Il miele della poesia - Fondazione Banca del Monte di Lucca

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Il miele della poesia - Fondazione Banca del Monte di Lucca
CONCORSO PER LE SCUOLE
“Il Tempo della Poesia”
dedicato a Giovanni Pascoli nel centenario della sua morte (1912-2012)
Tesi Universitaria
Laurea Magistrale
Insegnamento dell’italiano come lingua
straniera
“Il miele della poesia”
Nome: Ana López Rico
Università per Stranieri di Perugia
Facoltà di Lingua e Cultura Italiana
Anno Accademico 2012/2013
A Pascoli
Recuerdo mis caricias a tus versos añejos,
El perfume de tus cartas de amor entre mis dedos.
Mi corazón que palpita por sentimientos ajenos.
A.L.R.
Dedicatoria e ringraziamenti
Dedico la mia Tesi di Laurea al Pascoli poeta e fanciullino perché mi ha
insegnato a conoscere me stessa più profondamente man mano che leggevo,
scoprivo e mi documentavo sugli aspetti della sua vita e opera facendo i lavori
di ricerca per completare questi saggi.
Un ringraziamento va a tutti i pascolisti, esperti di letteratura e amanti
dell’opera del Nostro che ho incontrato durante il mio viaggio fra i luoghi
pascoliani, in maniera speciale a Giovanni Capecchi per avermi fatto conoscere
per primo il poeta di Castelvecchio e per il suo aiuto incondizionato nel mio
percorso letterario; alla ricercatrice Véronique Youinou per le sue conversazioni
e supporto; al prof. Philippe Guérin per l’interesse costante; ai ragazzi della
Fondazione Casa Pascoli (Elisa e Roberto) per la loro piena collaborazione e per
l’aiuto dimostratomi in quei giorni impegnativi fra la digitalizzazione dei
documenti e la corsa contro il tempo per i preparativi del centenario, grazie per
la simpatia malgrado la confusione, stanchezza, caldo e digiuno di quei giorni
estivi; al prof. Gian Luigi Ruggio per avermi dedicato più di un’ora d’intervista
sotto il sole rovente di Castelvecchio; e a Giorgio Zicchetti, collaboratore di Casa
Pascoli a San Mauro, per le sue interessanti spiegazioni botaniche.
Premessa
Comincio questa premessa seguendo «la consuetudine tutta pascoliana di
inserire riflessioni autobiografiche anche in pagine critiche»1. Il motivo di questa
scelta è ovvio: sono una studentessa di nazionalità spagnola e la rivisitazione
della poesia di Giovanni Pascoli è fatta sotto l’ottica della mia visione personale,
diversa dai canoni tradizionali italiani e dal linguaggio critico. Un giorno il prof.
Giovanni Capecchi ha avuto il modo di dirmi: fra poeti vi intendete; un pensiero
che non deve essere escluso dalla critica letteraria poiché, come diceva Pascoli
al Fanciullino in un discorso nel quale metteva a confronto la visione critica della
poesia con la visione fanciullesca di essa: «Tu sei ancora in presenza del mondo
novello, e adoperi a significarlo la novella parola. […] Come sono stolti quelli
che vogliono ribellarsi all’una o all’altra di queste due necessità, che paiono
cozzare tra loro: veder nuovo e veder da antico, e dire ciò che non s’è mai
detto e dirlo come sempre si è detto e si dirà! […] gli uni non intendono più,
per senile sordità, l’arguto chiacchiericcio del fanciullo, gli altri non lo intendono
ancora, per quello schiamazzare che fanno, miseramente orgoglioso, intorno al
loro io giovane. […] A ogni modo, pace. Sappiate che per la poesia la giovinezza
non basta: la fanciullezza ci vuole!».2
Nell’interpretazione della poesia può quindi risultare utile avere quella sensibilità
che nasce dalla poesia stessa, soprattutto se si studia un autore con le
caratteristiche di Giovanni Pascoli: un poeta simbolista, che fa un uso accurato
dei significati, che coccola le parole che nascono dalla sua penna come farebbe
una madre con il suo bambino, che le fa interagire nella stesura della singola
1
2
G. Capecchi, Giovanni Pascoli, Le Monnier, Milano 2011, p. 258.
G. Pascoli, Il fanciullino, Nottetempo, 2012, pp. 46-47.
poesia ma che impregna d’intertestualità – sia intrinseca che estrinseca – anche
tutta la sua opera. Per capire un poeta che crea nuove espressioni, toponimi,
che inventa tutto un linguaggio onomatopeico (o pregrammaticale come lo
definiva Gianfranco Contini), un poeta che gioca con le parole, con i doppi sensi
e che usa un profondo carico simbolico in tutto ciò che scrive – dalle lettere
personali, agli articoli, passando per le poesie e le prose – bisogna essere un
po’ poeti, e un po’ fanciulli, e interpretare la sua opera da una prospettiva
nuova e diversa. Ma bisogna essere anche un po’ critici. Non dimentichiamo il
lavoro fondamentale che hanno fatto studiosi del calibro di Cesare Garboli,
Giuseppe Nava o Nadia Ebani, per citare solo alcuni fra i più importanti.
Studiando Il fanciullino sono arrivata alla conclusione che se io intendo alcuni
passaggi in modo diverso da come li capisce la critica è perché io e la critica
parliamo due lingue diverse; la fanciullina che è in me crede di capire il Pascoli
poeta in quanto a sentimenti e simbologia, e invece la studiosa critica che
prende forma piano piano nel mio carattere è più scientifica e si appoggia ai
testi di altri critici per dare delle spiegazioni; si basa sulle ricerche attuali e
soprattutto su quelle già fatte da altri studiosi importanti. Ma, come diceva
Giovanni Pascoli, bisogna mettere le due componenti insieme per arrivare a una
percezione completa del significato dei suoi testi.
Sono una novizia in questo tema e, a rischio di non essere presa sul serio
soprattutto dai critici e studiosi che da anni lavorano nel campo della ricerca
pascoliana, mi avventuro in questo mondo, nuovo per me ma allo stesso tempo
così familiare da permettermi di sfidare con una innocente «impertinenza»
giovanile i canoni tradizionali per presentare teorie fresche e nuove di zecca,
ma «vecchia» al punto giusto per credere, in questa mia «vecchiaia» «riposta
ogni autorità».3
Alla mia età dantesca dei trentatré anni, fanciulla a metà ma adulta al punto
giusto per capire che devo seguire il Virgilio della critica per non smarrirmi nella
selva oscura della poesia, do retta alla fanciullina che si è svegliata in me e che
3
Ibidem.
mi spinge a esporre le mie teorie: assurde? bizzarre? sbagliate perché nuove?
novità…? scoperte…?
Purtroppo non possiamo chiedere a Giovanni Pascoli se le mie ipotesi siano
vere, ma lui ce le ha già svelate, e forse questo mio lavoro di ricerca potrebbe
portare alla luce alcuni aspetti che finora non si conoscevano ed erano rimasti al
buio, eclissati da altre luci più consolidate. E in fondo, lo diceva lo stesso
Pascoli: «Il nuovo non s’inventa: si scopre».4
In questa premessa vorrei chiarire l’intenzione della mia Tesi, che non è altra
che dare un piccolo contributo là dove penso ci siano interpretazioni diverse da
quelle già proposte, senza screditare o diminuire l’importanza degli studi che si
sono fatti fino a questo momento nei confronti del poeta. La critica ha realizzato
un importantissimo lavoro pascoliano e devo dire che, grazie a questo lavoro, il
Nostro non è caduto nell’oblio ma vive ancora nei suoi testi che vengono
studiati, commentati e rivisitati da grandi professionisti nel settore della critica
letteraria. Ed è proprio questo che vuole il nostro poeta e lo esprime in alcuni
testi come nel suo meraviglioso Pensiero non so se triste o lieto5:
«Quello che conta, per un poeta, è lasciare qualche cosa che quando egli sia morto, resti più
viva che mai; che quando egli non abbia più occhi, si trovi innanzi occhi attenti, ammirati,
qualche volta pieni di lagrime…
La vita del poeta comincia allora, comincia là. Che cosa è tutto questo anfanare, gridare,
rissare? Comincia nel grande sopraumano oltremondano silenzio, la vita del poeta. Di qua non
c’era che un pover uomo il quale tribolava e masticava tanto fiele in compenso del tanto miele
che preparava per gli altri».
Pascoli sa che morirà, ma vaticina che i suoi scritti non lo faranno perché Dante
veglierà su di essi, così lo riconferma nella prosa intitolata Il tesoro pubblicata
per prima volta sulla rivista “La casa” nell’anno 1908. Lo aveva affermato
precedentemente nella Prefazione ai Poemi conviviali; il poeta si chiedeva se la
loro fortuna sarebbe stata la stessa di altri suoi scritti conviviali, quelli danteschi
della Minerva oscura, seguiti dai volumi Sotto il velame e La Mirabile Visione:
4
5
Ivi, p. 47
Giovanni Pascoli. Prose disperse, a cura di G. Capecchi, Carabba, Lanciano, 2004, p. 528
«[…] Non mi dorrebbe troppo se questi Poemi [si riferisce ai Conviviali] avessero la sorte di quei
volumi. Essi furono derisi e depressi, oltraggiati e calunniati, ma vivranno. Io morrò; quelli no.
Così credo, così so: la mia tomba non sarà silenziosa. Il genio di nostra gente, Dante, la
additerà ai suoi figli».
6
È molto interessante questo testo perché è lo stesso autore quello che fa
“l’interpretazione” critica. Lui stesso ci spiega il significato simbolico delle parole
scelte e prepara, noi studiosi, i critici del suo tempo e quelli futuri, a capire la
sua poesia, come fece anteriormente con il Fanciullino; lo possiamo notare
leggendo l’affermazione di Virgilio inserita nella prosa:
«Ti duole questa casa, che ti par così bella, ti sia stata concessa così tardi, così per poco. Per
questo dici:
O casa mia, volta ai tramonti
del sole e della vita…».
7
Più avanti, in questo testo, esiste una similitudine fra il miele e la poesia che
Pascoli spiega in una maniera straordinaria e che è la base di tanti suoi poemi e
pensieri:
«[…] nella penombra dell’arnia immensa e segreta. La fragranza del miele inebbriava il cuore.
Tutti i fiori della terra mandavano il loro piccolo alito facendo, di tutto insieme, l’odor degli
odori. E il rombo che ne usciva parea un canto d’infinite note che vibravano armoniosamente a
dare la nota sola d’un coro lontanissimo».
Non si può negare che, anche se si tratta di prosa, Giovanni Pascoli non scriva
semplicemente, ma canti, creando una poesia sublime, un canto paragonabile
al suono della cetra di Orfeo, e ci convinca con le parole che il miele è poesia,
che abbia veramente parlato con Virgilio e con Orazio e che abbia ravvisato le
sembianze di Dante in un monte chiamato l’Uomo morto, giocando sempre con
il magnifico parallelismo di alcune parole, significando che Dante, anche se
morto, era lì, davanti a lui, vivo, come la sua opera, come vorrebbe che fosse
anche per la propria poesia dopo la sua morte, cioè viva, come il miele che
ancora oggi viene prodotto dalle sue api, che io – nei miei giorni di ricerca a
6
7
Ivi, p. 438, nota 1
Ivi, p.434
Castelvecchio – ho visto con i miei occhi entrare ed uscire dall’alveare. Quelle
api che preparano il miele come meglio sanno, senza badare a quello che
diranno i gastronomi ma soltanto a quello che servirà a mantenere per l’eterno
l’arnia e lo sciame, come deve fare il poeta con la sua poesia.
Nel testo in prosa, appena finita la parte poetica, Pascoli fa subito riferimento
all’ambrosia. Qui mi vorrei fermare e aprire una parentesi per spiegare la mia
ipotesi sull’uso intenzionale di quella parola:
Sui dizionari enciclopedici troviamo diverse accezioni del lemma ambrosia ma a
noi interessano soltanto due di esse; la prima fa riferimento alla botanica. Il
nome scientifico è stato proposto da Carl von Linné (Råshult 1707 – Uppsala
1778) naturalista svedese, creatore della moderna nomenclatura binomia
(genere e specie) nella classificazione scientifica degli organismi viventi, nella
pubblicazione Species Plantarum del 1753.8 Il termine proviene dal latino
“ambrosia”, e a sua volta dal greco ἀμβροσία, che deriva di ἄμβροτος
“immortale”. L’ambrosia è una pianta annuale appartenente alla famiglia delle
composite, è molto resistente e può vivere in ambienti aridi e sui terreni
arenosi, ghiaiosi e anche asfaltati, quindi le si attribuivano proprietà immortali.
Sicuramente queste sono state le caratteristiche che hanno propiziato il
significato mitologico della pianta, e qui entriamo nella seconda accezione della
parola che ci interessa per questa tesi.
Il termine ambrosia è a volte il cibo e a volte la bevanda degli dei, ciò che solo
gli immortali potevano consumare. Nella tradizione poetica greca l’ambrosia si è
strettamente correlata al “nettare degli dei”, in autori come Omero, Alcmane,
Saffo e Anassandride, “nettare” e “ambrosia” sono bevanda e cibo, o cibo e
bevanda, dipendendo dai casi.
Dunque, indagando su queste due accezioni “pianta” e “sostanza divina che
porta all’immortalità”, troviamo nella tradizione popolare la credenza che ungere
8
Species Plantarum vol. II, Carl Von Linnaeus, Imprensis Laurentii Salvii, Holmiae, 1753, pp.
987–988
con l’ambrosia rendeva le persone immortali; questo è spiegabile soprattutto
per le proprietà lenitive del miele9.
Nella prosa Il tesoro, Pascoli sceglie la parola “ambrosia”. Io mi sono
domandata il motivo di questa scelta giacché il Nostro, pur essendo simbolista,
è anche il poeta delle piccole cose, il poeta della determinatezza. Che Pascoli
avesse sbagliato in questo argomento? Addirittura parlandoci delle piante del
suo giardino? L’ambrosia non è famosa per il suo profumo, perciò facendo
alcune consultazioni ho comprovato che erroneamente si è attribuito alla parola
ambrosia il significato di “fragrante”; questo è dovuto alla grande somiglianza
della pianta dell’ambrosia con l’artemisia vulgaris, che è un’altra pianta
composita molto diffusa, ma questa è perenne ed emana un profumo molto
aromatico e, al contrario dell’ambrosia, l’artemisia non presenta un colore verde
uniforme su entrambe le pagine, ma un verde oscuro nella pagina superiore e
argenteo in quella inferiore. Ma siamo allo stesso punto iniziale: avrebbe mai
potuto sbagliare Giovanni Pascoli in un argomento del genere?
Il professore e filologo tedesco Wilhelm H. Roscher era anche uno studioso di
mitologia greca e romana; nel suo scritto del 1878 Nektar und Ambrosia
pensava che “nettare” e “ambrosia” potevano identificare dei tipi di miele, al
quale attribuivano delle proprietà curative e purificanti e anche sciamaniche. Ma
anche Pindaro ha cantato l’ambrosia degli immortali quando Tantalo la offre ai
propri ospiti. Oppure Circe, nell’Odissea, quando accenna a Ulisse che uno
stormo di rondini portò l’ambrosia sull’Olimpo.
Quindi rondini, Ulisse, Pindaro, piante… miele. Tutte queste componenti
formano parte dell’universo pascoliano ma io non avevo fatto i collegamenti
giusti finché non sono andata a Castelvecchio e ho sentito l’ambrosia pure io.
Aveva ragione Pascoli, quell’ambrosia non è il profumo d’una pianta, e lui ce lo
dice nella prosa che precede la parte poetica del Tesoro, solo che l’apparizione
di Virgilio, facendo uso di una captatio benevolentiae già familiare a noi grazie a
Dante, attira l’attenzione del lettore inesperto togliendo quel pizzico di curiosità
9
Per capire il passaggio dal nettare al miele si legga il capitolo 3 di questa tesi, nel quale
approfondisco l’argomento.
che il poeta ci aveva donato all’inizio, parlando delle piante aromatiche che non
erano l’ambrosia. Ma allora, che cos’era? Agli occhi di un fanciullino non
sfuggirebbe, ed io, davanti alla soglia di casa Pascoli, mentre sfioravo con un
dito la cedrina, ho sentito una fanciullina che mi parlava dall’interno e mi
avvisava di un odore diverso rispetto a quello della melissa, era un odore
d’ambrosia e proveniva da una cavità nel muro, un buco da dove minuscole api
entravano e uscivano, senza badare alla mia perplessità davanti all’illuminazione
di quella fanciullina che si era risvegliata nell’estate del 2012 a Castelvecchio.
