il musical - roberto camporini

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il musical - roberto camporini
IL MUSICAL
Per una definizione del genere
Il termine musical, abbreviazione perlopiù di musical comedy o musical theatre, indica un genere teatrale,
ma anche cinematografico, che si avvale di più tecniche espressive di tipo artistico - canto, danza, dramma
e affini - per presentare in scena un'azione continuativa, centrata su una trama semplice ed immediata,
dallo sviluppo coerente.
Il musical è uno spettacolo derivato dall'operetta e adattato al gusto e al costume statunitense. Questo
spettacolo è costituito da una commedia, in genere brillante e di ambientazione americana nella quale
sono presenti brani che appartengono ai generi della musica leggera, del jazz, o derivano dall'opera lirica e
dal balletto. Tutti questi linguaggi sono uniti tra loro grazie a una orchestrazione elegante e perfetta. Nel
musical non c'è fusione tra i diversi linguaggi; i diversi generi sono invece affiancati in una compresenza ben
integrata e armonizzata.
Nel musical ogni particolare risulta indispensabile per la riuscita dello spettacolo, dai costumi alla
scenografia includendo regia, coreografie e luci senza dimenticare gli attori (o meglio, performers), che
devono essere in grado di comunicare emozioni ricorrendo, spesso contemporaneamente, a discipline
come la recitazione, la danza e il canto.
L'origine del genere è senza dubbio teatrale, legata all'ambiente di Broadway, e risale agli esordi del XX
secolo. Non bisogna però sottovalutare lo sviluppo anche cinematografico del musical, per più di un
motivo: anzitutto la reciproca influenza che ancor oggi si esercita tra i due filoni, ed in secondo luogo il
successo che il film musicale continua a registrare (si pensi, ad esempio, ai lungometraggi d'animazione
Disney). Inoltre, è necessario ricordare che fu il musical cinematografico ad essere esportato per primo in
ambito extra-americano. Ciò avvenne soprattutto grazie alle produzioni MGM e ad una pletora di artisti
assai noti alle platee internazionali, come Fred Astaire e Ginger Rogers, Gene Kelly, Mickey Rooney, Judy
Garland ecc...
Le origini del musical teatrale
Un genere tanto eterogeneo, votato, si direbbe oggi, alla multidisciplinarità, dovette fare i conti, fin dalla
nascita, con la varietà e la mescolanza. Parlando di musical non è certo possibile tracciare una genealogia
netta. Si devono, invece, citare tutta una serie di incroci ed innesti di generi teatrali, gli uni sugli altri.
A fine '800, nel distretto teatrale di Broadway, a New York, erano in voga più tipi di spettacolo sviluppatisi
nella seconda metà del secolo in Europa. Fra questi spiccavano la commedia musicale, l'operetta, il
vaudeville, la rivista (teatro di varietà) ed il burlesque. Si trattava di generi godibili, leggeri, facilmente
fruibili e perciò impostisi ai pubblici popolari di Francia, Austria ed Inghilterra . Ognuna di queste tipologie
di spettacolo aveva, naturalmente, una sua peculiarità e propri artisti.
La commedia musicale era imperniata su un'unica vicenda esile, a lieto fine, ed abusava di melodie
orecchiabili. L’esempio più riuscito fu quello di Gilbert e Sullivan, in Inghilterra negli anni '80 del XIX secolo.
L'operetta era invece costruita secondo una struttura più prosastica, in cui le parti cantate si intercalavano
alle scene di recitazione come numeri a sé stanti, ed era animata da un gusto parodistico nei confronti del
mondo borghese. Conobbe un primo periodo parigino satirico, con Offenbach, alla metà dell'800 e un
secondo periodo viennese sentimentale e gaio, con Strauss e Lehár nella seconda metà del secolo fino alla
Belle Époque.
