1 Lago gerundo

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1 Lago gerundo
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Bollettino a diffusione interna a cura di RG
Quaderni Giorgiani 121
appunti personali
domenica 05-04-15
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Indice dei contenuti
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Contents
1 Lago gerundo
1.1 Lago Gerundo
1.2 I draghi del lago Gerundo
1.3 Nelle acque del lago Gerundo - sulle tracce del mostro Tarantasio
1.4 Il Lago Gerundo
1.5 la leggenda del lago gerundo
1.6 Storia di un mare perduto
1.7 Il mistero del Lago Gerundo
1.8 Intervento dello storico Prof. Riccardo Caproni (
1.9 Le nebbie del Lago Gerundo
1.10 Quel ramo del lago Gerundo
1.11 Lago Gerundo: storia o leggenda?
1.12 quando il drago tarantasio abitava il lago gerundo
1.13 La leggenda del lago Gerundo
1.14 Il drago Tarantasio alla riscossa!
1.15 Le nebbie del Lago Gerundo
1.16 Un cetaceo nella pianura padana
1.17 Il "mare" lombardo fra storia e leggenda
1.18 Il "mare" lombardo fra storia e leggenda
1.19 Brembio e il suo territorio
1.20 Descrizione geologica della provincia di Milano
1.21 Garda, lago di misteri e leggende
1.22 Il biscione di Milano
2 Due ponti e un albero conservano la "memoria" del Cotonificio Dell'Acqua
3 Una famiglia, una saga I " cotonatt " De Angeli Frua
4 Fetonte
5 Il cavaliere in carretta
6 La leggenda di Osiride
7 Da Ponzella a Ponzella
1 Lago gerundo
Lago Gerundo
1.1 Lago Gerundo
Lago Gerundo
Altitudine ca. 100 m s.l.m.
Dimensioni Superficie ca. 200 km²
Profondità massima ca. 10 m
Idrografia
Immissari principali Adda, Serio, Brembo, Molgora
Emissari principali Adda
Il lago o mare Gerundo (o Gerondo) si suppone fosse un vasto
specchio d'acqua stagnante, a regime instabile, situato in
Lombardia a cavallo dei letti dei fiumi Adda e Serio.
Poco o per nulla descritto dalle fonti antiche, conosciuto più per
tradizione orale, secondo i dati geologici tale lago
sembrerebbe esistito quanto meno in età preistorica.
Storicamente la zona è stata sì soggetta ad alluvioni dei fiumi,
ma, piuttosto che paludosa, sembra essere sempre stata
sostanzialmente poco fertile, costituita essenzialmente da
gerali ricoperti da, in media, solo 45 cm di torba.
A tale supposto "lago" è strettamente legato il promontorio dell'Insula
Fulcheria (forse da pulchra, "bella"), l'unica zona fertile nel
centro di un'arida distesa di ghiaia.
Etimologia
È probabile che il toponimo "Gerundo" derivi dalla géra o "ghiaia"
(oppure gérola, "sasso"), e infatti i gerali la fanno da padroni
(vedi la toponomastica locale, come in Gera d'Adda).
Valerio Ferrari, conoscitore del territorio cremasco, ha suggerito al
contrario che il termine possa derivare dal greco gyrus (spira,
curva), con riferimento ai meandri fluviali che abbondano
nell'area.
Un'ipotesi più fantasiosa farebbe invece derivare il termine Gerundo
dal greco Acheron, ossia Acheronte, un fiume infernale nella
mitologia greca, poiché il lago sarebbe dovuto essere
paludoso, e quindi inospitale e malsano[1].
Leggenda
La fantasia popolare narra che un tempo nelle acque del Lago
Gerundo vivesse un drago di nome Tarantasio che,
avvicinandosi alle rive, faceva strage di uomini e soprattutto di
bambini e che ammorbava l'aria circostante con il suo alito
asfissiante. Le esalazioni, in effetti, erano dovute alla
presenza nel sottosuolo di metano e di idrogeno solforato, un
fenomeno misterioso per la popolazione che, pertanto,
incolpava esseri sconosciuti e fantasiosi.
Il fantomatico mostro, secondo la leggenda, fu ammazzato da uno
sconosciuto eroe che prosciugò anche il lago: altri non era
che il capostipite dei Visconti di Milano che, dopo tale
prodezza, adottò come suo stemma l'immagine del biscione.
Alcune fonti popolari attribuiscono il prosciugamento e la
bonifica del lago a san Cristoforo, che avrebbe sconfitto il
drago, o a Federico Barbarossa.
La bonifica del territorio fu in realtà fatta dai monaci delle abbazie
vicine. Si ritiene comunemente che in verità le acque
scomparvero in seguito a progressive opere di bonifica in atto
già da tempo, in particolare il potenziamento del canale della
Muzza da parte dei lodigiani, oltre a fattori di drenaggio e
assestamenti geologici, come il livellamento di depositi
morenici nei pressi dell'immissione dell'Adda nel Po.
Ubicazione
Il lago occupava un ampio tratto di territorio tra Adda e Serio, ma
anche, secondo alcuni, Brembo e Oglio. Tale localizzazione
comprende quindi le provincie di Bergamo, Lodi e Cremona e
Milano.
La costa est del lago, secondo alcuni autori, raggiungeva Fara
Olivana e proseguiva, passando ad est di Crema, sino a
Grumello Cremonese; continuando poi ad occupare parte
delle valli del Chiese e dell'Oglio sin quasi alla sua immissione
nel Po. In particolare, si può osservare una vasta zona
delimitata da una scarpata che indica l'antico alveo del lago, o
meglio la zona più profonda; tale demarcazione è oggi
fortemente visibile nei pressi della sponda occidentale
dell'Adda, da Cassano a Castiglione. L'ampiezza massima
del lago, comprendente le zone paludose, è andata
comunque oltre, a causa dell'abbandono delle opere di
bonifica durante il medioevo. Al centro del lago si ergeva una
lunga e stretta striscia di terra che iniziava presso Caravaggio,
raggiungeva Crema e proseguiva sin oltre Castelleone.
Il suolo declina verso il letto attuale dei fiumi alle volte con
suggestive concrezioni e/o pendenze, come nel territorio di
Truccazzano, sulla strada provinciale 14 "Rivoltana", a
Formigara, e a Chieve.
Numerosi sono i comuni che dedicano una via al lago scomparso,
mentre nella parte bergamasca del comune di Cassano
d'Adda, esiste la località Taranta, probabilmente derivata dalla
leggenda del drago.
Realtà storica
Datazioni geologiche permettono di rilevare che già 5000 anni fa la
valle dell'Adda era già formata, e si presentava così come è
ora. Il fiume ha comunque mostrato ampliamento di meandri e
divagazioni del corso in misura maggiore che non l'Oglio, per
esempio. La zona era inoltre abitata, essendo stati ritrovati
insediamenti gallici (III e II secolo a.C.) e romani, nonché una
strada romana da Milano a Cremona, in pieno "lago
Gerundo".
Bibliografia
Defendente Lodi, Discorsi historici in materie diverse appartenenti
alla città di Lodi, Lodi, Bertoetti, 1629, ISBN non disponibile.
Livia Feroldi Cadeo, Il Gerundo. Antico lago di Lombardia dall'Adda
all'Oglio, Soncino, Museo della Stampa, 1980, ISBN non
disponibile.
Italo Sordi, Leggende sulle acque in Lombardia, Brescia, Grafo,
1997, ISBN non disponibile.
Carlo Fayer e Mario Signorelli, Racconti del Gerundo. Aspetti di un
territorio, Milano, SIED, 2001, ISBN non disponibile.
Autori vari, L'araldica della regiona Lombardia, Istituto regionale di
ricerca della Lombardia, Milano, 2007, ISBN non disponibile.
virtusloci.it portale per lo studio e la conoscenza del territorio
cremasco
Premio letterario
Il Premio Letterario ispirato dal Lago Gerundo e dal suo drago
Che sia esistito o no un “Lago Gerundo” ed in quale esatto perimetro,
lasciamo agli studiosi il compito arduo di portare a definizione una
questione ancora irrisolta. Il Comune di Paullo ed il suo assessorato
alla cultura hanno inteso comunque adottare i valori simbolici della
leggenda in quanto costruzione dell’uomo parallelo allo svolgimento
della sua storia. Per informazioni: lagogerundo.org.
1.2 I draghi del lago Gerundo
I draghi del lago Gerundo
Che cosa si nascondeva veramente nelle acque di questo lago
lombardo oggi scomparso? - di Lorenzo Rossi
Che cosa si nascondeva veramente nelle acque di questo lago
lombardo oggi scomparso?
Benché al giorno d'oggi non ne esista più alcuna traccia, se non
nella storia dei sedimenti geologici e nelle antiche toponimie, il
territorio lombardo attualmente compreso tra la parte
meridionale di Bergamo e il nord di Cremona era in passato il
bacino di una vastissima area acquitrinosa formata dalle
esondazioni dei fiumi Adda, Oglio, Serio, Lambro e Silero,
conosciuta con il nome di lago (o mare) Gerundo. Le
testimonianze storiche più antiche circa la sua esistenza
sembrano risalire all'epoca romana, tramite alcuni accenni
contenuti nelle opere di Plinio il Vecchio, ma le informazioni più
significative sono datate al 1110 d.C. e provengono dal monaco
Sabbio, che parla di torri dotate di anelli per l'ormeggio delle
barche, le cui rovine sono sopravvissute sino ai nostri giorni.
Particolarmente interessanti da un punto di vista criptozoologico
risultano essere le numerose testimonianze e aneddoti inerenti
a misteriose creature che ne infestavano le acque, alle quali la
tradizione popolare diede il nome di "draghi".
Generalmente descritti come grandi animali serpentiformi dall'alito
pestifero, erano sicuramente considerati ben più di una
leggenda dalle popolazioni che abitavano le coste del Gerundo,
basti considerare che gli abitanti di Calvenzano eressero delle
mura alte tre metri e lunghe quindici chilometri per proteggersi
dalle sortite del mostro lacustre che si credeva vivesse in quella
zona e che la contrada principale del paese, a ricordo della
vicenda, era chiamata "via della biscia".
La credenza nella reale esistenza di simili creature è testimoniata
anche da alcuni interessanti reperti ossei che fanno ancora
mostra di sé in diverse chiese, un tempo stanziate lungo le
propaggini dell'antico lago Gerundo, considerati per lungo
tempo dalle popolazioni locali i resti appartenuti ai temibili
draghi acquatici.
Dal soffitto dell'abside della chiesa di Almenno S.Salvatore pende
una gigantesca costola animale della lunghezza di 260 cm, che
secondo la tradizione sarebbe appartenuta a una creatura
catturata nei pressi del fiume Brembo. A soli tre chilometri di
distanza in linea d'aria, un altro reperto simile, della lunghezza
di 180 centimetri, è conservato all'interno del Santuario Natività
della Beata Vergine di Sombreno. Si narra che provenisse da
un drago del Gerundo, ucciso da un giovane eroe. La costola
attirò l'attenzione del naturalista Enrico Caffi, al quale è
dedicato il Museo di Storia naturale di Bergamo, che la
identificò come appartenente ad un mammuth. Infine nella
parrocchia di Pizzighettone, presso la sacrestia della chiesa di
S.Bassiano, è custodita una costola lunga 1,70 centimetri.
Gli abitanti di Lodi erano talmente spaventati e abituati alla presenza
di un grande "serpente" acquatico al punto da affibbiargli
persino il nome proprio di "Taranto" o "Tarantasio", anticipando
così di molti secoli la popolazione scozzese di Inverness, che
verso gli anni Trenta ribattezzò "Nessie" la più famosa delle
creature lacustri leggendarie: il mostro di Loch Ness.
Si narra che agli inizi del 1300, a seguito delle opere di bonifica
avviate nel XII secolo, a Lodi, presso l'Adda, fu rinvenuto lo
scheletro di Tarantasio, successivamente custodito nella sua
interezza all'interno della chiesa di S.Cristoforo. Col tempo però
se ne persero le tracce, ma verso il 1800 il medico di Lodi
Gemello Villa riuscì a riportarne alla luce e ad esaminarne una
presunta costola. I suoi studi non lasciano intendere
informazioni di particolare interesse, se non nel passaggio in
cui si afferma che "la costola ha la pellucidità delle ossa
fresche", lasciando così intuire che possa non trattarsi di
reperto fossile.
Lo stemma dei Visconti
L'elemento più caratteristico dell'iconografia araldica dei Visconti,
antichi signori di Milano, è senza dubbio il sinuoso "serpentone"
ritratto nell'atto di ingoiare uno sventurato essere umano, ma le
leggende circa la sua reale origine sono talmente diversificate e
numerose che risalire a una sicura genesi storica è impresa
praticamente impossibile.
Lo stemma dei Visconti a Milano raffigura un serpente che divora
un giovane uomo. Secondo alcuni il serpente sarebbe proprio il
mostro del lago Gerundo ucciso da Umberto Visconti nel 1200.
Lo stemma dei Visconti a Milano raffigura un serpente che divora un
giovane uomo. Secondo alcuni il serpente sarebbe proprio il
mostro del lago Gerundo ucciso da Umberto Visconti nel 1200.
Nel suo De Magnalibus Mediolani Bonvesin de la Riva riporta quanto
segue: "Viene offerto dal comune di Milano a uno della
nobilissima stirpe dei Visconti che ne sembri il più degno un
vessillo con una biscia dipinta in azzurro che inghiotte un
saraceno rosso: e questo vessillo si porta innanzi ad ogni altro:
e il nostro esercito non si accampa mai se prima non vede
sventolare da un'antenna l'insegna della biscia. Questo
privilegio si dice concesso a quella famiglia in considerazione
delle vittoriose imprese compiute in Oriente contro i saracini da
un Ottone Visconti valorosissimo uomo".
Il cronista Galvano Fiamma, riferendosi sempre allo stesso episodio,
lo ha tramandato ai posteri con maggiore dovizia di particolari,
spiegando che durante l'assedio di Gerusalemme Ottone
sconfisse in un duello il terribile nobile saraceno Voluce il quale,
per sottolineare la sua presunta invincibilità, era solito
combattere sotto il simbolo di un serpente che ingoiava un
uomo.
Un'altra versione vuole che, dopo la morte di San Dionigi, un drago
giunse nei dintorni di Milano trovando dimora in una grotta
situata oltre le mura della città. Dopo diversi infruttuosi tentativi
di uccisione da parte di disparati cavalieri, giunse a Milano
Uberto Visconti che affrontò e sconfisse il mostro prima che
quest'ultimo potesse ingoiare del tutto un fanciullo che aveva
già cominciato a ghermire tra le sue fauci.
I più romantici saranno di certo disposti a collegare tra loro la
leggenda di Uberto e quella dei draghi dell'antico Gerundo, ma
a ben vedere pare proprio che lo stemma del serpente fosse
simbolo della città di Milano molto prima dell'arrivo dei Visconti,
tanto che, secondo alcuni, la sua origine risale all'epoca di
Desiderio, ultimo re dei Longobardi, che successivamente
tramandò lo stemma ai Visconti, suoi successori.
Possibili spiegazioni
Pur ammettendo che le leggende inerenti agli antichi mostri dello
scomparso lago Gerundo potessero avere un fondo di realtà,
ipotesi sulla quale ritorneremo in seguito, esistono molti buoni
motivi per escludere categoricamente che le gigantesche
costole conservate come relique possano realmente essere
appartenute a questi ultimi. Anticamente i pellegrini erano infatti
soliti portare in dono ai santuari i più esotici e singolari reperti.
Non è affatto da escludere l'ipotesi che le ossa attualmente
custodite nel bergamasco e nel cremonese potessero essere
appartenute
ad
animali
quali
elefanti
o
cetacei,
successivamente donate alle chiese in qualche modo legate
alle leggende sui draghi. A tal proposito è interessante notare
come la chiesa di S.Salvatore sia consacrata a S.Giorgio, il più
famoso uccisore di draghi della tradizione cattolica.
Una ricostruzione del Lago Gerundo (da M. Mosca).
Un'ipotesi ancora più plausibile può essere presa in considerazione
se, affidandoci alle cronache sino a noi pervenute, le misteriose
costole non sarebbero state portate da pellegrini e viaggiatori,
ma effettivamente rinvenute in territori prossimi alle chiese e
santuari che le espongono...
Nel 1995 il Corriere della Sera riportò questa notizia: "Cremona Un'enorme vertebra di un animale preistorico è stata ritrovata
nei fondali del fiume Adda nei pressi di Pizzighettone
(Cremona). Il reperto ha un'altezza di 75 centimetri, una base di
39 e la sede circolare ha un diametro di 16 cm. Ritrovamenti di
questo tipo non sono nuovi in una zona che millenni fa ospitava
le paludi del lago Gerundo. A scoprire il reperto è stato Walter
Valcaregni, un muratore di 47 anni che in passato ha già donato
fossili al museo civico di Pizzighettone. Un paleontologo
incaricato dal museo dovrà stabilire a quale animale la vertebra
appartenesse e a quale epoca risalga".
In effetti ritrovamenti di ossa appartenenti a mammuth e a rinoceronti
dell'era glaciale non sono infrequenti in quelle zone. Simili
reperti vengono scavati a monte dalle correnti e poi trascinati
sino a valle, spiegando così i misteriosi ritrovamenti tutt'ora
esposti in alcune chiese.
Per quanto ne sappiamo però, tutte le costole che rientrano
all'interno di una documentazione storica più o meno attendibile,
sono posteriori alla bonifica delle zone ed al prosciugamento
del Gerundo: questi reperti avrebbero così contribuito ad
alimentare la leggenda di Tarantasio e dei suoi simili, ma non è
altrettanto certo che siano anche state la causa della loro
origine, per risalire alla quale si rende forse necessario
affrontare una particolare caratteristica dei draghi milanesi: il
loro alito pestilenziale...
Nel Medioevo non era infrequente attribuire morti improvvise o
inspiegabili alla minacciosa presenza di misteriosi rettili e il
caso del basilisco è un esempio lampante di ciò. Molto spesso
questa mitologica creatura, che secondo la tradizione nasce da
un uovo di gallo covato da un rospo, prendeva dimora in pozzi
le cui acque avrebbero avvelenato tutti coloro i quali vi
avessero attinto. Secondo la leggenda, nel IV secolo San Siro
liberò la città di Genova da un basilisco che si era insidiato in
un pozzo, mentre a Vienna sarebbe esistita una lapide le cui
iscrizioni indicavano che nell'anno 1202 un pozzo infestato da
un basilisco fu sotterrato dopo che numerose persone erano
morte per essersi lì abbeverate. Nel suo volume Dall'unicorno
al mostro di Loch Ness il criptozoologo "ante litteram" Willy Ley
spiega che in passato la presenza di falde acquifere sature di
idrogeno solforato a causa del loro odore di uova marce hanno
potuto contribuire alla leggenda delle esalazioni pestifere del
basilisco.
Se ora consideriamo che in passato gli acquitrini del Gerundo
rendevano l'area malsana provocando numerose vittime per
malaria, gli abitanti del tempo avrebbero potuto attribuirne la
causa a grandi serpenti pestiferi, cioè a basilichi a misura di
lago.
Considerando però che i meccanismi che stanno dietro alla nascita
di ogni leggenda sono sempre più complessi e vari di quanto
una spiegazione univoca e semplicistica possa talvolta fare
pensare, è giunto il momento di affrontare come
precedentemente accennato, una possibile spiegazione
zoologica che possa avere contribuito, se pure in piccolissima
parte attraverso sporadici e fugaci avvistamenti, alle tradizioni
popolari sui mostri del lago.
Stando al criptozoologo Maurizio Mosca che ha affrontato il
problema sulle pagine del suo libro Mostri lacustri edito da
Mursia, i possibili candidati possono essere due:
- storioni presenti nel fiume Po, che in passato raggiungevano
dimensioni molto più ragguardevoli di quelle alle quali siamo
abituati ai nostri giorni e che, benché innocui per l'uomo,
possiedono caratteristiche anatomiche talmente peculiari e
diverse da quelle degli altri pesci europei da conferire loro un
aspetto minaccioso e vagamente "rettiliforme";
- coccodrilli importati che secondo alcune leggende si erano adattati
a vivere nel fiume Serio, come testimonierebbe l'affascinante
reperto custodito nella chiesa di Ponte Nossa: un coccodrillo
impagliato lungo tre metri, di cui parla un documento
conservato presso la Curia di Bergamo, risalente al 1594. Ma,
mentre sappiamo che questi rettili vivevano in alcuni fiumi della
Sicilia sino al 1600 dopo che furono importati dagli arabi,
individui di una popolazione presumibilmente esigua
difficilmente avrebbero potuto sopravvivere a lungo nel Nord
Italia.
Lorenzo Rossi
Gruppo Criptozoologia Italia, www.criptozoo.com
Si ringrazia Francesco Brusoni
Bibliografia
Le terre del Gerundo (1994), Centro Studi della Geradadda.
Aldrovandi U. (1640), Historiae serpentum et draconum.
Cordier U. (1986), Guida ai draghi e ai mostri d'Italia.
Izzi M. (1989), Il dizionario illustrato dei mostri.
Mosca M. (2000), Mostri dei laghi.
1.3 Nelle acque del lago Gerundo - sulle tracce
del mostro Tarantasio
Nelle acque del lago Gerundo - sulle tracce del mostro
Tarantasio
Ad Arzago è conservata una colonna che il sindaco abbraccia
fisicamente quando giura fedeltà dopo la sua elezione e che,
secondo gli anziani, veniva utilizzata come punto d'attracco per
le barche: ma quali barche, visto che l'Adda scorre a chilometri
dal paese? A Pontirolo metà dell'abitato si trova più in basso
rispetto al resto del paese e, dietro la chiesa parrocchiale di
San Michele, che svetta nella parta «alta» del territorio, c'è una
strada che si chiama via Costiola: ma a quale «costa» si fa
riferimento? E ancora: tra Fara d'Adda e Cassano si trova la
località Taranta, ma qual è l'origine di questo strano nome?
La risposta a tutti questi interrogativi sta nel lago Gerundo, un
vastissimo specchio d'acqua che, secondo la tradizione,
avrebbe occupato secoli fa il territorio dell'attuale Gera d'Adda,
fino alle attuali province di Crema e Lodi, e a cavallo con il
Milanese. Anzi, Crema sarebbe nata proprio su una delle isole
in mezzo al lago, l'isola Fulcheria, mentre Lodi spuntava sul
monte Eghezzone, altra altura che fuoriusciva dal lago.
Il nome Gerundo deriverebbe da «gera», vale a dire ghiaia. Durante
le invasioni barbariche (tra il II e il V secolo d.C.) il lago
raggiunse i 35 chilometri di larghezza, i 50 di lunghezza e i 25
metri di profondità: talmente grande da essere chiamato mare,
benché «mara» in latino significhi anche palude.
Alimentato dai fiumi Adda, Brembo, Serio e Molgora, il Gerundo
veniva navigato con delle piroghe. Residui di questo
leggendario lago sarebbero stati prosciugati attorno all'anno
Mille, nel corso di una bonifica fatta da monaci di quella che
ormai era diventata una zona acquitrinosa e pericolosa per la
salute. Proprio l'aria insana che fuoriusciva dal lago ha dato
origine al mito nel mito: anche il lago Gerundo, come tutti i laghi
che si rispettino, aveva il suo mostro. Si chiamava Tarantasio,
aveva un alito pestilenziale, faceva affondare le barche e
mangiava i bambini.