Erano quelle api che ancora oggi fanno il miele senza pensare se sarà buono
per i commensali, senza pensare che moriranno, che spariranno e andranno al
fiume dell’oblio dove galleggeranno sulle foglie delle rose. « E questa è
propriamente la morte dei singoli esseri: un dimenticarsi. Di tutto? Non forse di
tutto; sì, del male soltanto».
© ALR 2012 Ambrosia. Giardino di Casa Pascoli, Castelvecchio di Barga.
Dicevo, prima di aprire questa parentesi, che esiste una similitudine fra il miele
e la poesia, e non solo Pascoli ce l’ha spiegata, prima di lui tanti altri poeti
hanno cantato il miele della poesia, per esempio lo stesso Orazio nominato nel
Tesoro10.
Giovanni Pascoli era un grande lettore, e anche studioso dei classici. Scriveva in
greco e in latino e anche se nel Fanciullino ci dice che il vero poeta non
dovrebbe fare uso dell’imitatio, gran parte della sua opera è impregnata
dell’epica e della mitologia greca e latina; perciò possiamo affermare che si è
ispirato ai grandi, alle loro idee, alla filosofia di altri tempi per creare i suoi
componimenti, e a mio avviso questo gli ha permesso di creare le fondamenta
della sua poesia; ma non è l’imitatio ciò che costituisce la base che gli permette
di arrivare a quel sentimento poetico così difficile da trovare, a quello che si
ottiene osservando i piccoli dettagli, a ciò che si scopre nelle cose vicine; no, è
piuttosto una sensibilità speciale che solo chi ascolta veramente il fanciullino
riuscirebbe a provare. Per questo motivo, all’inizio della premessa, dicevo che
c’è un vuoto non colmato nelle parafrasi e interpretazioni delle sue poesie, c’è
un qualcosa che soltanto un altro poeta riuscirebbe a percepire perché è
consapevole di che cosa si pensa prima di creare una poesia, e mentre la si
crea, e il motivo per il quale si crea; perché sa cosa si prova giocando con le
parole e con i significati; perché sente delle emozioni indescrivibili pensando e
cercando le rime; perché rispetta il linguaggio e usa consapevolmente una
parola al posto di un’altra, con un’intenzione comunicativa perfetta (ricordo ai
lettori che Pascoli era il poeta della determinatezza) oppure con un’intenzione
soggettiva, ambigua o misteriosa, nascosta agli occhi dei meno attenti (ricordo
che era anche il poeta simbolista), perché sceglie la parola ambrosia proprio
all’inizio della prosa, prima che Virgilio gli scoprisse il tesoro, prima ancora che
si capisse l’intenzione del poeta, cioè cantare il miele della poesia come fecero
Orazio e tanti altri.
Chiusa la parentesi vorrei chiudere anche il circolo ricollegando il Pensiero non
so se triste o lieto con il miele della poesia, con il fiele che prova il poeta in vita
e con la fortuna della sua opera dopo la morte, una volta superato l’oblio e,
come diceva lui, grazie al fatto che Dante additerà il suo sepolcro.
10
Per approfondire su Orazio e il miele leggere il capitolo 3 di questa tesi.
Vorrei finire la prefazione tornando a inserire alcune riflessioni autobiografiche
in pagine che invece dovrebbero essere strettamente scientifiche.
Indagando nell’archivio di Casa Pascoli e visitando alcuni luoghi pascoliani: San
Mauro, Castelvecchio, Barga; respirando il profumo delle piante nel suo
giardino; sentendo il suono delle campane dal balcone di casa sua, posso dire
che sono diventata più fanciullina e sono riuscita a leggere le sue opere in un
modo diverso, più profondo, ho imparato a pensare nella sua stessa lingua,
cioè, nella lingua della poesia.
Invece la mia componente studiosa e critica si sente quasi come un Ungaretti in
cerca di un faro che serva da guida, e che però non lo trova perché il porto è
sepolto, perché è un’esule in Italia, perché a volte il fanciullino che risiede in
ogni critico si distrae o nasconde furbamente agli occhi di questi studiosi alcuni
argomenti che, umilmente, una fanciullina spagnola vorrebbe aiutarmi a portare
alla luce in questa tesi. Perciò mi devo servire del mio istinto e di tanta
pazienza, lasciare la mia lingua madre a riposo e, come dice il prof. Stussi, non
dare niente per scontato e impegnarmi a studiare bene le parole, a cercare il
significato storico, l’etimologia, e discutere a volte l’opinione degli altri,
sicuramente più esperti di me, ma con quella patina tradizionale italiana che li
costringe a lavorare sulle solite spiegazioni e ricerche.
Ho voluto dedicare questa tesi a Pascoli perché, grazie al suo vaticinio ancora
oggi ci insegna, non è morto, vive nella sua poesia, ed è questo che mi ha
insegnato la fragranza del miele in quel pomeriggio rovente di estate a
Castelvecchio, mentre sentivo in lontananza l’ora di Barga, mentre contemplavo
fra la foschia il Monte Forato e mentre l’odore della cedrina mi ricordava casa
mia, c’era un brusio intorno ad una cavità nel muro e il «canto che ne usciva
parea un canto d’infinite note che vibravano armoniosamente a fare la nota
d’un coro lontanissimo», e allora udì il canto della poesia «il suono della vita!» e
Giovanni Pascoli era lì, vivo, nella sua poesia.
Concludo con una nota: non pretendo di affermare che vedo la luce in un
mondo di cechi, anzi, mi vedo riflessa nelle parole di Pascoli quando scrisse
«Non solo sono un uomo io, ma un ignorante; sebbene cerchi assiduamente di
rimediare a tale mia immedicabile umanità e quasi disperata ignoranza con lo
studio paziente e con la docile riverenza ai più saputi di me»11. Infatti vorrei
evidenziare che tutti gli studi e ricerche pascoliane che si sono fatti finora mi
hanno aiutato notevolmente a capire questo complicato poeta, il poeta “delle
piccole cose” ma anche il poeta più profondo, il poeta simbolista, il poeta che ci
fa riflettere sul mistero della sua poesia e ci spinge a volte ad andare contro le
regole stabilite per entrare in connessione con il mondo pascoliano, un universo
pieno di mistero, di miele, di poesia e di tanti tesori ancora da scoprire.
A.L.R.
11
In risposta alla critica di Luigi Ceci. Giovanni Capecchi, Prose disperse, Carabba, 2004.
Introduzione
Luigi Nicolais – presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche – nella puntata
di TV7 del 01.12.2012, aveva detto che il ricercatore non si crea all’Università,
nel momento di fare la tesi, ma nasce in Prima Elementare, quando il bambino
comincia ad avere curiosità per conoscere e scoprire.
Accenno a queste parole nell’introduzione della mia tesi perché, per capire la
finalità delle mie ricerche e il motivo che mi ha spinto a scrivere su questi
argomenti, bisogna conoscere la mia biografia, come del resto, per riuscire a
capire approfonditamente l’opera di uno scrittore, bisogna conoscere la sua
vita, i suoi pensieri, le sue esperienze. Precedentemente, nella premessa, ho
spiegato le mie intenzioni: rivisitare l’opera pascoliana da una prospettiva nuova
– o diversa – studiata dal punto di vista di una laureanda spagnola che è
cresciuta come quel bambino del quale parlava Nicolais, spinta sempre dalla
curiosità per sapere, conoscere e scoprire. Questa bambina è cresciuta ed è
diventata grande. Da adulta ho cominciato un’erranza, una ricerca interiore che
mi ha spinta oltre al confine della mia terra e mi ha fatto diventare esule. Il mio
è un esilio volontario, non è politico, si tratta in particolare di un esilio
esistenziale. Fuggo forse dal sistema scolastico stabilito in Spagna (sono
insegnante nella Scuola Elementare) perciò con questa tesi vorrei anche riuscire
a suscitare nei docenti la curiosità per le materie che insegnano, facendo
vedere questi insegnamenti da una prospettiva diversa e spingendo i docenti a
chiedersi se potrebbero fare di meglio o diversamente. Scappo da una Spagna
che con gli anni si è trasformata da quel paese libero dopo il regime franchista
in un paese libertino e consumista. Non approfondirei i temi autobiografici se
non fosse convinta che sono necessari per la comprensione di questa tesi,
perché mi sono basata sulle mie esperienze mettendole in confronto con quelle
vissute da Giovanni Pascoli, perché in un certo modo mi vedo riflessa in lui: il
suo periodo giovanile è segnato da un grande cambiamento politico e sociale,
come lo è stato anche il mio. Per me Pascoli non è l’autore piangente, o quello
delle Myricae che inseguiva un nido frantumato e mai più ricostruibile.
Attraverso questa tesi vorrei far capire che Pascoli era uno scrittore impegnato
politicamente, che lottava per la patria, come gli eroi, ma a differenza di essi lui
non usava la spada bensì la sua penna; il Nostro era anche un poeta satirico
come vedremo più avanti quando parlerò della prima stagione, dell’esegesi,
dello pseudonimo Dioneo, e anche un poeta retorico che prendeva sul serio gli
insegnamenti che ci hanno tralasciato i filosofi greci e che poi ha integrato nelle
sue ultime opere.
Dicevo che questi accenni alla mia vita, alle mie esperienze, riguarderanno
soltanto questa introduzione, per rendere la finalità del mio lavoro più
comprensibile, in seguito l’intera tesi sarà concentrata sui testi pascoliani
limitando o addirittura eliminando i segni della mia autobiografia.
Sono cresciuta e sono stata educata in un ambiente dinamico e aperto allo
studio, al confronto e al dubbio (inteso come non rimanere inattivi se quello che
ci viene detto non ci convince del tutto, perché nessuno ha la verità assoluta e
bisogna sempre ricercare e confrontare). Forse sarà questa caratteristica della
quale parlava Nicolais quella che stuzzica la mia curiosità per sapere di più o
reinterpretare i concetti.
Studiando Pascoli ho scoperto che la fanciullina che viveva felice negli anni di
libertà è ancora con me, si è risvegliata, e mi spinge a scrivere questa tesi per
dimostrare a se stessa e anche alla compagna adulta che io rappresento, che
non è mai tardi per scoprire, per incantarsi con il profumo di un fiore che poi
diventerà poesia, che era poesia già prima e che lo può essere anche per la
critica se questa riesce a svegliare il fanciullino addormentato che ha dentro.
Questa tesi, nella sua dimensione meno combattiva, e meno presuntuosa,
potrebbe essere utilizzata per la didattica della letteratura, o per gli insegnanti
che impartiscono questa materia. In che modo si può usare? Convincendo i
docenti a non fermarsi al primo manuale che capita nelle loro mani, a servirsi di
più punti di vista, a controllare le critiche e confrontarle mostrando agli alunni
che non c’è soltanto un’interpretazione, e che nessuna di esse si può affermare
giusta, a volte nemmeno quelle che gli stessi autori propongono (perché lo
scrittore, e soprattutto il poeta dice di più con i silenzi che con le parole e sta a
ogni lettore scoprire che vogliano dire quelle parole e quei silenzi), e che quelle
interpretazioni non avranno sempre lo stesso significato, che a ogni rilettura
potrebbe cambiare, perché una parola che oggi non ci dice niente domani
potrebbe spiegarci tutto. E in questo istante della tesi potrei affermare che tutto
ciò che ho affermato è poesia… oppure no.
Per finire con le corrispondenze autobiografiche, nel più puro stile pascoliano,
ho voluto cominciare questa Tesi di Laurea con una mia poesia dedicata a
Giovanni Pascoli. L’ho creata nell’agosto del 2012, tornata in Spagna dopo aver
passato un periodo di peregrinatio attraverso i luoghi pascoliani. La dedica è
nata in spagnolo, non saprei dire il motivo: chissà se è dovuto al fatto che ero
in Spagna quando scrissi la poesia. Forse perché avrei intenzione di contribuire
alla divulgazione dell’opera di Giovanni Pascoli nel mio Paese? Magari perché
l’idea mi era venuta mentre parlavo con alcuni amici spagnoli della mia
esperienza di ricerca nell’archivio di Casa Pascoli, a Castelvecchio? Non lo so, il
fatto è che la fortuna di Pascoli va oltre la siepe e il nido, oltre i confini della sua
patria. Questo grande poeta italiano è di un’importanza fondamentale nella
letteratura italiana del Novecento perché con lui si apre un secolo e anche una
corrente: il Simbolismo. La sua fortuna, invece, anche se è andata oltre le mura
italiane come vedremo più avanti, nel capitolo intitolato La sfortuna spagnola,
non è molto estesa. Purtroppo quella italiana non è molto più amplia. Il 2012 è
stato deludente malgrado sia stato l’anno pascoliano; non ci aspettavamo una
martellante pubblicità come per le celebrazioni del 150º anniversario dell’Unità
d’Italia dell’anno precedente, ma avremmo sperato almeno una partecipazione
maggiore da parte delle scuole e dell’Università ed eventi che andassero oltre le
fondazioni e i ristrettissimi circoli pascoliani. Ma questa è una questione che
ancora si può risolvere con l’impegno di tutti.
In questa tesi fa la sua comparsa il Pascoli eroe. Prendendo come spunto i
riferimenti alla filosofia del Fanciullino, faremo un viaggio attraverso la poetica,
la dialettica e la passione, tutte e tre componenti dell’intera opera del Nostro.
Questo capitolo ci fa riflettere sull’eroicità di un autore che si è sempre pensato
fragile e depresso, ma questa componente eroica si fa più intensa in quegli anni
più bui, negli anni in cui la sua produzione non mirava tanto a diffondere un
messaggio ma a lottare contro il disperato pensiero della morte e del suicidio. È
la stagione che ho denominato dell’eroe stanco, nella quale il nostro poeta parla
insistentemente con i morti. Presenterò l’evoluzione della figura dell’eroe,
partendo dal guerriero mitologico e finendo con l’eroe decadente che cerca
invano di cambiare il mondo, evoluzione che in un certo modo subisce Giovanni
Pascoli durante tutta la sua vita letteraria.
Questa tesi rappresenta un viaggio, non solo inteso come una visita dalla
Spagna all’Italia, ma è anche un percorso nella storia. Il mio lavoro non ha a
che fare soltanto con Giovanni Pascoli ma c’entra addirittura con Omero, con
Virgilio, con Dante, e in un certo modo con me stessa. Si tratta di un itinerario
attraverso
alcuni
temi
pascoliani:
dall’esegesi
di
alcune
parole
alla
decodificazione di un linguaggio inventato, dal tema dell’amore a quello della
morte, dal Pascoli cupo come un mare in tempesta a quello abbagliante che
ride e scherza, passando per un autore dispettoso in grado di contraddire il
grande Leopardi o di arrabbiarsi con la critica letteraria.
Mi baserò sulle biografie, soprattutto in quella che ritengo più dettagliata e
affidabile com’è quella scritta da Mariù a cura di Augusto Vicinelli, anche se ci
sono altre molto interessanti come quella scritta dal biografo e curatore di Casa
Pascoli a Barga il professor Gian Luigi Ruggio; proseguirò tenendo conto i
commenti fatti negli studi di Garboli, Nava o Ebani, che ci hanno aiutato a
capire meglio questo contorto poeta. Ma anche se non ci fossero delle
bibliografie, non dobbiamo dimenticare – come ho segnalato in precedenza –
che tutta l’opera del Nostro è carica d’informazione autobiografica: i suoi
pensieri, i sentimenti, le vicende... Se si leggono alla lettera si potrebbe pensare
al poeta delle piccole cose, a quello delle cantilene adatte alle recite e feste
delle scuole elementari; invece la sua poesia è molto più vasta, più densa e
profonda, se analizziamo a fondo tutta la sua opera ci rendiamo conto che
Giovanni Pascoli era già simbolico prima dell’inizio del secolo scorso; un
esempio lo troviamo in Un grillo... di gioventù, e non possiamo dimenticare che
tutta la sua produzione è carica di simbolismo, richiami e riferimenti a fatti,
pensieri o idee concepite previamente e durature nel tempo.