Il vaudeville, che nella versione europea somigliava più ad un dramma brillante, ricco di equivoci e
situazioni piccanti, divenne in America una sorta di varietà, composto da esibizioni di acrobati, comici, brani
cantati ecc... e quindi qualcosa di molto simile alla rivista, di cui ricalcava la struttura a numeri miscellanei,
assiepati attorno ad un filo conduttore assai lieve. E’ un termine con il quale sono stati designati diversi tipi
di spettacoli nel corso dei secoli. Nel XV secolo, in Francia, si indicava con vaudeville una canzone conviviale
originaria di Vau-de-Vire (Normandia). Il vocabolo si corruppe e si trasformò nel Settecento in voix de ville
("voce di città"). Canzoni di questo tipo venivano spesso inserite nelle commedie in prosa dei théâtres de
foire (teatri da fiera), perché di facile esecuzione e note al pubblico. Nella seconda metà dell'Ottocento, il
nome di "vaudeville", designò commedie leggere e brillanti, non necessariamente ricche di brani cantati,
dense di equivoci e di situazioni piccanti. Negli Stati Uniti il termine "vaudeville" venne a indicare ciò che
noi chiamiamo “varietà” : uno spettacolo composto da numeri di acrobati, brani musicali e vocali eseguiti
da orchestrine familiari, esibizioni di comici, giocolieri, maghi, animali ammaestrati.
Nella rivista, il cui tempio americano fu il teatro di Florence Ziegfield a New York, era lo spettacolo in sé a
contare, piuttosto che il contenuto. L'importante era miscelare un po' di musica, di ballo, di recitazione, di
canto e saperli ben condire con coreografie e costumi d'impatto.
Il burlesque è un genere teatrale satirico, fiorito in Inghilterra nel XVII e XVIII secolo, che parodiava
particolari testi, attori o generi drammatici. Negli Stati Uniti, a metà del XIX secolo, il termine "burlesque"
designava uno spettacolo di varietà allestito con acrobati, comici e ballerine in costumi succinti. Durante gli
anni Venti e Trenta, lo spettacolo di spogliarello divenne un elemento fisso nel burlesque statunitense.
L'avvento dei nuovi mezzi di comunicazione (come il cinema o la radio) o di generi (come il musical)
determinò il lento ma inesorabile declino di questo tipo di spettacolo.
Una forma di intrattenimento teatrale tipicamente statunitense era invece il minstrel show. Nato e
sviluppatosi negli Stati Uniti nella prima metà dell'Ottocento, era composto da canzoni, danze e scenette
comiche interpretate generalmente da attori bianchi truccati da neri. Tra il 1850 e il 1870 il minstrel show
raggiunse l'apice: in quel periodo dieci teatri nella sola New York erano specializzati quasi esclusivamente in
questo genere di spettacolo. Dopo il 1870 la sua popolarità decadde rapidamente, e nel 1919 erano solo tre
le compagnie rimaste in tutti gli Stati Uniti. Motivi economici contribuirono alla decadenza: diventava
sempre più difficile, infatti, sostenere i costi di produzioni sfarzose che, allontanatesi dalla semplice forma
originaria, si facevano sempre più simili al vaudeville.
Infine, la pantomima è un’azione teatrale rappresentata da attori che si esprimono esclusivamente a gesti,
accompagnati eventualmente da musiche o commenti vocali. Il termine deriva dal greco pantómimos =
riproduzione imitativa di una totalità. La pantomima ebbe origine probabilmente delle zone meridionali
dell’Italia e fu introdotta a Roma durante l’impero di Ottaviano Augusto (primo imperatore romano, 63 a.C.
- 14 d.C.). Era una sorta di danza eseguita da un solista che, col volto coperto da una maschera, svolgeva
tutte le parti gesticolando e danzando, accompagnato da un coro e un’orchestra di flauti, pifferi e cembali.
