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1. Il contesto storico
I primi anni di vita di J.R.R. Tolkien furono caratterizzati
da una serie di lutti che crearono in lui una profonda nostalgia per il passato. Nato in Sudafrica nel 1892 come figlio del
bancario inglese Arthur Tolkien, fu portato in Inghilterra insieme a sua madre e al fratello minore quando aveva appena
tre anni, apparentemente per visitare alcuni parenti. L’anno
successivo, dopo la morte di Arthur, la famiglia si spostò in un
piccolo borgo incontaminato appena fuori Birmingham, dove
Mabel insegnò ai suoi figli latino, tedesco e arte. Nel ricordare
i quattro anni passati lì Tolkien disse: «mi sembrarono assai
più lunghi e furono senz’altro i più formativi della mia vita»
(Biografia, p. 52).
Quando compì otto anni, l’idillio finì all’improvviso. La madre si era convertita al cattolicesimo e, avendo così perduto l’appoggio della sua famiglia di fede protestante, traslocò con i figli
in città, dove Tolkien iniziò a frequentare la scuola. Nei tre anni successivi la famiglia cambiò casa altre due volte, poi Mabel
Tolkien morì dopo un’estate di malattia in un cottage rurale che
risvegliò in suo figlio memorie di un Eden perduto. La causa fu
il diabete, ma Tolkien vedeva sua madre come una martire della
fede (Lettere, n. 44). Insieme a suo fratello Hilary Arthur Reuel
furono quindi ospitati in una serie di case private sotto la tutela
di un severo ma caritatevole prete, padre Morgan, che Tolkien
amava, temeva e ammirava.
Fin dall’adolescenza Tolkien studiò ossessivamente le lingue
e i miti medievali, inventando grammatiche e padroneggiando
argomenti adatti a un livello di istruzione superiore rispetto alla
classe che frequentava. Benché perseguitato dalla depressione,
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sviluppò grandi amicizie nella sua scuola maschile e arrivò a
Oxford come studente con una borsa di studio e aspirante poeta.
Inizialmente studiava latino e greco, ma più tardi trovò la sua
vocazione nella storia e nella letteratura dell’antico inglese. Si
era quasi laureato quando scoppiò la Prima guerra mondiale,
una guerra in cui sarebbe stato testimone dell’orrore del combattimento meccanizzato. Questo rinforzò in lui la sensazione
che nel mondo fossero all’opera poteri terribili: sebbene ricordasse che l’Eden era possibile e credesse in un Dio provvidente,
egli vedeva il suo secolo come un’era buia che aveva smesso di
credere nel bene e nel male e che aveva perso la presa sul potere
curativo del mito. Appena ventenne, egli decise di inventare i
miti necessari alla sua amata Inghilterra.
Sposato in giovane età con Edith Bratt, forse l’unica donna
che egli abbia amato dopo sua madre, Tolkien visse un’intensa
doppia vita. Da una parte era il professore pubblico, prima a
Leeds e poi a Oxford: in questo ruolo egli era un insegnante che
lavorava duramente e uno studioso che diede importanti contributi allo studio della lingua e della letteratura medievali, un
accademico conservatore e un padre preoccupato per il bilancio
familiare e per la salute dei suoi figli. Ma dietro questa facciata
egli era un poeta fantastico, un ossessivo ricamatore notturno
di favole fuori moda e di versi su elfi, draghi e reami perduti.
Anche se le sue fantasie non divennero famose prima degli
anni Cinquanta, Tolkien ne aveva scritto e riscritto i prototipi
epici, lavorando per sé stesso, per i quasi quarant’anni precedenti. I racconti mitici di Tolkien, medievista ferito, scritti dapprima con poche speranze di riconoscimento per la sua lotta con
i simboli di guarigione e di salvezza, sono ovviamente divenuti
dei classici. Tuttavia, questi racconti non sarebbero forse mai
usciti dai suoi cassetti se uno di essi, una storia della buonanotte
per i suoi figli, non avesse portato una fiabesca amichevolezza
al suo mondo inventato. Lo Hobbit segnò l’inizio della carriera
di Tolkien come scrittore di successo e divenne la base di tutto
ciò che seguì.
Nella prima metà del XX secolo una storia per adulti su elfi
e draghi non poteva essere presa sul serio: le fiabe erano storie per bambini, indegne dell’attenzione degli adulti. Perfino la
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fantascienza di H.G. Wells1 e dei suoi successori si nascondeva
sotto un manto di previsione scientifica; e le fantasie pure di
Lord Dunsany2 e James Branch Cabell3 avevano successo unicamente come arguti intrattenimenti, così come i libri gialli. La
narrativa per adulti era dominata dal realismo di vario genere da
più di un secolo, un periodo talmente lungo che il pregiudizio
realistico non era più considerato come una moda temporanea.
Per essere prese seriamente, le storie moderne dovevano quindi
generalmente essere ambientate in luoghi e tempi reali, preferibilmente recenti, dovevano riflettere le strutture sociali reali e
dovevano essere strettamente governate dalla verosimiglianza.
Negli anni Trenta, quando fu scritto Lo Hobbit, la narrativa
più recente era sperimentale e, a suo modo, non-realistica. Le
opere di Franz Kafka, James Joyce e William Faulkner, ad esempio, hanno ampliato i confini del realismo tradizionale creando
un modernismo rivoluzionario. Ma sebbene quelle opere si fossero liberate del vecchio realismo drammatico, esse si limitarono a intensificare il realismo psicologico e ad abbracciare la
decadenza. Le aberrazioni e le fantasie erano solitamente situate nella mente, spesso malata, di personaggi che si muovevano
in ambientazioni realistiche. I lettori del capitolo del Bordello
dell’Ulisse di Joyce conoscevano il cervello materiale, l’ambiente
sociale, in cui la vicenda era fantasticata: la fantasia era una malattia incorniciata in un teschio realistico. E se una fantasia era
presentata senza alcuna cornice, come in Kafka e nei surrealisti
francesi, essa era, nota Tolkien, tinta di morbosità, simile alle
visioni di una mente disturbata da una febbre alta (MF, p. 233).