In conclusione vorrei chiarire che le mie ipotesi nascono dalla mia realtà
particolare di straniera, dal fatto che non sono stata condizionata dalle
spiegazioni e dagli studi sulla vita e poesia del Nostro e dalla maniera in cui
viene insegnato nelle scuole italiane. Questa prospettiva dalla quale vedo le
cose mi fornisce un’ottica diversa che risalta aspetti dell’opera di Pascoli che di
solito non vengono presi in considerazione perché fuori dalla tradizione
scolastica. Anche il mio lavoro è fuori dal canone per una tesi o per un saggio
scientifico, ma sarebbe troppo facile seguire la scia degli altri, camminando su
una strada senza ostacoli. Invece ho scelto l’altra strada, quella dissestata.
Sicuramente è più difficile ma arricchisce e insegna di più, malgrado i momenti
di disperazione, insicurezza e pensieri di abbandono che a volte mi spingevano
a desistere perché non trovavo un appoggio o altra luce nella direzione che
avevo preso.
O Socrate, prova di persuaderci;
o meglio non come spauriti noi,
ma forse c’è dentro anche in noi
un fanciullino che ha timore di siffatte cose:
costui dunque proviamoci di persuadere
a non aver paura della morte come di visacci d’orchi. 12
CAPITOLO 1
Il pianto degli eroi.
L’incipit di questo capitolo è stato la fonte d’ispirazione per Pascoli per scrivere
Il fanciullino; infatti il poeta comincia il testo con le seguenti parole:
È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé
lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi.
13
Come possiamo vedere, qui si mescolano la gioia e il dolore, cioè, le
componenti del teatro greco: commedia e tragedia. In una tragedia greca il
personaggio principale di solito è un eroe e la storia raccontata si conclude con
una catastrofe (una morte, un suicidio). Era un’usanza nel teatro greco
l’esistenza d’un coro attraverso cui l’autore della tragedia parlava al pubblico.
Anche Il fanciullino raduna queste caratteristiche. Si profetizza una morte,
quella della poesia; l’autore fa le veci di narratore e ci parla dall’interno del
libro; e infine esiste pure un eroe, che in questo caso è il nostro poeta:
Giovanni Pascoli.
12
13
Platone, Fedro, 77 E.
Il fanciullino, Giovanni Pascoli, a cura di G. Agamben, Nottetempo, Roma 2012, p. 31.
Il Fanciullino è una Poetica aristotelica, una sorta di manuale o arte di scrivere
poesia proposto a modo di dialogo fra il poeta e il suo fanciullino, ed è questa la
caratteristica principale dei drammi: il contrasto fra almeno due elementi
differenti. Il termine “teatro” deriva dal latino theatrum, e questo dal greco
ϑέατρον, che deriva del tema di ϑεάομαι «guardare, essere spettatore»; infatti
un testo teatrale non poteva essere letto, ma soltanto guardato e ascoltato in
una rappresentazione. È quello che facciamo con il fanciullino che è dentro di
noi, lo si ascolta, e Pascoli ce lo spiega nella sua composizione. Ma, soprattutto,
possiamo dire che il Nostro con il Fanciullino ci ha lasciato un trattato sulla
passione:
Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due
fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono
piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo.
14
Timore, speranza, gioia e dolore. Secondo il modello nosologico dettato dallo
storico della filosofia greca, Diogene Laerzio, nel suo libro VII, queste sono i
quattro gruppi di passioni, le stesse quattro perturbazioni dell’anima della
filosofia aristotelica e dell’antichità.
Giovanni Pascoli inizia il Fanciullino alludendo a quelle parole di Platone, ma non
dobbiamo dimenticare che fu proprio il filosofo che mandò via tutti i poeti dalla
repubblica ideale. Platone biasimava i poeti mitologici per il loro uso dell’imitatio
e per la perturbazione degli affetti. Difendeva invece il sapere come credenza
vera associata a un logos
15
. Per Platone e anche per Aristotele il logos filosofico
va riportato nel discorso definitorio o dichiarativo, ciò che la critica ha chiamato
in Pascoli la determinatezza. Dal punto di vista dello stoicismo il logos è
identificato con il fuoco. Secondo il pensiero stoico, alla fine del mondo avverrà
una conflagrazione che consumerà l'intero universo, si salveranno soltanto le
“ragioni seminali” (che sarebbero un principio attivo che si diffonde nella
materia inerte portandola alla vita), cioè, il logos che è presente in tutte le cose
– dalle più grandi alle più piccole – e garantisce così l'unità razionale dell'intero
14
15
Ibidem.
Platone, Teeteto, 206d ss
cosmo per propiziare la rigenerazione di un nuovo mondo che conflagrerà
nuovamente secondo un andamento ciclico:
[…] e balenava all'orizzonte la conflagrazione del mondo in una guerra di tutti contro tutti e
d'ognuno contro ognuno
16
Gli stoici – come il precedentemente accennato Diogene Laerzio – mantengono
l’idea di due tipi di logos, uno inteso come “calcolo” (ratio), e un altro come
“discorso” (oratio), ma fanno una differenza fra logos endiathetos, oratio
concepta che sarebbe il discorso razionale o interiore – che Pascoli usa per
comunicare con il fanciullino –, e logos prophorikos, oratio prolata, cioè il
discorso proferito o parlato, che è la parte filosofica che ci vuole dettare
Giovanni Pascoli, nel Fanciullino, attraverso la sua parabola, in una sorta di
dialettica.
Nella filosofia il termine logos si contrappone al termine mythos. In questa
opposizione mythos corrisponde al pensiero tradizionale, alla mitologia, quel
pensiero basato sulle immagini, sull'autorità della tradizione arcaica, e sui
princìpi accettati e condivisi acriticamente; cioè, il pensiero contrario a quello di
Platone. Invece logos corrisponde al pensiero critico, razionale e oggettivo,
quello che è capace di sottoporre a un controllo minuzioso le antiche credenze e
i pregiudizi:
Se tu conoscessi Platone, ti direi che come egli ha ragione nel volere che i poeti facciano
mythous e non logous, favole e non ragionamenti, così non ho torto io nel pretendere che i
ragionatori facciano logous e non mythous. Ma pur troppo è difficile trovare chi si contenti di far
solo quello che deve. E Platone stesso... Ma egli era Platone.
17
Ho postulato che Pascoli ha scritto un trattato sulla passione. Nella letteratura
omerica, e secondo la filosofia dell’antichità, la passione era definita come un
sentimento eccessivo di esaltazione, ma non sempre era visto come qualcosa di
negativo, anzi, di solito era proprio la passione quella che guidava il gesto
eroico (come si può verificare in esempi della letteratura di tutti i tempi,
cominciando dal teatro greco fino all’attualità). Questi eroi e personaggi del
16
17
Il fanciullino, G. Pascoli, Nottetempo, Roma, 2012, p. 54.
Ivi. p. 49
dramma presentavano una serie di caratteristiche: desiderio esagerato, gioia
eccessiva, paura paralizzante, esaltazione senza misura… che li mostrava come
individui con atteggiamenti assurdi, al di fuori della normalità e come
personaggi instabili o addirittura fuori di testa. La passione diventava così
malattia (è un male d’amore sul quale Petrarca descriverebbe tutte le
caratteristiche e mutamenti dei malati d’amore), e questa infermità d’amore
conduce alla follia (della quale anche Ariosto scriverà i sintomi nel suo Orlando
furioso). La perdita d’identità portava così l’eroe alla soglia della pazzia.
Perciò Platone – nella Repubblica – e Aristotele – nell’Anima – spiegano che c’è
un grande contrasto fra la ragione e le passioni. Invece per gli stoici l’anima è
soltanto ragione e la passione arriva dall’esterno, dalla società.
Dunque la passione è esaltazione frenetica fino all’estasi o perdita dell’identità,
e questa idea offre il motore narrativo alla tragedia, giacché dona un
sentimento di eroicità ai personaggi. Come avevo anticipato, in questa tesi
Pascoli acquisisce il titolo di eroe, è un eroe stanco, un eroe piangente e tutto
ciò deriva dalle forti passioni che professa, sia per la letteratura e la poesia, sia
per il suo lavoro e per la politica, per la natura e soprattutto – nella seconda
stagione – per una persona in particolare della sua famiglia: Ida.
Con il termine eroe non mi riferisco al fiero guerriero che combatte per amore
alla patria, al suo re o alla donna amata, anzi, parlo di un altro tipo di eroe; un
uomo (e non più un semidio o un valoroso guerriero) impegnato politicamente
nella società, che lotta in altri modi per raggiungere i suoi ideali, ma è un eroe
piangente perché queste idee sono chimere, i suoi pensieri di libertà e
uguaglianza non sono capiti e quella situazione lo porta a uno stato di eterna
amarezza e incomprensione:
Così Omero, in tempi feroci, a noi presenta nel più feroce degli eroi, cioè nel più vero e poetico,
in Achille, un tipo di tal perfezione morale, che poté servire di modello a Socrate, quando
preferiva al male la morte. Così Virgilio, in tempi più gentili, avendo la mira soltanto al poetico,
ci mostra lo spettacolo tanto anticipato, ahimè! , d'un'umanità buona, felice, tutta al lavoro e
alle pure gioie dei figli, senza guerre e senza schiavi.
18
Si tratta di un eroe poeta che canta alla vita, alla natura, alla bellezza:
E nell'Eneide Virgilio canta guerre e battaglie; eppure tutto il senso della mirabile epopea è in
quel cinguettio mattutino di rondini o passeri, che sveglia Evandro nella sua capanna, là dove
avevano da sorgere i palazzi imperiali di Roma!
19
Il nostro eroe s’emoziona per le piccole cose quotidiane (qui troviamo la base
della poesia di Myricae), è un uomo che non ha la spinta dell’eroe mitologico,
non parte con la sua ciurma in cerca della felicità, di avventure o di conoscenze,
ma rimane in terra ferma, fermo anche lui, e soltanto scrive perché la lotta
dell’eroe stanco è una battaglia con se stesso:
Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno
o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere
che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e
ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la
sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra. Egli, anzi, quando li
trasmette, pur essendo in cospetto d'un pubblico, parla piuttosto tra sé, che a quello. Del
pubblico, non pare che si accorga.
20
Achille è l’incarnazione del guerriero eroico ma irrazionale che si lascia guidare
dal suo istinto, che antepone l’azione immediata alla riflessione e alla ragione.
Pascoli ci detta che il vero poeta deve cantare senza pensare a quello che
potrebbe trasmettere e – se trasmette qualcosa – lo dovrebbe fare senza
accorgersene. Qui esiste una somiglianza fra l’eroe antico e il vero poeta, quello
che si lascia trasportare dal sentimento poetico e non da quello che dettano i
canoni o la società. Ma l’eroicità del Nostro è, come ho proposto anteriormente,
più un sentimento di stanchezza e quasi di fallimento che una vera voglia di
lottare o di andare al fronte a combattere per i propri ideali. Il nostro eroe
preferisce cantare alla vita che rischiare la morte, anche se paradossalmente la
18
19
20
Il fanciullino, p. 62.
Ivi. p. 63.
Ibidem.
sua condizione di eroe stanco spesso lo porta ad avere pensieri funebri e
addirittura impulsi suicidi.
Sul tema del suicidio ci sarebbe tanto da investigare, ma per motivi di tempo e
contenuti le mie ricerche si sono fermate alla soglia dell’argomento che,
senz’altro interessante, mi piacerebbe riprendere in future ricerche più
approfondite.
Dicevo che Ida era una delle passioni di Pascoli, addirittura mi azzarderei ad
affermare che è stata la scatenante di quel senso eroico del poeta nel suo
termine più decadente. Lontana dal voler approfondire nelle teorie sull’amore
incestuoso fra Giovanni e le sorelle, vorrei affermare però che Ida ha influito, in
modo molto importante, nell’opera di Pascoli; sia come Musa, come amore
impossibile o come Reginella – come il fratello soleva chiamarla – è nota la sua
presenza costante nelle poesie che occupano la seconda e la terza stagione
della vita del poeta.
Pascoli si ammala, contrae la malattia d’amore e perde l’identità. Il poeta
sarcastico e gioviale del periodo goliardico lascia spazio a un Pascoli diverso,
dopo Un grillo… di gioventù comincia a scrivere pensieri funebri, anche se
alternati da poemetti dalla tematica campestre, ma è solo dopo l’annuncio del
matrimonio di Ida che la malattia diventa pazzia in quello che lo stesso poeta
chiamerà l’anno terribile.
Per concludere questo discorso vorrei chiarire che Giovanni Pascoli è il nostro
eroe stanco, quello che canta alle piccole cose, che loda la natura e piange in
continuazione e, così facendo, pretende di essere ricordato per l’eternità; la
stessa ambizione che avevano gli antichi eroi, quelli che non piangevano e
uscivano di casa con la spada appesa alla cinghia in cerca di avventurose
imprese. Alcune parole di Giovanni Pascoli – come quelle riportate nella
Premessa di questa tesi sul Pensiero non so se triste o lieto oppure quando
accennavo alla poesia Il tesoro e alla Prefazione ai Poemi conviviali –, che ben
potrebbero essere state dette da Achille, oppure da Alessandro Magno in un
insolente vanto di aspirazioni di grandezza eterna, ci fanno riflettere sulla figura
dell’eroe decadente che esisteva dentro del nostro poeta. A differenza dei due
eroi dell’antichità, il Nostro è un pover uomo, discendente da una famiglia di
contadini romagnoli anziché dagli Dei, dalle ninfe o dai re. Ma, come loro,
Pascoli era un eroe. Lo è ancora adesso, e quelle sue parole hanno vaticinato
quello che sarebbe successo dopo la sua morte, e oggi, gli occhi ammirati dei
suoi lettori si riempiono di lacrime quando leggono le sue poesie.
In Pascoli ci sono dei periodi nei quali il topos dell’agreitudo amoris è ricorrente,
possiamo dire che comincia nella seconda stagione, finita quella dell’eroe
dionisiaco, quando si reca a Sogliano a trovare le sorelle, e finisce con l’inizio
della terza stagione. Quello che per Montale si trasformerà nel male di vivere,
nel Nostro invece è un male di amore. Vorrei riportare alcune parole del
professor Massimo Ciavolella a proposito della malattia d’amore:
Il topos letterario dell’"aegritudo amoris" ha le sue origini nell’antichità con il filosofo greco
Aristotele (vissuto ad Atene e morto 322 a. C. ). Egli infatti diede una forma scientifica alla
dottrina della malattia d’amore usando l’assioma fondamentale della sensazione come
espressione di un movimento comune sia dell’anima che del corpo.
Le passioni, secondo Aristotele, sono affezioni sensibili attraverso le quali l’intelletto muove i
corpi. Egli distingue fra due gruppi di passioni: le perturbazioni mentali (psicologiche) e le
perturbazioni somatiche (fisiologiche). Entrambi però sono intimamente legate fra di loro. Le
affezioni che colpiscono il corpo si ripercuotono immediatamente sulla psiche o viceversa.
L’amore parte dall’appetito del soggetto di una bella forma. Una volta esistente quest’appetito si
intensifica in un’affezione e questa s’irradia dal cuore come forza motrice (fonte di calore) e
quindi, legata al sangue, determina la costituzione fisica e mentale dell’individuo. In questo
modo la passione amorosa sbilancia la fisiologia e la psicologia dell’uomo. Una privazione
dell’oggetto di passione può recare all’individuo un dolore inquieto, una continua insonnia,
tristezza persino un deperimento mentale o la morte perché a questo punto la sua passione è
senza speranza.