A seconda delle zone, il Nessie di casa nostra si presentava con una
diversa «forma»: serpente, mostro alato, drago, leone di mare,
enorme cane. E, sempre a seconda del territorio, sono diverse
anche le leggende tramandate sulla sua uccisione: ammazzare
Tarantasio significava diventare eroi o consacrare il proprio
eroismo.
E infatti i «candidati» all'uccisione del mostro del Gerundo sono nomi
noti della storia, non solo locale. I più conosciuti sono cinque.
Primo: il patrono delle acque San Cristoforo che, secondo la
tradizione, portava Gesù sulle spalle e per questo, grazie alla
sua intercessione, venivano salvati dal lago i bambini che
rischiavano di essere uccisi da Tarantasio. Secondo: il vescovo
di Lodi Bernardo de Talente, alla guida della diocesi dal 1296 al
1307. Grazie a lui Tarantasio sarebbe apparso l'ultima volta il
giorno di San Silvestro del 1299: il primo gennaio 1300 il
mostro scomparve del tutto e il lago evaporò. Terzo: San
Colombano, lo stesso che venne dagli abitanti di Inverness per
uccidere il mostro di Loch Ness. Agilulfo, re longobardo, gli
chiese di fare lo stesso con Tarantasio. Sarebbe riuscito nel suo
intento dove oggi sorge il comune milanese di San Colombano
al Lambro. Quarto: nientemeno che Federico Barbarossa.
Dopo il 1150 la sua fama fu molto esaltata in Lombardia e, proprio
per questo, non si sarebbe potuto che addebitare a lui anche
l'uccisione di un mostro lacustre. Nello stemma della sua
casata, gli Hohenstaufen, è inoltre presente un leone che
richiamerebbe Tarantasio.
Infine la leggenda più «bergamasca»: Tarantasio sarebbe stato
ucciso nel XII secolo dal capostipite dei Visconti, Umberto. I
Visconti governarono Milano dal 1277 al 1447 alimentando
leggende sulla loro origine. Umberto uccise Tarantasio nella
campagna di Calvenzano: da qui l'origine del simbolo della
casata, il Biscione che mangia un bambino, citato anche da
Dante nel canto VIII del Purgatorio – «la vipera che il milanese
accampa» – e ripreso dal Comune di Milano e, in tempi più
recenti, da Mediaset, dall'Inter, dall'Alfa Romeo.
Tarantasio è poi noto a livello internazionale, anche se pochi lo
sanno, perché l'Eni avrebbe preso spunto da Tarantasio per
disegnare il cane a sei zampe dell'Agip, visto che il primo
giacimento di metano venne scoperto nel 1944 a Caviaga,
frazione di Cavenago d'Adda, nel Lodigiano, in piena zona
Gerundo.
Di Tarantasio restano dunque oggi parecchie testimonianze
(compresa una costola, in realtà riconducibile a un animale
preistorico), così come del lago. Le più evidenti sono le coste
(da Pontirolo a Casirate è chiaro il dislivello del terreno), poi i
toponimi (Gera d'Adda, via Gerola, via Costiola) e alcuni reperti
come le colonne per gli ormeggi delle navi (ad Arzago, Pandino,
Rivolta, Casirate, Truccazzano).
In realtà, 25 mila anni fa l'intera Pianura Padana era sommersa
d'acqua, che si è poi prosciugata: in alcuni punti rimasero
specchi d'acqua e il Gerundo sarebbe stato tra questi. Il primo a
citarlo fu Plinio il Vecchio, cronista d'epoca romana: nella
«Naturalis historia» (77 d. C.) fece riferimento ad alcune zone
da bonificare, compreso il Gerundo. In epoca longobarda Paolo
Diacono scrive: «Causa l'incessante e torrenziale pioggia,
l'irruenza dei fiumi Adda, Serio e Oglio, straripando sulla
pianura in massa enorme e incontrollabile, creano il grande
lago».
Umberto Cordier, nella sua «Guida ai draghi e mostri in Italia» del
1896, scriveva: «La realtà fisica del Gerundo è indiscutibile: si
fonda su macroscopiche prove geologiche, paleontologiche,
archeologiche, documentali». Insomma, benché prosciugato, il
lago Gerundo è ancora lì, nella Gera d'Adda. E basta poco per
vederlo.
Fabio Conti
1.4 Il Lago Gerundo
Il Lago Gerundo
Lago Gerundo (o Gerondo, da Gera o Gérola, “sasso”) era un vasto
lago a carattere principalmente paludoso che occupava
un’antica, profonda depressione alluvionale in cui
esondavano le acque dell’ Adda, del Serio e dell’Oglio,
nell’area occupata dalla parte meridionale dell’odierna
provincia di Bergamo, dalla parte orientale della provincia di
Lodi, dal Cremasco. Secondo le leggende tramandate dalla
tradizione locale, che solo in parte sono state confermate da
studi di natura storica e geomorfologica, il lago occupava un
ampio tratto di territorio che iniziava a nord poco dopo
Brembate per raggiungere a sud Pizzighettone, estendendosi
ad ovest lungo l’attuale corso dell’Adda sino a lambire la città
di Lodi. La costa est del lago, secondo alcuni autori,
raggiungeva Fara Olivana e proseguiva, passando ad est di
Crema, sino a Grumello Cremonese; continuando poi ad
occupare parte delle valli del Chiese e dell’Oglio sin quasi alla
sua immissione nel Po. In particolare, si può osservare una
vasta zona delimitata da una scarpata che indica l’antico
alveo del lago, o meglio la zona più profonda; tale
demarcazione è oggi fortemente visibile nei pressi della
sponda occidentale dell’Adda. L’ampiezza massima del lago,
comprendente le zone paludose, è andata comunque oltre, a
causa dell’abbandono delle opere di bonifica durante il
medioevo.
Al centro del lago, secondo le cronache romane e tardo medievali, si
insinuava una lunga e stretta striscia di terra che iniziava presso
Caravaggio, raggiungeva Crema e proseguiva sin oltre Castelleone:
si tratta con ogni probabilità della cosiddetta isola Fulcheria,
frequentemente citata nelle cronache antiche. La città di Crema vi fu
edificata attorno all’anno 1000. Memoria di questa zona paludosa è,
nelle vicinanze di Bozzolo (oggi in provincia di Mantova), l’antica
abbazia benedettina dedicata a Santa Maria della Gironda, ora
azienda agricola privata. Secondo le leggende popolari, il lago
Gerundo sarebbe stato abitato da un dragone chiamato Tarànto o
più comunemente conosciuto come Tarantasio, il quale si sarebbe
nutrito soprattutto di bambini. Sono sorte poi numerose leggende
riguardo al drago, le quali sono tutte accomunate dalla
concomitanza tra l’uccisione di Tarànto e il prosciugamento del lago.
Alcune fonti popolari attribuiscono il prosciugamento e la bonifica del
lago a san Cristoforo, che avrebbe sconfitto il drago, o a Federico
Barbarossa. La più suggestiva riguarda l’uccisione del drago da
parte del capostipite dei Visconti, il quale avrebbe poi adottato come
simbolo la creatura sconfitta, ovvero il biscione con il bambino in
bocca.Si ritiene comunemente che in verità le acque scomparvero in
seguito a progressive opere di bonifica in atto già da tempo, in
particolare il potenziamento del canale della Muzza da parte dei
lodigiani, oltre a fattori di drenaggio e assestamenti geologici, come
il livellamento di depositi morenici nei pressi dell’immissione
dell’Adda nel Po.
1.5 la leggenda del lago gerundo
la leggenda del lago gerundo
scritto da stefano todisco.
Quella che oggi è la zona tra le province di Bergamo, Milano,
Cremona, Mantova e Lodi, in quel tratto che da Cassano
d’Adda va fino quasi a Cremona per una lunghezza totale di
circa 60 km, era chiamato, nel Medioevo, Lago Gerundo al cui
centro si trovava la spesso citata Insula Fulcheria, isola dal
toponimo longobardo.
Una vasta porzione di acquitrini, paludi e depressioni idrografiche
ricordate dal mito antico ma non rintracciabili dalla scienza
geologica sono state il terreno di scontro fra gli abitanti del
luogo e una terribile mostro acquatico che infestava la regione.
Le cronache parlano di un drago chiamato Tarantasio, un enorme
rettile seminatore di morte. La morte della creatura sarebbe
avvenuta per mano di un coraggioso eroe poi inquadrato come
un membro della famiglia ducale dei Visconti.
In realtà il lago Gerundo si estese mai come nella leggenda poiché
molti insediamenti sia celtici sia romani e poi longobardi si
trovavano sul luogo della vallatastemma visconti acquitrinosa
ipotizzabile come l’insieme di zone stagnanti e di alvei del fiume
Adda.
Ancora oggi sopravvive il toponimo di località Taranta, una frazione
di Cassano d’Adda, e il ricordo della sconfitta del drago è
ricordata dallo stemma visconteo in cui compare una biscione
crestato con in bocca un essere umano.
Interpretazione del mito
L’associazione
acqua-mostro-forze
demoniache,
a
partire
soprattutto dall’era cristiana, è un disegno di propaganda
ideologica molto forte e ben riuscita: il regno animale e le forze
naturali inesplorate hanno incusso da sempre sentimenti di
ansia e soggezione nelle civiltà antiche.
Come nel caso dei fondali acquatici, il timore per le acque salmastre,
paludose e stagnanti riporta alla sfera dell’ignoto.
Nell’agiografia cristiana già San Columba di Iona e San Brendano di
Clonfert poterono vincere forze avverse, con sembianze di
mostri lacustri e marini. La belva, reale che possa essere o
inventata, rappresenta il mondo demoniaco più che una reale
creatura terrificante; la forza del credo cristiano poté ribadire la
propria forza annientando le fobie degli esseri umani dei secoli
medievali, pervasi da simbologie esoteriche e mistiche piene di
mostri zoomorfi e diabolici.
Laddove il mostro non si contrappone a pii uomini di fede, nascono
comunque leggende legate a figure dell’uomo eroico che combatte e
vince contro l’immensità del Caos primordiale e delle forze maligne
della natura.
1.6 Storia di un mare perduto
Storia di un mare perduto
Anticamente, fra Milano, Lodi e Cremona si stendeva un grande lago
chiamato Gerundo :
di quelle acque restano solo pochi ricordi suggestivamente animati
da varie leggende.
A MILANO manca soltanto il mare. E i milanesi, di vecchia stirpe o
adottivi, ne sentono da sempre la mancanza.
Ne hanno costruito uno minuscolo, l'idroscalo, insieme ad
autostrade che collegano la città alla Liguria e alla più lontana
Riviera adriatica. Il mare a Milano è anche un "desiderio" che
ha fatto nascere molte leggende. Una delle più famose
raccontava di un, bacino d'acqua salata situato in una grande
caverna sotto piazza del Duomo, tanto vasto che ci si poteva
andare in barca.
La costruzione della metropolitana e delle relative stazioni hanno
cancellato per sempre questa favola, che è parziale realtà nel
caveau di una banca milanese, scavato a molti metri di
profondità, dove, per mezzo di un oblò e di un potente faro, si
può penetrare con lo sguardo dentro una grande polla d'acqua
sotterranea. Acqua salata: probabilmente è davvero ciò che
resta del mare Padano che esisteva al posto dell'attuale
pianura, prima che il Po e gli altri fiumi, scendendo dalle
montagne, trasportassero terra e detriti.
Questo succedeva oltre un milione di anni fa, quando Milano e la
Lombardia intera non esistevano. Considerato che questo
vasto golfo adriatico arrivava a lambire le zone dove oggi
sorgono Mondovi, Saluzzo e Cuneo. Poi la crosta terrestre
cominciò a sollevarsi e, contemporaneamente, il clima fresco e
piovoso provocò l'aumento dell'azione erosiva dei fiumi che
scendevano dagli Appennini. Ancora oggi la terrà continua ad
avanzare nell'Adriatico e un giorno potremo andare in
macchina da Comacchio alla Juogoslavia senza fare curve, e
Venezia sarà una città lontana dal mare e asciutta.
C'è tempo comunque.
La città padana sorta sull'isola drago Tarantasio
cartina gerundoTornando al mare sognato dai milanesi, non è
escluso anche il ricordo ancestrale del mare Gerundo. Questa
volta non parliamo di un mare sotterraneo, e neppure di
un'epoca lontana migliaia e migliaia di anni, o di luoghi molto
distanti dalla metropoli lombarda. La storia del lago Gerundo
(chiamato anche "mare" per la sua vastità) è poco nota perfino
in Lombardia, se si escludono alcuni libri di storia locale, e
pochi ricercatori che si sono dedicati all'argomento.
Soltanto in questi ultimi anni, grazie a singoli studiosi, quali Livia
Feroldi Cadeo e gli appassionati che si raccolgono attorno alla
rivista "Insula Fulcheria", le ricerche sul mare Gerundo hanno
preso un indirizzo scientifico.
La rivista in questione è edita dal Museo Civico di Crema che
custodisce un'ampia documentazione sul Gerundo e sulle
popolazioni che abitavano le sue rive, nonché sull'isola
Fulcheria, che si trovava al centro del Gerundo e sulla quale è
sorta la città di Crema il cui nome deriva dalla radice prelatina
cre o crem che vuole dire altura, collinetta.
Ancora in epoche relativamente recenti abbiamo notizia di grandi
aree padane allagate in maniera permanente, tanto da
diventare dei veri e propri laghi che i fiumi, non disciplinati da
argini e canalizzazioni, alimentavano, soprattutto nei mesi
primaverili e autunnali.
Nella parte orientale della Padania, il Po si diramava in sette braccia
che penetravano in una regione sempre incerta tra le terre e le
acque, selvaggia, abitata da gente tagliata fuori da ogni
consorzio civile.
La regione era detta "Septem Marie", o Sette Mari, e di queste
immense paludi restano oggi soltanto le Valli di Comacchio.
C'era poi il lago Bondeno, a sud del Po, tra Ferrara e la
Mirandola, tanto vasto e profondo che una leggenda locale lo
considerava fundo carens, senza fondo, e direttamente
collegato al Paese degli Antipodi. A nord del Po, fino a poco più
di cent'anni fa, si stendevano le Grandi Valli Veronesi.
A sud, verso Bologna, la palude di Crevalcore sfiorava quella dei
Sette Mari. Ma nessuno di questi specchi d'acqua, un poco lago
e un poco palude, era ricco di acque e navigabile quanto i
Gerundo. Come gli altri bacini di pianura, il Gerundo non è mai
stato di una vastità costante.
Dipendeva dai fiumi che lo alimentavano, l'Adda, l'O glio e il Serio
(con qualche apporto forse anche dal Lambro), e perciò
dall'andamento climatico; e dipendeva da gli uomini che
abitavano la Padania. I coloni del periodo romano sicura mente
ne prosciugarono grandi tratti bonificando i terreni per coltivarli.
Alcune strade consolari lo attraversarono, a dimostrazione che in
talune epoche il Gerundo non era un'unica superficie lacustre,
ma un insieme di bacini. L'epoca della sua massima
espansione fu sicuramente quella che coincide con la caduta
dell'impero romano e le successive invasioni barbariche,
quando l'Italia tornò in gran parte preda delle foreste e delle
paludi, e così fino all'Xl secolo, quando l'uomo della pianura
cominciò a riconquistare il territorio partendo soprattutto dai
monasteri benedettini, centri di lavoro e di studio, oltre che di
preghiera.
Nell'Alto Medioevo, quando il Gerundo era un'unica gigantesca
superficie con al centro l'Insula Fulcheria", i suoi confini
dovevano sfiorare (partendo da nord) i luoghi dove sorgono
attualmente i paesi di Vaprio, Cassano, Lodi, Cavena,
Cavacurta, Pizzighettone, Grumello (risalendo verso nord),
Cortemadama,
Madignano,
Offanengo,
Vidolasco,
Castelgabbiano, Caravaggio (verso ovest), Treviglio, Brembate.
I confini dell'isola Fulcheria, nel bel mezzo del Gerundo, erano
grosso modo delineati dagli attuali centri abitati di Azzano,
Palazzo Pignano, Casaletto, Montodine, Formigara, San
Bassano, Ripalta Arpina, Crema, Ombriano, Trescore. Chi
volesse rendersi conto della grandezza del Gerundo non ha
che da tracciare su una moderna carta stradale le, linee che
uniscono questi centri abitati.
In un dattiloscritto conservato presso la Biblioteca Comunale di
Cremona, intitolato "Il Lago Gerundo" e firmato da G. Cugini in
data 1947-1948, troviamo una funzionale suddivisione della
storia nato rale del lago Gerundo in quattro epoche.
Un'epoca remotissima che risale al periodo postglaciale dell'Olocene,
quando le alluvioni corrosero il materiale facilmente asportabile
depositato in precedenza, creando così un ampio bacino, con
l'eccezione dell'allungato conoide dell'isola Fulcheria e di altre
isole più piccole.
Un'epoca remota, quando i fiumi della zona riunirono le loro acque
formando la distesa lacustre sulle cui sponde cominciarono a
insediarsi i primi nuclei di uomini; siamo nell'epoca in cui la
gente del neolitico conquista la pianura.
Un'epoca di mezzo, caratterizzata dalle progressive bonifiche
dell'uomo, con successivi abbandoni e altri recuperi del
territorio; i fiumi vengono adagio disciplinati, vengono costruiti
fossi scolmatori e canali, gli acquitrini prosciugati e i terreni
asciutti messi a coltura; dove il lago era più profondo restano
banchi di ghiaia e di sabbia; restano anche, fino a pochi anni fa,
piccole chiazze di palude vera e propria, dette Mosi.
II Gerundo non doveva essere molto profondo, perché era pur
sempre un lago "di pianura", e non di origine tettonica e
neppure glaciale: gli unici esempi ancora visibili sono i laghi di
Mantova, tre laghi acquitrinosi che costituivano fino a pochi
anni fa un interessante biotipo padano: oggi restano poche
tracce di flora palustre, con carici, felci idrofile, scirpo,
potamogeti, ninfee e castagne d'acqua.
Infine un'epoca moderna, che è la nostra, durante la quale ogni
traccia del lago è sparita, almeno per un osservatore non
specialista e non attento: il paesaggio è quello padano classico,
con campi coltivati organizzati in una rete di canali di scolo che
impediscono ogni ristagno delle acque; con l'eccezione delle
zone dove l'acqua sgorga dal suolo dalle cosiddette risorgive.
Eppure, per un "esploratore" un pochino più attento, e un
pochino più informato, le tracce del lago o mare Gerundo non
sono poi così introvabili e invisibili.
Sulla sua esistenza abbiamo prove geologiche, archeologiche,
documentali. L'esplorazione del territorio del Gerundo, e cioè la
provincia di Bergamo nella parte meridionale, la provincia di
Cremona nella parte superiore, oltre al Lodigiano e a tutto il
Cremasco, muovendosi tra musei, chiese, ruderi, cave di ghiaia,
remoti angoli di campagna dove il terreno è "inspiegabilmente"
fatto come la sponda di un lago, consente un viaggio dentro
una storia che i libri ignorano.
Una storia che sul posto però non è stata dimenticata. Ad esempio a
Lodi e a Crema possiamo trovare strade dedicate alla leggenda:
Via Lago Gerundo, Vicolo Gerundo. La parola "gera", o "ghera",
che significa ghiaia e dà il nome al lago Gerundo (lago
Ghiaioso potremmo tradurre oggi), ricorre spesso proprio al
centro dell'area ex lacustre, nella zona detta Gera d'Adda, con i
toponimi Brignano Gera d'Adda, Fara Gera d'Adda, Misano di
Gera d'Adda, solo per citarne alcuni.
lavori sul gerundovecchie fotografie che illustrano la faticosa opera
degli scarriolanti: costruendo argini e canali, questi operai
contribuirono a controllare i fiumi padani che portavano acqua
alle paludi.
A dimostrazione che il mare Gerundo era navigabile, percorso da
barche di pescatori e da piccole (ma non tanto) navi mercantili
e da battaglia, esistevano fino a pochi decenni fa gli anelli e i
ganci utilizzati per l'ormeggio, come scrive Ambrogio Curti nel
suo
"Tradizioni e leggende di Lombardia" (1856): «Delle origini del lago
Gerondo, che l'arte degli uomini e il tempo vennero affatto
disseccando, sì che più non ne rimangono adesso altre vestigia
che nei grossi anelli ed lavori sul gerundoarpioni che in più di
un luogo si trovano; onde da tutti si congettura con giustezza
che servissero ad affrancare navigli, che per quella vastità di
acque correvano a commerci, alla pesca, ed alle comunicazioni
coi limitrofi paesi...».
Uno di questi grossi anelli da ormeggio era infisso alla base
dell'antichissima torre Poccalodi, che modificata divenne la
cappella di San Bernardino nella chiesa di San Francesco a
Lodi. Il porto di Lodi sul Gerundo era in località Monte
Eghezzone, dove sorgeva la chiesa di San Nicolò. Altre torri
adibite un tempo a porti fortificati si trovano anche a Pandino,
Truccazzano e Soncino.
Qui è più viva che altrove una tradizione popolare fatta di fiabe,
leggende e aneddoti legati all'epoca in cui le onde del mare
Gerundo lambivano il paese. La più nota delle leggende
attribuisce la responsabilità del prosciugamento del Gerundo al
Barbarossa. Sparita l'acqua, i pesci morirono e con loro molti
uomini a causa di una conseguente pestilenza. Sopravvisse
soltanto una donna, una certa Soresina che se ne andò a
fondare un paese non lontano da Soncino, paese che porta
ancora il suo nome.
drago TarantasioProprio a Soncino un'altra leggenda vuole che sia
nato il drago Tarantasio, o Tarànto, il più famoso degli abitatori
del mare Gerundo, seminatore di terrore e di lutti.
Il nome gli derivava dal fatto che, benché rettile, aveva gambe
numerose e lunghe, come quelle della tarantola. Lo storico
Francesco Castiglioni, nella sua opera "Antichità di Milano",
riporta un testo conservato presso l'archivio dei monaci
Olivetani: «Nell'anno 1300 dalla natività di Cristo Signor nostro,
Bravi intorno alla città di Lodi un certo lago, che per la ingente
larghezza e per la grandissima inondazione dell'acqua che vi
era fluita, appellavisi mare Gerondo.
Su questo medesimo lago apparve prodigiosamente un velenoso e
mostruoso serpente, che col solo alito pestifero infestava tutta
la città; per cui molti dal pessimo puzzo ammorbati, morivano.
«Contagio e infermità facendosi di' giorno in giorno maggiori e
scemandosi assai il numero degli abitanti, e la città dalla furia
dell'acqua essendo invasa, grandemente i cittadini se ne
accoravano, e tanto più l'affluizione s'aumentava, quanto meno
fosse sperabile rinvenire rimedio che valesse a guarire gli infetti,
o a prosciugare l'acqua, o ad estinguere l'animale stesso.
«Epperò stando tutti gravemente ín angustia, si rivolsero alla
Divina Maestà, colla ferma speranza ch'essa nessuno respinga
che con puro cuore le si raccomandi.
Ma perché più facilmente ciò che tanto bramavano avessero a
conseguire, il Reverendissimo Bernardino Tolentino, allora
vescovo della città, convocato il clero e tutto il popolo, tenne
loro pietoso sermone in cui efficacemente pregavali perché con
tutto il calore del cuore e con tutta la pietà levassero preghiere
a Dio, onde sì degnasse liberare questo suo popolo da quella
pestifera strage.
