Prof ing - INU Lazio

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Prof ing - INU Lazio
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All’INU Lazio
Elio Piroddi – Contributo al Congresso 2013
NOTA SUL (pool) POSITION PAPER
La città come motore di sviluppo è un tema talmente dibattuto dalla letteratura
internazionale, fino alla stampa di larga diffusione1, che meriterebbe un congresso a
parte, con annessa analisi delle specificità della rete urbana italiana.
Ciò premesso, del contenuto del Paper sembra largamente da condividere quello che dice
sulla fenomenologia urbana e sui nuovi paradigmi2; mentre piuttosto aleatorio appare il
richiamo alla politica se non ci si interroga sulle cause degli evidenti disastri urbanistici,
alcune, non secondarie, riconducibili ai difetti dell’apparato di pianificazione, di cui
anche la cultura urbanistica – di cui l’Istituto è uno dei rappresentanti istituzionali - è
responsabile.
MEMORIA SUL TEMA DELLA PIANIFICAZIONE
Questa memoria riguarda solo uno dei temi proposti dal (pool) Position Paper. E
precisamente quello che consideriamo la ragione sociale dell’INU, il tema sul quale
l’INU ha, per così dire, competenza esclusiva.
Restando sul titolo del congresso, la città potrà essere motore di sviluppo se il nostro
sapere tecnico saprà proporre alla politica gli strumenti idonei a gestire i problemi
direttamente pertinenti all’uso del suolo, alla disciplina delle tutele, ai progetti di
trasformazione (ivi comprese la conservazione e la “rigenerazione” urbana), alla
ricostituzione fisica della città pubblica. Cosa che da tempo non avviene a causa
dell’inefficacia e dell’inefficienza di un apparato di pianificazione che, non da oggi,
alcuni studiosi (compreso il nostro presidente) sottopongono ad una onesta, ma forse non
abbastanza radicale, critica.
CITTA’ di pietra e PIANI di carta
Come uscire dalle secche di una pianificazione urbanistica burocratizzata, inefficace e
inefficiente
Premessa
L’intera pianificazione,anzi, meglio, la tenuta urbanistica del paese sono in crisi
profonda. Convegni, mostre, ricerche, gli stessi congressi dell’INU, documentano uno
stato delle cose che possiamo anche constatare de visu percorrendo il territorio italiano.
Dove è esploso un boom edilizio senza precedenti, di dimensioni persino maggiori di
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V. A questo tema il Centro Stidi “Futuri della città” (La Sapienza) ha dedicato numerose News Letter leggibili sul sito
Segnatamente, a proposito dei piani (tema 2) “la rinuncia a qualsiasi “rappresentazione sinottica di un presunto stato
finale”
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quello degli anni ’60, che si sta smorzando solo a causa della crisi mondiale, ma ha già
prodotto danni ingenti in termini di consumo di suolo, degrado del paesaggio e cattiva
qualità insediativa.
La pianificazione urbanistica è tutta una variante ai piani esistenti. Si sta passando dal
piano come grande programma complesso ai programmi complessi senza piano, mentre
ogni livello e settore di governo fa un piano per proprio conto. Il paesaggio
urbano/metropolitano è stato investito da un ciclone che oggi è in pausa ma attende di
ripartire con l’alibi del rilancio dell’edilizia. I capitali in cerca di investimento volano e
atterrano dove pensano di trovare convenienze. Il territorio si metropolizza, i luoghi
diventano fungibili: grandi contenitori, cittadelle, molta architettura autocentrata, anche
di qualita’ ma spesso alla ricerca dell’immagine pubblicitaria (il “design ingrandito” di
Gregotti), reti, nodi, friches, junkspace (Koolhas), sprawl (Ingersol). E lo spazio
pubblico sempre più assente: un residuo , per dirla alla Sassen. Un’identità sbiadita, che
si rintraccia solo nei centri antichi e in alcuni paesaggi naturali superstiti.
Non è bastata la riforma degli strumenti. Anzi, spesso ha complicato le cose e
incoraggiato le scorciatoie. Inevitabile pensare che occorra una riforma della riforma.
Non tanto e non solo degli strumenti ma del modo di amministrare l’urbanistica
(parafrasando il titolo di in ben noto libro del nostro presidente onorario). Un fronte
comune tra riformisti, difensori del paesaggio, centro e sinistra con o senza trattini.
L’ingorgo normativo: qualche piccolo esempio per rendere l’idea
Primo esempio. Un delizioso comune dell’Umbria, regione in prima linea nella
riforma urbanistica (provata da una prolificità legislativa che mette a dura prova la
capacità interpretativa e di adeguamento dei comuni) viveva tranquillamente fino a
qualche anno fa con un semplice Programma di Fabbricazione. Oggi, a quattro anni
dall’incarico del PRG, per gestire un territorio che avrebbe l’unica vera esigenza di essere
lasciato tranquillo e di non sollecitare insane voglie di trasformazione, esso si accinge ad
affrontare, con la diligente ma impegnativa assistenza di provincia e regione, ben tre
percorsi procedurali per approdare, in tempi non prevedibili, alla formazione del PRG.