21
Per Aristotele l’arte è imitazione, non è negativa come per Platone ma ha un
senso di creatività nello stesso modo in cui la natura è creativa. L’arte ricrea la
realtà dentro del possibile e del verosimile; mentre lo storico scrive fatti che
21
M. Ciavolella, La tradizione dell’“aegritudo amoris” nel D., in “Giorn. Stor. Lett. It.” LXXXVII,
1970; M. Ciavolella, “La malattia d’amore” dall’Antichità al Medioevo, Bulzoni, Roma 1976
sono accaduti realmente, il poeta canta fatti che potrebbero accadere. Qui
troviamo la base del simbolismo di Pascoli giacché, secondo la filosofia
aristotelica, l’arte è una forma di conoscenza non logica ma simbolica.
Dunque Pascoli con il Fanciullino ci propone una poetica e un trattato sulla
passione impregnati da una meravigliosa dialettica che, nel modo più astuto, ci
fa pensare che non lo sia (quando in realtà lui cerca di convincerci di quello in
cui crede e ce lo propone in modo subliminale). Inizia essendo d’accordo con le
parole di un filosofo che credeva i poeti inferiori per non usare la ragione ma il
mito e l’imitazione, e poi riempie il testo di riferimenti bibliografici ai miti e ai
poeti dell’antichità; cerca di convincerci che l’imitatio sia un male e che bisogna
ascoltare il fanciullino che abbiamo dentro, cioè la ragione, e poi in tutta la sua
opera prende come punti di riferimento i più grandi scrittori dell’antichità e usa
come base – per buona parte delle sue poesie – il mythos. Cerca di convincerci
di non pretendere di trasmettere delle idee, fugge dalla retorica e afferma che,
se tuttavia essa fosse presente, dovrebbe essere fatta in modo inconsapevole,
come Virgilio: che «cantò, per cantare», invece la sua opera è colma di quella
retorica. In questo passaggio, dove Pascoli risponde alle parole del fanciullino,
possiamo osservare come ci lascia scritto che il nostro poeta è quell’eroe che
combatte dalla sua scrivania (la sua trincea), con la penna e l’inchiostro a modo
di arme e le parole come se fossero scudi:
Tu hai cantato e detto: hai cantato strofe e detto verità. E mi viene in mente che oltre codeste
verità […] ci sia sotto il tuo dire una verità più riposta e meno comune […] che la poesia, in
quanto è poesia, la poesia senza aggettivo, ha una suprema utilità morale e sociale.
Pascoli introduce nel testo del Fanciullino delle nozioni di dialettica antica. Come
lo fa? In un modo che sembrerebbe assurdo ma che funziona. Il Nostro cerca di
convincerci del contrario a quello in cui lui crede, con l’astuzia di un eroe
mitologico
sfida
la
critica
a
contraddirlo
per
arrivare
a
quello
che
mascheratamente pensava sin dall’inizio. In realtà è un’argutezza propria di un
eroe, anche se stanco. Si porge delle domande ed è lui stesso che risponde a
quelle stesse domande; il nostro eroe fa interagire due tesi o principi
contrapposti, rappresentati simbolicamente nei dialoghi platonici da personaggi
reali, e che nel Fanciullino si personifica nell’immagine astratta del fanciullo che
è dentro il poeta; sono delle conversazioni in cerca della verità, ma è proprio la
verità quella che ci vuole presentare il poeta giacché il fanciullino e lui sono un
tutt’uno. Si potrebbe fare una tesi che tratti soltanto sull’ingegno retorico usato
da Pascoli per scrivere Il fanciullino, ma sempre per motivi di tempo e di
contenuti farò un breve riassunto di ciò che invece dovrebbe essere preso in
considerazione e approfondito con altre ricerche più dettagliate.
Le origini del metodo della dialettica risalgono a Zenone di Elea che, per
Aristotele, è l’iniziatore di questa arte (secondo le testimonianze di Sesto
Empirico22 e di Diogene Laerzio).23 Usava la dialettica come strumento di
contrasto per arrivare in un modo indiretto alla verità. Per raggiungere
l’obiettivo si basava sul principio di non-contraddizione e sull’uso dei paradossi.
Giovanni Pascoli in tutto Il fanciullino fa uso di questa tecnica affermando la
verità della proposizione falsa (alle sue credenze) per rendere vera l’opposizione
della critica, perciò le due proposizioni sarebbero – in un certo modo – vere nel
medesimo tempo e nel medesimo oggetto in un rapporto paradossale. Anche
Socrate cercava di trovare delle contraddizioni interne nelle tesi degli
interlocutori. Se qualche critico fosse stato così brillante da raffrontare le
enunciazioni con livelli più elevati del sapere, Pascoli di certo sarebbe potuto
arrivare alla conclusione che cercava fin dall’inizio negando le ipotesi che in
realtà riteneva vere.
Sono convinta che Giovanni Pascoli cercava con la dialettica di Platone di far
risalire l’idea iniziale alla meta della conoscenza (che in questo caso sarebbe il
suo stile, la sua opera); cioè, Pascoli, alla stessa maniera di Platone, interpreta
la dialettica al modo di Socrate nei dialoghi del poeta con il fanciullino, nei quali
il poeta è conduttore della discussione (anche se fa credere che debba esserlo il
fanciullo), concedendo importanza alla proposizione meno probabile per poi
farla smentire dalla critica; così facendo emerge lentamente, e senza che
22
23
Adversus mathematicos, VII, 6-7
Vite dei filosofi, VIII, 2, 57; IX, 5, 25
nessuno se ne accorga di questa astuzia, la tesi portatrice della verità che
cercava il poeta.
Abbiamo parlato del Fanciullino come una sorta di Poetica aristotelica intarsiata
da componenti del teatro drammatico e anche come un trattato sulla passione.
Ma fermiamoci con maggiore attenzione sull’idea del Fanciullino come una
poetica nella quale l’eroe è sempre presente.
Pascoli soffre le tribolazioni della vita, le penurie e miserie che gli scrittori
patiscono vivendo soltanto delle lettere, nonostante ciò continua a preparare
del miele, cioè delle poesie, per rendere più dolce l’esistenza umana, anche se
poi questi altri, gli umani, lo abbiano fatto soffrire in tutti i sensi: possiamo
ricordare le sofferenze provate per le morti dei suoi cari, o gli allontanamenti
delle persone amate, oppure i giudizi negativi subiti dai critici come quelle di
Benedetto Croce o di Luigi Ceci, per citare alcuni fra i tanti.
Nel seguente testo, tratto dal Fanciullino, Pascoli parla di Parthenias, cioè di
Virgilio, e ci spiega che cosa abbia più potere se la forza o l’arte. In questo
passaggio possiamo osservare accenni alla figura dell’eroe come lo intendiamo
in questa tesi, al pensiero filosofico degli stoici, alla dialettica e, soprattutto, alla
poesia:
Già in altri tempi vide un Poeta (io non sono degno nemmeno di pronunziare il tuo santo nome,
o Parthenias!), vide rotolare per il vano circolo della passione le quadriglie vertiginose; e quei
tempi erano simili a questi, e balenava all'orizzonte la conflagrazione del mondo in una guerra
di tutti contro tutti e d'ognuno contro ognuno; e quel Poeta sentì che sopra le fiere e i mostri
aveva ancor più potere la cetra di Orfeo che la clava d'Ercole. E fece poesia, senza pensare ad
altro, senza darsi arie di consigliatore, di ammonitore, di profeta del buono e del mal augurio:
cantò, per cantare. E io non so misurare qual fosse l'effetto del suo canto; ma grande fu certo,
se dura sino ad oggidì, vibrando con dolcezza nelle nostre anime irrequiete.
24
Pascoli ci prepara un paesaggio degno della migliore letteratura epopeica; il
vano circolo della passione ci trasporta a uno dei gironi danteschi o addirittura
ai poemi cavallereschi dove tutta la storia gira intorno ai personaggi (donne e
cavalieri) e a due temi principali (le armi e gli amori), in una specie di topos
24
Ivi. p. 54.
dell’agreitudo amoris. Il Nostro fa notare come i problemi del mondo sono
sempre gli stessi e finisce facendo un paragone fra due personaggi mitologici:
Orfeo ed Ercole. Il primo era un poeta e musicista, figlio di Calliope; il mito
narra che con la sola musica della sua lira salvò gli Argonauti dal canto delle
Sirene, e anche negli Inferi riuscì a convincere Caronte, le bestie, i dannati e i
demoni ad aiutarlo nel riportare sua moglie alla vita. Invece la figura di Ercole
viene rappresentata nelle arti figurative molto spesso coperto con la pelle
indistruttibile del leone Nemeo e con una clava in mano in posizione di attacco,
per uccide Idra (mostro mitologico). Per Pascoli ha più potere la cetra di Orfeo
che la clava di Ercole.
© ALR 2012 Hercule tuant l’hydre de Lerne. Louvre, Parigi.
Di Virgilio Pascoli ci dice che fece poesia spensieratamente: cantò per cantare e
l’effetto di quella poesia dura fino ad oggi. Virgilio non parla mai di schiavi né
servi (soltanto due volte riprendendo frasi omeriche) e proclama nelle
campagne italiche la libertà di gente che non lavora per gli altri. Virgilio forse
era inconsapevole di quella libertà che proclamava. La servitù non era poetica e
il divino fanciullo, che non vede se non ciò che è poetico, non la vedeva.
Nell’Italia virgiliana non c’è la schiavitù, né il salariato, né il mezzadro. Giovanni
Pascoli dice che quei tempi erano come quelli suoi perché si trova in un periodo
della storia d’Italia molto importante: dopo tanti secoli di assedi, frontiere e
regni, l’Italia finalmente è unita, anche se si tratta di un’unità chimerica perché
il popolo non si sente del tutto italiano e ci sono tanti vestigi dei vecchi tempi
ancora da limare. In questo ambiente di bollore politico e sociale il nostro eroe
si sente quasi nell’obbligo di fare qualcosa, di lottare per quello che lui crede
giusto, per il benessere dei suoi fratelli italiani, ma la sua condizione di eroe
stanco lo trattiene dal comportarsi come Ercole e lo spinge a fare come Orfeo, e
combattere con la penna e la poesia.
Vediamo più dettagliatamente che cos’è un eroe.
Si potrebbe spiegare in tanti modi diversi che cosa rappresenta l’eroe di questa
tesi. Ho scelto quella più tradizionale per cominciare, cioè, ricorrere al
dizionario. Secondo la definizione che danno alcuni vocabolari un eroe è un
semidio al quale attribuiscono gesta eccezionali; e per estensione si tratta di
una persona che, per l’atteggiamento valoroso in imprese belliche o di altro
genere, compie
azioni straordinarie. Si
tratta
anche
del
personaggio
protagonista di un poema o di un dramma.
Abbiamo visto precedentemente che Giovanni Pascoli è un eroe diverso a quello
che definisce il dizionario, non è più il valoroso guerriero ma un uomo che,
anche se all’inizio mostrava segni di quell’eroe mitologico, la sua visita alle
sorelle lo convertiranno in un eroe decadente.
Il fanciullino come Poetica pascoliana
In precedenza abbiamo visto come le perturbazioni dell’anima influiscono
gravemente nella vita e opera di Giovanni Pascoli, inoltre abbiamo scoperto
come il nostro poeta sia un arguto eroe che ci parla dell’importanza e del peso
della sua opera usando metodi retorici. Che Il fanciullino sia una sorta di Poetica
è risaputo, molti sono i critici e gli studiosi che hanno parlato sull’argomento.
Anch’io, in questa tesi, vorrei commentare questa idea parlando dell’opera
pascoliana nelle diverse stagioni della sua vita.
Incominciamo con la Prima stagione.
Le ricerche in questo campo sono
ristrette e non si può dare ancora nessun accertamento al peso di certe ipotesi.
Comunque sia io vorrei fissare il periodo della prima stagione di Giovanni
Pascoli scrittore, che ho voluto denominare la stagione dell’eroe dionisiaco,
in quello che va dal Nebulone a Un grillo… di gioventù. Il motivo di questo
appellativo è un omaggio a uno degli pseudonimi usati da Giovanni Pascoli
quando scriveva i fogli socialisti. Dioneo, nome boccacciano, era stato ripreso
dal Nostro per firmare alcuni suoi scritti politici. Erano gli anni goliardici, Pascoli
si trovava a Bologna come studente. Non erano tempi facili, i gravi problemi
economici lo mettevano in una situazione di disagio, subiva la fame e il freddo,
ma queste penurie non distoglievano l’autore dal suo impegno civile. Era un
giovane attivo in materia politica, scriveva per alcuni giornali e assisteva a
riunioni e discorsi d’indole socialista. Giovanni Pascoli frequentava alcuni caffè
letterari nei quali altri giovani si radunavano per parlare non solo della
situazione politica ed economica, ma anche di arte, letteratura, metrica. Il
circolo di conoscenze di Pascoli era vasto, ma era soprattutto con gli amici più
intimi con i quali soleva scambiare delle lettere o poesie di tono scherzoso e
gioviale.25
25
Per approfondimenti sul rapporto epistolare fra G. Pascoli e gli amici Severino Ferrari, Ugo
Brilli, Raffaelo Marcovigi, Sveno Battistini, si vedano le lettere conservate nell’Archivio di
Castelvecchio.
È proprio in questi anni di attività politica e sociale che Pascoli crea soprattutto
scritti di natura civile (come aveva cominciato a fare già negli anni di Rimini,
con Nebulone) ma è anche un periodo di scrittura sarcastica, beffarda, erotica e
spensierata, da qui la scelta dello pseudonimo Dioneo e il motivo che mi ha
spinto a nominare questa stagione dionisiaca. Dionisio era una divinità legata
alla vegetazione, rappresenta in particolare la parte più selvaggia e istintiva
dell’uomo ed era visto come colui in grado di offrire cultura e ordine sociale e
civile. Chiamato anche Bacco (che a Roma assume aspetti sfrenati e orgiastici)
oppure Liber Pater (dio della fecondità, del vino e dei vizi), dopo la
soppressione del culto di Bacco, da parte del Senato romano, gli italici
trasformarono i suoi riti in costumi più quieti. La presenza di Dionisio è
simboleggiata dall’immagine della maschera e, se vogliamo chiudere il cerchio,
dovremmo sapere che sono proprio le maschere del culto di Dionisio le
precorritrici della nascita della tragedia greca tanto presente nella filosofia del
Fanciullino, e quindi del pensiero di Giovanni Pascoli. Curiosamente un altro
appellativo di Dionisio è Iacco, secondo alcuni riti annunciava l’avvenimento del
“fanciullo divino” o era identificato lui stesso con il fanciullo. Nella commedia Le
rane di Aristofane, Iacco porta luce alle tenebre, nelle vesti di un imitato Orfeo,
che nell’iniziale tentativo di salvare il teatro, cercherà infine di salvare anche
Atene, sperando che nessuno venga privato dei diritti civili in quella città caduta
nelle mani delle persone sbagliate. Per tutto ciò Pascoli sceglie questo
pseudonimo per scrivere i fogli socialisti. Lui, come Orfeo o Dionisio, cerca con il
potere della sua poesia (allo stile delle rane-cigni) di salvare il paese dalle mani
sbagliate.
Ma torniamo a Nebulone, un personaggio creato da Giovanni Pascoli in
gioventù. Si trattava di una parodia di quegli scrittori che cercavano soltanto la
fama, quindi – come facevano gli autori che godevano di un mecenate – doveva
adulare i potenti, ma adulava anche il popolo giacché la sua sete di denaro (più
forte dell’ansia di gloria) lo spingeva a farlo. Tuttavia Nebulone ha un’altra
caratteristica tutt’altro che frivola come quella di pensare a questioni
economiche, ed era quella di scrivere e parlare senza pensare (proprio come
detta il Fanciullino) ma, per uno scrittore che scrive a richiesta, le parole del
fanciullo rimangono sorde. Questa componente spensierata – nello esprimersi –
prende un’altra rotta, verso la banalità e il disinteresse. Per uno scrittore civile,
impegnato in politica, come si dimostrerà poi Giovanni Pascoli, quel periodo
fondò i pilastri di quella che dopo sarà la stagione dell’eroe stanco. Pascoli si
trovava a Rimini, correva l’anno 1872 e il nostro poeta frequentava – ai suoi 17
anni – l’ultimo corso del liceo. «In quegli stessi mesi la cittadina romagnola
accoglieva i primi incontri repubblicani e internazionalisti: sotto la guida di
Cofiero, nasceva proprio a Rimini, nell’agosto del 1872, il movimento anarchico
organizzato».26
Era un periodo nel quale i discorsi politici, in Romagna, si erano esaltati.