«Il medesimo Reverendissimo Vescovo sancì che si facessero per
tre giorni continui solenni processioni e si stabilisse un voto:
che se Dio operasse che, preso da compassione di quella
mortalità, gli avesse a campare da quella velenosa fiera,
erigerebbero un tempio in onore della santissima Trinità e del
glorioso martire Cristoforo. «Né fu certamente quella una vana
speranza, perché compite le processioni, e dato il voto, in
quello stesso giorno, che fu il primo di gennaio, si ottennero
due memorabilissimi miracoli, che morisse cioè l'infestissimo
drago e si prosciugasse quell'immenso lago. Laonde i pii
cittadini, di questo beneficio immensamente riconoscenti,
edificarono un magnifico tempio, come avevano promesso col
voto, il quale tempio fu poi più augustamente riedificato dai
Reverendi Padri della Congregazione Olivetana nell'anno
1563».
Se al posto del drago Tarantasio, dall'alito pestifero e ammorbante,
che causava contagi capaci di uccidere, mettiamo le febbri
malariche e altre malattie di palude, vediamo che tutto diviene
credibile e logico, come la richiesta dei cittadini di Lodi di
prosciugare l'immenso acquitrino.
In ogni leggenda di originepopolare c'è sempre del vero. Se poi
preferiamo credere nell'esistenza dei draghi, non mancano gli
indizi per accettare e accertare la loro presenza nel Gerundo.
Cominciando dall'inizio, dalla nascita del Tarantasio proprio a
Soncino. "Padre" della leggendaria bestia sarebbe nientemeno
che Ezzelino da Romano, vicario imperiale e genero di
Federico 111, signore di un territorio che comprendeva gran
parte del Veneto e Brescia. Un condottiero tanto feroce che
papa Innocenzo IV lo scomunicò e bandì una crociata contro di
lui nel 1254, affidandone il comando ad Azzo VII d'Este. A
Cassano d'Adda, nel 1259, Ezzelino fu sconfitto e mortalmente
ferito. Secondo la tradizione sarebbe stato sepolto proprio a
Soncino.
Un arciprete, vissuto in quel paese nel secolo scorso, testimonia di
aver trovato sotto la chiesa un sepolcro contenente lo scheletro
di un uomo gigantesco, qual era Ezzelino secondo quanto
riportato dai contemporanei. Proprio in quel sepolcro, riferisce
la credenza popolare, era nato il drago Tarantasio, come una
specie di reincarnazione malefica del crudele signore. Tracce di
carattere più "scientifico" erano, e sono, custodite in alcune
chiese del territorio, sotto forma di ossa gigantesche rinvenute
in quelli che un tempo erano i fondali del Gerundo.
Secondo Luciano Zeppegno, grande cronista delle curiosità e delle
stranezze sparpagliate nelle nostre contrade, nella chiesa di
Sant'Andrea di Lodi era custodito addirittura uno scheletro
completo di Tarantasio. Un osso gigantesco, e precisamente
una costola di drago del Gerundo, è ancora oggi visibile appesa
al soffitto della sacrestia della chiesa di San Bassiano, a
Pizzighettone. La costola, probabilmente, appartiene a una
balena fossile o a un elefante.
Scheletri di balene sono stati spesso rinvenuti sulle Prealpi e,
soprattutto, sull'Appennino che si affacci sulla Pianura Padana.
Più interessanti, dal punto di vista storico, altri ritrovamenti che
dimostrano l'esistenza dell'enorme specchio d'acqua detto
mare Gerundo. Ci riferiamo alle numerose piroghe rinvenute
nei fiumi che interessano il territorio. Uno degli esemplari più
belli e meglio conservati è visibile nel cortile del Museo di
Crema, restaurato con sostanze speciali che ne hanno
arrestato il processo di dissoluzione.
Le piroghe del Gerundo sono monossiliche, cioè ricavate da un
unico tronco (immaginiamo quanto dovevano essere enormi le
querce roveri delle foreste lambite dal Gerundo) e di grandezza
variabile a seconda dell'impiego: per la pesca, il commercio o la
guerra. La grandezza e la forma delle piroghe dimostra che
erano impiegate in acque paludose o lacustri, essendo inadatte
alla navigazione fluviale.
Si tratta di imbarcazioni costruite nell'Alto Medioevo con tecniche
che risalgono al neolitico. In epoche più recenti, il Gerundo è
stato attraversato da vere e proprie navi, le medesime che
percorrevano i fiumi e i laghi di tutta l'Europa, fino a
raggiungere il mare aperto. Cocche, burchi, bucintori e galee
che parteciparono anche a battaglie navali, qui come nella
parte più orientale della Padania, dove le flotte fluviali di
Venezia e di Ferrara si scontrarono spesso in furibonde
battaglie combattute da marinai d'acqua dolce non meno
esperti navigatori di quelli delle acque salate.
L'"Insula Fulcheria", la più grande delle isole del mare Gerundo,
prendeva il nome da Fulcherio, il duca longobardo che l'aveva
avuta in feudo dopo la conquista della Lombardia. Crema, per
lunghi anni, è stata il capoluogo di un'isola difficilmente
conquistabile, protetta da fortif icazioni con bastioni e torri i cui
relitti erano visibili fino a pochi decenni or sono a Vaiano (ne
parla Antonio Zavaglio nel volume "Terre nostre", pubblicato a
Cremona nel 1946). Ci volle un'alleanza coi cremonesi, pratici
del Gerundo, perché l'imperatore Barbarossa riuscisse a
espugnare Crema dopo un assedio durato dal luglio del 1159 al
febbraio del 1160.
Anche Cremona, come Crema e Lodi, non ha dimenticato il mare
Gerundo (che però lambiva soltanto una piccola parte del suo
territorio) e ha voluto una Via Fulcheria, una Via Lago Gerundo
e una Via Mosa. Il Moso era la palude, profonda mediamente
cinque metri, formata dalle acque sorgive e dalle piene del
Serio, che si allargava nella bassa bergamasca fino a nord di
Cremona: praticamente un'ansa del Gerundo più antico, e una
delle tante paludi del Gerundo più recente, quando gli specchi
d'acqua si alternavano a terre asciutte e polesini.
Le cronache dell'epoca del Barbarossa riferiscono che i cremonesi si
recarono all'assedio di Lodi e di Crema "con apparato nautico
per le interposte paludi". Conquistato il territorio, il Barbarossa
donò l'isola di Fulcheria al cremonese Tinto, detto Muso di gatta,
con un atto del 17 maggio 1159. Alla sparizione del lago
Gerundo hanno naturalmente contribuito molti fattori, anche se
la fantasia popolare, come abbiamo visto nel caso di San
Cristoforo e del drago Tarantasio, preferisce spiegazioni
miracolose o eroiche.
I fattori climatici sono sicuramente da porsi in primo piano: il periodo
di maggiore espansione del lago, quando fu definito addirittura
"mare", coincide col periodo caldo dell'Alto Medioevo.
Scioglimento dei ghiacciai e grande piovosità favorirono la
formazione nella Pianura Padana di acquitrini e valli, proprio
nel momento in cui l'uomo si accingeva a riconquistare quelle
plaghe che erano state fertili ai tempi dei romani. Dal XIII secolo
in avanti il clima cambia andamento ed entriamo in quella che i
climatologi hanno definito la Piccola Età Glaciale, durata fino a
metà del secolo scorso e caratterizzata dal prosciugamento
delle paludi assecondato dall'opera dell'uomo.
Non va dimenticato il lavoro dei monaci che fecero di Nonantola,
San Benedetto, Pomposa e altre località padane importanti
centri agricoli, in osservanza alle regole dettate da
Sant'Oddone, abate di Cluny, che a partire dal 910 aveva
riformato l'ordine dei Benedettini indirizzandolo verso la cura
dei poveri, l'assistenza ai pellegrini e, soprattutto, la
colonizzazione delle terre vergini o tornate incolte a causa delle
invasioni barbariche che avevano cacciato la gente dalle
campagne. Intorno all'anno Mille, l'abate Sant'Ugo il Grande
incrementò la fondazione di monasteri cluniacensi in
Lombardia. Nell'area interessata al lago Gerundo sorsero le
abbazie di Caravaggio, Barbata, Bottaiano, Ombriano, Crema,
Madignano, Carreto, Trignano. La costruzione di canali e
fossati favorì lo smaltimento delle acque.
Adagio le zone occupate dall'acquitrino diminuirono. Oggi uniche
testimonianze di quell'abbondanza di acqua sono i fondali, o
risorgive (o sorgenti di affioramento): vere e proprie sorgenti di
pianura, caratteristiche della Padania, microambienti con una
ricca vegetazione naturale di sambuchi e di sanguinelli, e con
diverse specie di anfibi che prosperano tra le erbe acquatiche.
Una limpida ricchezza che un tempo andava ad alimentare il
lago Gerundo, e che oggi l'uomo ha domato e convoglia verso
le campagne di Lombardia, tutte coltivate e ordinate, dove
passando in macchina è difficile immaginare il selvaggio mare
di un tempo che sembra appartenere solo alle favole.
fonte : Storia di un mare perduto ( di Giuseppe Pederiali),
informazioni per far conoscere le nostre origini e leggende.
www.crsoresina.it/soresina/storia/lago_gerundo.html
1.7 Il mistero del Lago Gerundo
Il mistero del Lago Gerundo
Tra Adda, Serio e Oglio, un tempo c'era un lago d'acqua dolce di
epoca post glaciale: il Gerundo, o Gerundio, o Girondo che per
la prima volta appare citato in certe carte notarili dell'inizio del
secolo XIII.
Questo lago era poco profondo ma molto esteso (circa 35 Km da est
a ovest e 50 Km da nord a sud). Emergevano isole e isolette
molto allungate parallele alla direzione della corrente. La più
grande era l'isola Fulcheria su cui si sviluppò la città di Crema.
Lodi era città costiera affacciata alla sponda ovest del lago. A nord il
lago raggiungeva Vaprio, a sud Pizzighettone. Il lago doveva
essere una distesa di acqua alimentata dagli straripamenti dei
tre fiumi e dalle risorgive di provenienza sotterranea. La
profondità variava dai dieci ai venti metri con punte sui
venticinque. Nelle aree meno profonde erano frequenti le
formazioni paludose; a Genivolta venne trovata un'ara,
conservata oggi al museo di Cremona, dedicata alla dea italica
Mefite, sovrana delle paludi. L'uomo era insediato sulle sue
sponde e sulle isole sia su terraferma che su palafitte (la
pretesa città di Acquaria nei pressi di Soncino) e navigava sul
lago con piroghe scavate da un unico tronco di quercia, di cui si
sono rinvenuti alcuni esemplari.
Si nota, inoltre, in molte località, la presenza di torri con infissi grossi
anelli di ferro cui si ancoravano presumibilmente queste
piroghe, le navi del lago Gerundo.
A causa di frequenti intense piogge e dell'abbandono delle opere di
bonifica che erano state incominciate dai romani, l'estensione
del lago Gerundo è aumentato progressivamente spingendosi
anche molto lontano verso sud.
Ulteriori indicazioni della presenza umana vengono dai toponimi
come Gerola, Girola, Gera d'Adda, derivati dalla radice gera,
ossia ghiaia, che compare nel nome stesso del lago Gerundo.
L'acqua si stendeva, infatti, su un fondo ghiaioso di origine
glaciale e oggi, in alcune zone, dopo un primo strato argilloso
spesso un paio di metri, dovuto ai sedimenti del mitico lago, si
trova un banco di ghiaia, profondo circa otto metri in cui si
riconosce il sedimento dovuto alle acque di scioglimento dei
ghiacciai, infine, un nuovo fondo argilloso, lasciato dal mare
vero che occupava la pianura padana prima dell'era glaciale.
Attorno al Mille e nei primi secoli successivi il lago cominciò a
ritirarsi.
Il drenaggio del lago fu in massima parte opera dell'uomo: le
bonifiche dei benedettini, cluniacensi e cistercensi, poi i canali
costruiti dal comune di Lodi o da famiglie feudali come i
Borromeo o i Pallavicino il cui nome è ancora legato a rogge o
navigli.
Del lago Gerundo sono rimasti ricordi e leggende. Anche il Gerundo
ebbe il suo drago: il drago Tarànto, un grosso biscione con la testa
così grande da sembrare un drago che terrorizzo le campagne tra
Lodi e Crema. Una leggenda attribuisce l'uccisione del drago a
Federico Barbarossa. All’uccisione del drago, seguirono il ritiro delle
acque, la scomparsa del lago ed il recupero di immense e buone
terre da coltivare che ancora oggi sono il perno fondamentale
1.8 Intervento dello storico Prof. Riccardo
Caproni (
Intervento dello storico Prof. Riccardo Caproni (
www.youtube.com/watch?v=2VWR1gag9rM
Pubblicato il 23/ott/2012
Intervento dello storico Prof. Riccardo Caproni ( Ateneo Scienze
Lettere ed Arti di Bergamo) chiarisce che il Lago Gerundo
difficilmente era presente durante l'Impero Romano, in quanto
le centuriazioni che disegnarono per ridistribuire la terra ai
legionari erano estese anche sulle terre che qualcuno ritiene
fossero invece coperte dal lago. E' possibile, invece, che con la
caduta dell'impero, i canali e i fontanili, senza manutenzione, si
siano così degradati da non controllare più il flusso delle acque
e quindi consentire, nelle stagioni piovose come l'autunno e la
primavera, esondazioni e grandi pantani.
www.youtube.com/watch?v=rzy0IAfEM74
1.9 Le nebbie del Lago Gerundo
Le nebbie del Lago Gerundo
Paolo Zanoni
L’acqua non c’è più da un pezzo, drenata a fatica negli alvei
dell’Adda, del Serio e dell’Oglio, ma le strade rettilinee sono
delle rotte sicure per navigare tra leggende suggestive e paesi
interessanti sorti sulle emergenze in altre epoche inglobate nel
mitico lago Gerundo. Ancella inseparabile e misteriosa in
questo viaggio virtuale, ma non troppo, nelle profondità del
tempo, la nebbia. Terra, acqua e nebbia sono gli elementi che
fanno da sfondo alle vicende; il Medioevo è il tempo in cui sono
ambientate. Ingredienti indispensabili per imbastire un
racconto accattivante.
Nell’Età di Mezzo l’area compresa tra i fiumi menzionati appariva
come una grande palude, le cui acque stagnanti si alzavano e
abbassavano secondo il regime stagionale delle piogge. In
mezzo all’immenso acquitrino, impropriamente chiamato lago o
mare, emergevano delle insule, la più vasta delle quali, detta
Fulcheria, corrispondeva all’attuale città di Crema col suo
territorio. Su questi rialzi, che oggi separano i bacini fluviali,
erano ubicati gli stanziamenti umani, poi ingranditi fino a
diventare gli odierni paesi.
E’ in questo contesto che è nata la leggenda del drago Tarantasio,
con le sue varianti e i suoi particolari, tali da far impallidire il
recente mito mediatico di Nessy, l’omologo scozzese che non
riesce a scaldare la fantasia. Tra acque infide e vapori nebulosi,
forse originati dalle sue stesse narici, viveva Tarantasio, una
specie di mostro antidiluviano dal corpo di serpente, la grande
testa cornuta di sauro, la lunga coda e le zampe palmate.
Cibandosi di carne umana, con predilezione per quella dei
bambini, esso incuteva terrore e paura tra gli abitanti dei
villaggi rivieraschi del mefitico lago Gerundo. Narra la leggenda
che dopo la morte del santo vescovo Ambrogio, un drago
avrebbe insidiato Milano, divorando gli incauti cittadini che
osavano sortirne dalle mura. Fu il nobile Uberto Visconti,
armato di coraggio, il solo uomo ad affrontare il mostro e ad
ucciderlo presso Calvenzano con un colpo netto di spada. Da
allora il biscione con un giovinetto in bocca compare nello
stemma della città e della potente famiglia che la tenne a lungo
in signoria. Secondo questa versione non c’è dubbio che il
biscione fosse proprio Tarantasio.
Una seconda leggenda diffusa a Lodi, fa risalire l’ultima apparizione
del drago al giorno di San Silvestro del 1299 e la sua
scomparsa nel nulla al giorno seguente, capodanno 1300,
insieme all’evaporazione del grande stagno in cui viveva, per
l’intervento miracoloso di San Cristoforo, patrono delle acque.
Il vescovo di Lodi, Bernardo de Talente, che aveva indetto una
novena pubblica per invocare la liberazione dal mostro e da
una micidiale epidemia in corso, decretò dopo la fine
dell’incubo, l’erezione di una chiesa dedicata alla Trinità e al
santo. Passati alcuni giorni, nel letto prosciugato della palude
venne rinvenuta una costola colossale che i lodigiani
attribuirono con sicurezza al drago malefico. I reggenti della
città stabilirono il 23 aprile 1307, festa di San Giorgio, di offrire
annualmente cento soldi imperiali alla chiesa di San Cristoforo
in segno di gratitudine per la liberazione dal mostro. In essa
venne collocata la grande costola fossilizzata, forse di un
cetaceo, andata perduta nel XVIII secolo insieme alle due
lapidi marmoree che ricordavano gli eventi. Un’altra costola
misteriosa si può ancora vedere nella chiesa di San Giorgio ad
Almenno San Salvatore, nella bergamasca Valle Imagna. In
quanto al prosciugamento del lago Gerundo, esso è da
attribuire all’opera dei cistercensi e dei benedettini presenti nei
monasteri sorti ai suoi margini.
Spariti i draghi, trafitti dalle lance dei santi e dei cavalieri, evaporata
d’incanto l’acqua melmosa delle paludi, è rimasta la nebbia, la
silente signora della pianura. Forse da queste parti transitò nel
suo lungo trasferimento dalle brume danubiane a quelle della
Loira, il santo cavaliere Martino, che non esitò a dividere il
proprio mantello con l’inerme e infreddolito mendicante
incontrato per strada. Il periodo intorno alla sua festa regala
spesso giorni di pallido sole, la breve estate dei morti che
prelude alle tenebre e al freddo invernali.
Il passo dalle leggende alla storia non è poi così lungo. Se c’è un
luogo in cui, esclusi i mostri acquatici, si fondono alla
perfezione il Medioevo, San Martino, la bonifica del lago
Gerundo e la nebbia, questo è Palazzo Pignano, paese a pochi
chilometri da Crema verso l’Adda. Lì, nel raggio di un centinaio
di metri che comprende i resti di una villa tardo-antica e la
romanica parrocchiale, dedicata per l’appunto al santo vescovo
di Tours, vi è una densità di storia e un concentrato d’arte di
eccezionale valore. Paltium Pinianum era un insediamento
romano sorto ai margini dell’Insula Fulcheria. L’importanza del
sito è testimoniata dalla vasta area archeologica, 25/30 mila
mq., scoperta nel 1963 ed acquisita al demanio, nella quale,
oltre all’abbondanza di reperti del IV-VI secolo sistemati nel
vicino Antiquarium, sono emersi i resti della grande villa
appartenuta ai nobili Piniano e Melania, ferventi cristiani vissuti
nel V secolo. Morto Piniano nel 432, Melania si ritirò a vita
eremitica a Gerusalemme consumando il proprio patrimonio a
favore dei poveri e fondando comunità monacali femminili e
maschili, meritandosi infine la santità.
La villa era costituita da diversi ambienti dotati di pavimenti musivi,
prospettanti su un giardino interno e dotata di un portico
ottagonale lastricato con marmo rosso di Verona. Nell’area
della villa, verso sera, altri scavi hanno riportato alla luce i resti
della Cappella del Palatium, una grande chiesa a pianta
circolare con fonte battesimale. Scavi che hanno interessato
anche la navata destra dell’attuale chiesa parrocchiale sotto il
titolo di San Martino, eretta nel secolo XI. Tra le due chiese, in
epoca carolingia, era sorta la pieve, e questo giustifica la
dedicazione al santo vescovo di Tours, caro ai Franchi.
La successiva sovrapposizione di chiese è dovuta anche alle due
distruzioni subite da Palazzo Pignano nel torno di un secolo. La
prima nel 951 ad opera degli Ungari e la seconda nel 1059. Tra
il IX e il X secolo il paese era una curtis soggetta al monastero
benedettino di San Savino di Piacenza, diocesi alla quale
appartenne in alternanza con Cremona, prima di finire nel 1580
in quella cremasca di nuova costituzione. Nel suo stile
basilicale di transizione, la parrocchiale di Palazzo Pignano
esercita un potente richiamo evocativo dell’epoca in cui fu
costruita. La vasta navata centrale, con copertura a capriate
lignee, è chiusa dall’abside semicircolare in cui i restauri del
1967 hanno evidenziato lacerti di affreschi rinascimentali. Si
tratta di una Madonna del Latte, di un’altra Madonna della
Rosa, di una Crocifissione, di un San Martino e di altri santi.
Colpisce per il senso drammatico che emana, all’inizio della navata
sinistra, il gruppo di otto grandi statue in terracotta che
compongono il Compianto del Cristo morto, quattrocentesca
opera di Agostino de Fondulis. Provenienti dalla soppressa
chiesa cremasca di San Marino, esse furono donate negli anni
Ottanta dell’Ottocento alla parrocchia locale dai conti Vimercati
Sanseverino che a Palazzo Pignano avevano vaste proprietà.
E’ davvero straordinario questo borgo spesso avvolto nelle nebbie
che esalano dai campi e dalle rogge, per il notevole patrimonio
storico ereditato, in grado di riservare in futuro altre piacevoli
sorprese, oggi celate dal verde manto dei suoi prati.
www.virtusloci.it/web/virtus-loci/nelle-nebbie-del-lago-gerundo
1.10 Quel ramo del lago Gerundo
Quel ramo del lago Gerundo
Il Lago Gerundo è protagonista della storia e delle leggende del
Lodigiano, del Bergamasco e del Cremonese, territori che nel
medioevo erano sott'acqua
Il lago Gerundo
Lodi, 31 gennaio 2011 - Draghi, eroi e misteri: il Lago Gerundo è
protagonista della storia e delle leggende del Lodigiano, del
Bergamasco e del Cremonese, perché era così vasto da
ricoprire con le sue paludi buona parte di questi territori. Tra le
leggende più diffuse, quella di Tarantasio il drago.
Uno dei racconti lo vuole ucciso da Azzone, il primo dei Visconti:
«Per questo, secondo alcuni, sullo stemma del casato c’è un
enorme biscione che mangia un bambino», spiega lo studioso
Valerio Ferrari. Altre trame raccontano che ad annientare la
bestia fosse stato San Cristoforo: «A Lodi, nella chiesa
intitolata al santo — aggiunge Ferrari — c’era appesa una
costola ritenuta del drago». Infatti, queste storie sono nate da
oggetti ritenuti strani o da fatti inspiegabili per gli uomini del
tempo.Proprio come «alcuni resti animali — spiega Damiana
Tentoni, responsabile del museo di Pizzighettone —. Come la
costola di mammuth trovata nel letto dell’Adda, che
conserviamo nella sezione paleontologica del museo».
La costola del museo è simile a un «osso appeso nella chiesa di San
Bassiano a Pizzighettone — racconta Tentoni —: non è ancora
stato analizzato, ma o è di mammuth o di cetaceo, il che ci
riporta all’epoca antichissima in cui la pianura Padana era
sommersa dal mare». «Un tempo le chiese erano usate come
fossero musei, ci venivano messi anche antichi reperti —
sottolinea Valerio Ferrari, che conferma —: dalle ossa ritrovate
sono sorte molte leggende».