Oltre ad essere oggetto di un “Piano Strategico di valorizzazione (!) del centro storico”.
Secondo. Un importante città toscana, sede portuale, nella formazione del Piano del
Porto, per effettuare, come d’obbligo, una “valutazione di coerenza” deve confrontarsi
con 11 (undici) piani, locali e territoriali, della più diversa natura (territoriali
propriamente detti, acque, rifiuti, acustica, traffico, bonifica, ecc. facenti capo ad autorità
diverse). Tutti tranne l’unico che conta davvero: il piano di accessibilità al porto dalla
Variante tirrenica.
Terzo. In alcuni dei più importanti comuni della Basilicata, dopo qualche tentativo
degli urbanisti, il Piano Strutturale è stato praticamente abbandonato. La “politica” si è
impossessata subito del Regolamento Urbanistico, considerandolo giustamente la vera
sede della resa dei conti. Al Piano Strutturale si penserà eventualmente dopo. La disputa
sulle lottizzazioni da includere o meno nel Regolamento ha portato al blocco del
procedimento di formazione degli strumenti urbanistici
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Quarto. I comuni del Lazio, segnatamente quello meridionale, notoriamente affetti di
abusivismo, sono (sarebbero) costretti da una legge regionale tagliata esclusivamente
sull’abnorme fenomeno delle borgate romane, a formare un numero indefinito di piani di
“recupero urbanistico” di tutti i nuclei extraurbani appositamemte perimetrati, prima di
poter formare il piano urbanistico generale. Cosa manifestamente impraticabile che
blocca la formazione dei piani.
Il federalismo asimmetrico: ciascuna Regione per sé e lo Stato per nessuno
Se c’è un campo nel quale si è sviluppato e vige tuttora un federalismo perfettamente
asimmetrico è la pianificazione del territorio: le regioni legiferano per conto proprio,
sotto il labile controllo dei commissari di governo (con seguito di continui contenziosi
Stato/regioni/privati) nella quasi totale assenza di contrappesi statali (“Legge di principi”,
“Linee fondamentali”).
Complicazioni e ridondanze delle leggi regionali
Le (inutilmente) diverse leggi urbanistiche regionali costituiscono, in gran parte, una
babele di accademia urbanistica. Vi si enunciano, con varie denominazioni, principi
generalissimi che non competerebbero ad una legislazione locale, vi si trovano spesso
espressioni astruse, neologismi e concetti tecnicistici (per non dire gergali) non
facilmente traducibili in un linguaggio di senso comune. Vi si coglie la tendenza ad un
perfezionismo procedurale al di fuori della portata di gran parte delle strutture locali. Si
immaginano meccanismi di rendicontazione, valutazione, controllo, partecipazione di
complicata applicazione. I Documenti preliminari, puntualmente formalizzati (affinchè
nella patria del diritto, nulla sfugga alla legge), oscillano tra compendi statistici, bilanci
improbabili ed elenchi di più o meno generici obiettivi generali “politicamente corretti”,
Il meccanisno della copianificazione, ottimo principio, è poi affidato in concreto alla
effettiva possibilità tecnica del personale delle regioni e province di svolgere centinaia di
conferenze con i singoli comuni in tempi ragionevoli
L’improbabile legislazione concorrente e la “stratificazione” urbanistica
La brillante invenzione dell’istituto della “legislazione concorrente” tra Stato e
Regioni ha portato a continui conflitti di competenza, il cui risultato finale è che molte
regioni non sono in grado di esercitare le “tutele” (paesaggio, consumo di suolo, ecc.) e
che lo Stato non ha i pieni poteri per farlo.
La pianificazione, con annessi “statuti del territorio”, “valutazioni strategiche”,
“conferenze di copianificazione”, “conferenze di servizi” e un numero imprecisabile di
passaggi, opportunamente diversificati da una regione all’altra, è diventata un formidabile
campo di esercitazioni di tutti i gradi della nostra implacabile burocrazia.
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La mania dei Piani Strategici
Dopo qualche positiva esperienza giustificata dalla dimensione del contesto e sorretta
dalla preesistenza di un Piano Regolatore forte (un es. per tutti Torino), la moda dei piani
strategici è dilagata anche in realtà territoriali prive dei presupposti necessari perché una
vera strategia abbia un senso e ha prodotto una litania di buone intenzioni prive dei più
elementari requisiti di fattibilità. Basta leggerne uno e li si è letti tutti. Proposti spesso da
piccoli comuni dipendenti interamente da contesti e politiche più grandi di loro, sono
diventati un alibi (propagandistico) per amministrazioni incapaci di gestire i problemi
dell’urbanistica locale.
La strategia è una cosa seria che si decide al livello giusto (dimensioni territoriale ed
economica significative) quando e se le autorità locali sono in grado di dialogare con gli
stake holder (detentori di poste) e, contestualmente, rappresentare le parti di cittadinanza
che ne sono prive.
