernesto aveva l' estro del creativo. Aveva fondato la Motom per la costruzione di un motociclo da lui stesso disegnato, concorrente della Vespa, e che come la Vespa ebbe grande successo di vendita. Aveva per moglie una dolce creatura, discendente da una gande nobilta' austriaca, Elisa. Ebbero tre figli. Marito e moglie si scrissero lettere d' amore durante tutta la vita. Avevano case a Venezia, Capri, Portofino, Parigi, Positano, San Remo, Milano. E quadri di Braque, Picasso, Modigliani, Kandinskij, Morandi, Sironi, Campigli, De Chirico, Le' ger, Matisse, De' gas, Carra' . Tutto questo e' raccontato nel libro di Cristina Frua De Angeli: "Ma chi e' questa bella principessa?", dove l' autrice, attraverso l' io narrante di nome Idina ci da' pagine molto belle con squarci di alta poesia. C' e' soprattutto la rappresentazione dell' angoscioso groviglio psicologico che andava formandosi in una giovane donna, bella e romantica, cresciuta in un ambiente di grande ricchezza e potenza, ma anche di grande solitudine. Questa inquietudine esistenziale aleggia attraverso tutto il racconto, anche se la dolcezza di certi ricordi e' cosi' forte da arrivare ad essere strazianti: le pagine sulla madre sono esemplari. Morti i genitori a breve distanza l' uno dall' altro, improvvisamente sola, Cristina lascia la casa al mare e torna a Milano. Qui e' decisivo l' incontro con lo psicanalista Armando Verdiglione, che piu' tardi sposera' (nel libro Verdiglione e' chiamato "l' Africano"). La sua vita ne viene cambiata: segue l' universita' , frequenta i circoli intellettuali, entra nell' ambiente della psicanalisi, diventando essa stessa analista, prende parte a convegni, lavora e finalmente trova la sua completezza intellettuale e umana. Un' autobiografia, scritta con finezza e con grande phatos, che puo' essere considerata un bel romanzo del Novecento. Afeltra Gaetano 4 Fetonte Fetonte FETONTE: figlio di Elio e dell'oceanina Climene. Fu allevato dalla madre senza ch'egli sapesse chi fosse suo padre. Divenuto adolescente, l'amico Epafo mise in dubbio la paternità che dichiarava; Climene allora lo inviò alla dimora di Elio. Dopo un lungo viaggio il giovane raggiunse infine il palazzo del padre, ed Elio, per provargli il suo affetto paterno, offrì d'esaudirgli un desiderio. Fetonte domandò di poter guidare il cocchio solare in cielo per un giorno. Invano Elio cercò di convincere il figlio a desistere dalla richiesta; ma, ancorché profondamente preoccupato, fu costretto ad accondiscendere dopo mille raccomandazioni. Elio, dopo averlo istruito, gli consegnò il carro. Il giovane voleva dar prova della sua abilità alla sorelle e sua madre lo incoraggiò all'impresa. Ma poiché gli mancava la forza necessaria per controllare lo slancio dei bianchi cavalli che le sue sorelle avevano aggiogato al carro, si lasciò trascinare dapprima così alto nel cielo che tutti i mortali rabbrividivano per il freddo, e poi così vicino alla terra da inaridire i campi. Zeus, in un impeto di collera, lo annientò con la folgore e Fetonte precipitò nell'Eridano, fiume favoloso, generalmente identificato col Po. Le sue sorelle, le Eliadi, ne piansero la morte a lungo, sì che dagli dèi furono trasformate nei pioppi che svettano lungo le rive del fiume e le loro lacrime divennero ambra. Fetonte venne successivamente mutato nella costellazione dell'Auriga. mitologia.dossier.net/fenice.html Fetonte Tra Epàfo, uno dei tanti figli di Giove, e Fetonte, figlio di Apollo, non c'era mai pace perchè il primo era maligno e invidioso, e il secondo non aveva un carattere abbastanza mansueto per sopportare le sue offese e le sue malignità. Un giorno poi Epàfo disse a Fetonte di non montare tanto in superbia perchè