Ma il mito ricorda anche la Tarasque (mostro della tradizione
provenzale, ndr) uccisa da Santa Marta. «E forse non è un
caso se in molti paesi che si affacciavano sul Gerundo ci siano
chiese dedicate a Santa Marta, come a Pandino o a Rivolta
d’Adda», assicura Ferrari. Oltre che dalle ossa, le leggende
prendevano spunto anche dai miasmi della palude: «Secondo
la gente del tempo la puzza era l’alito del drago, mentre i
fuochi fatui erano segnale della sua presenza», racconta
Silvano Vicardi, presidente dell’Associazione medioevale di
Corneliano Bertario, che l’anno scorso in occasione della
manifestazione storica che si tiene in paese ogni settembre, ha
portato in scena la leggenda del drago. «Il mito del mostro nel
lago è comune a molte culture. Si pensi ad esempio a Loch
Ness e al suo famoso mostro», sottolinea Ferrari.
La casa di Tarantasio era in realtà un insieme di stagni che si sono
originati in un periodo di forte piovosità, tra il 400 e il 750 dopo
Cristo. Come ricordano gli studiosi Giancarlo Dossena e
Antonio Veggiani, in un articolo apparso su “Insula Fulcheria”
nel numero 14 del dicembre 1984, per questi mutamenti
climatici le bonifiche fatte dai Romani vennero messe in crisi,
anche per l’innalzamento dell’alveo del Po che provocò un
grande sovralluvionamento. Furono coinvolti anche i percorsi
dell’Adda e del Serio: alla fine si formò una grande zona
paludosa, appunto il Lago Gerundo. Valerio Ferrari racconta
che «si parla per la prima volta di questa palude nel Codice
Diplomatico Laudense del 1204, dove si tratta la permuta di un
terreno, di cui si dice che confinava a oriente con la costa e la
ripa del Mare Gerundo». Il termine “mare” deriva dal medievale
“mara” «che significa palude», suggerisce Ferrari.
«I terreni sono stati bonificati, ma si vedono ancora oggi dei campi a
mezzaluna — svela Ferrari —: indicano che in quel punto
l’Adda ha modificato il suo percorso, formando paludi».
Testimoni della presenza delle paludi sono anche le cronache
dell’attività di bonifica dei monaci di Abbadia Cerreto, che dal
1139 si prodigarono per ricavare dalle paludi aree destinate
all’agricoltura.
«Dopo la fase di sovralluvionamento altomedioevale ci fu un periodo,
tra il 750 e il 1150, con scarse precipitazioni e aumento della
temperatura media», scrivono i due studiosi Dossena e
Veggiani, raccontando quindi il “periodo caldo medioevale”.
L’alveo del Po si abbassò, così fecero anche gli altri fiumi,
Adda compreso. Il lago Gerundo si svuotò, finché secondo
alcuni studiosi, «prima del mille, la vasta plaga occupata dal
lago non esisteva più».
Tuttavia, il passato del Gerundo ha lasciato segni e reperti che sono
arrivati fino ai nostri giorni. Ad esempio, l’articolo di Dossena e
Veggiani ricorda che «nel Museo di Crema si trovano undici
piroghe monossili rinvenute, a iniziare dal 1972, nel letti dei
fiumi Oglio, Adda e Po». I reperti sono di origine
altomedioevale date le loro grandi dimensioni. Di una di queste
piroghe si ipotizza che fosse usata tra il 400 e il 750 dopo
Cristo, perché è apparsa dopo l’erosione di alcuni depositi
alluvionali che contenevano tracce fluviopalustri del Lago. In
ogni caso, sia solo un racconto per bambini o uno spunto di
studio per scienziati e storici, il lago Gerundo è un elemento
essenziale del patrimonio culturale lodigiano.
di N.P.
www.ilgiorno.it/lodi/cronaca/2011/01/31/451637-storia.shtml
1.11 Lago Gerundo: storia o leggenda?
Lago Gerundo: storia o leggenda?
Scritto da Marco 12 luglio, 2006
Lago Gerundo: storia o leggenda?
C’era una volta, verso l’anno 1000, al posto di Merlino, un lago, di cui
parlò già Plinio il Vecchio…
Fin dall’età medievale si tramanda la memoria del mitivo Lago
Gerundo (esisterebbe una bitta per l’attracco delle
imbarcazioni a Fara Gera d’Adda) popolato, secondo la
tradizione, da mostri.
Esistono infatti ampie testimonianze, anche in epoca storica, che
attestano la presenza di una vastissima zona lacustre e
paludosa che occupava l’ampio territorio compreso fra la
provincia bergamasca meridionale e la provincia superiore di
Cremona, con tutto il Cremasco e il Lodigiano.
Il grande acquitrino era formato dal confluire delle acque dei fiumi
Adda, Oglio, Serio e, probabilmente, anche del Lambro e del
Silero.
Il regime alluvionale di questi fiumi dava confini continuamente
mutevoli a questo grande bacino, e in esso esistevano alcune
“isole” (la più vasta fu la Fulcheria di Crema) sulle quali sorsero
anticamente le città della zona.
L’instabile lago era chiamato Gerundo (da «gera», volgarizzazione
del latino glarea, ghiaia), ma la vera curiosità legata al lago
riguarda le innumerevoli tradizioni orali e scritte sulla presenza
di grossi rettili sconosciuti (chiamati «draghi»), forse
sopravvivenze di animali preistorici che abitavano quegli
acquitrini.
Anche il dragone visconteo, vinto da Uberto Visconti e rappresentato
nello stemma cittadino, è stato messo in relazione
con questo nutrito filone di tradizioni, ma per chi ha bisogno di prove
tangibili per credere alle leggende rendiamo noto che a Lodi si
conservano due resti di un drago del Gerundo, che la
tradizione chiamava Tarantasio (uno scheletro nella chiesa di
Sant’Andrea, e una costola che ancora alla fine del Settecento
si vedeva nella chiesa di San Cristoforo appesa alla volta);
un’enorme costola animale, lunga m 2,60, è poi conservata
nella chiesa di S.Giorgio ad Almenno San Salvatore e una di
m.1,80 pende dal soffitto del Santuario della Natività della
Beata Vergine a Paladina (BG).
www.merlinolandia.it/2006/07/12/lago-gerundo-storia-o-leggenda
1.12 quando il drago tarantasio abitava il lago
gerundo
quando il drago tarantasio abitava il lago gerundo
9 Dicembre 2013
Scritto da Chiara Inzani
itinerari lodigiani drago tarantasioForse non tutti i Lodigiani sanno di
vivere dove anticamente esisteva il lago Gerundo,
prosciugatosi intorno al XIII secolo.
Si trattava di un vasto specchio di acque paludose e mefitiche a
causa delle esalazioni di gas metano che si sprigionavano dal
sottosuolo; gli abitanti della regione però attribuivano questi
"sbuffi sulfurei" ad un drago di nome Tarantasio, che viveva
nel lago e che si nutriva di bambini.
Dico che tale drago "viveva" e non "si credeva che vivesse", perché
gli abitanti dell'epoca ne erano assolutamente certi, tanto che
nel corso dei secoli hanno anche prodotto delle prove a
sostegno: infatti, nella sagrestia della chiesa di San Cristoforo
a Pizzighettone è conservata una "costola di drago", un
reperto di forma oblunga, simile ad un omero umano, ma
molto più grande, del quale non si è data una spiegazione
scientifica.
E questa non è l'unica parte del drago che è rimasta a testimoniare
la sua esistenza: anche nella chiesa di San Giorgio di
Almenno San Salvatore nella bergamasca sono custodite
delle ossa di grosse dimensioni appartenute, si dice, ad una
gigantesca creatura non meglio identificata.
Per concludere questo elenco di strane reliquie, non si può non
menzionare la stessa chiesa di San Cristoforo a Lodi, dove nel
passato era custodita l'intera carcassa ossea di Tarantasio,
andata però perduta nel corso del Settecento.
Si intuisce facilmente da questo breve elenco che le chiese in cui le
ossa del terribile mostro sono conservate sono tutte legate a
santi che hanno "avuto a che fare", nella loro storia, con figure
serpentine o draconiane.
Di San Giorgio è comune infatti l'iconografia che lo ritrae nell'atto di
uccidere il serpente, o il drago, simbolo del peccato originale.
E San Cristoforo?
Ebbene, in questo caso è proprio la storia lodigiana e in particolare il
"nostro" caro draghetto a fornirci una leggenda: si narra infatti
che, agli inizi del 1299, i Lodigiani incaricarono un certo
Egimaldo (o Eginaldo) Cadamosto, giovane molto valoroso e
coraggioso, di uccidere il mostro.
Una notte, Egimaldo partì per la missione con dei compagni a
seguito; arrivato al centro del lago Gerundo, Tarantasio
comparve, ma, colpito dal giovane, si inabissò subito nelle
acque; Egimaldo tornò in città, dove venne festeggiato per
giorni, nonostante egli non fosse sicuro di aver ucciso il drago.
Qualche tempo dopo, agli inizi dell'estate, Egimaldo e i giovani che
lo avevano accompagnato nell'impresa si ammalarono di una
febbre altissima che in breve contagiò tutta la popolazione;
con l'arrivo dell'autunno, la situazione però precipitò
ulteriormente, in quanto, a causa dell'arrivo di abbondanti
piogge, il lago e l'Adda esondarono, allagando tutta la zona.
È a questo punto della storia che "entra in gioco" San Cristoforo,
patrono delle acque: infatti, i Lodigiani invocarono il suo aiuto
e, miracolosamente, le acque iniziarono a ritirarsi a partire
dalla notte del 31 dicembre; ma non è tutto: sul fondo del lago
ormai completamente prosciugatosi, i Lodigiani trovarono la
carcassa del drago, che fu trasportata, come già detto, nella
chiesa di San Cristoforo a Lodi.
In tal modo, la città fu salvata contemporaneamente dall'alluvione e
da Tarantasio!
Esistono più versioni relative alla morte del mostro: mi è piaciuto
ricordare questa, perché ha come protagonista un nostro
"compaesano"... Vorrei concludere citando solo un ultimo
punto: nel 1945, quando Enrico Mattei assunse la direzione
dell'Agip (precursore dell'attuale ENI), venne a sapere che
nella zona della Bassa Padana era stato individuato un
giacimento di gas naturale; dopo aver trovato altri pozzi di gas
in seguito ad ulteriori trivellazioni, decise di scegliere come
simbolo della sua azienda proprio Tarantasio, raffigurato come
un cane a sei zampe, dalla cui bocca esce una rossa lingua di
fuoco, rendendo in tal modo immortale il mostro che per tanti
anni aveva terrorizzato gli abitanti delle nostre zone.
www.lodicitta.it/territorio/itinerari-lodigiani/quando-il-drago-tarantasio
-abitava-il-lago-gerundo
1.13 La leggenda del lago Gerundo
La leggenda del lago Gerundo
scuola elementare De Amicis - Pizzighettone
Tanti e tanti anni fa, tra il paese di Pizzighettone e la città di Lodi, vi
era un lago chiamato Gerundo, che era così grande e
profondo che tutti lo chiamavano mare.
Nella cittadina di Lodi viveva Sterlenda, una giovane bella e gentile,
innamorata di Eginaldo, un giovane coraggioso. Tra la gente di
Lodi circolava una voce: si diceva che nel lago Gerundo
vivesse un drago enorme e feroce, più grande d'un elefante.
La sua bocca era grandissima e rossa, fornita d'un'infinità di
denti bianchi e aguzzi; il suo alito era infuocato come un
lanciafiamme e puzzolente come l'acqua marcia. Le mamme,
per paura, non lasciavano uscire di casa i bambini e le
bambine, e nessuno di questi giocava mai sulla sabbia della
riva del lago. Si diceva, poi, che quando scoppiava un
temporale, il drago lasciasse il centro del lago e s'avvicinasse
minacciosamente alla città.
Una notte d'estate dell'anno 1299 il cielo, divenuto nero, annunciò
una terribile burrasca: lampi, fulmini, tuoni riempivano il buio, e
il vento alzava onde spumeggianti alte come case. Eginaldo,
giovane coraggioso, chiamò alcuni compagni: - Presto,
prendiamo una barca, armiamoci di lance e di bastoni e
catturiamo il drago!
I giovani s'avventurarono nell'acqua. La barca, tra le onde, saliva e
scendeva, ora si vedeva, ora spariva… Sterlenda, sulla riva,
stringeva preoccupata le mani al petto: sarebbe tornato il suo
Eginaldo? Sei imbarcazioni salparono per soccorrere i giovani
valorosi, e ben presto tutti ritornarono sani e salvi. Il mostro,
però, non era stato catturato. Si festeggiò il ritorno con un gran
banchetto, e i racconti sull'aspetto del drago, chiamato con il
nome di Tarantasio, iniziarono a circolare tra la gente: - E' un
drago enorme... e i suoi muggiti hanno la forza del tuono...
l'aria è piena del suo alito asfissiante...
I giovani, che avevano affrontato il drago, s'ammalarono di febbre
altissima e con il caldo dell'estate si diffuse in città una terribile
pestilenza: tanti s'ammalarono, le botteghe chiudevano, gli
stranieri scappavano, le campane suonavano tristi rintocchi...
tante persone morirono. Eginaldo, però, si salvò e guarì.
Passarono i mesi, ma la pestilenza non diminuì. L'autunno,
con le sue piogge, peggiorò le cose: il lago Gerundo straripò e
allagò la campagna.
La gente, non sapendo più cosa fare, si rivolse a Dio e, dopo tante
preghiere, promise che, se la pestilenza e l'inondazione
fossero finite, sarebbe stata costruita una nuova chiesa. Nella
notte del 31 dicembre, le acque iniziarono a ritirarsi e, nel
giorno di Capodanno, il lago Gerundo si prosciugò
completamente. E... sorpresa! Sul fondo ormai asciutto si vide
spuntare una costola enorme, lunga sette piedi! Era una
costola del drago.
Il mostro era ormai scomparso e la gente ricominciò a vivere senza
paura. Sterlenda ed Eginaldo si sposarono nella chiesa di S.
Francesco, con una bellissima cerimonia, il 2 febbraio 1300.
Le maestre Maria Cristina, Maria Rosa, Rossella; gli allievi Marta,
Federica, Ambra, Laura, Lorenzo, Alessandra, Marco, Massimo,
Francesco, Salima, Zaid, Arianna, Daniela, Elisa, Roberto, Marika,
Roberta, Fabio e Carlotta - scuola elementare De Amicis Pizzighettone
1.14 Il drago Tarantasio alla riscossa!
Il drago Tarantasio alla riscossa!
Livio Mondini
Lo confesso, sono affezionato al drago Tarantasio, o Tàranto se si
preferisce.
Detto drago era una specie di mostro antidiluviano: aveva il corpo di
serpente, la testa enorme di sauro con enormi corna; una lunga
coda e zampe palmate. Aveva la sua tana nelle profondità del
Mare Gerondo e quando saliva alla superficie eruttava fuoco
dalla enorme bocca e fumo dalle narici, spargendo morte e
paura.
L'ultima apparizione dello spaventoso drago avvenne a San
Silvestro del 1299 e si dissolse nei nulla, con le acque del mare,
il capodanno del 1300 per il miracoloso intervento di San
Cristoforo, il Santo delle acque. Ci resta a testimonianza la
cronaca del tempo che dice: "...alla fine dell'anno 1299 il
Vescovo di Lodi Bernardo de Talente indice una novena
pubblica con la promessa di erigere, cessata l'epidemia che già
tanti morti aveva causato, un grande tempio in onore della
Santissima Trinità e di San Cristoforo...". Nei primi giorni del
1300 le acque si ritirarono, ebbe fine la epidemia, e nella
palude miracolosamente prosciugata, venne trovata una
"costola colossale" che il popolo ritenne essere parte del Drago,
causa del malefizio.
Di questo drago parlavano pure due tavolette di marmo immurate
nella chiesa di S. Cristoforo (eretta dai lodigiani a scioglimento
del voto fatto nel 1299) dove era stato collocata anche l'enorme
costola di cetaceo fossilizzata. Nelle due tavolette di marmo
(andate perdute con il grande osso) era scritto del "... serpente
che appestava Lodi e che per l'intercessione del Santo
Cristoforo nella calenda di gennaio ucciso il drago e
prosciugato il lago ove viveva..."
Un'altra prova dell'esistenza di questo favoloso drago Tarantasio la
troviamo in un atto del 1307. Il 23 aprile di quell'anno la
Comunità di Lodi stabiliva di offrire annualmente 100 soldi
imperiali alla Chiesa di San Cristoforo per la "liberazione dal
drago".
A Soncino, qui vicino, in questi giorni sarà pieno di mezzi uomini, Elfi,
maghi, orchi. E può mancare Tarantasio a una occasione del
genere? Sono certo che farà la sua apparizione.
Comunque, inutile prenotare per la cena elfica. I posti sono andati a
ruba, ma io non sarei tranquillo... non si capisce bene chi fa da
cena e a chi. In ogni caso, se Tarantasio in questi giorni avesse
altri impegni, non mancherà di certo alla cena di maggio.
Oppure farà la comparsa a tutte e due, chi lo sa, son strani questi
draghi. E per primi si mangerà questi Uruk Hai.
Ok, lo so che quella che si vede nei campi la mattina è umidità,
foschia, ma se fosse l'alito del drago invece? Come esserne
certi?
Per ora sembra che l'unica ad averlo visto di recente sia Michelle
Pfeiffer quando è venuta al castello di Soncino per girare
alcune scene di Lady Hawke. Pare che alla sua vista abbia
esclamato "ammazza che drago!", e io non ero nemmeno nei
dintorni quindi non parlava di me. E che non aveva visto
l'orango padano, o yeti dell'Oglio.
Livio Mondini
1.15 Le nebbie del Lago Gerundo
Le nebbie del Lago Gerundo
Paolo Zanoni
L’acqua non c’è più da un pezzo, drenata a fatica negli alvei
dell’Adda, del Serio e dell’Oglio, ma le strade rettilinee sono
delle rotte sicure per navigare tra leggende suggestive e paesi
interessanti sorti sulle emergenze in altre epoche inglobate nel
mitico lago Gerundo. Ancella inseparabile e misteriosa in
questo viaggio virtuale, ma non troppo, nelle profondità del
tempo, la nebbia. Terra, acqua e nebbia sono gli elementi che
fanno da sfondo alle vicende; il Medioevo è il tempo in cui
sono ambientate. Ingredienti indispensabili per imbastire un
racconto accattivante.
Nell’Età di Mezzo l’area compresa tra i fiumi menzionati appariva
come una grande palude, le cui acque stagnanti si alzavano e
abbassavano secondo il regime stagionale delle piogge. In
mezzo all’immenso acquitrino, impropriamente chiamato lago
o mare, emergevano delle insule, la più vasta delle quali, detta
Fulcheria, corrispondeva all’attuale città di Crema col suo
territorio. Su questi rialzi, che oggi separano i bacini fluviali,
erano ubicati gli stanziamenti umani, poi ingranditi fino a
diventare gli odierni paesi.
E’ in questo contesto che è nata la leggenda del drago Tarantasio,
con le sue varianti e i suoi particolari, tali da far impallidire il
recente mito mediatico di Nessy, l’omologo scozzese che non
riesce a scaldare la fantasia. Tra acque infide e vapori nebulosi,
forse originati dalle sue stesse narici, viveva Tarantasio, una
specie di mostro antidiluviano dal corpo di serpente, la grande
testa cornuta di sauro, la lunga coda e le zampe palmate.
Cibandosi di carne umana, con predilezione per quella dei
bambini, esso incuteva terrore e paura tra gli abitanti dei
villaggi rivieraschi del mefitico lago Gerundo. Narra la
leggenda che dopo la morte del santo vescovo Ambrogio, un
drago avrebbe insidiato Milano, divorando gli incauti cittadini
che osavano sortirne dalle mura. Fu il nobile Uberto Visconti,
armato di coraggio, il solo uomo ad affrontare il mostro e ad
ucciderlo presso Calvenzano con un colpo netto di spada. Da
allora il biscione con un giovinetto in bocca compare nello
stemma della città e della potente famiglia che la tenne a lungo
in signoria. Secondo questa versione non c’è dubbio che il
biscione fosse proprio Tarantasio.
Una seconda leggenda diffusa a Lodi, fa risalire l’ultima apparizione
del drago al giorno di San Silvestro del 1299 e la sua
scomparsa nel nulla al giorno seguente, capodanno 1300,
insieme all’evaporazione del grande stagno in cui viveva, per
l’intervento miracoloso di San Cristoforo, patrono delle acque.
Il vescovo di Lodi, Bernardo de Talente, che aveva indetto una
novena pubblica per invocare la liberazione dal mostro e da
una micidiale epidemia in corso, decretò dopo la fine
dell’incubo, l’erezione di una chiesa dedicata alla Trinità e al
santo. Passati alcuni giorni, nel letto prosciugato della palude
venne rinvenuta una costola colossale che i lodigiani
attribuirono con sicurezza al drago malefico. I reggenti della
città stabilirono il 23 aprile 1307, festa di San Giorgio, di offrire
annualmente cento soldi imperiali alla chiesa di San Cristoforo
in segno di gratitudine per la liberazione dal mostro. In essa
venne collocata la grande costola fossilizzata, forse di un
cetaceo, andata perduta nel XVIII secolo insieme alle due
lapidi marmoree che ricordavano gli eventi. Un’altra costola
misteriosa si può ancora vedere nella chiesa di San Giorgio ad
Almenno San Salvatore, nella bergamasca Valle Imagna. In
quanto al prosciugamento del lago Gerundo, esso è da
attribuire all’opera dei cistercensi e dei benedettini presenti nei
monasteri sorti ai suoi margini.
Spariti i draghi, trafitti dalle lance dei santi e dei cavalieri, evaporata
d’incanto l’acqua melmosa delle paludi, è rimasta la nebbia, la
silente signora della pianura. Forse da queste parti transitò nel
suo lungo trasferimento dalle brume danubiane a quelle della
Loira, il santo cavaliere Martino, che non esitò a dividere il
proprio mantello con l’inerme e infreddolito mendicante
incontrato per strada. Il periodo intorno alla sua festa regala
spesso giorni di pallido sole, la breve estate dei morti che
prelude alle tenebre e al freddo invernali.
Il passo dalle leggende alla storia non è poi così lungo. Se c’è un
luogo in cui, esclusi i mostri acquatici, si fondono alla
perfezione il Medioevo, San Martino, la bonifica del lago
Gerundo e la nebbia, questo è Palazzo Pignano, paese a
pochi chilometri da Crema verso l’Adda. Lì, nel raggio di un
centinaio di metri che comprende i resti di una villa
tardo-antica e la romanica parrocchiale, dedicata per l’appunto
al santo vescovo di Tours, vi è una densità di storia e un
concentrato d’arte di eccezionale valore. Paltium Pinianum era
un insediamento romano sorto ai margini dell’Insula Fulcheria.
L’importanza del sito è testimoniata dalla vasta area
archeologica, 25/30 mila mq., scoperta nel 1963 ed acquisita
al demanio, nella quale, oltre all’abbondanza di reperti del
IV-VI secolo sistemati nel vicino Antiquarium, sono emersi i
resti della grande villa appartenuta ai nobili Piniano e Melania,
ferventi cristiani vissuti nel V secolo. Morto Piniano nel 432,
Melania si ritirò a vita eremitica a Gerusalemme consumando il
proprio patrimonio a favore dei poveri e fondando comunità
monacali femminili e maschili, meritandosi infine la santità.
La villa era costituita da diversi ambienti dotati di pavimenti musivi,
prospettanti su un giardino interno e dotata di un portico
ottagonale lastricato con marmo rosso di Verona. Nell’area
della villa, verso sera, altri scavi hanno riportato alla luce i resti
della Cappella del Palatium, una grande chiesa a pianta
circolare con fonte battesimale. Scavi che hanno interessato
anche la navata destra dell’attuale chiesa parrocchiale sotto il
titolo di San Martino, eretta nel secolo XI. Tra le due chiese, in
epoca carolingia, era sorta la pieve, e questo giustifica la
dedicazione al santo vescovo di Tours, caro ai Franchi.