Successivamente il termine “pantomima” assunse differenti significati:
• Il moderno spettacolo di mimo della scuola francese novecentesca di Etienne Decroux, Marcel Marceau,
Jean-Louis Barrault, Jacques Lecoq.
• La pantomima circense otto-novecentesca, con numeri mimico-acrobatici su un tema predefinito, quali ad
esempio ricostruzioni belliche equestri, numeri orientali con elefanti o parodie farsesche con clown.
Dalla fine del XIX secolo al primo dopoguerra
Il musical ha origine dai ceti popolari della società americana e si sviluppa come una forma di teatro rivolta
alle masse e a un pubblico molto variegato. La sua struttura ed il suo stile permette allo spettatore di poter
seguire lo spettacolo come nel vaudeville (teatro di varietà), risultando più scorrevole e di più semplice
comprensione rispetto alla prosa tradizionale.
La musical comedy nasce proprio negli Stati Uniti perché tra la popolazione si trovano numerosi gruppi di
immigrati appartenenti ad etnie differenti i quali spesso non parlano o addirittura non conoscono l'inglese;
questi rappresentano un vasto pubblico potenziale per il musical perché questa forma di spettacolo è in
grado di legare con facilità il pubblico all'interesse per una storia che traspare chiaramente nello spettacolo
e lo affascina con lo stesso tipo di emozione circense dei varietà. La bravura degli attori, la grazia delle
ballerine, la capacità nel canto: sono queste le caratteristiche che hanno permesso la nascita e lo sviluppo
di questa forma di spettacolo. Partendo da New York e Broadway, nasce una tradizione che si diffonderà a
macchia d'olio, portando la cultura del musical per le grandi e piccole città degli Stati Uniti. Già negli anni
venti alcuni spettacoli di Broadway cominciano a raggiungere i teatri del West End a Londra la quale
diventerà la grande capitale europea di questo genere teatrale.
Il pieno apogeo del musical arrivò senz'altro nel XX secolo. Tuttavia, già nella seconda metà dell'800 è
possibile registrare alcuni esempi di musical comedy molto simili al nostro modo di intendere e considerare
questo genere. Il primo ad essere convenzionalmente citato è “The Black Crook”, andato in scena negli USA
il 12 settembre 1866, al Niblo's Garden Theatre. Responsabili dell'allestimento furono una compagnia
europea di ballo e canto ed una di prosa accomunate da una sorte avversa, che riuscirono a raddrizzare
collaborando fra loro: i primi, infatti, erano alla ricerca di un teatro in cui esibirsi; i secondi, invece, si
trovavano alle prese con una produzione troppo costosa per una singola compagnia.
In realtà, al di là di esempi sporadici e precoci, l'affermazione del nuovo genere sulle scene va intesa in
modo molto graduale e progressivo e non può prescindere dalla fusione di cultura europea e gusto
americano, che ne è alla base.
Verso la fine del XIX secolo, come già sappiamo, presso il pubblico statunitense della costa orientale, erano
in voga operette, vaudevilles, riviste e una pletora davvero vasta di varianti del genere. Si trattava di
spettacoli eterogenei, costituiti da una successione ininterrotta di canzoni, danze e scenette comiche. Una
compagnia newyorkese ebbe l'intuizione di assemblare i numeri più usuali seguendo un filo conduttore:
l'innovazione piacque e fece strada.
Nel 1901 George M. Cohan, personalità eclettica (produttore, autore, attore e compositore, a sua volta
figlio di attori irlandesi di vaudevilles), andò in scena con il suo primo musical: “The Governor's son”. Da
allora la sua carriera proseguì in modo strepitoso e passò alla storia come “the man who owned
Broadway”, universalmente riconosciuto come il padre dell'American musical comedy.
Nel 1903 venne costruito il New Amsterdam Theatre di New York, attivo ancora oggi, dove, fra il 1907 e il
1931 vennero ospitate le grandiose Ziegfeld Follies, dal nome del famoso impresario teatrale Florence
Ziegfeld. Si trattava di spettacoli caratterizzati da una grande quantità di belle ragazze, le “chorus girls”,
vestite con abiti eccentrici e contornate da sfarzose scenografie.