non era vero che era figlio del Sole e gli suggerì di chiedere alla madre, la ninfa Climène, chi fosse realmente suo padre. Fremente d'ira e d'impazienza, Fetonte si recò a trovare la madre e le chiese se Epàfo avesse detto il vero. Climène abbracciò il figlio e gli giurò che Epàfo aveva mentito, perchè effettivamente egli era figlio di Apollo, il biondo dio del Sole. Ma Fetonte non si ritenne pago del giuramento della madre, e volle andar a parlare con Apollo stesso. Attraversò l'Etiopia e l'India, e giunse finalmente alla reggia paterna, che Vulcano aveva costruita in oro, argento, avorio, profondendovi anche smeraldi e rubini. Il dio sedeva in trono, e gli facevano compagnia i membri della sua corte: ossia le Stagioni, i Mesi, gli Anni, i Giorni e le Ore: di queste ultime dodici erano avvolte in veli candidi, e dodici in veli neri. Apollo, alla vista del figlio, rimase grandemente stupito: rimessosi dalla meraviglia gli chiese per qual motivo avesse osato compiere un così lungo viaggio attraverso regioni aride e inospitali; e Fetonte gli ripetè la domanda già fatta alla madre. E cioè se fosse lui il suo vero padre. Il dio rispose affermativamente e, per meglio convincerlo aggiunse: - Per dartene la prova suprema, ti giuro per lo Stige che esaudirò qualunque desiderio tu abbia a esprimermi Vi era una cosa che Fetonte desiderava ardentemente, quindi approfittando della promessa che gli aveva fatto Apollo, non esitò e così si rivolse al dio chiedendogli di fargli condurre per un giorno intero il carro di fuoco, da solo, senz'altri che i cavalli. In questo modo nessuno avrebbe avuto più dubbi sulla sua paternità. Seppur a malincuore (perchè l'impresa era molto pericolosa e Fetonte si votava a una morte sicura), Apollo acconsentì (per non venir meno al giuramento). Comandò alle prime Ore del mattino che attaccassero i quattro cavalli al carro di fuoco. Poi sospirando, impartì a Fetonte le istruzioni che, se fossero state eseguite, avrebbero condotto, sano e salvo alla fine dell'impresa l'impetuoso giovinetto. Fetonte assicurò il padre che avrebbe agito secondo i suoi consigli; ma, eccitato com'era per l'avventura meravigliosa che stava per vivere, non tenne nel dovuto conto le raccomandazioni paterne. Aveva fretta di balzare sul carro e di impugnare le redini, e allorchè ebbe fatto ciò, spronò i cavalli a slanciarsi per lo spazio. I cavalli però, si accorsero che colui che teneva le briglie non era Apollo, allora si scatenarono e cominciarono a scalciare e a sbandare senza che Fetonte riuscisse a farli ragionare. Salirono in alto, tanto in alto da bruciare una grande zona della volta celeste e la Via Lattea è appunto la traccia lasciata da quell'incendio; poi scesero in basso rasentando la terra che prese fuoco. Bruciarono foreste, messi nei campi, città, inaridirono i fiumi, fino a quando Giove dall'Olimpo pose fine a questa distruzione scagliando un fulmine che investì l'infelice Fetonte e lo sbalzò, con le vesti in fiamme, giù dal carro. Come una palla di fuoco, Fetonte, rotolò per l'aria e andò a cadere nel letto dell'Eridano - il Po che la sua folle corsa aveva prosciugato. Accorsero subito le Naiadi a compiere il rito funebre, e accorsero anche, piangendo amaramente, le sorelle dell'infelice giovane, le Eliadi, pur esse figlie del Sole. Alla fine gli dei, commossi dall'immenso dolore delle Eliadi, le tramutarono in pioppi sulle sponde dell'Eridano. E questa trasformazione spiegava, agli antichi, la presenza dei filari dei pioppi che corrono lungo le rive del Po, specie nel punto in cui la leggenda vuole che sia caduto e sia stato sepolto Fetonte: questo posto corrisponde all'incirca alla località in cui, più tardi, sarebbe sorta la città di Ferrara. 