La successiva sovrapposizione di chiese è dovuta anche alle due
distruzioni subite da Palazzo Pignano nel torno di un secolo.
La prima nel 951 ad opera degli Ungari e la seconda nel 1059.
Tra il IX e il X secolo il paese era una curtis soggetta al
monastero benedettino di San Savino di Piacenza, diocesi alla
quale appartenne in alternanza con Cremona, prima di finire
nel 1580 in quella cremasca di nuova costituzione. Nel suo
stile basilicale di transizione, la parrocchiale di Palazzo
Pignano esercita un potente richiamo evocativo dell’epoca in
cui fu costruita. La vasta navata centrale, con copertura a
capriate lignee, è chiusa dall’abside semicircolare in cui i
restauri del 1967 hanno evidenziato lacerti di affreschi
rinascimentali. Si tratta di una Madonna del Latte, di un’altra
Madonna della Rosa, di una Crocifissione, di un San Martino e
di altri santi.
Colpisce per il senso drammatico che emana, all’inizio della navata
sinistra, il gruppo di otto grandi statue in terracotta che
compongono il Compianto del Cristo morto, quattrocentesca
opera di Agostino de Fondulis. Provenienti dalla soppressa
chiesa cremasca di San Marino, esse furono donate negli anni
Ottanta dell’Ottocento alla parrocchia locale dai conti Vimercati
Sanseverino che a Palazzo Pignano avevano vaste proprietà.
E’ davvero straordinario questo borgo spesso avvolto nelle nebbie
che esalano dai campi e dalle rogge, per il notevole patrimonio
storico ereditato, in grado di riservare in futuro altre piacevoli
sorprese, oggi celate dal verde manto dei suoi prati.
1.16 Un cetaceo nella pianura padana
Un cetaceo nella pianura padana
Lorenza Pozzi
Mi affaccio al balcone e vedo in lontananza due torri a righe bianche
e rosse, alte più o meno trecento metri. Due torri gemelle in
direzione nord-est. Due camini fumanti che di notte si illuminano
di lucine rosse, come fari per gli aerei di passaggio: le torri della
centrale termoelettrica.
Non è quello che si definisce un bel panorama, ma certe mattine
all’alba, quando il sole non è ancora sorto e il cielo è limpido e
sgombro di nebbia e fumi e degrada dal rosa al giallo mi sono
quasi commossa di fronte alle Alpi, con davanti le torri della
centrale e la luna piena che ancora non ha lasciato lo spazio a
fratello sole-pallido.
La centrale è l’erede di un vecchio impianto degli anni ’50 e sfrutta le
acque fredde dei canali che le stanno intorno e i giacimenti di
gas naturale, di cui la nostra terra è tanto ricca e di cui resta
memoria nella leggenda del Drago Tarantasio.
Si narra che un tempo grandi alluvioni ed esondazioni crearono
proprio qui un lago, che venne chiamato Mar Gerondo. E dal
lago salivano tanti e tali fumi e puzze e esalazioni malsane e
pestiferi miasmi che appestavano tutto l’aere e intossicavano e
ammalavano e morivano le persone. I più ricchi si diedero alla
fuga. I medici non sapevano più che pesci pigliare.
- E’ colpa del mostro Tarando che dimora nei pantani del lago –
dissero con autorità. E alcuni giurarono anche di averlo visto. Il
mostro era un drago e secondo quanto sostengono i latini (e
soprattutto: secondo quanto sostiene Aristotile, che non si può
certo contraddire!) i draghi non solo esistono ma sono parenti
stretti dei rettili e dei serpenti. Da cui il nome Tarando, da
tarantola, poi Tarantasio.
Tutti sanno che i draghi nascono dalla spina dorsale degli uomini
morti e questo drago qui doveva esser nato dal corpo putrefatto
di Ezzelino da Romano, quel can feroce figlio del demonio che
qualche anno prima era morto nella battaglia presso Cassano
ed era stato sepolto da queste parti. Già. Proprio così. Che fare,
dunque? Solo un intervento divino poteva cacciare il malefico e
mefitico essere immondo. Si chiamarono vescovo, preti, curati,
si fecero processioni e voti. E finalmente la notte di San
Silvestro del 1299 si verificò il miracolo: il lago si prosciugò e sul
fondo, sotto le mura della città presso il Molino della Madonna,
furono trovate le reliquie di Tarantasio: una grande costola di
drago, che venne spostata di qui e di là e infine esposta nella
Chiesa di San Cristoforo, il santo evocato per il miracolo.
Passò poi un’équipe di paleontologi e sostenne che trattavasi di
costola di cetaceo. Beh, che differenza fa? Chiesero alcuni.
Sempre di leviatano si tratta. E la costola magicamente
scomparve.
Ma si sa che il drago Tarantasio era un drago della specie mista, per
cui poteva sopravvivere anche fuori dall’acqua. Secondo me è
volato via.
Lorenza Pozzi
1.17 Il "mare" lombardo fra storia e leggenda
Il "mare" lombardo fra storia e leggenda
Uno specchio d'acqua paludosa di epoca romana. Il Lago Gerundo
pare si sia originato con il ritiro dei ghiacciai nel Pleistocene e
con le esondazioni dei fiumi Adda, Serio e Oglio. La sua
scomparsa invece è accreditata alle opere di bonifica dei
monaci cistercensi
di Marco Agustoni
Il drago che emerge dalle acque lacustri
Fino al XII secolo le province di Milano, Lodi, Bergamo e Cremona
ospitavano un ampio bacino d’acqua, detto Gerundo. Ancor
oggi si trovano nel territorio testimonianze tangibili di questo
lago paludoso, mentre nell'immaginario della gente permane
memoria del leggendario drago Tarantasio che qui viveva.
Pur rimandando in maniera istintiva a una forma verbale che indica
contemporaneità d’azione, con la sua storia il Gerundo
esemplifica la fragilità e la volatilità di ciò che a noi appare
immutabile, come un lago o un mare. Per quanto nel terreno
lombardo rimangano tracce della presenza di questo ampio
specchio d’acqua paludosa, come ad esempio tratti scoscesi
di terra che parrebbero indicare l’antica presenza di un bacino
idrico, oggi risulta difficile credere che tra le province di Milano,
Lodi, Cremona e Bergamo si estendesse un lago tanto
imponente da venire spesso citato, nelle cronache storiche,
come “mare Gerundo” (anche se, molto probabilmente, tale
definizione deriva in realtà dal termine tardo latino “mara”, che
significa per l’appunto “palude”).
I primi accenni al lago Gerundo risalgono all’epoca romana (se ne fa
riferimento, ad esempio, nelle opere di Plinio il Vecchio) ma le
descrizioni più dettagliate si hanno nel periodo medievale,
negli scritti dello storico del VII secolo d.C. Paolo Diacono e di
altri cronisti dell’epoca. Originatosi con tutta probabilità in
seguito al ritiro dei ghiacciai durante il Pleistocene, il Gerundo
si formò al di sopra di un’ampia zona ghiaiosa grazie alle
esondazioni dei fiumi Adda, Serio e Oglio. Il lago, che già a
partire dal XI secolo d.C. andò riducendosi di estensione, si
prosciugò definitivamente nel corso del XII secolo d.C. Tra le
cause più accreditate di questa “misteriosa” scomparsa, vi
sono le ingenti opere di bonifica intraprese dai monaci
cistercensi, benedettini e cluniacensi prima e dal comune di
Lodi poi.
In mezzo al lago, l'isola di Crema
Dove si trovava il lago Gerundo
Più che un vero e proprio lago, è probabile che il Gerundo fosse un
insieme di paludi e acquitrini collegati dalle frequenti
esondazioni dei fiumi circostanti. Ma come detto, questo
bacino insalubre compensava la scarsa profondità (le sue
acque non scendevano al di sotto di una decina di metri) con
un’estensione ragguardevole. Pur essendo difficile tracciare
dei confini precisi, nel momento della sua massima ampiezza
il Gerundo è arrivato a spingersi da Brembate (BG) a nord
fino a Pizzighettone (CR) a sud, lambendo con le sue acque
la città di Lodi a ovest e Grumello Cremonese (CR) a est. Al
suo interno, il lago conteneva una lunga striscia di terreno,
detta isola della Mosa prima e Fulcheria poi (anche se,
nonostante il nome, è possibile che in alcuni punti questa
fosse collegata con la terra ferma), sulla quale in un periodo
compreso tra il IV e il VI secolo d.C. fu edificata Crema (CR).
Testimonianze storiche del lago Gerundo - il cui nome sembra
derivare dal termine latino “glarea”, che significa “ghiaia”, di
cui come detto la zona era particolarmente ricca - rimangono
nella toponomastica di molti paesi della zona, come ad
esempio Fara Gera d’Adda (BG), Brignano Gera d’Adda (BG)
o Casei Gerola (PV). O, in maniera ancora più esplicita, nei
nomi di vie o piazze, come ad esempio a Zelo Buon Persico
(LO), dove si trova tutt’oggi una piazza Lago Gerundo. Ma
nell’immaginario e nei luoghi della pianura padana, ancor più
che del lago Gerundo, sono rimaste le tracce di un suo antico
abitante, ovvero il Tarànto, Tarantasio o Tarando, un
leggendario drago acquatico che ne avrebbe infestato le
acque sino al suo prosciugamento. Proprio da questa
mitologica creatura prenderebbero il nome Taranta, frazione
di Cassano d’Adda (MI), così come le numerose vie della
Biscia site nei paesi che all’epoca si ritrovavano lungo le
coste del lago (per quanto oggi molte di queste strade
abbiano mutato nome). Ma una testimonianza ancor più
tangibile, in tutti i sensi, la si aveva a Calvenzano (BG), dove
gli abitanti del luogo avevano eretto un muro alto tre metri per
difendersi dagli attacchi del mostro.
San Cristoforo contro il drago
Tiziano Vecellio, San Cristoforo (1523 - 1524). Affresco Venezia,
Palazzo Ducale
Il Tarantasio, nelle leggende popolari, era rappresentato come
un’enorme biscia oppure come un drago acquatico, da cui secondo
alcuni avrebbe preso spunto il simbolo del cane dell’Eni, che proprio
nell’area occupata dal Gerundo scoprì vasti giacimenti di gas
metano. Questa bestia mitologica sarebbe finita anche in un altro
stemma, ovvero quello dei Visconti, sul cui scudo è rappresentato un
biscione intento a divorare un bambino, divenuto poi simbolo della
città di Milano. Tra le varie storie riguardanti la morte del Tarantasio,
una accredita infatti l’uccisione del biscione a Uberto Visconti, giunto
in soccorso di un fanciullo. Tuttavia tale ipotesi riguardo la
leggendaria origine del simbolo di Milano sarebbe poco plausibile,
dato che l’adozione dello stemma del drago da parte del capoluogo
lombardo sarebbe antecedente la nascita di Uberto. A contendersi il
merito dell’uccisione del Tarantasio con il Visconti è nientemeno che
San Cristoforo in persona, che secondo una leggenda locale
sarebbe stato invocato dal vescovo di Lodi Bernardo Tolentino e
avrebbe fatto prosciugare il lago Gerundo provocando così la morte
del suo “fastidioso inquilino”. Di qui il voto di far restaurare la chiesa
di San Cristoforo a Lodi, effettivamente ristrutturata nel 1300.
1.18 Il "mare" lombardo fra storia e leggenda
Il "mare" lombardo fra storia e leggenda
di Marco Agustoni
Biscioni, storioni, coccodrilli: tutti insieme nel Gerundo
Il biscione dello stemma dei Visconti
Sorge spontaneo chiedersi da dove tragga origine la leggenda del
Tarantasio. Una spiegazione può venire in parte dalla natura
paludosa delle acque del Gerundo: in molti casi, nei secoli
passati, le esalazioni mefitiche e la diffusione di particolari
malattie erano attribuite al fiato di bestie immonde, come ad
esempio il basilisco, responsabile secondo le credenze
popolari di avvelenare le acque dei pozzi.
Ecco che allora, per spiegare la diffusione della malaria in area
padana, le credenze popolari chiamarono in causa il fiato
pestilenziale del Tarantasio. Secondo il cripto-zoologo Maurizio
Mosca (autore, tra gli altri, del volume “Mostri dei laghi”, edito
da Mursia) inoltre, le leggende sul drago potrebbe essere state
fomentate dalla presenza nel Gerundo di storioni di eccezionali
dimensioni, in grado per la loro conformazione anatomica di
essere scambiati per grossi biscioni, o di coccodrilli importati da
terre esotiche che, secondo alcuni documenti, erano poi
sopravvissuti nelle acque del fiume Serio (a sostegno di questa
teoria vi sarebbe uno scritto del 1954, secondo cui presso la
chiesa di Ponte Nossa (BG) era custodito un coccodrillo
impagliato lungo tre metri).
Prima del Tarantasio, mammuth e dinosauri
Una raffigurazione dei Mammuth
Ma alla base della leggenda del Tarantasio è probabile che ci siano i
numerosi reperti conservati tuttora o in passato nelle chiese del
bergamasco, del cremonese e del lodigiano. Si tratta di ossa di
eccezionali dimensioni custodite come reliquie e attribuite
proprio al temibile abitante del lago Gerundo. La presenza di
questi curiosi oggetti non deve però stupire, dato che spesso
ossa di animali esotici, come ad esempio capodogli o elefanti,
erano portate in dono da pellegrini giunti da terre lontane.
Inoltre, non dobbiamo rimanere perplessi nemmeno di fronte
alle cronache dell'epoca, secondo cui le ossa sarebbero state
rinvenute in loco, dato che nell'area del Gerundo non sono
infrequenti i ritrovamenti di ossa fossili appartenute a mammuth
o altri animali preistorici. Del resto, dietro la nascita di molte
leggende sui draghi ci sarebbero proprio i resti di dinosauri o di
altri giganteschi esseri del passato.
In ogni caso la leggenda del Tarantasio, ben lungi dal finire
archiviata assieme ai documenti d’epoca, dopo aver acceso
l'immaginazione dei nostri antenati continua ad affascinare
anche i contemporanei. Non per niente, proprio il già citato
Maurizio Mosca ha scritto assieme a Marco Bono un romanzo
fantastico sulle vicende del mostro, intitolato “L’enigma del
mare lombardo” (edizioni Aracne) in cui si intrecciano diverse
linee temporali e in cui la storia del Tarantasio arriva a
coinvolgere studiosi del presente e antichi abitanti della pianura
padana.
Chissà, in fondo, che il recupero in chiave folcloristica di questa
storia tradizionale non possa giovare al turismo della zona un
tempo occupata dal Gerundo.
Sulle tracce delle leggende popolari
San Giorgio ad Almenno San Salvatore
Ma se si volesse compiere un viaggio alla ricerca delle tracce del
lago Gerundo e del suo misterioso abitante, dove ci si potrebbe
recare? Innanzitutto, si potrebbe cominciare col visitare gli edifici
religiosi, spesso anche di notevole interesse artistico, in cui sono
custoditi i resti attribuiti al Tarantasio, come ad esempio le chiese
romaniche di San Giorgio ad Almenno San Salvatore e di San
Bassiano a Pizzighettone (CR). Poi, ci si potrebbe recare a
Trucazzano (MI), presso l'edificio storico noto come Torrettone, dove
è possibile trovare alcuni antichi attracchi per le imbarcazioni usate
un tempo per solcare le acque del Gerundo. Se si vogliono invece
vedere con occhio le tracce lasciate da questo bacino, la visita a
paesi come Castiglione d’Adda (LO) o Maleo (LO), così come altre
località del lodigiano, dimostra come questi si trovino oggi in cima a
terreni rialzati, un tempo rive di un ampio specchio d’acqua. Infine,
nulla vieta di compiere una scappatella nella già citata Calvenzano
per rendere omaggio al defunto Tarantasio, che secondo la
leggenda qui fu ucciso da Uberto Visconti. Certo, forse nel giro non
si troveranno molte tracce di queste antiche storie di mostri e di mari,
ma sarà comunque una buona scusa per visitare luoghi affascinanti
al di fuori dei tradizionali itinerari turistici. (30/06/10)
1.19 Brembio e il suo territorio
Brembio e il suo territorio
IL LAGO GERUNDO
Brembio e il suo territorio
La realtà fisica del lago Gerundo è indiscutibile; si fonda sopra
macroscopiche
prove
geologiche,
paleontologiche,
archeologiche, documentali.
È cosa nota che l'attuale pianura padana venne formata nel corso di
lunghe ere dai detriti erosi dalle Alpi e dagli Appennini, e
trasportati dal Po e dai suoi affluenti. In precedenza v'era solo
mare, ed ancora oggi la pianura padana lentamente continua
ad ingrandirsi colmando il fondale adriatico. Meno noto invece
è il fatto che, fino a tempi vicinissimi a noi, molte zone della
pianura padana erano ancora invase dalle acque assai
abbondanti e non regolate dei fiumi, che si allargavano
disordinatamente a formare vasti laghi e sterminate paludi. Il
progressivo innalzamento dei depositi alluvionali e, soprattutto,
l'opera di bonifica e incanalamento dell'uomo hanno
trasformato questo immenso acquitrino in una fertilissima
pianura, rimasta comunque fortemente irrigua ed umida.
Fra i laghi paludosi della pianura padana, uno dei più notevoli e tardi
a scomparire fu senza dubbio il lago Gerundo. Questa grande
regione acquitrinosa era formata dal disordine alluvionale dei
fiumi Adda, Oglio e Serio (ed anche del Lambro e del Silero), e
perciò copriva - pur confini continuamente variabili - l'intero
ampio territorio compreso fra la provincia bergamasca
meridionale e la provincia superiore di Cremona, con tutto il
Cremasco e il Lodigiano.
Con ogni probabilità, man mano che nel corso dei secoli le acque del
Gerundo si prosciugavano, si raccolsero nelle zone più basse
della padana, verso il Po; in quei luoghi infatti si trovano i ricordi
più recenti. Ad esempio, il grande lago lambiva il maniero di
Maccastorna, uno dei castelli medioevali meglio conservati
della Lombardia.1 Proprio qui, presso il Po, in tempi non molto
lontani esisteva ancora una distesa d'acqua chiamata lago
Barrili; occupava un bacino sui cui bordi - oggi asciutti - si
trovano i paesi di Retegno, Fombio, guardamiglio e San
Fiorano,2 a sud di Codogno.
Il lago Gerundo, o Gerondo, o Gerundio, oppure anche Gherundo,
trasse il nome da "gera" (o ghera), cioè ghiaia, con allusione al
suo fondo spesso ghiaioso. Ancora oggi moltissime località in
questa zona ed in quelle limitrofe possiedono nomi che
comprendono la radice "gera": a cominciare dalla Gera (o
Ghiara) d'Adda, tutta la regione pianeggiante delimitata ad
ovest e a sud dal fiume omonimo, ad est dal Serio e a nord
dalla roggia detta Fosso Bergamasco, antico confine tra i
territori di Milano e Venezia.3 Capoluogo della Gera d'Adda è
oggi Treviglio, ma nei dintorni troviamo Brignano Gera d'Adda,
Fara Gera d'Adda, Misano di Gera d'Adda, ecc.
L'immenso lago Gerundo non aveva confini stabili, a causa del
variare in livello e distribuzione delle sue acque alluvionali; per
lo stesso motivo, la sua superficie era interrotta da secche ed
isole mutevoli. Solo le collinette più elevate potevano esser
quindi le isole permanenti dell'acquitrino, e fu proprio sulle più
estese di esse che vennero fondate le importanti città della
regione.
Gli insediamenti umani più antichi risalgono tuttavia ad epoche
preistoriche; gli abbondanti ritrovamenti mostrano l'esistenza di
tutta una serie di civiltà primitive. Un elemento costante di
questi popoli è l'uso di abitazioni su palafitte, come c'è da
aspettarsi in un ambiente essenzialmente paludoso.
Accenni a questa immensa palude sembrano trovarsi già in Polibio e
in Plinio il Vecchio; pare anche che gli antichi romani vi
avessero realizzato opere di bonifica. La zona tornò tuttavia
allo stato brado in seguito alla caduta dell'impero e alle
distruzioni barbariche, modificando continuamente nei secoli il
suo assetto, in conseguenza del regime naturale delle acque.
L'iniziale storia scritta di queste terre è invece strettamente legata
dapprima alla dominazione longobarda in Italia, ed in seguito
alle lotte dei Comuni. Com'è noto, i Longobardi entrarono nelle
vicende italiane a partire dal secolo VI, ma gli avvenimenti più
celebri sono quelli del secolo XII, quando l'imperatore
germanico Federico I - detto il Barbarossa - varcò le Alpi a più
riprese (1154-74), restaurando l'autorità longobarda su tutta
l'Italia settentrionale, finché fu sconfitto a Legnano (1176). Lo
stesso nome di Lombardia deriva da questa passata
dominazione.
Quando i re longobardi suddivisero il suolo della Longobardia fra i
loro duci, anche le terre del Gerundo furono spartite. Il capitano
Fulcherio fu investito della maggiore di queste isole, che prese
quindi il nome di Isola Fulcheria,4 in parte coincidente con
l'attuale Gera d'Adda. In seguito, con un atto del 17 maggio
1159, questo territorio fu donato dal Barbarossa al cremonese
Tinto, detto Muso di Gatta:5 era l'architetto al seguito
dell'imperatore, artefice di numerose opere.
In precedenza, questo stesso territorio - emergente dalle paludi del
Gerundo - aveva il nome di Isola Mosa: mosa, che significa
"pantano, palude", è un altro toponimo comune in Lombardia.6
Sopra un'elevazione del terreno, che si chiamava Dosso
dell'Idolo, sorgeva un tempo una chiesetta: Santa Maria in
Palude. Era stata fondata, secondo una leggenda, da cristiani
alla ricerca di un luogo remoto per sfuggire alle persecuzioni di
Diocleziano. Quando nell'anno 568 i guerrieri longobardi di
Alboino invasero l'Italia, nuovamente questo luogo servì da
rifugio, dove gli abitanti delle plaghe vicine all'Adda e al Serio
decisero di vivere, aspettando che passasse la furia delle
guerre. Ma con il tempo, dal nucleo primitivo intorno alla
chiesetta si sviluppò presto una nuova città, cinta di mura, alla
quale venne posto il nome di Crema (dalla radice prelatina "cre"
o "crem", altura, rialzo). La piccola chiesa di S. Maria della
palude fu dunque la prima della nuova città di Crema e con il
passare degli anni fu ingrandita fino a diventare l'attuale
Duomo.7 In tal modo Crema rimase per secoli il capoluogo
della grande isola nella palude, fino a quando lo sterminato
acquitrino fu trasformato in rigogliose campagne. Ancora oggi,
nella toponomastica della città possiamo trovare una via Lago
Gerundo e una piazza Fulcheria. Presso il Museo Civico di
Crema è raccolta una ricca documentazione sulle civiltà che si
svilupparono intorno all'Isola Fulcheria e al lago Gerundo; vi
sono persino alcune grandi piroghe.
Anche Cremona, l'attuale capoluogo di provincia lambito dal Po, fu
marginalmente interessata all'antica geografia della regione.
Ne resta traccia nella toponomastica cittadina, con una via
Lago Gerundo e una via Fulcheria (entrambe verso il Po), e
anche con una via Mosa, presso i resti delle mura di sud-est,
dove si apriva appunto l'antica Porta Mosa.