Nel frattempo, a ridosso della prima guerra mondiale, numerosi musicisti europei, autori di operette, si
trasferirono negli Stati Uniti, le loro produzioni beneficiarono, fin da subito, di un grosso successo, grazie
alla musica semplice e alle melodie orecchiabili vicine al sentire comune. Questi artisti inaugurarono una
consuetudine che diventerà poi la norma nei musical, ossia la distinzione tra autori dei dialoghi (book), e dei
testi delle canzoni (lyrics). Il quartiere di Tin Pan Alley, sulla 28° strada tra Broadway e la Sesta Avenue, si
impose come vero e proprio laboratorio musicale, centro propulsivo di nuovi talenti fra cui è doveroso
citare almeno Irving Berlin, Jerome Kern, George e Ira Gershwin e Cole Porter.
Le melodie orecchiabili, la poetica d'evasione, di puro enterteinment, sono cifre stilistiche e contenutistiche
che caratterizzarono il musical moderno fin dai suoi esordi, e tali da rendere questo genere particolarmente
gradito al pubblico popolare e variegato dei teatri di New York e Broadway. L'happy ending e l'atmosfera da
fiaba, furono ingredienti palesi o latenti di ogni spettacolo del filone musical. Tuttavia, dal 1914 il
compositore newyorkese Jerome Kern iniziò a produrre spettacoli che avevano un'ambientazione realistica
e s'ispiravano a vicende contemporanee. Gradualmente le musiche si fecero più sofisticate, i compositori
introdussero nuovi elementi provenienti dal jazz e dal blues ed i cantanti si fecero più attenti alla tecnica di
scena.
Dopo la prima guerra mondiale Broadway entrò nel suo periodo d'oro e il musical, sull'onda delle emozioni
facili che suscitava e delle atmosfere gradevoli che suggeriva, si espanse rapidamente, a macchia d'olio, fino
a raggiungere i teatri del West End di Londra, vera e propria capitale europea del nuovo genere.
Anni '20 -'50: dalla comparsa del musical cinematografico alla svolta di “West Side Story”
Dal 1926 in poi, cioè dall'introduzione del sonoro nei film grazie al brevetto Vitaphone, alla storia del
musical teatrale si affiancò quella del musical cinematografico. Da allora i due ambiti contribuirono in
simbiosi alla crescita e all'evoluzione del genere.
Inizialmente, la parte del leone toccò ancora al teatro: fu infatti “Show Boat”, spettacolo del 1927 prodotto
da Ziegfield e replicato ben 572 volte, a costituire uno dei primi esempi compiuti di musical americano, con
un efficace coordinamento tra ballo, canto e recitazione.
Nello stesso anno la Warner Bross produsse il proto-film sonoro “The Jazz Singer”, diretto da Alan Crosland,
secondo la formula, allora inedita, di dialoghi mescolati a canzoni e accompagnamenti musicali.
Con l'avvento della Depressione economica, sul finire degli anni '20, iniziò una vera e propria migrazione di
talenti da Broadway a Hollywood. Le majors cinematografiche assecondarono il fenomeno perché erano
alla ricerca di attori con una buona impostazione teatrale, che sapessero ben parlare e ben cantare, qualità
trascurabili prima dell'avvento del sonoro.
Se inizialmente molti registi si limitarono a riproporre pedissequamente i successi di Broadway, ben presto
il musical cinematografico riuscì ad elaborare un'estetica ed un repertorio propri, all'insegna del famoso
motto "all talking, all singing, all dancing!" In un clima di dissesto economico e finanziario, le platee
hollywoodiane si mostravano letteralmente assetate d'evasione. Per saziarle le majors produssero un
numero esorbitante di film musicali, legati a mondi onirici, racconti fiabeschi (fairy tale e amori felici).
