Leggi - Moby Dick | Associazione

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STANZA 8
Stanza 8. Quando esco di qui il numero otto me lo gioco al lotto.
Solite elucubrazioni notturne mentre mi illudo di ingannare le ore fissando il numero
sopra il mio letto.
Certe volte ho una visione: il nastro adesivo del fogliettino plastificato su cui è stampato
il numero della mia stanza, si stacca dalla parete e l’8 , in posizione orizzontale, si
trasforma in ∞ simbolo matematico dell’infinito. Infinito come il tempo che devo
passare qui.
Per il dottorino carino – con il fascino dei camici bianchi delle fiction – che viene a
provarmi la pressione ogni mattina alle 9 sono “la brunetta della stanza otto”; forse
anche per questo mi sono affezionata a questa stanza e non solo perché non c’è
alternativa a questo soggiorno obbligato.
Apprezzo particolarmente il termine con cui mi identifica quel dottore, considerata la
mia pettinatura alla Soldato Jean fa piacere che qualcuno ti ricordi che sei bruna.
L’infermiera dice che sono fortunata, questa è la stanza più luminosa del reparto, ma i
fiori sul mio comodino non sembrano essere d’accordo. Dalla mia finestra si vede il
giardino dell’ospedale ed è la prima stanza in cui servono le varie sbobbe del giorno che
ho quindi il privilegio di mangiare sempre ben calde.
Sì, nella sfortuna sono sempre fortunata: il male è stato preso in tempo, l’operazione è
andata bene, rispondo positivamente alle chemioterapie, la medicina ha fatto un sacco di
passi avanti, i capelli ricresceranno più forti…
Dunque sono una cliente avvantaggiata, un po’ come quelle signorine di nobile famiglia
che negli alberghi a cinque stelle hanno sempre la suite riservata. Allora pretendo
anch’io la chiave, magari con un bel pompon rosso cardinale come portachiavi e il
numero otto inciso sulla montatura di ottone, così potrei chiudermi dentro quando il
servizio in camera mi porta le medicine – invece del the – delle cinque.
Conosco ogni piccola crepa nell’intonaco del soffitto che fisso per ore, sperando di
risvegliarmi da questo brutto sogno. Da questo incubo.
Continuo a ripetermi che il peggio è passato, non perché io sia fuori pericolo ma bensì,
perché ho fatto pace con il mio corpo. Vedo e vivo il cancro per quello che è, una specie
di “depressione” delle cellule che si suicidano se non le aiuti.
Se non fosse per l’odore di disinfettante questa stanza potrebbe essere quella di un
motel, di quelli a ore, alcova di amori clandestini: arredamento essenziale, asettico e un
po’ squallido nei particolari, come le piante di plastica nel salottino alla fine del
corridoio.
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Una camera di motel non ha bisogno di essere bella perché chi ci entra o è pieno di guai
e quindi non sarebbe dell’umore adatto per gustarsi nessun tipo di confort o è travolto
dalla passione, e sappiamo che il desiderio ardente è capace di trasformare una capanna
in una castello. Io sono travolta dalla passione per la vita, la malattia me lo ha ricordato.
Modestamente me ne intendo di motel. Con Andrea è andata avanti per un anno, tutti i
giovedì sera. Ci davano sempre la stanza 25. Me lo ricordo bene perché erano i miei
anni, ma non mi ricordo nei dettagli la stanza, ricordo il letto che cigolava, le lenzuola
poco morbide e il tempo che passava sempre troppo veloce, al contrario di qui.
Non ci siamo più tornati da quando lui ha divorziato e ci siamo messi insieme, quasi a
rimuovere la sofferenza di quel periodo di latitanza amorosa in cui il marron della
moquette dei corridoi inghiottiva le nostre coscienze molli.
Chissà com’è la stanza 8 del nostro motel? Prometto che se esco da qui andiamo a
passare una notte lì, in memoria dei bei tempi e per esorcizzare l’incubo di questa stanza
numero otto.
Spero che abbiano cambiato i portachiavi, orrende palline di plastica, simbolo del nome
del motel Biliardo.
Osservo il numero otto attraverso la sacca della flebo. Così deformato sembra anche più
simpatico, paffuto come lo era una volta il mio viso.
Quando le medicine fanno effetto l’8 lo vedo più sbiadito, come se ogni cattivo pensiero
volesse allontanarsi dalla mia mente.
Il suono del campanello nella stanza vicino alla mia, mi riporta alla realtà. Solita crisi
respiratoria di quella della sette. Zoccoli stanchi lungo il linoleum verde, manca un’ora
al cambio di turno.
Riguardo la flebo come una clessidra troppo lenta e la farfallina, attaccata al mio
braccio, sperando che sbatta le ali. La luce notturna traballa e la macchinetta delle
bevande calde, gracchia insonne.
Quando arriveranno le otto? Mi chiedo, chiusa come un baco, nella mia stanza. Alle otto
passa a trovarmi Andrea prima di andare al lavoro.
Provo a ripassare la tabellina dell’8 chissà che arrivino prima le otto! Mi viene in mente
la mia maestra che vedendomi negata per la matematica mi aveva insegnato dei
trucchetti: 6x8… 48… asino cotto!
Senza pensarci mi armo della penna con cui faccio l’enigmistica, scatto in piedi e mi
accingo a disegnare due occhietti e un sorriso al numero sopra il mio letto. Ora non è
più uno squallido otto, ma un numero uscito dalla fantasia dei bambini.
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La malattia è allergica al buon umore. Mi sento già meglio – non voglio darla vinta alla
nausea – e dal comodino la sveglietta, souvenir di un detersivo al profumo di Marsiglia,
mi ricorda che mancano solo cinque minuti alle otto.
Sono proprio fortunata, ho solo un pezzo di fegato in meno, ma mi è rimasto – grazia al
sostegno di chi mi ama – tutto il mio “fegato” nel affrontare la malattia, il coraggio di
continuare ad amare la vita, su e giù per le montagne russe!
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