Nell’attualità la Romagna non è famosa per l’impegno civile dei cittadini e, a
parte un circolo ristretto d’intellettuali che cercano di portare avanti iniziative
culturali – soprattutto nella zona del cesenate – è una terra dove l’unico
interesse per il quale i cittadini lottano con passione è per la difesa e
conservazione del loro dialetto; il resto del territorio manca di quella vecchia
predisposizione che avevano reso nota la capitale, Ravenna – che viene cantata
da Dante Alighieri ed è stata Musa ispiratrice (a volte soltanto per pochi versi)
di scrittori della taglia di Cecco d’Ascoli, Cino da Pistoia, Boccaccio, Virgilio, Lord
Byron, Thomas S. Eliot, Carducci, Wilde, D’Annunzio, Hesse, Luigi Valli e lo
stesso Pascoli27 (per citare solo alcuni) –, o di Cesena, città malatestiana che
ospita una meravigliosa biblioteca purtroppo non molto considerata e nota nel
resto d’Italia. Giovanni Pascoli si trovava in una Rimini diversa da quella di oggi,
dove la speculazione e la politica mirata a interessi turistici ed economici più
che ad aspetti culturali e sociali, non esisteva ancora, o esisteva in una minor
percentuale, essendo appunto Nebulone, il personaggio criticato dal Pascoli
studente. Era un periodo di forte impegno civile e la società partecipava a
questo movimento tramite dibattiti: si parlava in tutto il territorio di anarchia, di
comunismo e internazionalismo. Il giovane Pascoli, in un ambiente politico così
attivo, inventò un personaggio che denominò Nebulone, l’antieroe per
26
Giovanni Capecchi, Voci dal nido infranto, Le lettere, 2011 Firenze, p. 53.
Ravenna. Poeti per una città a cura di Tino Dalla Valle, Longo Editore, Ravenna, 1993,
edizione ampliata dalla prima e precedente del 1968
27
antonomasia, lo scrittore che – per interessi economici e individuali – adulava i
potenti
indipendentemente
dalla
loro
ideologia,
perché
per
Nebulone
l’importanza risiedeva nei risultati redditizi dei suoi scritti e nella ricerca di un
titolo nobiliare, senza aiutare, in tempo di carestia, i bisognosi, essendosi
arricchito grazie anche a loro.
Nebulone, dunque, sarebbe l’antagonista del Pascoli dei primi anni, del periodo
che io chiamo la stagione dell’eroe dionisiaco. Si tratterebbe dell’antieroe che,
purtroppo,
nell’attualità
e
seguendo
la
cronologia
dell’evoluzione
e
trasformazione della figura dell’eroe fino ai nostri giorni, è diventato il
personaggio che vince la gloria e la fama senza lottare contro i Proci; questo
eroe non si sacrifica per salvare il re dai Saraceni, né si suicida per
l’impossibilità di stare con la donna amata, questo eroe non si angoscia per non
riuscire ad essere capito e non si amareggia perché non riesce a cambiare il
mondo. Questo eroe è come Nebulone, diventa uno scrittore di best-sellers,
studia la società e le dà quello di cui ha bisogno: una letteratura facile, libri di
lettura veloce e spensierata e poesie senza metrica né ritmo che diventano
prosa (per niente lirica) ma che raccontano storie che, il popolo di oggi (con
poco tempo libero a disposizione e con la fretta e lo stress che provoca la vita
moderna) vuole leggere, storie che non impegnino troppo le menti occupate dai
tanti pensieri e problemi. Sono letture che non obbligano ad alzarsi dalla
poltrona per controllare nel dizionario le parole che non si capiscono o di
prendere l’enciclopedia e informarsi del motivo per il quale alcuni scrittori come
Pascoli, era più importante la cetra di Orfeo che la clava di Ercole.
Questo “eroe”, questo scrittore, fa sì che si produca un mutamento che è
arrivato ai giorni d’oggi e sta propiziando la creazione di un nuovo eroe che,
paradossalmente, chiuderà il cerchio ritornando a scrivere sulla mitologia,
sull’epopea, sugli eroi classici, forse con la sola speranza di vedere la propria
opera trasposta in un film per arricchirsi ancora di più.
Chissà se l’ultimo di questi eroi moderni, che non ha più niente di nuovo da
raccontare e fa un uso eccessivo dell’imitatio, porterà la curiosità dei lettori e li
farà alzare dal divano o, magari sempre seduti ma con il cellulare di nuova
generazione in mano vicino al libro storico di turno, di connettersi a Internet e
fare ricerche su Orfeo e su Ercole?
Seconda stagione. L’eroe piangente
La seconda stagione
comincia con Il pellegrino, nel 1882. Dopo il
conseguimento della Laurea, con la sua tesi su Alceo, Pascoli fa una visita alla
famiglia ed amici in Romagna. Si reca poi a Sogliano per salutare la zia che
gentilmente si era offerta a ospitare le sorelle appena uscite dal convento, a
condizione che le ragazze contribuissero all’economia familiare dando alla zia il
capitale rimasto della vendita del podere e della casina della madre. In quel
momento nella psiche di Pascoli si sconvolge qualcosa. La mia ipotesi è la
seguente: il giovane Pascoli, ventisettenne, rincontra quella sorella bionda che
aveva salutato quando era ancora una bambina, trovandosi davanti una
persona ben diversa da quella sorellina che ricordava: una donna adulta, bella,
formosa, piena di salute. Nel poeta si scaturiscono sentimenti che andavano più
in là di quello che l’amore fraterno considererebbe lecito. Su questo argomento
critici, studiosi e professori hanno parlato molto e purtroppo i pettegolezzi sono
stati tanti, aiutando in modo negativo la fortuna del poeta, e conferendogli
nominativi tali come il poeta piangente, o colui che aveva un rapporto
incestuoso con le sorelle; attributi che poco hanno a che fare con il vero Pascoli.
Vorrei parlare di un poeta che invece era stato segnato da un’infanzia
tormentata e che aveva vissuto lontano da quasi tutta la sua famiglia ed era
stato così coraggioso di portare i suoi studi avanti con degli ottimi risultati.
Contraddirò anche l’affermazione di Luigi Baldacci che definisce l’ultimo periodo
di vita dell’autore – la stagione dell’eroe stanco – come “il non-Pascoli”. Vorrei
sostenere il contrario: se c’è una stagione che si possa considerare come non-
Pascoli sarebbe inquadrata nel secondo periodo, nella stagione dell’eroe
piangente; quella che comincia con Il pellegrino, il periodo nel quale il poeta
diventa cupo, parla con i defunti e rammenta la notte e la morte. Questa
stagione obbliga il poeta a creare un nido, com’è stato chiamato il nucleo
familiare inseguito dal Giovannino orfanello, colui che molto probabilmente
cercava la madre nelle attenzioni delle sorelle. Un Pascoli quasi bambino,
lontano dall’uomo adulto e professore e dallo scrittore di greco e latino. Nella
mente di Pascoli, dicevo, si erano create delle idee contraddittorie: da un lato
perché cercava di unire una famiglia ormai sciolta da anni, frantumata sin dalla
morte dei genitori; questa è una famiglia che non esiste più e che non dovrebbe
più esistere nel momento del ritrovo a Sogliano, con due sorelle in età da
maritare anziché da andare a vivere con un fratello maggiore. L’altra idea è che
questo nucleo familiare Pascoli lo vorrebbe per l’eternità e non concepisce
entrate o uscite da esso (ad eccezione del cuginetto Placido David); è noto il
contorto rapporto con il fratello Giuseppe, e Pascoli non sembrava avere
nessuna intenzione di sposarsi. È la passione quella che lo porta ad avere
pensieri ed atteggiamenti al di fuori della norma, perdendo così la sua vera
identità e accettando, in un certo modo, l’ipotesi del periodo di non-Pascoli, ma
tradotta nella seconda stagione e non più nella quarta come postulava Baldacci.
Il carattere eroico del Nostro evolve dallo spirito goliardico degli anni
universitari al personaggio profondo e attento alle piccole cose della stagione
del pianto. Per dimostrare questa affermazione vorrei fare una sintesi di un
periodo della sua vita smentendo anche un’idea che condivide la critica.
I critici hanno parlato dell’anno 1882 come del «ritorno ai doveri familiari», ma
non sono d’accordo con questa affermazione perché Pascoli non aveva mai
dovuto aiutare la famiglia prima di allora. Aveva soltanto undici anni alla morte
del padre, e in quel periodo si trovava in collegio con gli altri tre fratelli:
Giacomo, Luigi e Raffaele. Giacomo era il fratello più grande e perciò fu lui a
prendere in qualche modo il posto di capo famiglia. Lo racconta così Maria
Pascoli quando parla della morte del padre.28 D’ora in poi per confermare la mia
affermazione mi baserò su di un solo dato bibliografico, quello che ritengo più
opportuno in questo aspetto: la biografia scritta da Maria Pascoli nella quale
racconta, in un modo abbastanza vicino alla realtà e pieno di dettagli, date e
riferimenti importanti della sua vita e di quella della sua famiglia:
28
Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, memorie curate e integrate da Augusto
Vicinelli, Mondadori, Milano 1961
[…] Per dare loro il funesto annunzio della irreparabile sventura, fu mandata Margherita col
canonico Federico Balsimelli, intimo di casa. Essi appena videro la sorellina vestita a lutto,
pallida e mesta, le si strinsero intorno scoppiando in pianto disperato. Avevano intuito subito
che il loro buon papà non c’era più. Giacomo fu condotto a casa (improvvisamente, a 15 anni, si
trovò a essere il capo della famiglia) e gli altri tre, Luigi, Giovannino e Falino rimasero in collegio
col cuore spezzato. Ad essi non fu detto ancora in che modo il babbo era morto: lo seppero poi.
Fu Giacomo quello che troncò gli studi liceali con l’idea di ottenere in solo due
anni il diploma di perito agrimensore e l’impiego alla Torre Torlonia, potendo
così sollevare economicamente le sorti della famiglia. Quindi vediamo che era in
Giacomo dove si ponevano tutte le speranze per il sostenimento della famiglia e
non in Giovanni, che malgrado la morte del padre, e secondo il manifesto
lasciato dalla sorella Maria nella biografia, riprese gli studi senza disturbo
apparente:
Iniziato il nuovo anno scolastico, che per lui era di terza ginnasiale, Giovannino poté, nello
studio che amava, riaversi dal suo grande turbamento e riprendere con serenità la vita del
collegio. Continuò a essere il primo della sua classe, nonostante che avesse un bravo
compagno, Cesare Mavarelli, che se la batteva con lui.
Dunque ci troviamo davanti ad un bambino senza altri impegni o preoccupazioni
che di essere il migliore della sua classe. Intanto Giacomo era rimasto vicino
alla madre, facendo le veci di capo famiglia. Nel frattempo Margherita, la sorella
maggiore, si ammalò di tifo e morì poco dopo. Fu un doppio colpo per tutti ma
soprattutto per la madre che delegava in lei molte delle faccende di casa, la
cura dei fratellini e soprattutto era stata il suo supporto, aiutandola a tirarsi su
con il suo carattere gioviale. Caterina Vincenzi Allocatelli aveva perso il marito e
poi la figlia primogenita, i due pilastri maestri della sua vita, forzandola a gestire
tutta la famiglia. Sicuramente per una donna che aveva sofferto due traumi
importanti come la morte di due familiari strettissimi e l’incertezza del proprio
futuro e quello dei suoi figli la fecero cadere in un’amarezza così forte dalla
quale non si riprese mai più. Morì il 18 dicembre del 1868, lasciando a Giacomo
le redini della famiglia. Delle ultime conversazioni con il figlio più grande Maria
Pascoli nella biografia del fratello scrive:
[…] La mamma intanto si aggravava ogni giorno, ogni ora più; ed essa capiva di essere
prossima alla fine e pregava che Dio volesse tenerla ancora quaggiù. Non avrebbe voluto morire
allora, no, perché pensava ai figli ancora piccoli che lasciava quaggiù, soli, senza assistenza,
senza guida. Come si raccomandava al suo Giacomo (che aveva 16 anni, che era sempre al suo
letto con la zia) perché tenesse uniti e d’accordo i fratelli, li guidasse, li consigliasse e facesse
loro le veci di padre! E si raccomandava che tanto lui che gli altri figliuoli amassero,
proteggessero e aiutassero le sorelline. Per queste si rivolgeva particolarmente alla zia Rita,
perché le tutelasse, le assistesse, non le perdesse di vista... e così fino a che il suo mesto cuore
non cessò di battere e la sua dolce anima non s’involò da «questo atomo opaco del male».
In questo frammento di testo vediamo che è sempre Giacomo quello che
prende il compito di badare alla famiglia, escluse le sorelline che sarebbero
state accudite dalla zia Rita, a Sogliano.
Anche se con mezzi finanziari molto ridotti la retta veniva pagata puntualmente
e i tre fratelli continuarono a studiare nel collegio. Purtroppo in altri aspetti le
condizioni economiche della famiglia venivano alla luce come nelle pessime
condizioni delle uniformi, motivo per il quale i fratelli venivano derisi. Malgrado
l’atteggiamento dei compagni e la notizia delle morti della sorella e della madre,
Giovanni continuò ad essere uno dei primi della classe riportando dei voti molto
alti, dimostrando così che le disgrazie familiari non avevo turbato il suo animo
per lo studio. Tanto più che, come si riporta nella biografia scritta da Maria
Pascoli, il professor Cei
[…] si raccomandò con viva premura a Giacomo (il «piccolo padre») perché facesse il possibile
per far proseguire gli studi classici a Giovannino, che sarebbe stato un vero peccato farglieli
interrompere, riuscendovi tanto bene ed avendo di più una facile e ricca vena poetica.
Considerando tutti questi frammenti della biografia sembra evidente chi fosse
«il piccolo padre», il capo famiglia nei Pascoli, cioè Giacomo e non Giovanni.
Nell’estate del 1871 i fratelli ritornarono finalmente a casa, ormai vuota senza i
genitori né Margherita, e senza le due sorelline che si trovavano a Sogliano
dalla zia Rita. C’era soltanto Giacomo, che a 19 anni aveva la responsabilità dei
suoi fratelli. In quel periodo Giovanni accusava dolori al piede destro dovuti alla
malformazione del dito mignolo e a un incidente avvenuto mesi prima con una
scarpa troppo stretta. Nonostante ciò andava a Bellaria con i fratelli a farsi il
bagno al mare e, alla fine dell’estate, il professor Cei si recò da loro con
l’intenzione di visitare la Repubblica di San Marino e lo fece insieme a Giovanni
e Luigi, una faticosa passeggiata per un ragazzino che rischiava l’amputazione
del piede. Intanto le sorelle rimanevano nell’oblio più completo a Sogliano.
Dopo la diagnosi della meningite cerebrale di Gigino, Giovanni Pascoli fu
allontanato dal fratello e ospitato da una famiglia amica dei parenti. Invece le
sorelline erano sempre a Sogliano, dalla zia Rita, che non tornò più a San Mauro
come è spiegato dalle parole di Mariù quando parla della morte del fratello
Luigi, che avvenne il 18 ottobre 1871:
Povero «piccolo padre», così duramente provato! Era scesa da Sogliano, appena seppero del
grave stato di Gigino, la nostra buona Rosa (mandata dalla zia Rita, la quale non era più
tornata, e non ebbe il coraggio di ritornare mai più a San Mauro, dopo la morte di nostra
madre) per prestare assistenza al malato e aiutare in tutte le cose di casa.