Dalle instabili acque del lago Gerundo emergeva almeno un'ulteriore
isola di rilievo, legata alle vicende antiche di un'altra importante
città padana: Lodi. Il centro abitato originario (oggi Lodi Vecchio)
si trovava 7 km ad ovest di quello attuale, e venne distrutto dai
Milanesi nel 1157, tranne la bella basilica di S. Bassiano. La
città fu rifondata l'anno seguente su un'altura chiamata Colle
Eghezzone o Enghezzone, dal proprietario Enghezzone degli
Alboni, console di Lodi nel 1152.8 La ricostruzione della città
venne appoggiata dal Barbarossa; e architetto fu il già citato
Tinto detto Muso di Gatta, come testimonia il cronista lodigiano
Ottone Morena (e ancora oggi, a memoria dei possessi di Tinto,
una località periferica di Lodi, sulla strada piacentina, è detta
"Gatta"). Nella toponomastica della città non mancano una via
Lago Gerundo, a sud-est, e una via Colle Eghezzone, a nord.
Nei pressi di Lodi (oggi lambita dall'Adda), ai tempi del Gerundo si
nominavano almeno altre due "isolette", o spazi elevati dalle
acque: Vigadore e Portatore.9 Da quest'ultimo toponimo
prendono il nome le località attuali di Portadore alto e Portadore
basso; infatti "Insula Portatoris" deriva da portatore, cioè
traghettatore. Il suo nucleo primitivo, sorto su un'altura
emergente da un vasto allagamento dell'Adda, fu già porto di
barche da tragitto.10
Il Gerundo infatti era navigabile e pescoso, tanto da meritarsi
l'appellativo popolare di "mare". Lo attestano molti cronisti, fra
cui il già citato Morena, attendibile testimone oculare, ed anche
il Sigonio (entrambi, descrivendo l'assedio posto a Lodi dalla
Lega Lombarda, scrissero delle imbarcazioni usate dai
Cremonesi). L'abate olivetano don Vincenzo Sabbia, nelle sue
memorie manoscritte di Lodi, ne descrive il porto nella costa di
Monte Eghezzone, dov'era la chiesa di S. Nicolò, e suppone
che le torri limitrofe fossero asservite al porto stesso,
constatando che ognuna recava grossi anelli di ferro, usati per
legare le imbarcazioni. Simili torri - aggiunge - si trovano anche
presso Trucazzano e Pandino, entrambe località interessate
dal Gerundo. Pier Ambrogio Curti, nella sua ampia narrazione
sul Gerundo, a proposito degli ancoraggi navali, scrive di
propria penna: "è forza ora intrattenerci delle origini di questo
lago Gerondo, che l'arte degli uomini ed il tempo, vennero
affatto disseccando, sì che più non ne rimangan adesso altre
vestigia che ne' grossi anelli ed arpioni che in più d'un luogo si
trovano; onde da tutti si congettura con giustezza che
servissero ad affrancare navigli, che per quella vastità di acque
correvano a commerci, alla pesca, ed alle comunicazioni co'
limitrofi paesi". Il Curti nota che uno di questi anelli era ad
esempio visibile nei fianchi della antica torre Poccalodi, che
ribassata divenne la cappella di S. Bernardino nella chiesa di S.
Francesco a Lodi.11
Secondo lo storico lodigiano Giovanni Agnelli, una palude pescosa,
che si estendeva da Abbadia Cerreto a Chieve, fu prosciugata
nei secoli XII e XIII dai monaci dell'abbazia stessa;12 e ancora
fino al secolo XVI esisteva appena a Nord di Lodi un lago,
chiamato Pulignano, poi prosciugato;13 altri residui del
Gerundo presso Lodi furono i laghi di Cavenago d'Adda,
Robecco, Cantonada.14 A Valera Fratta (da valle = terreno
paludoso, e fratta = macchia folta), c'è una lapide del 1784,
fatta collocare da Antonio Settala, proprietario del casale che fu
il nucleo primitivo della frazione, la quale ricorda che
originariamente il luogo era "avvallato, orrido, paludoso e
coperto da boschi e da roveti".15 A proposito di boschi paludosi,
famosa era la cosiddetta "Selva Greca".
Note.
1 Zanini G., Lombardia sconosciuta, Rizzoli, Milano 1982, itinerario n. 8.
2 Boselli P., Toponimi Lombardi, SugarCo, Milano 1977, p. 153.
3 Touring Club Italiano, Guida d'Italia - Lombardia, T.C.I., Milano 1970, p.172.
4 Boselli P., op. cit., p. 130.
5 Zeppegno L., Guida all'Italia leggendaria misteriosa insolita fantastica,
Mondadori, Milano 1971, v.1, p.232.
6 Boselli P., op. cit., p. 191.
7 Spagnol M. - Zeppegno L., Guida alla Lombardia misteriosa, SugarCo, Milano
1968, pp. 242-3.
8 Boselli P., op. cit., p. 121.
9 Curti P.A., Tradizioni e leggende di Lombardia, Battezzati, Milano 1857, v. 4, p. 9.
10 Boselli P., op. cit., p. 220.
11 Curti P.A., op. cit., pp. 12, 8, 3 e 13.
12 Boselli P., op. cit., p. 273.
13 Ibidem, p. 226.
14 Curti P.A., op. cit., p. 81.
15 Boselli P., op. cit., p. 288.
Testo tratto da:
Umberto Cordier: Guida ai draghi e mostri in Italia
SugarCo Edizioni, Milano 1986.
1.20 Descrizione geologica della provincia di
Milano
Descrizione geologica della provincia di Milano
books.google.it/books?id=Jk1C18icTG8C&pg=PA51&lpg=PA51&dq=Il+Gerun
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Descrizione geologica della provincia di Milano
Di Scipione Breislak
1.21 Garda, lago di misteri e leggende
Garda, lago di misteri e leggende
Tra città sommerse, mostri e mitiche bellezze
I bacini e i corsi d'acqua, da sempre, solletica-no le paure e le
emozioni umane, e luogo di grande suggestione non poteva non
essere il più vasto lago italiano, il lago di Garda.
Esteso nel nord Italia per una superficie di 370 km quadrati, di
origine glaciale, il lago, chiamato anche Benaco, oggi sotto il profilo
amministrati-vo è diviso fra le province di Trento a nord, di Ve-rona a
est e di Brescia a ovest. Tre diverse provin-ce, e tre relative differenti
regioni di appartenen-za (Trentino Alto Adige, Veneto e Lombardia),
non hanno nel tempo intaccato un patrimonio comune di scambi,
esperienze, credenze, spesso intrecciate tra loro anche in località
fisicamente lontane.
Un tempo gli spostamenti di merci e perso-ne tra le sponde
avvenivano via acqua e non via terra, fino alla costruzione della
Gardesana Occidentale e della Gardesana Orientale negli anni Venti
che rivoluzionarono i movimenti nella regione, e perciò paesi e
borghi oggi apparente-mente molto distanti erano in realtà collegati
in modo diretto grazie a frequenti scambi via barca. Questo forte
rapporto interregionale è forse an-che uno dei motivi per cui, spesso,
passando di località in località, molte storie, fiabe e leggende locali
pur personalizzate e modificate dal raccon-to orale mantengono una
radice comune.
Di certo è curioso come in diversi punti del lago, da nord a sud,
emergano inquietanti leg-gende di città sommerse che, oltre a
riuscire a rappresentare le proiezioni della paura dei gar-desani per
l'intensa attività sismica nell'area del lago e di Verona (si ricordino i
terremoti di Salò del 1901 e del 2004, nonché nel 1810 a Malcesi-ne
e Verona, quando crollò l'area esterna dell'A-rena), contribuiscono a
scrivere la storia comune tra le sponde.
Spesso nei racconti di questi luoghi si parla del misterioso e antico
borgo di Benacus, che oggi si troverebbe sotto le acque, situato
talvolta sulla sponda bresciana vicino a Toscolano e talvolta ai piedi
dell'attuale Garda, sulla parte veronese del lago, ma non solo.
-
-
Sempre per un terremoto, o forse a causa della spinta del bacino
lacustre, secondo una leggen-da datata 243 d.C. fu distrutta la mitica
città di Benaco, sontuosa e ricca di monumenti, fondata dagli
Etruschi e situata ai piedi della Valle delle Camerate, vicino a un
bacino lacustre formato dal fiume Toscolano e sovrastato dal monte
Gu. Benaco, così importante da dare il nome a tutto il lago, fu
travolta da un'enorme massa d'acqua e da una porzione di
montagna, che finirono per distruggerla e per inondarla. Ancora oggi
è visi-bile la grande frattura, forse in realtà opera di una lenta
erosione; in fondo a essa scorre il fiume, e si dice che sul fondo del
lago sia possibile vedere le sagome degli edifici devastati e
sommersi.
Il mito della città sommersa nel lago tocca la costa veronese
anche ben più su di Garda, verso Cassone, dove la cittadina di
Assenza con il suo nome richiama antichissimi eventi geologici; la
Val di Sogno, l'appellativo con cui viene chia-mata la zona, una notte
fu scossa da un terribi-le sommovimento tellurico che provocò
un'im-mensa voragine tra le pendici del Baldo e il lago, risucchiando
la località chiamata Città del Sonno e sommergendola sotto le acque
senza lasciare traccia, mentre tutti gli abitanti erano addor-mentati.
Di nuovo tra Garda e Bardolino sarebbe giun-ta la caratteristica
arena dell'Adige, a causa di un improvviso trabocco del fiume dal
lago glaciale di Caprino Veronese. In quell'occasione le acque
avrebbero anche travolto e inabissato gli inse-diamenti palafitticoli
sorti vicino a Garda, dando consistenza alle leggende che parlano di
borghi e villaggi sommersi nel lago.
Infine, secondo taluni la città di Benaco sareb-be stata posizionata
nei pressi di Torbole, dove una frana l'avrebbe sepolta.
Anche Giosuè Carducci, in diverse sue odi, ha ricordato il lago e i
misteri a esso sottostanti:
-
-
-
Ma sotto le acque del lago di Garda si agitano anche creature
misteriose che non sempre si rie-scono ad attribuire al Diavolo.
Con le loro acque nere e profonde, impossibili da esplorare
attraverso il semplice sguardo, i la-ghi ispirano da sempre storie e
leggende di mo-stri. Ogni lago pulsa di vita. Pesci che guizzano
improvvisamente, tronchi contorti che percorro-no le superfici
immobili con le loro forme sugge-stive, animali che hanno preso
dimora in fondo alle acque, bolle o vapori sollevati in seguito a
fenomeni naturali, sagome che emergono dalle profondità senza
svelare la propria identità: mo-vimenti lenti o repentini che spezzano
la magia e il mistero delle acque e che, fin dal passato, han-no
portato gli uomini a riempire il vuoto di cono-scenza con la fantasia.
Nel XVI secolo, Grattarolo, nella sua "Historia della Riviera di Salò",
scriveva di "
dell'acqua "
Bastava
un
racconto
fantasioso,
o
una
sempli-ce
raccomandazione al bambino troppo incauto nell'avvicinarsi
all'acqua, per far nascere una leg-genda. Del resto, sempre secondo
Grattarolo, "
Poi, nel 1965, quella che era solo una storia di paura o una
narrazione frammentaria si fa realtà, come testimoniano anche i
giornali dell'epoca.
Il 17 agosto di quell'anno un fatto straordina-rio e spaventoso
suscita profonda impressione a tutta la comunità lacustre e ai turisti
in vacanza nella zona del lago.
Armati di cineprese e macchine fotografiche, il giorno dopo,
gruppi di persone si accalcano in località Punta San Vigilio per
immortalare il "mo-stro" della Baia delle Sirene, la creatura che, due
giorni dopo ferragosto, alcuni turisti di varie na-zionalità hanno
avvistato in una delle località più suggestive del lago.
Una trentina di persone, inglesi, tedeschi, italiani e la giovane
americana Camille Finglet, hanno assistito all'emersione di "una
specie di lungo serpente" lungo una decina di metri, con un diametro
di una ventina di centimetri e quat-tro gobbe. Color marrone, la
"Nessie" benacen-se "
A differenza del suo alter ego scozzese, però, il «mostro» del
Garda si rivela una creatura estre-mamente timida nei confronti della
popolarità: dopo essere balzato alla cronaca sparisce subito dalla
riviera veronese, facendosi avvistare verso la sponda bresciana in
una località non precisa-ta tra Gardone e Salò, forse addirittura
Gar-gnano.
Ciò non basta a placare nell'immedia-to la curiosità e la pau-ra. I
turisti sono divisi tra coloro che escono in motoscafo solo per andare
alla baia e co-loro che rifiutano di salire sui natanti se è prevista
quella rotta. La gente che vuol parlare del «mostro» con i pescatori
affolla le osterie, dove gli affari vanno a gonfie vele e dove è
pos-sibile parlare con chi conosce bene le acque pro-fonde del lago.
Luigi Malfer, un pescatore di Garda, mette in correlazione
l'avvistamento del «mostro» con un altro fatto insolito occorso in
quegli stessi giorni: le reti lasciate dai pescatori locali nella Baia
del-le Sirene, durante quello stesso mese, sono state strappate e
oltre cinque quintali di sardelle sono state divorate da un predatore
misterioso.
-
Il «drago» (come viene chiamato da taluni, forse perché le sue
caratteristiche corrisponde-rebbero a quelle degli antichissimi sauri
erbivori) divide le opinioni della comunità stretta attorno al lago.
-
In mancanza di avvistamenti successivi e di una spiegazione
risolutiva, e data la prossimi-tà territoriale della città di Verona alla
località dell'avvistamento, il «drago» viene anche corre-lato alla
costola animale custodita nell'Arco della Costa in piazza Erbe, nel
pieno centro della città scaligera, e ai due coccodrilli antichi, reperti
che si trovano a Grazie di Curtatone, lungo lo scorre-re del Mincio, e
presso il santuario di San Michele Extra a Verona.
Altre leggende locali hanno contribuito a tes-sere una tela di
mistero e di possibilità intorno ai "mostri" del Garda e degli altri laghi
morenici: come quella che ipotizza l'esistenza di una rete di cunicoli
sotterranei che collegherebbero le ac-que dei diversi bacini, creando
così opportunità infinite di passaggio e di nascondiglio tra di essi.
Al fascino di avvistamenti e leggende di crea-ture insolite si è
affiancato il mito dei draghi che ha trovato, vicino al lago, un
ambiente favorevo-le alla sua diffusione.
Diverse sono le storie locali che vedono pro-tagoniste queste
creature, soprattutto nelle valli trentine a ridosso del lago. Ma anche
le località stesse del Benaco non sono immuni dall'essere state,
secondo tali racconti, il teatro della lot-ta tra uomini e draghi, come
pare sia stato per la Rocca di Garda, reggia del re dei Longobardi
Ortnit. Costui rapì una principessa orientale per farne la sua sposa,
ma dal suocero offeso ricevet-te un terribile regalo: due uova di
drago che si schiusero seminando il panico nella regione
be-nacense. Solo l'intervento di un giovane eroe di nome
Wolfdietrich, dopo la morte di Ortnit, mise fine alla distruzione
operata dai due mostri.
Dalla più spaventevole mostruosità alla pura bellezza delle
sponde: molte leggende del lago si legano allo splendore di queste
rive; come quando Benaco, il dio del lago, sedusse Egle, la più
anziana delle sorelle Esperidi (custodi delle mele d'oro degli dèi,
rubate con l'astuzia da Erco-le), che portò sul lago i preziosi cedri
che ancora oggi danno vita alla Riviera dei Limoni e alle
ca-ratteristiche limonaie; oppure quando Nettuno, dio del mare,
preferendo in realtà il lago, dichiarò guerra a Benaco per scacciarlo,
ma fu sconfitto da Giove, che lo condannò a tributare oro dal mare a
Benaco per nutrire i carpioni che prolife-ravano nel lago.
Al paesaggio sul Benaco non restarono in-differenti neppure le fate:
si racconta che la fata Orcana, di passaggio per andare a trovare
nelle terre del Nord la sorella Morgana, vedendo la bellezza del lago
ne fu così ingelosita da provo-care una terribile tempesta. La riviera
fu invasa da un nugolo di cavallette, che ne divorarono la
vegetazione per giorni, e solo una benedizione mise fine allo
scempio.
Mentre oggi avvistare un mostro benacense è privilegio di pochi, e
avvenimento probabil-mente casuale, se si vogliono seguire le orme
degli dèi del lago vi è la possibilità di individuare le tracce che essi
hanno lasciato lungo le spon-de gardesane. Oltre ai toponimi, qua e
là resti di templi antichi, are votive e statue celebrative consentono di
seguire le suggestioni che nasco-no dall'incontro tra l'incantevole
lago e la mitolo-gia. Così a Manerba sulla Rocca, a San Felice sulla
Parrocchiale, nel municipio di Moniga, su Punta San Vigilio a Garda,
a Malcesine, a Cassone, a Riva e nell'entroterra trentino, si può
cogliere quel sottile e ancestrale patto tra il lago e i suoi dèi.
1.22 Il biscione di Milano
Il biscione di Milano
Tra miti e leggende
VINCENZO DI GREGORIO
Era una giornata afosa di fine estate di qualche anno fa, e due
amici stavano ar-rampicandosi sulle cime del Monte Barro (922 mt
sul livello del mare).
Questo monte fa parte della catena montuosa delle prealpi
Luganesi e si trova nel triangolo La-riano, e più specificatamente si
erge imponente sopra la città di Lecco e del suo Lago. La diffe-renza
di quota tra la città di Lecco (circa 200 mt) e quella della cima del
Monte Barro (922 mt) ci dice come la montagna si erga con un salto
di 700 mt, quasi perpendicolarmente sopra quel ramo del lago di
Lecco.
Quel giorno i due amici avevano appena rag-giunto la seconda
delle tre cime del monte Bar-ro, e per riposarsi si erano sporti ad
ammirare la splendida vista che si gode su Lecco e su tutti i territori
circostanti. Dopo qualche estasiato mi-nuto uno dei due richiama
l'attenzione dell'altro verso uno spettacolo curioso che avveniva nel
punto in cui il fiume Adda si allarga diventando "lago". In quel punto
è stato costruito uno dei tre ponti che collegano le due sponde in
prossimità della città di Lecco.
Come si è detto, si era alla fine dell'estate e non vi erano state
piogge da mesi. Il livello dell'Adda e del lago era ai minimi storici, e
dall'alto con la luce radente del sole al tramonto si riuscivano a
vedere le alghe del fondo del fiume Adda. Una cinquantina di metri
prima del ponte, lo sguardo dei due amici si soffermò su una insolita
scena di "caccia". Uno strano pesce, con andamento si-nuoso,
inseguiva una miriade di pesciolini che brillavano sotto il pelo
dell'acqua scappando in ordine confuso su un fronte di diverse
decine di metri. Il "pesce" sembrava più una biscia che un pesce
"tradizionale", per le ampie curve descrit-te dal suo corpo. La scena
durò pochi secondi... frazione di tempo che ha impiegato quel
gruppo di pesci a nuotare dall'Adda al Lago di Lecco, pas
-
Il silenzio che era caduto tra i due amici fu in-terrotto solo da una
frase pronunciata da uno dei due:
La "cosa" infatti, nel passare sotto il ponte, era transitata vicino a
un deposito di autobus che si trovava sulla sponda destra del fiume
Adda, e solo in quell'istante il confronto con un autobus ha dato, per
la prima volta, un'esatta indicazione delle sue reali dimensioni. Quel
pesce "sinuoso" era grande quanto un autobus e mezzo... tradot-to
in cifre: circa 10/12 metri.
Forse
Di questo avvistamento si è data comunica-zione, in quegli anni,
in vari forum.
Nel marzo del 2006 si è tenuto un convegno a Como su quello
che viene chiamato il "Lariosau-ro", cioè una specie di "mostro" che
saltuariamen-te appare e spaventa la gente del luogo, tanto da
meritarsi l'epiteto di LARIO-Sauro.
In quel convegno si è parlato anche di questo avvistamento, ma
gli "esperti" ivi convenuti han deciso di attribuire poca credibilità al
racconto, adducendo l'ipotesi che il "pesce sinuoso" altro non fosse
che un insieme di altri pesciolini che si muovevano all'unisono,
dando la sensazio-ne di essere un'unico pesce. A volte gli esperti
esprimono dei pareri molto "prudenziali", anche se non hanno dati
sufficienti per emettere una "sentenza". Per inciso, detta spiegazione
è sem-pre stata decisamente rifiutata da chi ebbe ad osservare il
fenomeno. Ma questo avvistamento è stato forse l'ultimo di una serie
interminabile di altri, tanto che si è pensato fosse opportuno
ri-percorrerne la storia al fine di discernere quanto sia "leggenda"
dall'effettiva "realtà".
Molti conoscono il simbolo di Milano per averlo visto riprodotto, a
volte a sproposito e con varianti, sulle magliette del Milan, sulle
macchi-ne dell' Alfa Romeo o sulle reti televisive di Me-diaset: un
biscione con in bocca "qualcosa".
L'origine del Simbolo risale al 1100, come stemma della casata
Visconti. Ritrae un serpen-te mentre mangia un "bambino". Mediaset,
forse ritenendo troppo cruento il simbolo, ha sostitui-to il bambino
con una margherita. Come mai un simbolo così particolare è
diventato lo stemma del capoluogo lombardo?
Vi sono diverse leggende, ma sostanzialmen-te le più accreditate
son due.
La prima, riportata da Bonvesin de la Riva nel De magnalibus urbis
Mediolani (1288), sostiene che:
-
-
Il serpente in questione non sembra però in-ghiottire un "saraceno
rosso", bensì un bambino.
Occorre quindi citare la seconda versione dell'origine del "biscione".
La leggenda narra che poco dopo la morte di Sant'Ambrogio, a
Milano arrivò un drago. La be-stia viveva in una caverna fuori dalle
mura. Spes-so qualche viandante finiva mangiato dal drago. Molti
cavalieri milanesi tentarono di liberare la città dall'indesiderato ospite,
ma finirono tut-ti divorati. La notizia si sparse e in breve tempo la
situazione divenne insostenibile; gli abitanti avevano paura ad uscire,
le vie di comunicazione con le altre città erano bloccate e il
commercio era praticamente scomparso, Milano era blocca-ta. Un
giorno Uberto Visconti giunse alla dimora del drago proprio mentre
esso stava divorando l'ennesimo bambino. Uberto prima liberò il
bam-bino, poi cominciò la sua battaglia con il drago. I cronisti
dell'epoca ci dicono che il duello durò due giorni. Solo al tramonto
del secondo giorno Uberto ebbe la meglio. Tagliò la testa del drago e
rientrò trionfante a Milano. Il Visconti, a futura memoria, decise di
raffigurare il drago che divo-rava il bambino sullo stemma della sua
famiglia.
A riprova di quanto sopra, le cronache riporta-no che il corpo del
"drago" fu portato sulla piazza del Duomo per essere mostrato alla
folla ricono-scente, e lì fu esposto per una decina di giorni. Poi, a
causa del malodore, fu portato a decom-porsi altrove, e lo scheletro
fu donato ad una chiesa che, per tenerlo esposto per sempre, lo
appese al soffitto. In effetti vi son diverse chiese nel milanese che
espongono grosse ossa, ma si-nora si son rivelate solo ossa di
qualche cetaceo.
La leggenda continua descrivendo altri avvi-stamenti simili tanto
da dare un nome al "mo-stro", che ci viene tramandato come "drago
Ta-rantàsio".
Questo nome è anche intimamente legato a quello di un lago,
anch'esso misterioso e scom-parso, quale il Lago Gerundo.
Di questo lago però si conoscono molti più dettagli.