Grande spazio venne lasciato al ballo, soprattutto all'americanissimo tip-tap, e al canto, fino alla quasi
totale abolizione dei dialoghi recitati. Il musical divenne portavoce di una poetica dell'ottimismo a tutti i
costi, del puro enterteinment e naturalmente dell'happy ending.
Nel 1933 comparve per la prima volta in maniera ufficiale il termine musical, impiegato sulle pagine della
rivista Photoplay a proposito del film “Quarantaduesima Strada” di Lloyd Bacon, pellicola simbolo della
volontà di rinascita del new deal roosveltiano e prototipo dello show musical, ossia di una sorta di musical
nel musical, che descrive l'atmosfera del dietro le quinte. Nello show musical la trama è spesso centrata
sulle storie di aspiranti ballerini e cantanti, oppure sulla messinscena di uno spettacolo.
L'anno precedente, il 1932, il musical “Of thee I sing”, dei fratelli Ira e George Gershwin, ottenne un premio
Pulitzer per il teatro, mettendo in scena un'intelligente satira della scena politica contemporanea. Al fairy
tale e allo show musical si venne quindi ad affiancare il folk musical, più attento alle dinamiche sociali e
famigliari.
Il genere musical si era ormai imposto nel cinema come nel teatro, ed il pubblico iniziò a pretendere una
sempre maggiore innovazione. Le majors seppero beneficiare di questo clima entusiastico e non disattesero
le aspettative delle platee. La MGM (Metro Goldwyn Mayer), si specializzò nella produzione di opere
fastose, con gran dispiego di scenografie e costumi; la Warner Bross suggerì a tutte le sue star di imparare a
ballare e cantare; la Paramount scritturò divi del music-hall (come Maurice Chevalier e Jeanette
MacDonald) per produzioni eleganti e sofisticate; la RKO si affidò, invece, alla coppia simbolo del sogno di
levità americano: Fred Aistaire e Ginger Rogers.
Il successo del musical, sia teatrale che cinematografico, perdurò per tutti gli anni '40. Nel 1943 debuttò al
St. James Theatre “Oklahoma!”, considerata una tra le più belle musical comedies americane, ripresa nel
1955 da Fred Zinneman per il grande schermo. Fu il primo musical scritto da Rodgers e Hammerstein;
autrice delle coreografie fu Agnes de Mille, artefice della felice commistione tra balletto russo e tradizione
folklorica americana.
Gli anni '50 furono l'epoca d'oro del musical cinematografico, numerosi i successi targati MGM, dove la
poesia del canto e della danza risultava ormai del tutto funzionale alla narrazione e al tratteggio della
psicologia dei personaggi.
Il passo successivo per il musical di Broadway fu compiuto da Jerome Robbins, coreografo e danzatore, che
nel 1957 ideò, diresse e coreografò “West Side Story”, su musiche di Leonard Bernstein. La danza,
concepita come un ballo atletico, vera e propria energia fisica, diventò parte imprescindibile e integrante
della storia narrata, in quanto espressione simbolica delle tensioni esistenti tra due bande di ragazzi, in
lotta per la conquista del west side.
“West Side Story” fu per molti aspetti un punto di non ritorno nella storia del musical, anche perché sancì
definitivamente la necessità per gli interpreti di possedere un talento poliedrico, che permettesse
contemporaneamente di recitare, cantare e danzare. Le innovazioni introdotte da Robbins, soprattutto la
centralità della danza, influenzarono decisivamente lo sviluppo del genere negli anni a venire.
Nel 1968 esordì a Broadway “Hair”, il musical che lanciò un nuovo genere di rappresentazione: l’opera rock.