Ancora una volta si dimostra che né Giovanni era andato a Sogliano né la zia
aveva portato le sorelline a visitare i fratelli. Dopo la morte di Gigino, e fino al
1873, Giacomo si trasferì con tutti i fratelli a Rimini. Poco dopo anche le due
sorelline – che in quel periodo stavano per compiere 8 e 10 anni – andarono a
vivere con loro. Questa è la prima volta dopo la morte della mamma che si
incontrano tutti i fratelli. Sempre Mariù, nella biografia del fratello, ci racconta
che a Rimini si recò il professor Cei con un progetto da proporre a Giacomo:
[…] mandare, cioè Giovannino a compiere il Liceo a Firenze presso gli Scolopi al San
Giovannino, potendo, se voleva, alloggiare e prendere i pasti nella sua casa dove erano soltanto
i suoi genitori.
Così dopo le vacanze riminesi Giovanni partì per Firenze per continuare i suoi
studi, salutando la famiglia (comprese le due sorelle). Alla fine di quell’anno
scolastico Giovanni tornò a casa da Firenze. Ida e Maria erano ancora due
bambine, e il periodo di assenza del fratello fu così lungo per le sorelline che
quando egli tornò a casa, gli diedero del Lei. Questa è l’ultima volta in cui
hanno convissuto fino al 1882. Giacomo si fidanzò e Bibbiana – la custode e
donna di servizio della famiglia Pascoli – sposò un vedovo. In quella situazione
Giacomo pensò che la soluzione migliore sarebbe stata mandare le due sorelline
in convento, come aveva già suggerito la zia Rita in passato. Intanto Giovanni si
era preparato per un concorso per una borsa di studi all’Università di Bologna,
vincendola quando ancora non aveva compiuto i diciotto anni e si era iscritto,
nel 1873, nella Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna. Anche Falino vinse
un sussidio per proseguire il diploma di perito a Forlì. Così Giacomo riuscì a
sistemare tutti i fratelli e finalmente ebbe del tempo per sé. Si sposò nel 1874
(Mariù afferma che il matrimonio avvenne durante le vacanze estive, alla
presenza dei fratelli), Ida e Maria però non furono presenti alle nozze perché
dal 3 marzo erano in convento.
Qui vorrei fare un inciso: per i nostri costumi attuali si potrebbe pensare che
non invitare le sorelle al matrimonio possa essere un atteggiamento egoistico o
fuori luogo, ma dobbiamo pensare nell’ottica di quei tempi e tenendo conto
della storia e della situazione di quella famiglia. Ida e Maria si trovavano a
Sogliano, non erano più a casa con loro, erano ancora piccole e in qualche
modo rappresentavano un peso per i fratelli maschi, che erano impegnati a
trovarsi un futuro che li facesse guadagnare abbastanza per poter permettersi
di vivere. Giacomo aveva sofferto penurie economiche per poter sostenere i
propri studi e quelli dei fratelli, oltre a procurare il vitto e l’alloggio, e poi
c’erano le sorelline che ancora troppo piccole non potevano aiutare in casa,
anzi, rappresentavano una zavorra dovendo essere curate e assistite. Perciò
non
far
partecipi
le
sorelline
al
matrimonio
non
sarebbe
stato
un
comportamento strano o mal visto in quella situazione.
Vorrei aggiungere anche che gli affetti di allora erano gli stessi, o forse l’amore
fraterno era più forte che oggigiorno, e le sorelline – prive di una mamma –
avevano bisogno di questo amore, ma il sentimento dei fratelli maggiori non era
lo stesso, loro avevano altri interessi ed andare a prendere due bambine al
convento per riunire quello che rimaneva della famiglia non era una delle
preoccupazioni dei fratelli.
Un’altra confessione di Maria Pascoli nella biografia del fratello Giovanni ci fa
capire chi era il capo famiglia e chi s’interessava realmente alle sorelline in
convento. Giacomo, molto impegnato con i suoi doveri, chiese a Giovanni di
scrivere una lettera per le sorelle da consegnare insieme a una scatola con dei
pensieri e ricordi della famiglia (foto, oggetti…). Ancora una volta è Giacomo a
pensare alle sorelle. Ma alla morte di Giacomo, il piccolo padre, la famiglia
rimase distrutta e le proprietà divise fra i fratelli e la moglie. Neanche in questa
occasione Ida o Maria furono presenti:
Si arrivò pertanto alle divisioni della roba e dei mobili di casa, divisioni che s’imponevano perché
la vedova voleva la parte che le spettava. Furono fatte il 31 ottobre del 1876, presenti i fratelli,
la cognata e il tutore Luigi Scardovi. A rappresentare noi sorelle, che eravamo in convento, c’era
Emilio David, figlio della zia Rita nostra tutrice, non avendo essa avuto il coraggio di recarsi in
quella casa per assistere a un atto così doloroso, sebbene necessario, che per lei significava la
disunione della famiglia e la dispersione di tante cose amate.
Era il 1877 e per quell’anno e gli altri due successivi Giovanni Pascoli,
abbastanza a corto di soldi, soffrì la fame. Si recava come uditore alle lezioni di
Carducci e di altri professori, frequentava il ritrovo serale carducciano e
continuava ad andare a mangiare alla trattoria del Foro Boario (quando il suo
portafoglio glielo permetteva). In quegli anni dedicava quasi tutto il suo tempo
libero a scrivere propaganda socialista per alcuni giornali. Lontani erano i
pensieri per le sorelle quando i rumori del suo stomaco vuoto erano i soli a
creargli preoccupazioni, oltre all’ossessione di scoprire l’assassino di suo padre.
Per Giovanni era importante fare luce sull’assassinio del padre, anche se per
quello che racconta Mariù, le sue sembrano più delle indagini spericolate che
una vera ansia di sapere e vendicare: «Tentava tutte le vie con un ardimento e
un’imprudenza da mettere a rischio la vita». Tra l’altro diventava pericoloso
approfondire l’argomento e una lettera anonima arrivò a Giacomo consigliando
di lasciar perdere l’accaduto, altrimenti la sua famiglia sarebbe stata in pericolo.
Falino e Giovanni smisero per consiglio di Giacomo, ma alla morte di
quest’ultimo ripresero le indagini.
Dopo il funerale del fratello maggiore, Giovanni tornò a Bologna portando con
sé Falino. Erano tempi duri e i due fratelli cercavano di andare avanti con i
pochi soldi che erano riusciti a ottenere dal loro amministratore, Ercole Ruffi.
Giovanni aveva chiesto aiuto ai suoi amici Raffaello Marcovigi e Sveno Battistini,
che avevano uno studio legale e tante conoscenze, e dopo mesi di tentativi
riuscirono a trovargli un piccolo impiego presso il Genio Civile. Questa è l’unica
volta – da quando i genitori morirono – che Giovanni Pascoli si prese la
responsabilità della sua famiglia. Intanto le sorelle erano sempre al convento e
passavano gli anni senza che i fratelli andassero a visitarle. Sempre nell’anno
1878 Giovanni riuscì finalmente ad avere un incarico per sostituire alcuni
professori del Ginnasio. Invece la sua vita militante cominciò poco dopo aver
conosciuto Andrea Costa nella trattoria del Foro Boario, verso la fine del 1876.
Qui si forgiano le basi del suo futuro impegno politico e sociale (che sarà forte e
intenso nella terza e quarta stagione). Giovanni Pascoli presiedeva a Bologna e
in Romagna a riunioni e a comizi d’impronta socialista. Il nostro poeta fu
arrestato e detenuto in carcere nel settembre del 1879. In una poesia scritta
anni dopo possiamo leggere le seguenti parole:
[…] Una notte dalle lunghe ore
(nel carcere!), che all'improvviso
dissi - Avresti molto dolore,
tu, se non t'avessero ucciso,
ora, o babbo! - che il mio pensiero,
dal carcere, con un lamento,
vide il babbo nel cimitero,
le pie sorelline in convento:
e che agli uomini, la mia vita,
volevo lasciargliela lì...
risentii la voce smarrita
che disse in un soffio... Zvanî...
Pascoli scrisse questa poesia – La voce – dopo la creazione del nido familiare,
quando i rimorsi e la sua coscienza lo avevano spinto a chiedere “perdono” alle
sorelle per non essere stato presente nelle loro vite durante gli anni in
convento. Perciò quando parla dei suoi pensieri suicidi, quando pensa al padre
ucciso senza un colpevole e si vede in quel carcere – dove non dovrebbe essere
– pensa quanto sia sfortunata la sua vita e l’eroe decadente lo spinge verso il
suicidio. Sarà soltanto la voce della madre a sollevarlo da quei pensieri
autodistruttivi.
La notizia dell’arresto di Giovanni arrivò qualche mese dopo alle sorelle Ida e
Maria. Lo vennero a sapere grazie a una brevissima lettera del fratello
Giuseppe. Si potrebbe pensare che non c’era comunicazione fra i fratelli perché
Ida e Maria erano in convento e forse il regolamento delle religiose non
permetteva le visite, ma Maria ci spiega che la lettera era arrivata ancora
sigillata e presupponevano che nessuno, a parte loro, conoscesse la notizia,
perciò fecero chiamare la zia Rita di nascosto per avere più notizie. Maria
racconta che la Madre Badessa le lasciò da sole «come sempre soleva», a
conferma che non fossero in isolamento, potevano ricevere lettere e visite dal
fratello Giovanni, ma questo non accadde mai, sia per la triste situazione
economica, sia perché Pascoli – in quegli anni bolognesi – era più preoccupato
a cercarsi un futuro. Anche la propaganda politica lo teneva occupato dal
pensare alle sorelle che sapeva ben accudite in convento.
Nel 1880 Pascoli riprende gli studi dopo più di quattro anni – gliene mancavano
ancora due per conseguire la laurea – vincendo (sicuramente grazie all’aiuto di
Carducci) un esame di concorso per un sussidio l’otto di novembre del 1880,
anche se i mezzi finanziari erano sempre scarsi e le 60-70 lire mensili della
borsa di studio non erano abbastanza per finanziare tutte le spese.
Tante sono le lettere e gli scritti in quegli anni: fogli socialisti, articoli di
giornale, epistole agli amici, testi per nozze e funerali… ma alle sorelle niente.
Un giorno di fine Aprile di 1882 Giuseppe, detto Peppino, arrivò a Bologna
chiedendo aiuto ai fratelli Giovanni e Falino e per qualche settimana rimase con
loro due dormendo e mangiando a loro spese.
Dopo il conseguimento della laurea, Giovanni manda una lettera ad un parente
(Antonio
Pascoli,
cugino
di
suo
padre)
per
ringraziarlo
della
visita,
dell’incoraggiamento e dell’aiuto economico prima dell’esame. In quella lettera
informa che a Ottobre sarebbe stato mandato da qualche parte per fare il
professore ma prima voleva:
[…] andare a trovare il mio e vostro buon parente Pio Squadrani, che è direttore delle scuole
d’Argenta. Invero, ho un poco bisogno di riposo.
Invece delle sorelle non parla.
Il 2 Luglio dell’anno 1882, poco dopo il conseguimento della laurea di Giovanni,
le sorelle Ida e Maria uscirono dal convento ed è allora che viene scritta la
prima lettera di un intenso rapporto epistolare che durerà fino alla morte del
poeta. Torniamo alla famosa frase «il ritorno ai doveri familiari». Il primo passo
lo fecero le sorelle ancora in convento, tutte e due – molto felici di aver ricevuto
la notizia della laurea del fratello – scrissero una lettera a Giovanni chiedendogli
di andarle a visitare e anche di ricevere una sua lettera di risposta. Questa è la
prima volta che fra i tre fratelli c’è uno scambio epistolare, che poi diventerà
frequente ma che fino ad allora non c’era mai stato. Quindi furono le sorelle, e
non lui, a propiziarlo. Giovanni risponde da Argenta, dove si era recato dal
cugino Pio Squadrani, come aveva già confermato nella lettera al parente
Antonio Pascoli. Riporto l’intera lettera che appare nella biografia scritta da
Maria Pascoli:
Carissime mie sorelline, vi scrivo da Argenta, di casa del nostro ottimo cugino Pio Squadrani,
che è direttore delle scuole. Qua, dove mi riposo, in compagnia di lui, buono e culto, delle mie
fatiche, la vostra soavissima lettera m’è giunta tardi, di modo che la mia risposta non vi troverà
più nel vostro collegio dove siete cresciute fanciulline di senno e di cuore, ma vi giungerà presso
l’amatissima zia che vi libera dalla terribile sciagura di essere orfanelle. Povere bambine! Sotto
ogni parola di quella vostra lettera così tenera, io leggevo un rimprovero per me, io intravedevo
una lagrima! Povere bambine! come mitemente rassegnate! come affettuose! come ricordevoli!
Noi, quando s’era in collegio, s’aveva ogni tanto la visita di care persone che appena voi avete
conosciute, e quella visita era per noi il momento della gioia più pura e più calda, ed è ora la più
dolce memoria che ci resti. E voi invece crescevate lassù solitarie, quasi obbliate da chi meno
doveva obbliarvi, da quelli a cui la vostra mamma morendo vi raccomandava!
Orbene, pensate, care sorelline, che secondo il vostro buon cuore pigliate le cose dal loro lato
più buono, pensate quanto dovevano soffrire, o meglio quanto dovevo soffrire io, a non potere
adempire quel dovere, a cui era mescolata la gioia pura e santa dell’abbracciarvi, del conversare
con voi innocenti, del trovarmi dopo il deserto della mia vita angosciosa nell’oasi del vostro
affetto! Pensate che forse io ci pativa a non venirvi a trovare, a non scrivervi, più che voi a non
ricevere mie lettere e mie visite. Io vi dico in verità che, nella vita mia incerta e trambasciata,
nemmeno un momento fu senza il vostro dolce aspetto. Voi eravate un par d’angioletti che
incoraggiava i miei studi, empiva le mie veglie, alleggiava i miei affanni. A voi pensavo come a
scopo; da voi cominciavo, in voi finivo. Senza voi non avrei mai creduto che il vivere meritasse
le fatiche che vi spendevo; e con voi nei casi più difficili restava sempre meco la speranza. Ma
perché avrei io fatte partecipi de’ miei dolori le mie buone sorelle? Perché le avrei fatte
testimoni delle mie lotte? Perché avrei annebbiato l’anima a quelle che inconsapevoli
rasserenavano il mio cuore?
Ora io penso che il tempo brutto sia finito. E questo finire è segnato dal vostro entrare nella vita
del mondo; e ciò è di buon augurio per me e, vi prego, sia tale anche per voi. Tra non molti
giorni io verrò a trovarvi, con qual palpito voi ve l’immaginate, e parleremo allora, oh! se
parleremo! Io vi dirò, voi mi direte tutto. Io so, vedete, che siete diventate brave, molto brave.
Ognuno che m’ha parlato di voi, me n’ha parlato con lode. Voi avete sempre fatto onore al
nome che portate. Siatene pure orgogliose.
Non so se Raffaello v’abbia scritto; se non v’ha scritto, io sono interprete del suo sviscerato
affetto per voi. Egli vi manda mille baci, saluti, auguri e la promessa di far di tutto per venire
anche lui. (Perché, sapete, egli è impiegato e non può disporre liberamente del suo tempo). Vi
saluta pure Peppino, che fu con noi qualche giorno fa in Bologna.
Ricevete ancora i più cordiali voti e auguri dal cugino Pio Squadrani, che avrete occasione di
conoscere presto di persona, ma che sin d’ora potete conoscere di cuore – perché io vi dico
ch’egli ci ha sempre aiutato ne’ momenti più difficili coll’opera e col consiglio — ricevete i baci
della sua moglie – eccellente signora che v’ama senza avervi mai vedute – e delle sue bambine
– piccine piccine – e tanto buone.
Da me, cara Ida, cara Mariuccina, abbiatevi un bacio misto di lagrime. Se potete, presentate
alle buone Madri, che v’hanno educato, i miei ringraziamenti e le mie congratulazioni. Date
infine alla zia Rita quanti più baci potete, baci da figli a madre, ché ella ha veramente per voi e
per noi un vero affetto materno. Tanti saluti anche all’ottimo Emilio e i miei rispetti alla sua
signora.