Fino al XIII secolo le province di Milano, Lodi, Bergamo e
Cremona ospitavano un ampio baci-no idrico. Questa grande distesa
d'acqua era co-nosciuta come "Mare Gerundo" (o Lago Gerundo o
Gerondo). Più che un vero e proprio lago, è pro-babile che il
Gerundo fosse un insieme di paludi e acquitrini collegati dalle
frequenti esondazioni dei fiumi circostanti. I primi accenni al lago
Ge-rundo risalgono all'epoca romana (se ne fa rife-rimento, ad
esempio, nelle opere di Plinio il Vec-chio) ma le descrizioni più
dettagliate si hanno nel periodo medievale, negli scritti dello storico
del VII secolo d.C. Paolo Diacono e di altri cronisti dell'epoca. Del
suo prosciugamento esiste inve-ce una data leggendaria: il
capodanno del 1300. In realtà già a partire dal XI secolo andò
riducen-dosi di estensione e si prosciugò definitivamen-te nel corso
del XIII secolo, probabilmente per le ingenti opere di bonifica
intraprese dai monaci cistercensi, benedettini e cluniacensi prima e
dal comune di Lodi poi. Questo bacino dalla scarsa profondità (le
sue acque non scendevano al di sotto di una decina di metri) aveva
però un'e-stensione ragguardevole. Pur essendo difficile tracciare
dei confini precisi, nel momento della sua massima ampiezza il
Gerundo arrivava fino a Brembate (BG) a nord, fino a Pizzighettone
(CR) a sud, lambendo con le sue acque la città di Lodi a ovest e
Grumello Cremonese (CR) a est. Al suo in-terno, il lago conteneva
una lunga striscia di ter-reno, detta originariamente isola della Mosa,
e poi isola Fulcheria. Qui, in un periodo compreso tra il IV e il VI
secolo d.C., fu edificata Crema (CR).
Sulla sua esistenza abbiamo prove geologi-che, archeologiche,
documentali. L'esplorazione del territorio del Gerundo, e cioè la
provincia di Bergamo nella parte meridionale, la provincia di
Cremona nella parte superiore, oltre al Lodigia-no e a tutto il
Cremasco, muovendosi tra musei, chiese, ruderi, cave di ghiaia,
remoti angoli di campagna dove il terreno è "inspiegabilmente" fatto
come la sponda di un lago, consente un viaggio dentro una storia
che i libri ignorano. Una storia che sul posto, però, non è stata
dimentica-ta. Ad esempio a Lodi e a Crema possiamo tro-vare strade
dedicate alla leggenda: Via Lago Ge-rundo, Vicolo Gerundo. La
parola "gera", o "ghera", che significa ghiaia e dà il nome al lago
Gerundo (
-
A Soncino, un paese di questa zona, troviamo una leggenda che
lega il lago Gerundo al "drago Tarantasio, o Tarànto, descrivendolo
come il più feroce degli abitatori del lago Gerundo.
Lo storico Francesco Castiglioni, nella sua opera "Antichità di
Milano", riporta un testo con-servato presso l'archivio dei monaci
Olivetani: «
-
parve prodigiosamente un
velenoso e mostruoso serpente, che col solo alito pestifero infestava
tutta la città; per cui molti dal pessimo puzzo ammor-bati, morivano.
Contagio e infermità facendosi di giorno in giorno maggiori e
scemandosi assai il numero degli abitanti, e la città dalla furia
dell'ac-qua essendo invasa, grandemente i cittadini se ne
accoravano, e tanto più l'affluizione s'aumentava, quanto meno
fosse sperabile rinvenire rimedio che valesse a guarire gli infetti, o a
prosciugare l'acqua, o ad estinguere l'animale stesso. Epperò
stando tutti gravemente ín angustia, si rivolsero alla Divi-na Maestà,
colla ferma speranza ch'essa nessuno respinga che con puro cuore
le si raccomandi. Ma perché più facilmente ciò che tanto bramavano
avessero a conseguire, il Reverendissimo Bernardi-no Tolentino,
allora vescovo della città, convocato il clero e tutto il popolo, tenne
loro pietoso sermo-ne in cui efficacemente pregavali perché con
tut-to il calore del cuore e con tutta la pietà levassero preghiere a Dio,
onde sì degnasse liberare questo suo popolo da quella pestifera
strage. Il medesimo Reverendissimo Vescovo sancì che si facessero
per tre giorni continui solenni processioni e si stabilisse un voto: che
se Dio operasse che, preso da compas-sione di quella mortalità, gli
avesse a campare da quella velenosa fiera, erigerebbero un tempio
in onore della santissima Trinità e del glorioso mar-tire Cristoforo. Né
fu certamente quella una vana speranza, perché compite le
processioni, e dato il voto, in quello stesso giorno, che fu il primo di
gen-naio, si ottennero due memorabilissimi miracoli, che morisse
cioè l'infestissimo drago e si prosciu-gasse quell'immenso lago.
Laonde i pii cittadini, di questo beneficio immensamente riconoscenti,
edificarono un magnifico tempio, come avevano promesso col voto,
il quale tempio fu poi più augu-stamente riedificato dai Reverendi
Padri della Con-gregazione Olivetana nell'anno 1563
Secondo Luciano Zeppegno, grande cronista delle curiosità e
delle stranezze sparpagliate nel-le nostre contrade, nella chiesa di
Sant'Andrea di Lodi era custodito addirittura uno scheletro completo
di Tarantasio. Un osso gigantesco, e precisamente una costola di
drago del Gerundo, è ancora oggi visibile appesa al soffitto della
sa-crestia della chiesa di San Bassiano, a Pizzighet-tone. La costola,
probabilmente, appartiene a una balena fossile o a un elefante.
Scheletri di balene sono stati spesso rinvenuti sulle Prealpi e,
soprattutto, sull'Appennino che si affaccia sulla Pianura Padana.
E si potrebbe andare avanti ancora per molto, citando altre storie e
leggende sulla convinzione da parte degli abitanti di questi luoghi
che una specie di mostro esistesse davvero e si aggirasse nelle
acque melmose di questo lago acquitrino-so. Ma il Gerundo era
collegato ad un ricco siste-ma idrico che faceva capo al fiume Adda
e quindi al lago di Como/Lecco, con cui l' Adda è collega-to. Giova
ricordare che il lago di Lecco è il lago più profondo d'Italia ed il
secondo d'Europa.
Pochi infatti sanno che nessuno conosce la sua profondità effettiva,
che si stima comunque superiore ai 900 metri. Una notevole massa
di se-dimenti e di sassi caduti dalle montagne franose circostanti han
portato il fondo effettivo del lago intorno ai 420 metri. Infatti vi è stato,
in un pas-sato geologicamente vicino, un grosso sposta-mento della
parete occidentale del lago di Lecco che ha portato alla formazione
delle due più alte montagne in zona (Grignia e Grignetta) e
collate-ralmente all'allontanamento delle due sponde. Questo ha
creato una specie di "fenditura" dalla profondità di quasi 1000 metri,
in cui si è riversa-ta l'acqua del lago di Como, creando il "braccio" del
lago di Lecco.
Successive frane e smottamenti hanno porta-to il fondale a riempirsi
di detriti.
Questo fondale pieno di sassi e macigni po-trebbe dare rifugio a
specie animali poco studia-te che, per le profondità in questione,
potrebbe-ro ben essere chiamate "pesci abissali".
L'ipotesi che alcuni hanno avanzato è che questi animali, di norma
viventi a quote molto profonde, in occasione di periodi
particolarmen-te difficoltosi per l'approvvigionamento di cibo (quali
mesi di prolungata siccità), possano por-tarsi a quote "superficiali"
ed essere avvistati in queste rare occasioni.
Per completezza d'informazione vi è da riferi-re l'origine del nome
del "mostro" attuale: LARIO-SAURO.
Nel 1839 Balsamo Crivelli fece la prima descri-zione di un esemplare
fossile di "pleiosauro" ritro-vato a Perledo (LC), ma reputò
-
zione divenga un superfluo sinonimo"
Trattasi di un "pleiosauro", un fossile di un animale esistito nel
periodo del triassico (230 milioni di anni fa) che abitava realmente
questo lago, un mostro marino il cui habitat naturale era appunto
l'acqua, dove si muoveva agevolmente grazie alle sue pinne. La
grandezza dei fossili ri-trovati raggiunge quella di un metro, ma
esem-plari di pleiosauri rinvenuti in altre località nel mondo
raggiungono facilmente i 10/12 metri di lunghezza.
Sarebbe facile saltare alla conclusione che questa "razza" sia
sopravvissuta a quelle ere così lontane e che ancora qualche
esemplare viva na-scosto negli abissi del lago.
In ogni caso, questo rinvenimento ha fatto ribattezzare il mostro
del lago di Como/Lecco da Tarantario a Lariosauro (o
confidenzialmente "LARRIE").
Ma le descrizioni degli sporadici (ma continui) avvistamenti non si
"attagliano" alla figura di un pleiosauro. L'avvistamento citato
all'inizio asso-miglia più ad un "regaleco", pesce che ha la forma di
un'anguilla schiacciata ai lati. L'unico proble-ma è che questa razza
di pesce vive solo in mare, in acqua salata e non in acqua dolce.
Ma vi sono state molte altre segnalazioni. Questa è del 1946 e
viene raccontata da Giovan-ni Galli nel suo libro
A Bellano vi era un abitante che ci viene de-scritto con lo
pseudonimo di "partigiano Panàn".
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Panàn non aveva avuto alcun credito a Bellano quando raccontava
la storia di questo suo mostro e soprattutto quando raccontava che
secondo lui c'era questa associazione che cioè il mostro fosse una
reincarnazione del duce. Poi un bel giorno esce a pescare insieme al
fratello e, non sapendo bene dove andare, si dirigono con la barca
nella zona delle Grosgalle, zona costiera che si trova tra Bel-lagio e
Lezzeno, nella quale già Paolo Giovio aveva segnalato l'esistenza di
alcuni pesci di dimensioni e di comportamento del tutto insoliti che lui
aveva definito i burberi delle Grosgalle. Intanto che sono lì a cercare
di pescare qualcosa da portare a casa per la cena hanno il secondo
incontro con il mostro e questa volta Panàn non è più solo e quindi la
cosa comincia ad avere una consistenza.
Il mostro si manifesta emergendo dalle acque più o meno come
viene dipinto nella copertina del libro, con questo aspetto truculento,
con questa bocca piena di denti, probabilmente un po' troppi rispetto
a quanti avrebbe potuto averne. Quindi Panàn e suo fratello si
prendono proprio un bello spavento. Panàn era abbastanza abituato,
ormai, all'idea che ci fosse questo mostro, ma il fratello, che non
aveva dato molto credito alle affermazioni di Panàn, questa volta si
rende conto che c'è davve-ro qualche cosa nel lago".
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Questi scienziati, ci informano che sono og-getti di studio molti
laghi per le svariate segnala-zioni di "mostri" simili a quello del lago
di Lecco.
Il più famoso e popolare mostro lacustre è il mostro di Loch Ness
che si dice esistere nel lago Loch Ness in Scozia. Un mostro simile a
questo è l'Ogopogo avvistato nel lago Okanagan, nel mezzo della
British Columbia. Un certo nume-ro di storie di mostri simili sono
inoltre relati-ve ad altri laghi americani come Manipogo nel lago
Manitoba e Champ nel lago Champlain. Nel lago Nahuel Huapi,
Argentina, si pensa viva Nahuelito. Altri luoghi di avvistamenti sono il
lago
di
Van
in
Turchia,
(http://www.youtube.
com/watch?v=0GsxRlGQbso) il lago Flathead in Montana, il lago
Tianchi in Cina e il Fiume Bianco in Alabama. Il lago di Fulk vicino a
Churubusco nell'Indiana si dice sia abitato dalla bestia di Bu-sco.
Anche il lago più profondo, esteso ed antico del mondo, il lago Baikal
in Siberia, è stato detto essere dimora di una di queste creature.
Per ultimo non possiamo non citare un avvi-stamento descritto da un
gruppo musicale lec-chese (Van Der Sfross ), che ha scritto una
canzo-ne dedicata proprio a questo "mostro".
Sarebbe stata ispirata da un'intervista fatta ad un pescatore anziano
in una casa di riposo, che avrebbe avuto un'incontro ravvicinato con
que-sta creatura in una notte buia al centro del lago.
Per chi volesse leggere l'intero testo riportia-mo un link:
http://www.testitradotti.it/canzoni/ davide-van-de-sfroos/el-mustru
Per
chi
volesse
sentire
l'intera
canzone:
http://
www.youtube.com/watch?v=M-ri42e7WDA
...Finiamo con la descrizione del pescatore di Van der Sfross:
ho visto coprirsi il cielo
e la luna cadere giù
era fatto come un'anguilla,
era grosso come un battello
e mangiava tutte le stelle,
una biscia incatramata,
con la bocca spalancata
e occhi dell'altro mondo...
un mostro, ma non era il film dell'oratorio
un mostro, venuto in un tempo che non era più il suo
ho visto il mostro, ho visto il mostro.
Vincenzo Di Gregorio
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Piramidi Lombarde
2 Due ponti e un albero conservano la
"memoria" del Cotonificio Dell'Acqua
Due ponti e un albero conservano la "memoria" del
Cotonificio Dell'Acqua
(g.somazzi) - Due ponti (di cui uno in stile Liberty) e un pino. Sono le
uniche tracce rimaste, che fanno compagnia al ricco passato
industriale, dell'ex Cotonificio Dell'Acqua di cui oggi, lunedì 18
agosto, ricorre il 45esimo anniversario del suo abbattimento.
Fino al 1969, infatti, il noto stabilimento sorgeva proprio dove
oggi si trova il parcheggio pubblico di via Gilardelli (350 posti
auto e dal 2009 gestito da Amga), l'edificio dell'ex Tribunale e il
parchetto di via Diaz.
E' quindi passato quasi mezzo secolo da quando le ruspe hanno
raso al suolo l'enorme cotonificio costruito su un'area di circa
55mila metri quadrati: un cambiamento radicale con il quale è
stato modificato completamente il "volto" del centro cittadino.
Infatti, nel luogo in cui i legnanesi del XXI secolo posteggiano le loro
auto e passeggiano tranquillamente nel parchetto lungo
l'Olona, tra la fine del 1871 e al 1967 migliaia di operaie
lavoravano nei vasti capannoni di Carlo Dell'Acqua.
Una realtà produttiva rimasta impressa in bianco e nero nella
memoria collettiva della comunità, come testimonianza dello
splendore industriale che ha portato la città a conquistare la
definizione di «Legnano, la Manchester d'Italia».
Ma l'ex Cotonificio può ancora oggi contare su tre "memorie"
sopravvissute fino a oggi: si tratta del vecchio pino all'entrata del
parcheggio e di due ponti sull'Olona che collegavano le due parti
dell'industria divise dal fiume. E' da ricordare poi che il ponte in stile
Liberty costruito nel XIX secolo fu restaurato nel 1992 con il
contributo del "Lions Club Legnano Carroccio", intervento ricordato
con un cartello e una targa posizionata sul parapetto del passaggio
stesso.
3 Una famiglia, una saga I " cotonatt " De Angeli
Frua
Una famiglia, una saga I " cotonatt " De Angeli Frua
Storie di Milano ritrovate in un romanzo
Una famiglia, una saga I "cotonatt" De Angeli Frua
C' e' la Saga dei Forsythe, ma c' e' anche la Saga dei De Angeli Frua.
La racconta, in un suggestivo volume, che e' insieme
autobiografia e quadro di costume, Cristina Frua De Angeli. Il
libro s' intitola: Ma chi e' questa bella principessa? (Editore
Spirali Vel).
Ne seguiamo qui le vicende principali. Carlo Frua era nato a Intra nel
1810. laureatosi in medicina divenne pediatra della Ca' Granda,
amato come un padre dai trovatelli del Santa Caterina.
Dal matrimonio con Teresa Minola ebbe due figli: Giovanni, medico
anche lui, che sposo' la figlia naturale di Poldi Pezzoli; e
Giuseppe, affettuosissimo ma che gli dava qualche pensiero
per il suo carattere un po' troppo vivace. Carlo Frua era molto
colto e amava scrivere.
A 53 anni pubblico' un libro con un titolo di timbro morale: "Una seria
educazione" che ebbe successo di critica e di pubblico. In effetti
erano "considerazioni e raccomandazioni" sotto forma di lettere
ai figli (Giovanni di 17 anni e Peppino di 12) che dovevano
essere lette quando i due ragazzi avessero raggiunto i vent'
anni.
E fu al raggiungimento di questa data che pubblico' anche il libro. Le
sue raccomandazioni erano principalmente rivolte al "diletto
figlio Peppino"... "Il celibato e' affar serio... Il matrimonio diventa
una necessita' ... Non ti seduca l' idea di sposare una fanciulla
anche se onestissima se non ha i suoi rispettivi quattrini... Non
un matrimonio di capriccio perche' tutto pagherai dopo". Poi
arrivava alla parte pratica.
Accortosi che Peppino, piu' che agli studi classici, fosse adatto ai
commerci, per poterlo avviare a tale attivita' , riusci' a trovargli
un posto in Germania, presso una tintoria tessile. Si trattava,
come succede al principio, di un impiego modesto, ma
nonostante cio' , il ragazzo si fece ugualmente notare: il
principale lo volle nel suo ufficio.
Qui si accorse che i maggiori clienti per la coloritura dei tessuti erano
lombardi, perche' non essendoci da noi alcun stabilimento del
genere dovevano necessariamente rivolgersi all' estero. In
Giuseppe scatto' l' orgoglio dell' eta' giovanile: giuro' a se stesso
che, una volta rientrato in Italia, si sarebbe dedicato a
potenziare il suo Paese nel settore dell' industria tessile.
Tornato con questa vocazione, comincio' a girare da porta a
porta per vendere scialli per conto del lanificio Caprotti.
Ma anche il mestiere di venditore ambulante lo fece per poco,
perche' venne assunto dal cotonificio Cantoni. Il giovane, che
aveva vent' anni, fu destinato in una delle manifatture dove,
come capo responsabile, c' era un tale Ernesto De Angeli. E qui
comincia l' avventura.
Alla morte del padre, che aveva lasciato la vedova e cinque figli,
Ernesto De angeli, ch' era il maggiore, era costretto ad
abbandonare gli studi per mettersi a lavorare. Aveva bussato
alla porta del cotonificio Cantoni, dove si era presentato con un
biglietto di raccomandazione che diceva: "Giovane sveglio,
figlio di madre vedova, fratello maggiore di quattro sorelle".
Al vecchio Cantoni, banchiere e imprenditore, Ernesto piacque. Ne
aveva intuito l' intelligenza e l' intraprendenza e piu' tardi lo
mando' in giro, in Germania, in Francia e in Inghilterra perche'
acquistasse esperienza nel campo dei tessili. Erano gli anni
della rivoluzione industriale e tanta era la fiducia che Cantoni
aveva riposta in lui che poco dopo gli affido' l' incarico di
acquistare tutto il macchinario necessario per sostituire la
vecchia lavorazione a mano con quella meccanica, un compito
che svolse con scrupolosa diligenza.
Fu allora che Ernesto suggeri' a Cantoni d' impiantare anche una
fabbrica di tintura per colorare e stampare le stoffe: un' idea
felice che dette subito i suoi frutti. Come si e' detto, alla Cantoni
lavorava anche Giuseppe Frua. I due s' incontrarono, si
frequentarono, divennero amici e divennero anche cognati:
Giuseppe aveva sposato Anna, una delle quattro sorelle di
Ernesto De Angeli.
Piu' tardi tutti e due lasciarono la Cantoni: Ernesto si mise in proprio
impiantando una tessitura; mentre Giuseppe apri' a Legnano
una filatura. Qualche anno dopo si fusero riuscendo cosi' a
realizzare l' intero ciclo di produzione: dalla filatura, alla
tessitura, alla stamperia. La De Angeli, divento' la De Angeli e C.
Ernesto De Angeli fu un uomo straordinario. Aveva sentimenti
altruisti, che lui chiamava doveri verso la collettivita' : fondo' la
Cassa di previdenza per gli operai; istitui' la polizza per gli
infortuni sul lavoro; fu l' antesignano della legislazione del
lavoro; creo' le strutture per i consumi popolari. Ebbe tutti gli
onori, fino alla nomina a senatore. Affascinato dalla Cultura,
Ernesto aveva un amore e un orgoglio: il "Corriere della Sera",
e dal 1885 ne era diventato con Benigno Crespi e Giovanni
Battista Pirelli, uno dei tre proprietari. Egli riuniva di frequente a
casa sua i grandi nomi delle arti, delle scienze e dell' industria:
da Pirelli a Boito; da Dubini a Luca Beltrami; da Bertarelli a
Rovetta; da Ricordi a Giacosa. Un giorno Giacosa arrivo' in
compagnia di Luigi Albertini che ne aveva appena sposato la
figlia, Piera. A casa De Angeli quella sera c' era anche il
direttore del "Corriere" di allora, Eugenio Torelli Viollier. Fu in
quell' occasione che De Angeli fece conoscere Albertini a Torelli
Viollier, ponendo cosi' la prima pietra alla grandezza
albertiniana del giornale di via Solferino. Albertini era molto
legato a De Angeli e tutto l' affetto che nutriva per lui traboccava
dall' articolo che scrisse il giorno dopo della scomparsa dell'
amico che mori' nel gennaio del 1907, a 58 anni. Albertini gli
dedico' un' intera pagina nella quale tra l' altro diceva: "...Amo'
intensamente le arti e si diede allo studio delle questioni e alla
realizzazione delle istituzioni sociali, alla vita amministrativa e
alla politica con lo stesso ardore che portava nell' attivita' ... Noi
che l' abbiamo seguito nella vita pubblica e privata con quell'
ammirazione che a Milano gli dimostrarono avversari e amici,
possiamo ben dire che Milano perde uno dei piu' illustri e
benemeriti suoi figli d' adozione". Ernesto De Angeli non aveva
figli. Aperto il testamento, si trovo' espressa una sua volonta' : in
nome della grande amicizia che l' aveva legato per trent' anni a
Giuseppe Frua, marito di sua sorella, egli disponeva che il loro
primogenito potesse aggiungere al proprio cognome Frua
quello di De Angeli. Dopo la morte di Ernesto tutto passo' nelle
mani di Giuseppe. Gli stabilimenti continuarono a crescere, il
prodotto divenne competitivo anche all' estero e le esportazioni
raggiunsero punte altissime. Frua aveva preso a cuore le
condizioni degli operai: era convinto che quanto piu' la
provvidenza era dalla sua parte, tanto piu' doveva impegnarsi in
favore degli altri. Con l' arrivo di Carlo al timone dell' azienda,
dopo la morte di Giuseppe, entro' la nuova generazione dei De
Angeli Frua: e alla scomparsa di Carlo, nel 1969, arrivo' Ernesto,
erede di una stirpe di industriali tessili, cresciuto fra libri preziosi
e quadri celebri. Piu' che il piglio dell' industriale Ernesto aveva
l' estro del creativo. Aveva fondato la Motom per la costruzione
di un motociclo da lui stesso disegnato, concorrente della
Vespa, e che come la Vespa ebbe grande successo di vendita.
Aveva per moglie una dolce creatura, discendente da una
gande nobilta' austriaca, Elisa. Ebbero tre figli. Marito e moglie
si scrissero lettere d' amore durante tutta la vita.