“Hair” riscosse un enorme successo grazie all'esuberanza compositiva, all'ingegnosità teatrale e all'accento
posto sulla musica rock. Questi elementi di grande impatto vennero in seguito ripresi per musical come
“Godspell” e “Jesus Christ Superstar” (entrambi del 1971). La musica di quest'ultimo era del compositore
inglese Andrew Lloyd Webber, che in seguito avrebbe scritto due celebri musical: “Evita”, sulla vita di Eva
Perón (1978), e “Cats”, basato su poesie di T.S. Eliot (1981).
Anche oggi il musical continua a incontrare il gusto del pubblico. Le riedizioni di opere ormai divenute veri e
propri classici, così come le nuove produzioni, sono molto apprezzate. Tra i successi più recenti si ricordano:
• “Sunset Boulevard” (1993), ispirato all’omonimo film di Billy Wilder;
• “Notre-Dame de Paris” (1998), opera musicale tratta dall’omonimo romanzo di Victor Hugo e scritta da
Riccardo Cocciante e Luc Plamondon;
• “Mamma mia” (1999), basato sulle canzoni più celebri del gruppo pop svedese degli Abba.
• “We Will Rock You” (2002 produzione londinese; in Italia nel 2009).
Il musical cinematografico
Genere cinematografico tipicamente americano, come il western. Di derivazione teatrale, nasce dallo
spettacolo, di cui fonde vari generi e sottogeneri (vaudeville, burlesque, farsa, comico, musica, danza e
commedia…). E' quindi espressione di una poetica d'evasione, del “sogno americano2, dell'entertainment,
più volte ribadito (Make them laugh! di “Singin' in the Rain” o That's entertainment di “Spettacolo di
varietà” di Minnelli).
Nella narratologia il musical è sintesi di percorsi che vanno dalla commedia e dell'avventura (il tema della
realizzazione di amore e successo) con una frequente incursione nei modelli della fiaba, tutti elementi che
prevedono naturalmente l'happy end: le “prove” sono gli ostacoli da superare e si concretizzano nei numeri
musicali. I luoghi e gli scenari sono lo spettacolo (frequente) ma anche l'arte e la moda, l'idea comunque di
qualcosa che deve andare in scena, lo show appunto, come nel film di Stanley Donen e Gene Kelly (“Singin’
in the rain”, 1952), dove c'è anche una citazione della sfilata di moda, che è un omaggio ai musical degli
anni '30.
Lo sforzo, il lavoro, almeno nel musical americano, non sembrano avere peso e gli impedimenti sono solo
esterni, mentre il ballo e la musica fluiscono naturalmente in modo estatico e onirico (questo
particolarmente in Vincente Minnelli, per il quale l'arte è sogno e salvezza… es. “Un americano a Parigi”,
1951).
Tecnicamente è un genere complesso e spesso rigidamente codificato dalle case di produzione per le
competenze e le esigenze tecnologiche che richiede ed esprime quando nasce e si afferma alle origini del
sonoro, che è l' epoca d'oro del musical, poiché il cinema proprio in questo genere fa il suo tirocinio,
soprattutto nello sviluppo dell'uso della macchina da presa che acquista grande mobilità e sperimenta nei
movimenti ardite angolazioni e novità che altri generi incoraggiavano meno (a parte forse il western).
Ovviamente, come nel caso del comico, è il genere che si incentra più di tutti sulla bravura dell'attore, che
deve possedere una grande versatilità, caratteristica che hanno spesso molti attori americani del tempo,
che sanno fare un po' di tutto, professionisti a parte… E' il caso di Gene Kelly, attore, cantante, regista e
coreografo. Accanto a questo tipo di professionisti nel musical compaiono spesso anche grandi musicisti
come George Gershwin o Irvin Berlin, Cole Porter (o più tardi Leonard Bernstein e Andrew Lloyd Webber)
come pure Arthur Freed, produttore di gran parte dei musical (e di Singin') ed egli stesso musicista.