Questa morbosità, così dissimile dalla sana lucidità delle fiabe,
nel secolo di Sigmund Freud fu considerata dai critici come sintomo di serietà artistica.
Da un’opera moderna di narrativa seria ci si aspettava inoltre
che fosse moralmente realistica: il bene e il male non dovevano
1
Scrittore britannico (1866-1946), considerato fra i pionieri della fantascienza. Fra le sue opere più famose: La Macchina del tempo, L’isola del dottor
Moreau, La guerra dei mondi (N.d.C.).
2
Scrittore e drammaturgo britannico (1878-1957) famoso per i suoi racconti fantastici, tra cui La figlia del Re degli Elfi (N.d.C.).
3
Scrittore statunitense (1879-1958) noto per i suoi romanzi fantastici, tra
cui Don Manuel di Poictesme e Jurgen (N.d.C.).
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essere polarizzati e chiariti dall’autore ma dovevano imitare i
valori offuscati dell’esperienza umana reale. Sebbene gli autori
abbiano ovviamente creato i loro personaggi e ci abbiano detto
tutto ciò che di essi sappiamo, ci si aspetta che un autore moderno eviti di dirci se un personaggio è buono o cattivo, anzi,
che eviti di rappresentare chiare polarità morali. L’obbiettivo
era la complessità, e nei primi anni della sua popolarità Tolkien
fu spesso accusato di carenza di “complessità morale”, come
se tale mancanza fosse in sé un male. Se un autore moderno
si fosse schierato moralmente ci si aspettava che facesse uso di
ammiccamenti e di prospettive multiple, condividendo i punti
di vista di entrambe le parti, e non, come fa invece l’autore del
Beowulf, descrivendo un personaggio come “buono” e un altro
come “cattivo”. Perfino opere con ambientazione realistica e
con eventi verosimili potevano essere considerate “escapiste” se
distinguevano troppo chiaramente il bene e il male, soprattutto
se alla fine il bene trionfava.
In quanto medievista, Tolkien considerava la maggior parte
di questi pregiudizi critici come patologie del pensiero moderno
piuttosto che come principi universali e, fortunatamente, essi
non si applicavano alla narrativa per ragazzi. Scrivendo per i
giovani, infatti, moralizzare era considerato corretto, quasi obbligatorio; inoltre, si supponeva che le menti “primitive” dei
bambini fossero recettive nei confronti del fantastico e che richiedessero spiegazioni semplici. Non riuscendo a trovare un
pubblico adulto per i miti moralmente seri che aveva già scritto,
ossia le fitte epiche fiabesche che aveva iniziato nel 1917 con
il Libro dei racconti perduti, la scappatoia giovanile fu il motivo per cui Tolkien pubblicò il suo primo libro di narrativa per
ragazzi. Nel 1957 egli sostenne di aver scritto fiabe non perché
fosse particolarmente interessato a rivolgersi ai bambini, «ma
perché desidero scrivere questo tipo di storie e nessun altro»
(Lettere, n. 215).
Fortunatamente, nell’editoria per ragazzi esistevano numerosi precedenti per il tipo di storie che Tolkien intendeva scrivere. Oltre alle popolari raccolte di fiabe dei fratelli Grimm e
di Andrew Lang, egli riconobbe l’influsso di La principessa e i
goblin (1872) di George MacDonald, dei romance medievali di
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William Morris, di The Black Douglas (1902) di S.R. Crockett
e, in particolare, di un trascurato fantasy per bambini dal titolo The Marvellous Land of Snergs (1927) di E.A. Wyke Smith.
Tolkien cita con familiarità molti altri testi, fra i quali Alice nel
paese delle meraviglie (1865), Il vento tra i salici (1908), Fratel
Coniglietto (1906), La macchina del tempo (1895) e L’isola del
tesoro (1883). Ma anche altri classici prepararono la strada per
Lo Hobbit, se non come influenze sull’autore, almeno come precedenti nelle menti dei lettori. Alcuni dei più importanti possono essere i romanzi scientifici di Jules Verne, le esplorazioni
nell’ignoto di H. Rider Haggard (specialmente Le miniere di Re
Salomone [1885], che con Lo Hobbit condivide molti temi) e la
fantasia erudita di E. Nesbit con La storia dell’amuleto (1905).
Perfino Il mago di Oz (1900) di L. Frank Baum, troppo volgarmente americano per Tolkien, si nasconde dietro l’influenza riconosciuta della fantasy di Wyke Smith. Come libro per ragazzi,
Lo Hobbit crebbe in un terreno ben dissodato.
Tolkien scoprì quindi una forma moderna accettata, il racconto avventuroso per ragazzi, attraverso la quale poté condividere con un vasto pubblico i miti del sacrificio e dell’integrità,
valori cristiani permeati dei miti pagani dell’Europa settentrionale che aveva scoperto nel Beowulf e nel Sir Gawain e il Cavaliere Verde. Non è un caso se Lo Hobbit fu pubblicato più o meno nello stesso periodo di due grandi opere di critica letteraria
del professor Tolkien, Beowulf: mostri e critici e “Sulle fiabe”:
tutti e tre infatti parlano degli stessi argomenti, proponendosi
di restaurare un’eredità che egli temeva fosse stata tristemente
perduta dalla letteratura del suo secolo.