A rivederci presto mie affettuose sorelline! A rivederci nel giorno più felice della mia vita! Sono,
amandovi, vostro fratello
Argenta (Ferrara) 3 luglio 1882
GIOVANNI
P. S. Io mi fermerò ancora un poco in Argenta, [15] poi passerò per un poco a Sant’Alberto da
altri nostri parenti. Se voi mi scriveste anche una volta, l’avrei molto caro. In questo caso,
indirizzate la lettera a Giov. Pascoli — presso il Direttore delle Scuole in Argenta (Ferrara).
Perdonate se ho scritto in fretta e col mio orribile carattere. Addio, Ida e Maria!
Come si capisce dal testo, Giovanni Pascoli si rende conto della situazione, di
quanto siano state trascurate le due piccole bambine e sente in ogni parola
delle sorelle un rimprovero per sé. C’è un passaggio fondamentale per capire
che Ida e Maria, fino a quel momento, non erano fra le priorità dei fratelli:
Noi, quando s’era in collegio, s’aveva ogni tanto la visita di care persone che appena voi avete
conosciute, e quella visita era per noi il momento della gioia più pura e più calda, ed è ora la più
dolce memoria che ci resti. E voi invece crescevate lassù solitarie, quasi obbliate da chi meno
doveva obbliarvi, da quelli a cui la vostra mamma morendo vi raccomandava!
Giovanni si rende conto solo dopo del proprio comportamento, di non aver dato
retta alla mamma morente e di quanto abbiano potuto soffrire quelle due
sorelline, da sole, in convento, senza il conforto della famiglia. Lui le immagina
ancora piccoline, utilizza un linguaggio dolce e tenero e usa la parola
ricordevoli. Pascoli non conosce le sorelle fanciulle che sono cresciute in
collegio, ma ricorda le due piccole bambine che aveva salutato nelle vacanze a
Rimini molti anni prima, nel 1873, e che aveva rivisto dopo quell’anno scolastico
per non vederle più fino alla visita che lui fece a Sogliano nel 1882. Nove anni
erano passati e quelle due sorelline che avevano compiuto da poco il primo
decennio della loro vita erano cresciute. Non erano più delle bambine ma donne
adulte in età di matrimonio.
Questa lettera chiude la stagione dionisiaca e apre quella che sarà la stagione
dell’eroe piangente. Pascoli si accorge che i suoi anni di gioventù sono finiti, ha
tradito l’ultimo desiderio della madre ed è stato impegnato soltanto a cercare i
colpevoli della morte del padre, atteggiamenti questi da ragazzino immaturo. In
questo passaggio della lettera possiamo dedurre che i tormenti stanno per
arrivare e i rimorsi per il suo comportamento verso le sorelle si sono manifestati
nella sua testa:
Pensate che forse io ci pativa a non venirvi a trovare, a non scrivervi, più che voi a non ricevere
mie lettere e mie visite. Io vi dico in verità che, nella vita mia incerta e trambasciata, nemmeno
un momento fu senza il vostro dolce aspetto. Voi eravate un par d’angioletti che incoraggiava i
miei studi, empiva le mie veglie, alleggiava i miei affanni. A voi pensavo come a scopo; da voi
cominciavo, in voi finivo. Senza voi non avrei mai creduto che il vivere meritasse le fatiche che
vi spendevo; e con voi nei casi piú difficili restava sempre meco la speranza. Ma perché avrei io
fatte partecipi de’ miei dolori le mie buone sorelle? Perché le avrei fatte testimoni delle mie
lotte? Perché avrei annebbiato l’anima a quelle che inconsapevoli rasserenavano il mio cuore?
Sembra un lavaggio di coscienza, una scusa per convincere più se stesso che le
sorelle. Giovanni si pente. Qui fa la prima comparsa (dentro la vita-romanzo di
Giovanni Pascoli) l’eroe stanco. Un eroe che non lotta, che si lamenta, le cui
vicissitudini servono solo a farlo patire in silenzio invece di spingerlo a lottare
per quello che vuole o dice di volere: l’amore delle sorelle. Ha trascorso degli
anni in completo anonimato, senza una lettera di conforto, senza un saluto o
una visita, senza nemmeno farsi vivo o cercare di mantenere un contatto con
quelle sorelle che (secondo lui, in questa lettera) ama così tanto. Invece niente.
Non una lettera, non un telegramma, nemmeno un saluto o un messaggio, solo
ora che ha ricevuto da loro una lettera piena di amore si accorge di quanto sia
stato ingiusto con esse.
Nel seguente passaggio possiamo capire, dal modo in cui scrive Pascoli, che
l’errore non è stato solo suo, ma di tutti e tre i fratelli maggiori:
Non so se Raffaello v’abbia scritto; se non v’ha scritto, io sono interprete del suo sviscerato
affetto per voi. Egli vi manda mille baci, saluti, auguri e la promessa di far di tutto per venire
anche lui. (Perché, sapete, egli è impiegato e non può disporre liberamente del suo tempo). Vi
saluta pure Peppino, che fu con noi qualche giorno fa in Bologna.
Ci sono delle lettere che ci informano del desiderio di Giovanni di andare ad
Argenta per salutare il cugino. Ma non c’è nessun indizio della sua intenzione di
andare a trovare le sorelle, anzi, sono state le ragazze ad informarlo della loro
uscita dal collegio. Non vorrei fare elucubrazioni sulla verità o menzogna di
queste parole, tuttavia sembrano scritte a mo’ di scusa per far capire alle sorelle
che, anche se sono state abbandonate in un convento per quasi dieci anni,
sono state sempre nella mente e nel cuore dei tre fratelli, sebbene non
l’abbiano fatto capire con un contatto diretto.
Anche Augusto Vicinelli, in una nota della biografia scritta da Maria, fa un
commento al riguardo:
Subito, già in questa prima lettera familiare, ancor prima che maturi il momento sentimentale e
poetico della tragedia domestica, si noti quell’inquieto contrasto di amore e dolore, quel
complesso come di colpa che prorompe poi in un affetto esaltato; e anche quel caratteristico
stato d’animo quasi di un perplesso tormentatore di se medesimo. E più ancora, questo ci sarà
confermato dalle prime lettere che scrisse, lontano, da Matera (pp. 147, 150...): si legga
specialmente quella del 19 ottobre.
Giovanni passò con Ida e Maria alcuni periodi del primo decennio di vita delle
bambine. Nel 1882 le ragazze stavano per raggiungere i 17 e i 19 anni. Dai
racconti di Maria s’intuisce un’ammirazione grandissima verso il fratello, o
almeno è quello che ci vuole far pensare in queste memorie. Di quei primi giorni
insieme non fa quasi riferimento a Ida tranne che per dire che, facendo tutti e
tre una passeggiata, e davanti a un bivio, l’una voleva andare a sinistra e l’altra
a destra; alla fine si fece quello che aveva detto Ida. Ci racconta anche che
Maria, volendo imitare il fratello, scriveva delle poesie ridicole che poi si
vergognava di mostrare ed era Ida quella che le faceva vedere a Giovanni.
Questa rivalità fra le sorelle, o meglio, da Maria a Ida, si dimostra in tanti altri
esempi come l’assenza di fotografie di Ida nella casa a Castelvecchio, la
scomparsa di uno dei tre cipressi che rappresentavano i tre fratelli e che, se
vogliamo essere un po’ malpensanti, potremmo pensare a una mano nascosta
per farlo seccare e dal commento di Ida, dopo le morti dei due fratelli, nella
premessa al testo Omaggio a Giovanni Pascoli,29 nel quale conferma che ci sono
delle anomalie intorno alle date e alle informazioni fornite da Mariù.
Si potrebbe continuare a proporre degli esempi che mostrano quanto sia stato
spensierato Giovanni Pascoli con le sorelle durante i suoi anni a Bologna. Senza
animo di biasimare l’atteggiamento di un giovane con problemi economici che
sapeva le sorelle ben accudite in convento, vorrei invece spezzare una lancia in
29
Omaggio a Giovanni Pascoli nel centenario della nascita, Mondadori, Milano 1955, pp. 3-6.
favore del Nostro. Si è parlato tanto di amore incestuoso, di rapporto oscuro e
segreto, di un particolare rapporto a tre. Sicuramente nell’ottica della psicologia
ci sarebbe tanto da dire. Se andiamo indietro nel tempo e analizziamo la
biografia di Pascoli possiamo capire che la sua vita non è stata facile. Il primo
colpo arrivò con la morte del padre, avvenuta quando era ancora molto piccolo
e si trovava in collegio, poi seguono le morti delle altre figure importanti: la
sorella Margherita, la madre e il fratello Giacomo, passando per gli anni di
freddo e fame a Bologna e l’esperienza in carcere. Sicuramente questi eventi
segnarono la psiche del nostro poeta, molto giovane, e con un’identità ancora
da temprare. È solo dopo la lettera ricevuta dalle sorelle che Giovanni sente il
rimorso e decide di andare a trovarle. Che cosa successe non si sa. Dalle lettere
e documenti che sono sopravvissuti al tempo e alla mano della sorella Maria
non possiamo dedurre praticamente nulla, la maggior parte delle biografie sono
state scritte dopo la morte del poeta e, quella che possiamo ritenere più fedele,
è stata raccontata da una sorella gelosa di tutto e di tutti che ci ha voluto
raccontare il Pascoli che lei voleva, senza quell’Ida che fastidiosamente è
presente in tutta l’opera del Nostro nel ruolo di Musa greca ispiratrice di poesia.
Maria non è esatta, i ricordi sono vaghi perché era piccola e quello che scrive
sono i racconti del fratello o della zia, forse decorati ed esagerati per
emozionare le ragazzine, e sicuramente modellati successivamente dalla propria
mano per rendere la memoria del fratello degna di un grande poeta.
Terza stagione. L’eroe stanco
Questa stagione non ha i limiti ben definiti perché conserva alcune
caratteristiche di pianto e dolore del periodo anteriore, ma possiamo identificare
il suo inizio con il testo Nelle nozze di Ida (30 settembre 1895). Lentamente la
scrittura di Pascoli diventerà meno ossessiva, parlerà meno dei morti e la
presenza ricorrente di Ida lascerà spazio a temi più attuali e ai primi
componimenti per la successiva raccolta Odi e Inni; la volontà del poeta di
andare avanti si dimostra nella poesia Nebbia, con l’anafora «nascondi le cose
lontane», un chiaro riferimento alla sorella lontana.
Ho scelto questo titolo per la terza stagione, quella che si trova in bilico fra
l’abbandono del periodo piangente e l’arrivo dell’ultima, quella dell’eroe
trovatore, perché assistiamo con essa alla decadenza di quell’eroe che lottava
attivamente a Bologna per i suoi ideali e di quell’altro che nella seconda
stagione aveva perso l’identità per la malattia d’amore. Quest’ultimo eroe ci
ricorda l’aspetto romantico della poesia dei romanzi arturiani, che danno la base
a un lemmario fondamentale per la letteratura, da Petrarca in poi, riassunta nel
chiarissimo ossimoro petrarchesco «amore-amaro». In questa fase Giovanni
Pascoli, come fece l’eroe Tristano con la sua armatura, si spoglia della sua
corazza, ma lui non perde la veste di eroe come Tristano, anzi, ricupera
lentamente la sua identità persa per la follia avvenuta dall’ossessiva passione
per Ida, e quell’eroe piangente diventa un eroe decadente, un eroe stanco.
Allora Giovanni Pascoli è realmente un eroe? Per dare risposta a questa
domanda vorrei esporre la mia teoria sull’evoluzione della figura dell’eroe, che
inizia con la nascita del guerriero classico, fino ad arrivare alla sua decadenza.
Ma che cosa intendiamo per eroe decadente?
Il Decadentismo è una corrente letteraria e artistica che si sviluppa
parallelamente al positivismo, anche se i due movimenti sono in completa
antitesi. I positivisti vedevano nel progresso la fonte dello sviluppo verso un
futuro migliore. Invece i decadenti si caratterizzavano per il grande pessimismo
che li portava a fare pensieri negativi e ad avere costanti dubbi e incertezze che
si traducevano nelle poesie e nella propria vita. Questo si è manifestato
soprattutto nella letteratura dell’Ottocento, quando il personaggio di finzione
lasciava lo spazio al proprio autore ed entrambi si fondevano per diventare
un’unica entità.
Ho voluto marcare la frontiera fra l’eroe inteso come il solo personaggio di
romanzi e poesie, e l’eroe in rapporto simbiotico con il proprio autore, con lo
scrittore Ugo Foscolo.
Jacopo Ortis diventa l’alter ego di Foscolo nel momento in cui lo scrittore vuole
lottare per i suoi ideali e sceglie la via letteraria per farlo. Nel Foscolo saggista
la coscienza storica viene fuori attraverso la mitologia classica, accenna a Galilei
e Socrate e il linguaggio del suo carme – caratterizzato da un afflusso di parole
auliche e di latinismi – ci ricordano i carmina di Virgilio. È noto il discorso che
fece per il raggiungimento della cattedra di eloquenza all’Università di Pavia,
durante il quale gli animi del pubblico in piazza si esaltarono al suono delle
parole di propaganda politica di Foscolo. In tutta la sua opera troviamo simboli
che fanno allusione alla patria, come ad esempio il tiglio, ma è nelle Ultime
lettere di Jacopo Ortis in cui l’autore ed il personaggio diventano un tutt’uno.
Nel romanzo, la passione intorno a Teresa si traduce per una passione verso la
patria (come fece poi Pascoli dopo l’abbandono di Ida). Ma il riferimento
bibliografico più importante per spiegare l’indole eroica dell’autore, in stretto
rapporto con il personaggio di finzione, lo troviamo in una lettera a Goethe del
16 gennaio del 1802, nella quale Foscolo scrive all’autore tedesco, a proposito
dell’Ortis, la seguente confessione:
Ho dipinto me stesso, le mie passioni, e i miei tempi
30
Non è l’unico esempio della simbiosi autore-personaggio nella letteratura, ma si
tratta di quello più chiaro in assoluto. Si dimostra l’angoscia dello scrittore nel
sapere i propri ideali irrealizzabili, la delusione verso la società e la speranza
decadente di essere consapevole che la sua lotta è inutile; tuttavia è l’unica
cosa che lo mantiene dalla parte del sogno e non da quella del suicidio.
L’eroe evolve dal forte guerriero classico alla figura dell’antieroe decadente, è
un personaggio piangente (come lo dimostra il “romanzo fazzoletto” dell’Ortis),
e le gesta degli antichi eroi suicidi dalle prodezze coraggiose si trasformano in
atti di desolazione e vigliaccheria. Il suicidio, nel periodo degli eroi piangenti, è
fonte d’ispirazione, è sinonimo di vittoria, di via d’uscita verso la libertà, ma una
libertà inseguita dopo il fallimento.
30
Ugo Foscolo, Epistolario, vol. I a cura di P. Carli, Firenze, Le Monnier, 1970
Foscolo riprende il nome del suo personaggio analogo, Jacopo Ortis,
dall’appellativo di un suicida reale. Nel romanzo diventerà suicida anch’esso
dopo aver capito che non c’è speranza. Il suo sogno di bellezza e passione (nel
romanzo personificate nella figura di Teresa ma che simbolicamente
rappresentano l’Italia) si è visto spezzato da una realtà crudele e l’unica via per
la libertà è l’atto suicida. Anche nella vita di Giovanni Pascoli troviamo questa
componente disperata. Mariù, nel seguente testo, testimonia come i pensieri
suicidi hanno perseguitato il Nostro:
Di ritorno a Bologna da San Mauro, dove si era recato nell’aprile (come s’è visto nella cartolina
di lui a Severino del 24-4-1878) per potersi preparare con più tranquillità a un esame – il che
non gli fu possibile – egli riprese la sua solita vita di stenti e di tribolazioni. Ebbe, sì, alcune
supplenze momentanee, per brevi assenze di professori, al Ginnasio Guinizzelli, ma il sollievo
del tenue compenso di esse durava poco, e tornavano le dure giornate della fame che gli
suggerivano il tetro pensiero di farla finita con un’esistenza così dolorosa, grama, avvilente. A
distorlo dal tetro pensiero, c’era «la voce» della sua mamma ch’egli sentiva sempre nei
momenti più gravi e più prossimi alla disperazione.