5 Il cavaliere in carretta Il cavaliere in carretta Narra la leggenda che Lancillotto, dopo aver vagato alquanto nella sua follia, incontrò un giorno, in una foresta, la Dama del Lago, che lo prese con sè, lo guarì e lo lasciò poi tornare alle sue avventure avvertendolo di trovarsi per l'Ascensione nella foresta di Camaalot. Quel giorno, infatti, Artù tenne là la sua corte, e tutti erano tristi perchè Galeotto era morto e di Lancillotto non si avevano più sue notizie. Improvvisamente si presentò un cavaliere sconosciuto, il quale lanciava una strana sfida. "Io sono-disse-Meleagante, figlio di Baudemagus re di Gorra , e tengo prigionieri nel mio palazzo gran numero di dame e cavalieri. Vengo a sfidare Lancillotto, che si vanta di essere il migliore cavaliere: se sarò sconfitto rilascerò tutti i miei prigionieri, ma, se sarò vincitore, mi sarà consegnata la regina Ginevra come prigioniera". Solo Keu, il siniscalco, osò accettare la sfida, ma fu rovesciato a terra dopo breve combattimento. Così Ginevra fu fatta prigioniera da Meleagante. Mentre questi si allontanava con i suoi uomini e la regina , giunse Lancillotto il quale si lanciò furioso su Meleagante. Ma costui, dopo avergli ucciso a tradimento il cavallo, fuggì al galoppo trascinando con sè la prigioniera,e invano Lancillotto, appiedato, tentò di inseguirlo. Poco dopo, però, incontrò un nano che conduceva una carretta e che lo invitò a salirvi se voleva rivedere la regina rapita. Lancillotto esitò un istante perchè, in quei tempi, la carretta serviva di gogna per i delinquenti e nessun cavaliere si sarebbe lasciato "carrettare". Ma poi per amore di Ginevra, salì sulla carretta incurante degli scherni di tutti coloro che incontrava. Secondo la promessa del nano, il giorno dopo giunsero a un castello da una finestra del quale Lancillotto potè vedere, in lontananza la regina e Keu portati prigionieri da Meleagante e ormai giunti ai confini del regno di Gorra. In quel momento stesso entrava nel castello Galvano, che anche lui cercava di liberare Ginevra, e i due cavalieri decisero di tentare insieme l'avventura. Presto vennero a sapere che nel regno di Gorra si poteva entrare per due soli ponti che attraversavano un largo fiume: l'uno era il Ponte perduto, che passava sotto l'acqua, l'altro il Ponte della spada, costituito da una sola lama tagliente. Galvano scelse il primo e Lancillotto il secondo: così si separarono. Dopo varie avventure, Lancillotto giunse al Ponte della spada: attraversarlo era quasi impossibile perchè la lama tagliava anche le cotte di ferro e feriva crudelmente le carni, ma Lancillotto, quando vide Ginevra affacciarsi alla finestra di una torre, si slanciò senza esitare e senza badare al dolore delle ferite. Il giorno dopo affrontò Meleagante e lo avrebbe ucciso se il padre di lui, il re Baudemagus, non fosse intervenuto liberando Ginevra e permettendo al figlio di sfidare nuovamente Lancillotto alla corte di re Artù. Così Ginevra e il suo cavaliere poterono parlarsi e rendersi conto che tutto era avvenuto per gli inganni di Morgana. Alcuni autori dicono che Ginevra era però in collera con Lancillotto perchè, al momento di salire sulla carretta, egli aveva esitato un istante, cosa che non avrebbe dovuto fare perchè l'amore di un buon cavaliere deve essere dedizione pronta e assoluta. Comunque, anche questo corruccio venne superato. Poi Ginevra tornò al regno di Logres mentre Lancillotto si metteva alla ricerca di Galvano. Se non che, appena entrato in un castello, dove gli avevano detto che lo avrebbe trovato, una botola si aprì sotto i suoi piedi, ed egli si trovò prigioniero del malvagio Meleagante. Questi allora, sicuro di non aver più nulla da temere da lui, si