Da quando le città non rassomigliano ai piani? (In)efficienza e (In)efficacia dei
Piani
Non da oggi si constata e si ripete che le città non rassomigliano ai rispettivi Piani. Dal
tecnicamente impeccabile Piano di Bergamo della squadra Astengo-Lesourne - testo
basilare per intere classi di studenti di urbanistica – alla sequenza di piani per Milano –
quale più quale meno votato all’insuccesso – al clamoroso buco dello SDO nel Piano di
Roma ‘62 – firmato con onore da Piccinato e compagni - all’attuale generazione di piani
targati “riforma INU” (strutturali, operativi, ecc.) è assai raro che la città costruita si
rispecchi in quella disegnata sulla carta.
Se questo si poteva attribuire nel secolo scorso a cause e disfunzioni occasionali,
ormai si deve prendere atto che inefficienza e inefficacia sono il risultato di impedenze
procedurali e tecniche che risalgono al modo di formarsi dei piani, al fatto che l’intero
apparato della pianificazione, non funziona più a confronto con lo stato delle cose. Il che
riduce spesso la pianificazione alla ratifica di cose già decise, all’adozione di riti
abbreviati (Accordi di Programmi, leggi speciali, ecc.), a sottrarre i cosiddetti “eventi”
(possibilmente “grandi”) alle procedure regolamentari avviandoli su corsie preferenziali
prive di reali controlli. 3
Piano urbanistico e Governo del territorio
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Cfr E.P.“Efficienza ed efficacia dei piani a confronto con lo stato delle cose” in U.I.231e E.P., A. C. e altri in “Il
Nuovo Manuale di Urbanistica, Lo stato della pianificazione urbana in Italia, 20 città a confronto”, Mancosu ed.
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Globalizzazione, metropolizzazione, velocità di movimento dei capitali in cerca di
atterraggio, molteplicità dei centri di decisione, frammentazione della cittadinanza, del
consenso e della stessa forma fisica della città richiedono una profonda autocritica delle
pratiche urbanistiche.
Prima di tutto ridisegnando il campo di competenza. L’idea che l’urbanistica coincida
col “governo del territorio” è presuntuosa e tecnicamente sbagliata. Il “governo del
territorio” si incardina né più né meno nella Politica, che deve, se sa, avere una sua
visione della città, in tutti i suoi aspetti: sociali, economici e, ovviamente, spaziali. Il
Piano si occupa di questi ultimi ed è istituzionalmente circoscritto alle Regole in base alle
quali si può conformare, utilizzare e progettare il territorio. Nulla di più o di meno. La
pretesa che l’Urbanistica “governi il territorio” è causa di continui conflitti di competenza
a tutti i livelli e, infine, dell’impotenza dei Piani.
Il diavolo della negoziazione
L’idea che la negoziazione con i privati sia un invenzione diabolica del capitalismo
finanziario non è solo sbagliata ma soprattutto priva della più elementare fattibilità in
regime di risorse pubbliche scarse se non inesistenti. Ricondurre la negoziazione entro il
perimetro dell’interesse pubblico non è impossibile, anzi è la pratica attuata in non pochi
casi, soprattutto nel resto d’Europa. In Italia sarebbe resa non solo possibile ma normale
se i Piani urbanistici riuscissero ad uscire dalle secche di una pianificazione
burocratizzata e inefficiente e si trasferissero poteri alla Gestione di Piani
opportunamente semplificati.
Un Piano utile (per una città bella?) Come cambia la filosofia della pianificazione
Se cambiano gli scopi e i contenuti – da crescita a manutenzione, da nuova
costruzione a riutilizzazione- ristrutturazione, dall’automobile al trasporto collettivo, dal
petrolio alle energie rinnovabili, dalla domotica all’urbanotica - deve cambiare il modo di
fare il Piano: da un Piano ogni 40 anni, che arriva sempre in ritardo, a un piano just in
time, dal Piano semplice alla Gestione complessa, da un Piano senza progetti a una Regia
per i progetti. Che rimettano in gioco la questione della qualità e della bellezza per
ripensare l’architettura della la città. (“piano” è “progetto urbano”)
Semplificazione e nuovo Piano: principi di un piano a geometria variabile 4
L’idea di Piano maturata sulla scorta delle esperienze professionali e degli studi più
recenti sullo stato della pianificazione in Italia e in Europa si può riassumere nello slogan
di “Piano a geometria variabile”: fondato essenzialmente su una carta unica dell’uso dei
suoli, sulle regole per la manutenzione della città esistente, sulla non concessione
preventiva di trasformabilità nel territorio non edificato e poi, in fase operativa,
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Solo “l’urbanista ottuso vuole avere sottomano, sin dall’inizio, tutti i risultati finali” (R. Sennet, 2013).
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direttamente sui progetti; fattibili e sostenibili, da esaminare caso per caso quando e
laddove giungano a maturazione.
In questa logica un Piano autenticamente strutturale, come vorrebbero molti riformisti
dell’INU, con una topologia indicativa ed indirizzi programmatici che non distribuisce
diritti e impone solo i vincoli non negoziabili, potrebbe anche non necessitare di una
formalizzazione come legge erga omnes ma essere un atto unilaterale
dell’Amministrazione.