Avevano case a Venezia, Capri, Portofino, Parigi, Positano, San
Remo, Milano. E quadri di Braque, Picasso, Modigliani,
Kandinskij, Morandi, Sironi, Campigli, De Chirico, Le' ger,
Matisse, De' gas, Carra' . Tutto questo e' raccontato nel libro di
Cristina Frua De Angeli: "Ma chi e' questa bella principessa?",
dove l' autrice, attraverso l' io narrante di nome Idina ci da'
pagine molto belle con squarci di alta poesia. C' e' soprattutto la
rappresentazione dell' angoscioso groviglio psicologico che
andava formandosi in una giovane donna, bella e romantica,
cresciuta in un ambiente di grande ricchezza e potenza, ma
anche di grande solitudine. Questa inquietudine esistenziale
aleggia attraverso tutto il racconto, anche se la dolcezza di certi
ricordi e' cosi' forte da arrivare ad essere strazianti: le pagine
sulla madre sono esemplari. Morti i genitori a breve distanza l'
uno dall' altro, improvvisamente sola, Cristina lascia la casa al
mare e torna a Milano. Qui e' decisivo l' incontro con lo
psicanalista Armando Verdiglione, che piu' tardi sposera' (nel
libro Verdiglione e' chiamato "l' Africano"). La sua vita ne viene
cambiata: segue l' universita' , frequenta i circoli intellettuali,
entra nell' ambiente della psicanalisi, diventando essa stessa
analista, prende parte a convegni, lavora e finalmente trova la
sua completezza intellettuale e umana. Un' autobiografia,
scritta con finezza e con grande phatos, che puo' essere
considerata un bel romanzo del Novecento.
Afeltra Gaetano
4 Fetonte
Fetonte
FETONTE: figlio di Elio e dell'oceanina Climene. Fu allevato dalla
madre senza ch'egli sapesse chi fosse suo padre. Divenuto
adolescente, l'amico Epafo mise in dubbio la paternità che
dichiarava; Climene allora lo inviò alla dimora di Elio. Dopo un
lungo viaggio il giovane raggiunse infine il palazzo del padre, ed
Elio, per provargli il suo affetto paterno, offrì d'esaudirgli un
desiderio. Fetonte domandò di poter guidare il cocchio solare in
cielo per un giorno. Invano Elio cercò di convincere il figlio a
desistere dalla richiesta; ma, ancorché profondamente
preoccupato, fu costretto ad accondiscendere dopo mille
raccomandazioni.
Elio, dopo averlo istruito, gli consegnò il carro. Il giovane voleva dar
prova della sua abilità alla sorelle e sua madre lo incoraggiò
all'impresa. Ma poiché gli mancava la forza necessaria per
controllare lo slancio dei bianchi cavalli che le sue sorelle
avevano aggiogato al carro, si lasciò trascinare dapprima così
alto nel cielo che tutti i mortali rabbrividivano per il freddo, e poi
così vicino alla terra da inaridire i campi. Zeus, in un impeto di
collera, lo annientò con la folgore e Fetonte precipitò
nell'Eridano, fiume favoloso, generalmente identificato col Po.
Le sue sorelle, le Eliadi, ne piansero la morte a lungo, sì che
dagli dèi furono trasformate nei pioppi che svettano lungo le
rive del fiume e le loro lacrime divennero ambra. Fetonte venne
successivamente mutato nella costellazione dell'Auriga.
mitologia.dossier.net/fenice.html
Fetonte
Tra Epàfo, uno dei tanti figli di Giove, e Fetonte, figlio di Apollo, non c'era mai
pace perchè il primo era maligno e invidioso, e il secondo non aveva un
carattere abbastanza mansueto per sopportare le sue offese e le sue
malignità. Un giorno poi Epàfo disse a Fetonte di non montare tanto in
superbia perchè non era vero che era figlio del Sole e gli suggerì di
chiedere alla madre, la ninfa Climène, chi fosse realmente suo padre.
Fremente d'ira e d'impazienza, Fetonte si recò a trovare la madre e le
chiese se Epàfo avesse detto il vero. Climène abbracciò il figlio e gli
giurò che Epàfo aveva mentito, perchè effettivamente egli era figlio di
Apollo, il biondo dio del Sole.
Ma Fetonte non si ritenne pago del giuramento della madre, e volle andar a
parlare con Apollo stesso. Attraversò l'Etiopia e l'India, e giunse
finalmente alla reggia paterna, che Vulcano aveva costruita in oro,
argento, avorio, profondendovi anche smeraldi e rubini. Il dio sedeva in
trono, e gli facevano compagnia i membri della sua corte: ossia le
Stagioni, i Mesi, gli Anni, i Giorni e le Ore: di queste ultime dodici erano
avvolte in veli candidi, e dodici in veli neri. Apollo, alla vista del figlio,
rimase grandemente stupito: rimessosi dalla meraviglia gli chiese per
qual motivo avesse osato compiere un così lungo viaggio attraverso
regioni aride e inospitali; e Fetonte gli ripetè la domanda già fatta alla
madre. E cioè se fosse lui il suo vero padre. Il dio rispose
affermativamente e, per meglio convincerlo aggiunse: - Per dartene la
prova suprema, ti giuro per lo Stige che esaudirò qualunque desiderio tu
abbia a esprimermi Vi era una cosa che Fetonte desiderava ardentemente, quindi approfittando
della promessa che gli aveva fatto Apollo, non esitò e così si rivolse al
dio chiedendogli di fargli condurre per un giorno intero il carro di fuoco,
da solo, senz'altri che i cavalli. In questo modo nessuno avrebbe avuto
più dubbi sulla sua paternità. Seppur a malincuore (perchè l'impresa era
molto pericolosa e Fetonte si votava a una morte sicura), Apollo
acconsentì (per non venir meno al giuramento).
Comandò alle prime Ore del mattino che attaccassero i quattro cavalli al carro
di fuoco. Poi sospirando, impartì a Fetonte le istruzioni che, se fossero
state eseguite, avrebbero condotto, sano e salvo alla fine dell'impresa
l'impetuoso giovinetto. Fetonte assicurò il padre che avrebbe agito
secondo i suoi consigli; ma, eccitato com'era per l'avventura
meravigliosa che stava per vivere, non tenne nel dovuto conto le
raccomandazioni paterne. Aveva fretta di balzare sul carro e di
impugnare le redini, e allorchè ebbe fatto ciò, spronò i cavalli a slanciarsi
per lo spazio.
I cavalli però, si accorsero che colui che teneva le briglie non era Apollo, allora
si scatenarono e cominciarono a scalciare e a sbandare senza che
Fetonte riuscisse a farli ragionare. Salirono in alto, tanto in alto da
bruciare una grande zona della volta celeste e la Via Lattea è appunto la
traccia lasciata da quell'incendio; poi scesero in basso rasentando la
terra che prese fuoco. Bruciarono foreste, messi nei campi, città,
inaridirono i fiumi, fino a quando Giove dall'Olimpo pose fine a questa
distruzione scagliando un fulmine che investì l'infelice Fetonte e lo
sbalzò, con le vesti in fiamme, giù dal carro. Come una palla di fuoco,
Fetonte, rotolò per l'aria e andò a cadere nel letto dell'Eridano - il Po che la sua folle corsa aveva prosciugato. Accorsero subito le Naiadi a
compiere il rito funebre, e accorsero anche, piangendo amaramente, le
sorelle dell'infelice giovane, le Eliadi, pur esse figlie del Sole. Alla fine gli
dei, commossi dall'immenso dolore delle Eliadi, le tramutarono in pioppi
sulle sponde dell'Eridano. E questa trasformazione spiegava, agli antichi,
la presenza dei filari dei pioppi che corrono lungo le rive del Po, specie
nel punto in cui la leggenda vuole che sia caduto e sia stato sepolto
Fetonte: questo posto corrisponde all'incirca alla località in cui, più tardi,
sarebbe sorta la città di Ferrara.
5 Il cavaliere in carretta
Il cavaliere in carretta
Narra la leggenda che Lancillotto, dopo aver vagato alquanto nella
sua follia, incontrò un giorno, in una foresta, la Dama del Lago,
che lo prese con sè, lo guarì e lo lasciò poi tornare alle sue
avventure avvertendolo di trovarsi per l'Ascensione nella foresta
di Camaalot.
Quel giorno, infatti, Artù tenne là la sua corte, e tutti erano tristi
perchè Galeotto era morto e di Lancillotto non si avevano più
sue notizie. Improvvisamente si presentò un cavaliere
sconosciuto, il quale lanciava una strana sfida.
"Io sono-disse-Meleagante, figlio di Baudemagus re di Gorra , e
tengo prigionieri nel mio palazzo gran numero di dame e
cavalieri. Vengo a sfidare Lancillotto, che si vanta di essere il
migliore cavaliere: se sarò sconfitto rilascerò tutti i miei
prigionieri, ma, se sarò vincitore, mi sarà consegnata la regina
Ginevra come prigioniera".
Solo Keu, il siniscalco, osò accettare la sfida, ma fu rovesciato a
terra dopo breve combattimento. Così Ginevra fu fatta
prigioniera da Meleagante. Mentre questi si allontanava con i
suoi uomini e la regina , giunse Lancillotto il quale si lanciò
furioso su Meleagante. Ma costui, dopo avergli ucciso a
tradimento il cavallo, fuggì al galoppo trascinando con sè la
prigioniera,e invano Lancillotto, appiedato, tentò di inseguirlo.
Poco dopo, però, incontrò un nano che conduceva una carretta e
che lo invitò a salirvi se voleva rivedere la regina rapita.
Lancillotto esitò un istante perchè, in quei tempi, la carretta
serviva di gogna per i delinquenti e nessun cavaliere si sarebbe
lasciato "carrettare". Ma poi per amore di Ginevra, salì sulla
carretta incurante degli scherni di tutti coloro che incontrava.
Secondo la promessa del nano, il giorno dopo giunsero a un castello
da una finestra del quale Lancillotto potè vedere, in lontananza
la regina e Keu portati prigionieri da Meleagante e ormai giunti ai
confini del regno di Gorra. In quel momento stesso entrava nel
castello Galvano, che anche lui cercava di liberare Ginevra, e i
due cavalieri decisero di tentare insieme l'avventura.
Presto vennero a sapere che nel regno di Gorra si poteva entrare
per due soli ponti che attraversavano un largo fiume: l'uno era il
Ponte perduto, che passava sotto l'acqua, l'altro il Ponte della
spada, costituito da una sola lama tagliente. Galvano scelse il
primo e Lancillotto il secondo: così si separarono.
Dopo varie avventure, Lancillotto giunse al Ponte della spada:
attraversarlo era quasi impossibile perchè la lama tagliava
anche le cotte di ferro e feriva crudelmente le carni, ma
Lancillotto, quando vide Ginevra affacciarsi alla finestra di una
torre, si slanciò senza esitare e senza badare al dolore delle
ferite. Il giorno dopo affrontò Meleagante e lo avrebbe ucciso se
il padre di lui, il re Baudemagus, non fosse intervenuto liberando
Ginevra e permettendo al figlio di sfidare nuovamente Lancillotto
alla corte di re Artù.
Così Ginevra e il suo cavaliere poterono parlarsi e rendersi conto
che tutto era avvenuto per gli inganni di Morgana. Alcuni autori
dicono che Ginevra era però in collera con Lancillotto perchè, al
momento di salire sulla carretta, egli aveva esitato un istante,
cosa che non avrebbe dovuto fare perchè l'amore di un buon
cavaliere deve essere dedizione pronta e assoluta. Comunque,
anche questo corruccio venne superato.
Poi Ginevra tornò al regno di Logres mentre Lancillotto si metteva
alla ricerca di Galvano. Se non che, appena entrato in un
castello, dove gli avevano detto che lo avrebbe trovato, una
botola si aprì sotto i suoi piedi, ed egli si trovò prigioniero del
malvagio Meleagante. Questi allora, sicuro di non aver più nulla
da temere da lui, si presentò a Logres chiedendo di poter
combattere con Lancillotto, secondo il patto: se egli non si fosse
presentato, sarebbe stato disonorato.
Ma, con sua meraviglia, Lancillotto era lì pronto ad accettare la sfida:
una sorellastra dello stesso Meleagante, da lui offesa, lo aveva
liberato. Questa volta per lo scellerato non vi fu pietà:
Meleagante venne abbattuto e, a un cenno della regina Ginevra,
che non poteva perdonargli la sua prigionia, Lancillotto gli tagliò
la testa.
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6 La leggenda di Osiride
La leggenda di Osiride
Osiride era un mitico re dio degli abitatori del Nilo ; sovrano benefico
indusse i suoi selvaggi sudditi a vivere in pace, a non sbranarsi a
vicenda, ad abbandonare l'avventurosa vita nomade. A questo
fine insegnò loro a lavorare la terra, a coltivare la vite e ad
ottenere il vino, e l'orzo da cui trarre la birra.
Mostrò loro come forgiare i metalli e le armi per difendersi dalle belve,
li invogliò a vivere in comunità, a fondare città.
Iside, la sorella sposa, per parte sua, guariva le loro malattie,
scacciava gli spiriti maligni con arti magiche ; fondò la famiglia,
insegnò agli uomini a fare il pane e alle donne tutte le arti
muliebri, la tessitura, il ricamo. Insomma, inventarono la civiltà.
L'Egitto si trovò così nell'Età dell'Oro. Compagno e amico di Osiride
era Thot, dio delle scienze, cui spettò il compito di insegnare agli
Egizi a leggere e scrivere.
Non contento di ciò, Osiride volle portare la sua benefica missione
anche nel resto del mondo e, durante la sua assenza, lasciò la
reggenza del trono a Iside.
Ma ecco il fratello Seth, escluso dal trono in quanto figlio cadetto,
tramare subito per usurparglielo : la vigile Iside riesce a
stroncare ogni manovra.
Osiride tornò dal viaggio, felicemente concluso, in compagnia di
Thot e di Anubi ( dio dei morti ). Il perfido Seth, l'esatto opposto
di Osiride, ordisce un orribile inganno : dà una grande festa in
onore del fratello e durante il banchetto mostra agli invitati un
magnifico scrigno finemente istoriato e tempestato di gemme e,
scherzando, proclama che ne farà dono a chi, entrandovi, lo
occuperà esattamente con il proprio corpo (l'aveva fatto
costruire su misura per Osiride, che aveva una statura
gigantesca). Ognuno dei commensali, ammirato per la preziosità
dell'opera e desideroso di averla, ci si provò, ma risultava
sempre troppo piccolo.
Alla fine fu la volta del re, la cui statura si attagliò a pennello.
Seth, fulmineo, con i suoi complici rinserrò il coperchio, lo sigillò con
piombo fuso e gettò lo scrigno nel Nilo. Gli dei atterriti presero
forme di animali per sfuggire a una simile sorte. Iside, disperata,
si strappò le vesti e con l'aiuto di Thot riuscì a fuggire e partì alla
ricerca della salma dello sposo per dargli almeno degna
sepoltura.
Era scortata da sette velenosissimi scorpioni, terribile guardia del
corpo. Giunse esausta alla città di Pa-sin ; ma lacera e sfinita
com'era, non trovò ospitalità ( forse a causa del poco
raccomandabile seguito ). Una donna le chiuse ostentatamente
la porta in faccia. I sette scorpioni si consultarono tra loro sul
modo di vendicare l'affronto alla dea, e ad uno a uno,
avvicinandosi al loro capo, Tefen, iniettarono nella sua coda tutto
il proprio veleno.
Tefen, introdottosi nella casa della poco cortese signora, trovato il
suo bambino, lo punse. La potenza del veleno era tale che la
casa prese fuoco.
Frattanto una misericordiosa e umile contadina, Taha, impietosita da
quel volto impietrito dal dolore, accolse Iside, spontaneamente ;
l'altra, che si chiamava Usa, non trovò una sola goccia d'acqua
per spegnere l'incendio e disperata, col bambino morente fra le
braccia, vagava in cerca di aiuto, ma nessuno le rispondeva. Fu
Iside che ebbe pietà di lei : impartì al veleno l'ordine di non agire
e il bimbo guarì subito, mentre una pioggia miracolosa spegneva
l'incendio.
L'ira del cielo s'era placata ; Usa, pentita, capì di trovarsi di fronte ad
un essere soprannaturale e offrì doni a Iside, implorandone il
perdono.
Iside riprese il vagabondare tra le infinite insidie che gli spiriti maligni,
al servizio di Seth, cospargevano sulla sua via. Presso Tanis, da
alcuni bimbi, seppe che la cassa, sul filo della corrente di quel
ramo del Nilo, aveva raggiunto il mare aperto.
Disperata, camminò e camminò e giunse a Biblo. Proprio qui era
approdata la tragica bara, tempo prima, tra i rami di un cespuglio
che, al contatto col corpo divino, s'era trasformato in una
splendida acacia che rinserrò lo scrigno nel proprio tronco. Un
giorno il re di Biblo, vedendo lo stupendo albero, ordinò che lo si
tagliasse per farne una colonna del suo palazzo. Iside, giunta in
città, tutte le notti si trasformava in rondine e svolazzava intorno
alla colonna, lanciando strida strazianti, ma nessuno le faceva
caso.
Alla fine decise di agire : si sedette presso la fonte, e quando le
ancelle della regina vennero ad attingere acqua, prese a
conversare, poi a pettinarle, a offrire divini profumi, con loro
grande gioia. Anche la regina volle conoscere la straniera che, in
brevissimo tempo, entrò nelle sue grazie e fu nominata
governante del principino. Ogni notte, preso il suo aspetto di
rondine, non cessava il suo pianto. La regina, una sera, volendo
sincerarsi che il bambino dormisse, entrò nella sua camera e
trovò uno spettacolo raccapricciante : la culla del figlioletto era
circondata da alte fiamme e, a piè del letto, sette minacciosi
scorpioni facevano la guardia. Atterrita, urlò, accorsero le
guardie, accorse il re e la stessa Iside, al cui cenno le fiamme si
spensero d'incanto. La dea svelò il proprio essere e rimproverò
la regina ; riconoscente per l'ospitalità aveva deciso di rendere il
principe immortale, e, per questa ragione, ogni notte lo
immergeva nelle fiamme purificatrici. Ma purtroppo ora l'incanto
era rotto.
La regina ne fu profondamente rattristata e il re, onorato d'aver dato
ricetto a una dea, le offrì tutto ciò che lei volesse. Iside,
naturalmente, chiese la grande colonna e lei stessa ne trasse lo
scrigno e riempì il tronco di profumi, lo avvolse in aulenti bende e
lo lasciò al re e al suo popolo come suo ricordo e preziosa
reliquia. Ripresa la via del ritorno scortata da due figli del re, non
seppe resistere a lungo : ordinò alla carovana di fermarsi e aprì
la cassa. All'apparire del volto del marito le sue urla di dolore
riempirono l'aria di un tale spavento che uno dei figli del re uscì
di senno. Peggiore sorte toccò all'altro : Iside s'era chinata
lacrimando sul caro viso, e l'ignaro ragazzo l'osservava
incuriosito ; la dea, accortasene, gli lanciò una tale occhiata che
il poveretto cadde fulminato.
Rimasta sola, Iside tentò di tutto, usò invano tutte le possibile
formule magiche per richiamare in vita lo sposo ; e, trasformatasi
in falco, e agitando su di lui le ali per cercare di ridargli il soffio
della vita, miracolosamente rimase fecondata. Giunta in Egitto,
nascose la bara in un luogo romito presso Buto, tra le
inestricabili paludi del Delta che la proteggevano dai pericoli. Ma
per caso Seth, andando una notte a caccia al chiaro di luna, la
trovò. Apertala e vista la salma del fratello, in preda al più
scatenato furore la fece a brani, tagliandola in quattordici parti
che sparpagliò per tutto l'Egitto. L'infelice Iside, al nuovo
scempio, ricominciò la pietosa ricerca dei macabri resti e dopo
immense fatiche riuscì a ricomporli ( tranne il membro virile
divorato da un ossirinco, una specie di storione del Nilo). Sui
luoghi ove i resti furono trovati, sorsero cappelle e poi templi ai
quali si compivano pellegrinaggi chiamati " della ricerca di
Osiride ".
Ricomposto il corpo, Iside chiamò a sé la diletta sorella Neftis
( incolpevole sposa del malvagio Seth ), Thot e Anubi. E con la
scienza ereditata da Osiride, tutti insieme si prodigarono per
rendere a Osiride la vita. Anubi imbalsamò il corpo e confezionò
così la prima mummia, che fu fasciata e ricoperta di talismani.
Sui muri del sepolcro, ad Abido, furono incise le formule
magiche di rito. Accanto al sarcofago fu posta una statua del
tutto
Osiride così resuscitò, ma no poté regnare più su questa terra e
divenne re del " Sito che è oltre l'Orizzonte occidentale ", che
trasformò da luogo cupo e triste in una landa ubertosa e ricca di
messi.
Compiuto il rito della sepoltura, Iside tornò a nascondersi nelle
paludi per proteggere se stessa e soprattutto il nascituro dalle
vendette di Seth. Quando Horo nacque, la madre lo protesse
con tutto l'amore, invocò su de lui l'aiuto di tutti gli dei, poi gli
insegnò la scienza, l'educò nel culto del padre. Horo crebbe "
come il sole nascente, il suo occhio destro era il sole, quello
sinistro la luna " ed egli stesso era un grande luminoso falco che
solcava i cieli. E quando fu abbastanza grande, Osiride tornò
una volta sulla terra per farne un soldato. Allora Horo, radunati
tutti i fedeli del re tradito, partì alla ricerca di Seth per vendicare il
padre.
La tremenda battaglia durò tre giorni e tre notti ; Seth e i suoi si
trasformarono nei più terribili e imprendibili animali per cercare di
sfuggire alla sconfitta : Horo mutilò Seth, ma questi si trasformò in un
enorme maiale nero e ingoiò l'occhio sinistro di Horo : la luna cessò
così di splendere, l'umanità era attonita. Alla fine Seth stava per
soccombere, quando Iside cominciò ad intromettersi, a supplicare il
figlio perché il massacro avesse termine : dopo tutto, Seth era suo
fratello e marito della diletta sorella Neftis. Horo, in uno scatto d'ira,
taglio la testa alla madre. Thot la guarì subito ponendole, al posto
della sua, una testa di mucca. La battaglia riprese e durò all'infinito
senza vincitori né vinti. S'intromise allora autoritariamente Thot, che
guarì Seth ma gli impose di restituire l'occhio a Horo. La luna tornò a
risplendere. Intervennero allora anche gli altri dei e posero la
questione al giudizio di Thot. Fu un processo fiume che durò
ottant'anni. Seth accusò Horo di non essere figlio di Osiride,
essendo nato troppo tempo dopo la morte del vantato padre. Horo
controbatté tacciando Seth di malafede ; e alla fine il Divino
Tribunale sentenziò che Horo avesse il regno del Basso Egitto e
Seth quello dell'Alto Egitto.
7 Da Ponzella a Ponzella
Da Ponzella a Ponzella
E' ipotizzabile che il Barbarossa, proveniente da Como, passasse
per Fagnano Olona, fino a Busto Arsizio, Dalla via Ponzella di
Busto per raggiungere San Giorgio e poi Canegrate e
Parabiago ( tutti paesi al confine con il Milanese) abbia seguito
la line che congiunge Via Ponzella di Busto con via Ponzella di
Legnano, passando esattamente sul cortile della cascina di
Mazzafame. La battaglia nel parco Altomilanese in zona
ppiscine di Butsto, pinetina e canpo sportivo, distratto dai
Milanesi in avanscoperta del proprio esercito accampato, nei
pressi, a est in zona Sabotino - San Martino.
Senza la presenza dei Milanesi, probabilmente avrebbe raggiunto
Villa Cortese con una traettoria senza deviazioni.
La via Ponzella di Busto probabilmente era in collegamento diretto
con Ponzella di Legnano, passando per Mazzafame, ma questo
forse nel secoli successivi.