presentò a Logres chiedendo di poter combattere con Lancillotto, secondo il patto: se egli non si fosse presentato, sarebbe stato disonorato. Ma, con sua meraviglia, Lancillotto era lì pronto ad accettare la sfida: una sorellastra dello stesso Meleagante, da lui offesa, lo aveva liberato. Questa volta per lo scellerato non vi fu pietà: Meleagante venne abbattuto e, a un cenno della regina Ginevra, che non poteva perdonargli la sua prigionia, Lancillotto gli tagliò la testa. Ti potrebbero anche interessare: La morte di Artù 6 La leggenda di Osiride La leggenda di Osiride Osiride era un mitico re dio degli abitatori del Nilo ; sovrano benefico indusse i suoi selvaggi sudditi a vivere in pace, a non sbranarsi a vicenda, ad abbandonare l'avventurosa vita nomade. A questo fine insegnò loro a lavorare la terra, a coltivare la vite e ad ottenere il vino, e l'orzo da cui trarre la birra. Mostrò loro come forgiare i metalli e le armi per difendersi dalle belve, li invogliò a vivere in comunità, a fondare città. Iside, la sorella sposa, per parte sua, guariva le loro malattie, scacciava gli spiriti maligni con arti magiche ; fondò la famiglia, insegnò agli uomini a fare il pane e alle donne tutte le arti muliebri, la tessitura, il ricamo. Insomma, inventarono la civiltà. L'Egitto si trovò così nell'Età dell'Oro. Compagno e amico di Osiride era Thot, dio delle scienze, cui spettò il compito di insegnare agli Egizi a leggere e scrivere. Non contento di ciò, Osiride volle portare la sua benefica missione anche nel resto del mondo e, durante la sua assenza, lasciò la reggenza del trono a Iside. Ma ecco il fratello Seth, escluso dal trono in quanto figlio cadetto, tramare subito per usurparglielo : la vigile Iside riesce a stroncare ogni manovra. Osiride tornò dal viaggio, felicemente concluso, in compagnia di Thot e di Anubi ( dio dei morti ). Il perfido Seth, l'esatto opposto di Osiride, ordisce un orribile inganno : dà una grande festa in onore del fratello e durante il banchetto mostra agli invitati un magnifico scrigno finemente istoriato e tempestato di gemme e, scherzando, proclama che ne farà dono a chi, entrandovi, lo occuperà esattamente con il proprio corpo (l'aveva fatto costruire su misura per Osiride, che aveva una statura gigantesca). Ognuno dei commensali, ammirato per la preziosità dell'opera e desideroso di averla, ci si provò, ma risultava sempre troppo piccolo. Alla fine fu la volta del re, la cui statura si attagliò a pennello. Seth, fulmineo, con i suoi complici rinserrò il coperchio, lo sigillò con piombo fuso e gettò lo scrigno nel Nilo. Gli dei atterriti presero forme di animali per sfuggire a una simile sorte. Iside, disperata, si strappò le vesti e con l'aiuto di Thot riuscì a fuggire e partì alla ricerca della salma dello sposo per dargli almeno degna sepoltura. Era scortata da sette velenosissimi scorpioni, terribile guardia del corpo. Giunse esausta alla città di Pa-sin ; ma lacera e sfinita com'era, non trovò ospitalità ( forse a causa del poco raccomandabile seguito ). Una donna le chiuse ostentatamente la porta in faccia. I sette scorpioni si consultarono tra loro sul modo di vendicare l'affronto alla dea, e ad uno a uno, avvicinandosi al loro capo, Tefen, iniettarono nella sua coda tutto il proprio veleno. Tefen, introdottosi nella casa della poco cortese signora, trovato il suo bambino, lo punse. La potenza del veleno era tale che la casa prese fuoco. Frattanto una misericordiosa e umile contadina, Taha, impietosita da quel volto impietrito dal dolore, accolse Iside, spontaneamente ; l'altra, che si chiamava Usa, non trovò una sola goccia d'acqua per spegnere l'incendio e disperata, col bambino morente fra le braccia, vagava