BREVE STORIA
Negli anni 30, con la Grande Depressione si assiste a un grande sviluppo del musical in coincidenza col
sonoro, anche con evidenti scopi di consolazione ed evasione. Per dare un'idea della presenza del musical
nella cinematografia americana negli anni dal '27 al '40, si contano più di 300 musical e da allora al '95,
Cinemania ne elenca più di 1100 significativi (con l'apporto però anche delle cinematografie mondiali).
Nell'epoca d'oro, dagli anni '30 alla fine dei '50 i titoli significativi ricordati sono più di 800.
Il primo grande nome del musical è Busby Berkeley. Gira quasi 40 film, dal '30 al '40 come coreografo o
regista (o le due cose insieme). A Berkeley si deve la liberazione della danza dalla costrizioni teatrali del
palcoscenico e la capacità di farne un flusso ininterrotto con il linguaggio del cinema. Le coreografie dei
numeri sono pirotecniche e caleidoscopiche, sottolineate da elaborati movimenti di macchina che si
liberano progressivamente dall’angolazione frontale per arrivare alle spericolate inquadrature “a piombo”,
rese fluide da un sapientissimo montaggio che rende tutto naturale.
Negli stessi anni si afferma nella RKO la coppia Fred Astaire - Ginger Rogers. Entrambi provengono dal
vaudeville: Astaire è attore, ballerino cantante e coreografo; Rogers era ballerina e continuerà poi a fare
film anche non musicali per anni (famoso “Frutto proibito” di B. Wilder). Grazie alla loro collaborazione, che
li vide protagonisti di 10 film, il genere si ridefinisce e rinnova. La loro danza si incentra sull'abilità e la
leggerezza individuali e su una grazia sofisticata che spesso fa anche a meno del gruppo di ballerini. Le
trame sono per lo più esili e ricalcate sull'idea della conquista amorosa o della commedia, con gli equivoci e
gli scambi, e sono puro pretesto per memorabili numeri musicali con canzoni spesso scritte da ottimi
musicisti.
Gli anni '40 si aprono nel segno del colore e in parte a colori è “Il mago di Oz” di Victor Fleming (1939), con
Judy Garland, che è un successo della MGM e con l'inizio della carriera di Gene Kelly che, dopo un esordio
difficile, viene notato dalla MGM e da Freed e lavora affermandosi alla metà del decennio sotto la direzione
di Minnelli (“Il pirata”- 1948, “Brigadoon” - 1954, “Un americano a Parigi” - 1951) e poi in coppia con il
regista Donen come co-regista oltre che ballerino e coreografo (“Un giorno a New York” - 1949, “Cantando
sotto la pioggia” - 1952). Ovviamente, negli anni della guerra, del dopoguerra e della Guerra Fredda il
musical assolve anche il compito di ribadire la poetica di evasione che aveva svolto durante la sua origine
nella Depressione.
Vincente Minnelli è un altro interessante regista che lavora nel musical (ma non solo) e che ha impresso la
sua cifra stilistica al genere: caratteristiche di Minnelli sono i colori accesi realizzati con il technicolor, la
finzione esibita, il tema ricorrente del sogno, della fiaba in opposizione alla mediocrità della vita… Ma
Minnelli è anche il regista che ha girato quello che, con Singin', può essere considerato il musical più tipico,
“Spettacolo di varietà” ('53), nel quale il plot ricalca di nuovo l'archetipo dello spettacolo da fare,
dell'insuccesso da rimediare, della necessità di superare le difficoltà e del coronamento finale amoroso e
professionale. Il protagonista è Fred Astaire, divo al tramonto, nel film e nella vita, e l'affermata Charisse; la
poetica che fa da filo conduttore al film è quella dell'opposizione tra arte 'alta' e popolare con l'ovvia
esaltazione del musical come veicolo di intrattenimento e consolazione. Per molti il film è il canto del cigno
del musical propriamente detto. Nonostante qualche grande successo di critica e pubblico, la metà degli
anni 50 e gli anni '60 vedono infatti la crisi dei generi e in particolare del musical, che perde molte delle
caratteristiche fin qui delineate e tende a confondersi con altri generi, con la commedia, il film biografico (il
biopic) o percorre nuovi itinerari, anche suggestivi, ma che non sono non più quelli delle origini.
La tendenza prevalente è quella di non scrivere più soggetti originali, ma di portare sulle schermo i musical
teatrali di Broadway che continuano nel frattempo a essere rappresentati con grande successo. Tra gli
esempi di maggior successo “My Fair Lady” di George Cukor del 1964, tratto dal testo di G.B.Shaw (8 oscar)
e “West Side Story” (1961) di Jerome Robbins e Robert Wise con musiche di Leonard Bernstein, premiato
con ben 10 oscar.
Il musical diventa quindi trasposizione e non più invenzione originale. Negli anni '70 si fa apprezzare il
lavoro di Bob Fosse, attore, coreografo e regista di successo, che passa da Broadway al cinema firmando
opere importanti come “Cabaret” del 1972 ( 8 oscar), “Lenny” del '74 (un biopic), “All that Jazz” del 1979. La
sua opera risente del gusto teatrale e della passione dell'autore per il jazz, ed è ricca di spunti interessanti,
ma certamente non può essere definita musical ma più esattamente film musicale, oppure all'americana,
musical da teatro, nel quale cioè i numeri sono esattamente plausibili e reali.
A metà degli anni '60 i fermenti della cultura pop e rock e della contestazione alla guerra del Vietnam si
impongono nella musica e sulle scene teatrali e da questi successi approdano negli anni '70 al cinema, in
alcune importanti produzioni come “Hair” di M. Forman (1979) o “Jesus Christ Superstar” di Norman
Jewison (1973), con musiche di A. Lloyd Webber e T. Rice. Sono film ricchi di spunti ideologici interessanti,
anche se forse oggi un po' datati, ma non rinnovano profondamente il genere.
La cultura rock giovanile si esprime in seguito in altri film definibili opere rock come “Tommy” dell'inglese
Ken Russell del 1975, con le musiche e la partecipazione di artisti celebri del mondo rock e pop e momenti
di grande fantasia e invenzione, a volte però pericolosamente vicini al kitsch (il film è basato sull'album
Tommy degli Who - 1969, una delle prime opere rock nella storia della musica). Oppure “The Rocky Horror
Picture Show”, di Jim Sharman (1975), ironico e irriverente.
Negli anni successivi non ci sono novità che escano dagli schemi visti. I film musicali si avvicinano al mondo
della danza giovanile, con un prevalere della colonna sonora sull'aspetto cinematografico, a volte con
grande successo come, nel 1977, “La febbre del sabato sera” di John Badham e “Quadrophenia” di Frank
Roddam, con Sting che ripercorre le vicende della cultura giovanile britannica degli anni sessanta.
Altre possibilità sono i film-concerto, come “Woodstock” o “The Last Waltz”, girato nel 1978 da Martin
Scorsese, che sono però documentari.
Una novità può essere considerata invece il film-opera che prevede l'ambientazione realistica e in esterni
dell'opera classica, come nel caso di “Don Giovanni” di J. Losey (1979) o di “Carmen” di Francesco Rosi
(1984). A parte, e certamente più interessante, “Il flauto magico” (1975) di Ingmar Bergman, girato in un
suggestivo teatro con incursioni nel pubblico e dietro le quinte.
Continua anche la produzione di biopic, spesso ambientati nel mondo del jazz come “Bird” di Clint
Eastwood (1988) o “Round Midnight” (1986) di Bertrand Tavernier. Grande successo ottiene “Amadeus” di
Milos Forman (1984), biografia romanzata, tratta da un testo teatrale, di W. A. Mozart, premiato con 8
oscar.