in cerca di aiuto, ma nessuno le rispondeva. Fu Iside che ebbe pietà di lei : impartì al veleno l'ordine di non agire e il bimbo guarì subito, mentre una pioggia miracolosa spegneva l'incendio. L'ira del cielo s'era placata ; Usa, pentita, capì di trovarsi di fronte ad un essere soprannaturale e offrì doni a Iside, implorandone il perdono. Iside riprese il vagabondare tra le infinite insidie che gli spiriti maligni, al servizio di Seth, cospargevano sulla sua via. Presso Tanis, da alcuni bimbi, seppe che la cassa, sul filo della corrente di quel ramo del Nilo, aveva raggiunto il mare aperto. Disperata, camminò e camminò e giunse a Biblo. Proprio qui era approdata la tragica bara, tempo prima, tra i rami di un cespuglio che, al contatto col corpo divino, s'era trasformato in una splendida acacia che rinserrò lo scrigno nel proprio tronco. Un giorno il re di Biblo, vedendo lo stupendo albero, ordinò che lo si tagliasse per farne una colonna del suo palazzo. Iside, giunta in città, tutte le notti si trasformava in rondine e svolazzava intorno alla colonna, lanciando strida strazianti, ma nessuno le faceva caso. Alla fine decise di agire : si sedette presso la fonte, e quando le ancelle della regina vennero ad attingere acqua, prese a conversare, poi a pettinarle, a offrire divini profumi, con loro grande gioia. Anche la regina volle conoscere la straniera che, in brevissimo tempo, entrò nelle sue grazie e fu nominata governante del principino. Ogni notte, preso il suo aspetto di rondine, non cessava il suo pianto. La regina, una sera, volendo sincerarsi che il bambino dormisse, entrò nella sua camera e trovò uno spettacolo raccapricciante : la culla del figlioletto era circondata da alte fiamme e, a piè del letto, sette minacciosi scorpioni facevano la guardia. Atterrita, urlò, accorsero le guardie, accorse il re e la stessa Iside, al cui cenno le fiamme si spensero d'incanto. La dea svelò il proprio essere e rimproverò la regina ; riconoscente per l'ospitalità aveva deciso di rendere il principe immortale, e, per questa ragione, ogni notte lo immergeva nelle fiamme purificatrici. Ma purtroppo ora l'incanto era rotto. La regina ne fu profondamente rattristata e il re, onorato d'aver dato ricetto a una dea, le offrì tutto ciò che lei volesse. Iside, naturalmente, chiese la grande colonna e lei stessa ne trasse lo scrigno e riempì il tronco di profumi, lo avvolse in aulenti bende e lo lasciò al re e al suo popolo come suo ricordo e preziosa reliquia. Ripresa la via del ritorno scortata da due figli del re, non seppe resistere a lungo : ordinò alla carovana di fermarsi e aprì la cassa. All'apparire del volto del marito le sue urla di dolore riempirono l'aria di un tale spavento che uno dei figli del re uscì di senno. Peggiore sorte toccò all'altro : Iside s'era chinata lacrimando sul caro viso, e l'ignaro ragazzo l'osservava incuriosito ; la dea, accortasene, gli lanciò una tale occhiata che il poveretto cadde fulminato. Rimasta sola, Iside tentò di tutto, usò invano tutte le possibile formule magiche per richiamare in vita lo sposo ; e, trasformatasi in falco, e agitando su di lui le ali per cercare di ridargli il soffio della vita, miracolosamente rimase fecondata. Giunta in Egitto, nascose la bara in un luogo romito presso Buto, tra le inestricabili paludi del Delta che la proteggevano dai pericoli. Ma per caso Seth, andando una notte a caccia al chiaro di luna, la trovò. Apertala e vista la salma del fratello, in preda al più scatenato furore la fece a brani, tagliandola in quattordici parti che sparpagliò per tutto l'Egitto. L'infelice Iside, al nuovo scempio, ricominciò la pietosa ricerca dei macabri resti e dopo immense fatiche riuscì a ricomporli ( tranne il membro virile divorato da un ossirinco, una specie di storione del Nilo). Sui luoghi ove i resti furono trovati, sorsero cappelle e poi templi ai quali si compivano pellegrinaggi chiamati " della ricerca di Osiride ". Ricomposto il corpo, Iside chiamò a sé la diletta sorella Neftis ( incolpevole sposa del malvagio Seth ), Thot e Anubi. E con la scienza ereditata da Osiride, tutti insieme si prodigarono per rendere a Osiride la vita. Anubi imbalsamò il corpo e confezionò così la prima mummia, che fu fasciata e ricoperta di talismani. Sui muri del sepolcro, ad Abido, furono incise le formule magiche di rito. Accanto al sarcofago fu posta una statua del tutto Osiride così resuscitò, ma no poté regnare più su questa terra e divenne re del " Sito che è oltre l'Orizzonte occidentale ", che trasformò da luogo cupo e triste in una landa ubertosa e ricca di messi. Compiuto il rito della sepoltura, Iside tornò a nascondersi nelle paludi per proteggere se stessa e soprattutto il nascituro dalle vendette di Seth. Quando Horo nacque, la madre lo protesse con tutto l'amore, invocò su de lui l'aiuto di tutti gli dei, poi gli insegnò la scienza, l'educò nel culto del padre. Horo crebbe " come il sole nascente, il suo occhio destro era il sole, quello sinistro la luna " ed egli stesso era un grande luminoso falco che solcava i cieli. E quando fu abbastanza grande, Osiride tornò una volta sulla terra per farne un soldato. Allora Horo, radunati tutti i fedeli del re tradito, partì alla ricerca di Seth per vendicare il padre. La tremenda battaglia durò tre giorni e tre notti ; Seth e i suoi si trasformarono nei più terribili e imprendibili animali per cercare di sfuggire alla sconfitta : Horo mutilò Seth, ma questi si trasformò in un enorme maiale nero e ingoiò l'occhio sinistro di Horo : la luna cessò così di splendere, l'umanità era attonita. Alla fine Seth stava per soccombere, quando Iside cominciò ad intromettersi, a supplicare il figlio perché il massacro avesse termine : dopo tutto, Seth era suo fratello e marito della diletta sorella Neftis. Horo, in uno scatto d'ira, taglio la testa alla madre. Thot la guarì subito ponendole, al posto della sua, una testa di mucca. La battaglia riprese e durò all'infinito senza vincitori né vinti. S'intromise allora autoritariamente Thot, che guarì Seth ma gli impose di restituire l'occhio a Horo. La luna tornò a risplendere. Intervennero allora anche gli altri dei e posero la questione al giudizio di Thot. Fu un processo fiume che durò ottant'anni. Seth accusò Horo di non essere figlio di Osiride, essendo nato troppo tempo dopo la morte del vantato padre. Horo controbatté tacciando Seth di malafede ; e alla fine il Divino Tribunale sentenziò che Horo avesse il regno del Basso Egitto e Seth quello dell'Alto Egitto. 7 Da Ponzella a Ponzella Da Ponzella a Ponzella E' ipotizzabile che il Barbarossa, proveniente da Como, passasse per Fagnano Olona, fino a Busto Arsizio, Dalla via Ponzella di Busto per raggiungere San Giorgio e poi Canegrate e Parabiago ( tutti paesi al confine con il Milanese) abbia seguito la line che congiunge Via Ponzella di Busto con via Ponzella di Legnano, passando esattamente sul cortile della cascina di Mazzafame. La battaglia nel parco Altomilanese in zona ppiscine di Butsto, pinetina e canpo sportivo, distratto dai Milanesi in avanscoperta del proprio esercito accampato, nei pressi, a est in zona Sabotino - San Martino. Senza la presenza dei Milanesi, probabilmente avrebbe raggiunto Villa Cortese con una traettoria senza deviazioni. La via Ponzella di Busto probabilmente era in collegamento diretto con Ponzella di Legnano, passando per Mazzafame, ma questo forse nel secoli successivi.