Non è l’unico caso; troviamo un altro esempio nel Ciclo Lirico, in un sonetto
sconsolato che vale la pena citare:
Carezzami col tuo raggio malato
sole d'autunno;
son malato anch'io
a morte! a morte io vo', ma desolato
perché nessuno amo, e non credo in Dio!
[…] Carezzami col tuo raggio autunnale
Sol moribondo, e recami in memoria
Il mio passato breve e fortunale,
le mie speranze, i lieti inganni miei,
i sogni dell’amore e della gloria,
quel ch’or non perdo, perché già perdei.
Il Ciclo Lirico è una raccolta di dieci poesie pubblicate in Poesie varie (1912).
Questo sonetto, «Carezzami col tuo raggio malato...» chiude la serie. Nel
manoscritto originale c’è lo schizzo di una grande croce sotto la quale possiamo
leggere i vari tentativi dell’epitaffio che aveva preparato per se stesso:
Heic jacet infelix qui mortem morte mutavit:
abstineas lacrymis, sit mihi terra levis.
Anche in Canti di Castelvecchio (1903) troviamo una bellissima poesia dallo
sfondo funebre intitolata Il ritorno a San Mauro:
In una breccia, allo smorir del cielo,
vidi un fanciullo pallido e dimesso.
Il fior caduto ravvisò lo stelo;
io nel fanciullo ravvisai me stesso.
Ci rivedemmo all'ultimo riflesso;
e sì, l'uno dell'altro ebbe pietà.
Gli dissi: - Tu sei qui solo soletto:
un mucchiarello d'alga presso il mare.
Hai visto un chiuso, e tu non hai più tetto;
di là c'è gente, e tu vorresti entrare.
Oh! quella casa è senza focolare:
non c'è, fuor che silenzio, altro, di là. Scosse i capelli biondi di su gli occhi.
- No! - mi rispose: - là c'è il camposanto.
Tua madre ti riprende sui ginocchi;
tu ti rivedi i fratellini accanto.
Si trova un bacio quando qui s'è pianto;
si trova quello che smarrimmo qui. - O fior caduto alla mia vita nuova! io rispondeva, - o raggio del mattino!
Io persi quello che non più si trova,
e vano è stato il lungo mio cammino.
A notte io vedo, stanco pellegrino,
che deviai su l'alba del mio dì!
Felice te che a quello che rimpiango,
così da presso, al limitar, rimani! - Misero me, che fuori ne rimango,
così lontano come i più lontani!
Alla porta che s'apre alzo le mani,
ma tu sai ch'io... non posso entrarvi più.
S'apre a tant'altri gracili fanciulli,
addormentati sui lor lunghi temi,
addormentati in mezzo ai lor trastulli;
s'apre appena e si chiude e par che tremi:
assai se, là, venir tra i crisantemi
vedo la rossa veste di Gesù!... –
Ancora una volta dobbiamo parlare dei tre aspetti fondamentali del Fanciullino,
la passione, la dialettica e la poetica. In tutta l’opera di Pascoli troviamo queste
tre componenti, ma questa ciclicità viene alterata nel secondo periodo e in
parte del terzo, nei quali la dialettica, intesa come la trasmissione di valori
morali, non trova uno spazio fra la folle esaltazione della passione diventata
poesia.
Nella produzione di Giovanni Pascoli le parole all’inizio, in mezzo o quelle che
fanno rima non sono scelte a caso, bensì pensate con dedizione. Esiste una
circolarità programmata, ad esempio nei poemi Il chiù e Per sempre!, in
entrambe le poesie questo cerchio si chiude in un modo fortemente lapidario, di
saluto e dimenticanza. Infatti nel Chiù, l’incipit «Addio!» è in stretto legame con
le ultime parole che sono «o Rosa». Pascoli ha voluto rappresentare le sue due
sorelle nelle ragazze dei Nuovi poemetti. Viola sarebbe Maria e Rosa
corrisponde alla figura di Ida. In questa magnifica poesia Giovanni Pascoli
raccoglie tratti di un altro poeta decadente, Edgar Allan Poe, e nella voce del
chiù racchiude tutti i simboli dell’amore perduto, della disperazione e anche la
chiamata delle tenebre. Invece nella poesia Per sempre! la domanda dell’inizio
«Io t'odio?!...» si conclude con le parole taglienti scritte a caratteri cubitali «PER
SEMPRE!», facendo un chiaro riferimento alla poesia The raven, di Poe, con
l’eterno verso dell’uccello, «nevermore». Pascoli, nei suoi esercizi scolari, aveva
tradotto il poema del poeta statunitense. Il poeta in questo caso riprende quel
verso insistente della poesia di Poe, traducendolo con «per sempre» in italiano,
invece che con il più pascoliano «mai più», che farebbe rima con chiù, ma che il
Nostro maschera per rispetto alla magia della poesia. Per spiegare questo
difficile concetto trascrivo le parole di Giovanni Capecchi quando, parlando della
poesia L’assiuolo,31 dichiara che:
I manoscritti conservati tra le carte di Castelvecchio permettono di chiarire il significato della
poesia […] e documentano la laboriosa genesi di un testo che punta all’essenzialità, a nessi di
straordinaria concentrazione espressiva […], ad alludere piuttosto che a spiegare. Da questo
punto di vista, vale la pena citare un appunto relativo ai vv. 21-22 che, prima di raggiungere
l’aspetto definitivo (tintinni a invisibili porte / che forse non si aprono più?... ), avevano assunto
una forma («minuti così, che / pareva un gracchiare / una rana / la tarda cicala») non
soddisfacente per Pascoli che, a margine del foglio, annotava
E qui troviamo la fantastica nota che Pascoli ci lascia per capire l’essenza della
sua poesia:
«Sì: ma allora non è più la poesia, ma la spiegazione della poesia. Ci vuole abnegazione.
Esempio: tintinni a invisibili porte».
31
Giovanni Pascoli, G. Capecchi, Le Monnier, Milano 2011, p. 181.
Sempre nel testo di Capecchi troviamo questo commento di Cesare Garboli
sull’annotazione di Pascoli:
«Questa nota va ben oltre i limiti dell’episodio di laboratorio cui si riferisce. Si tratta di una
chiosa di grandissima importanza, nella quale si formula con tutta disinvoltura il decreto
destinato a diventare legge per il linguaggio poetico del Novecento, l’indissociabilità di poesia e
oscurità, di linguaggio diretto e linguaggio cifrato».
Perciò alle poesie Il chiù e Per sempre! dobbiamo aggiungere quest’altra
intitolata L’assiuolo che, sia per la sua tematica sia per l’annotazione rivelatrice
che contiene, va intimamente relazionata con le altre due. Le parole di fine
strofa «per sempre», sono in realtà la traduzione nascosta di mai più, che fa
rima con «chiù», che è il nome in dialetto per nominare l’assiolo e funziona
come chiusura delle strofe nella poesia Il chiù, e a sua volta fa rima con «più»
che è il verso che fa l’uccello notturno nell’omonima poesia. Così abbiamo
assistito alla magia della poesia racchiusa nei tre poemi.
Per tutto ciò quando parlo di eroe decadente mi riferisco a una sorta di
antieroe, cioè, la contrapposizione al semidio e al coraggioso guerriero
mitologico. È un personaggio ripiegato su se stesso, il più delle volte
emarginato dalla società o dal sistema imperante. Si trova immerso in un
continuo bollore di pensieri, di solito negativi e desolanti. Il mondo ha deluso il
nostro eroe, soprattutto la classe borghese dominante. È un ribelle romantico,
amante della bellezza. In tutta la letteratura decadente i personaggi conducono
una vita sfrenata di piaceri senza scrupoli in cui le regole morali non esistono e
la realtà viene rifiutata, portando così ad una esistenza superficiale mirando
soltanto a se stessi. Lo possiamo verificare nelle opere di D’Annunzio, o nel
romanzo A ritroso di Huysmans, oppure nel Ritratto di Dorian Gray di Oscar
Wilde. Ma questi autori appartengono a un tipo di eroe decadente diverso da
Pascoli: sono l’evoluzione di quella figura dell’eroe che dal guerriero mitologico,
passando per la simbiosi con l’autore e la sua metamorfosi in autore stesso,
prende forme tragiche nei romanzi e poesie, per giungere infine al ruolo di
esteta in cerca della bellezza e del benessere, lontano dalla società, in posti
idilliaci creati dall’autore stesso. La figura dell’eroe decadente continua a
raffigurare più l’autore che il personaggio ma diventa cinico, snob, amorale e
sostituisce i valori tradizionali con quelli propri basati sulla bellezza ed eleganza.
Questo eroe è alla ricerca continua di un piacere senza limiti lontano dalla
società borghese e costruisce attorno a sé un mondo paradisiaco, un luogo
artificiale nel quale si rifugia, dove c’è spazio soltanto per la bellezza. Noi ci
occupiamo dell’eroe stanco, quello che ancora ha i vestigi di guerriero ma è
troppo pessimista per credere che ci sia una soluzione alla felicità come i
posteriori decadenti “vitaioli”.
Giovanni Pascoli è vissuto in pieno periodo decadentista. Dobbiamo tenere
conto che questa corrente si sviluppò in Francia nella seconda metà
dell’Ottocento e poi influirà su tutta la letteratura del Novecento. Il termine
“decadente” si usò inizialmente per definire quei poeti che erano al di fuori della
norma (sia nella produzione artistica sia nella pratica di vita), più tardi gli autori
appartenenti a questa corrente diedero al termine un significato differente che
esprimeva il loro senso di diversità nei confronti della società; non erano più dei
poeti maledetti ma quelli che fuggivano da una realtà maledetta. Paul Verlaine
e Charles Baudelaire seguivano il movimento decadentista nella Parigi della
seconda metà del 1800. Verlaine, che poi diventerà simbolista, ha tante altre
caratteristiche in comune con il Nostro, come ad esempio la passione sfrenata
verso l’alcool e la ricerca plurilinguistica di gusto parnassiano. È noto in Pascoli
l’uso di codici molto diversi come il dialetto romagnolo e della Garfagnana, i
neologismi inventati dal poeta, i prestiti dall’inglese e parole anglo-italiane degli
emigrati negli Stati Uniti, il linguaggio scientifico usato per nominare fauna e
flora, l’italiano neoclassico delle sue poesie dei Conviviali, il latino usato nei
Carmina, le onomatopee e il suo linguaggio pregrammaticale.
I decadenti rifiutavano le tendenze positivistiche e materiali della classe
borghese e presentavano atteggiamenti anticonformisti. Il poeta decadente si
riconosceva negli stati d’animo malinconici, era un autore che tendeva al
vittimismo e all’autodistruzione: dai vizi come il fumo o l’alcool, fino al suicidio.
Ci sono numerosi autori che hanno pensieri suicidi come abbiamo visto in
precedenza con Jacopo Ortis. La figura dell’eroe decadente è afflitto da una
malattia interiore che lo rende incapace di vivere, e questo sentimento si
traduce in due percorsi: quello del sogno e quello del suicidio. È il famoso male
di vivere che anni dopo canterà Eugenio Montale. Pascoli, tentato molto spesso
dal desiderio di togliersi la vita, scelse l’opzione del sogno, anche se le sue
maniere di vita lo portarono a una morte prematura.
Il decadentismo cederà il passo al Simbolismo. In Francia Verlaine e Mallarmé
furono i massimi esponenti. Giovanni Pascoli prende il loro posto in Italia
chiudendo un secolo come decadente (vorrei ricordare che si trattava di un
decadentismo che aveva poche caratteristiche in comune con i poeti
appartenenti a questa corrente, in quanto Pascoli era un eroe più orientato a
espressioni di stanchezza e delusione che alla ricerca del piacere) e aprendo un
nuovo secolo di Simbolismo italiano. Superata quella fase di eroe piangente e
stanco entrerà nella quarta stagione, quella dell’eroe trovatore.
Quarta stagione. L’eroe trovatore
Questo è il periodo dei Poemi Conviviali (1904), in cui si celebra la classicità
greca e romana da una prospettiva propria, sensibile e decadente, risaltando
l’aspetto doloroso degli eroi antichi invece delle gesta gloriose; è anche il
momento dei discorsi ufficiali come La grande proletaria si è mossa (nel quale il
Nostro sembra di aderire al nazionalismo), e della sua poesia di argomento
civile e storico – già trattato nelle raccolte precedenti – con l’esempio più
famoso: Italy (1904); è anche il periodo delle sue Ode e inni (1906), Canzoni di
re Enzo (1909), Poemi del Risorgimento (postumi, 1913), e Poemi italici (anche
essi postumi, 1914). Su questo ultimo periodo la critica si è espressa
soprattutto attraverso un commento negativo sulla retoricità e solennità degli
scritti del nostro poeta.
È paradossale il fatto che la fortuna di Pascoli si sia indirizzata verso la poesia
degli anni bui, quella della stagione piangente, e che la didattica della
letteratura italiana faccia allusione soltanto al poeta delle piccole cose e dei
Canti di Castelvecchio che, senza togliere importanza a questa fase dell’opera
del Nostro, rappresenta una minima parte di tutta la sua produzione. Nei
programmi educativi e nei sillabi (dai livelli più bassi fino all’Università) è
consuetudine presentare il poeta piangente, il Pascoli dei rapporti incestuosi,
quello delle cantilene per bambini, ed è diventata norma non riconoscere le
altre stagioni. La critica e gli studiosi hanno contribuito a ciò, e le ricerche sulla
produzione della stagione dell’eroe dionisiaco e del Pascoli trovatore non hanno
avuto una grande considerazione. Il periodo dionisiaco ha acquisito l’etichetta di
momento goliardico e spensierato, invece la stagione dell’eroe trovatore è stata
considerata come la fase solenne e retorica, ma retorica nell’accezione
spregiativa dell’uso moderno di «parlare in modo ampolloso e vuoto», mentre in
realtà si tratta della fase più produttiva della sua vita, nella quale la vera
retorica, quella degli antichi greci, è usata per persuadere il pubblico con
un’oratoria ricca d’impegno civile e morale.
Le tre componenti del Fanciullino si ritrovano insieme, la dialettica riprende
forza, la passione – che portava alla follia per amore – si trasforma mediante
una catarsi dell’autore in una passione più moderata verso la patria, infine la
poetica – precedentemente rappresentata nella natura come arte – arriva alla
sua massima espressione con la mimesi verso i modelli classici, una mimesi
come la intendeva Platone nella Repubblica, come un dinamismo che consente
l’educazione degli uomini. Questa è la caratteristica dell’ultimo periodo del
nostro poeta, la stagione dell’eroe trovatore.
Che cosa s’intende con la stagione dell’eroe trovatore?
La parola trovatore deriva dal verbo in provenzale trobar che significa comporre
in versi, poetare. Pascoli, come molti trovatori, rappresenta il cavaliere povero
che crea poesia lirica per cantarla agli altri. Al centro dell’idea di poesia
trovadorica troviamo il concetto dell’amor cortese inteso come mezura, cioè
come misura: distanza fra l’eleganza nel corteggiare ed il fuoco della passione
(ricordiamo le perturbazioni dell’anima spiegate anteriormente), oppure fra
carnalità e veracità dei fatti nel caso di un adulterio.
Pascoli si è rassegnato e ha capito che il suo ideale di nido non sarà mai più
concretizzato, la separazione di Ida e la sofferenza subita per questa assenza lo
hanno portato ad abbandonare la sua poesia “idillica” – anche se piangente –
della fase più passionale, per il raggiungimento di una produzione mirata alla
sostituzione di quell’amore – passando per la fase dell’eroe stanco – che si
tradurrà in una vera passione verso la patria, verso la nazione, in questa ultima
fase.
L’Italia si trova in un periodo storico-politico molto importante. Le imprese
dell’eroe Garibaldi hanno portato il Paese all’unità, ma il popolo non è per
niente unito e le calamità e i problemi economici spingono gli italiani ad
abbandonare il territorio in cerca di un altro che offra più soddisfazioni. Questo
suppone una sorta di adulterio, come quello che cantavano i trovatori. Pascoli,
con la sua produzione poetica, pretende di allargare i confini del nido alleviando
così il senso di abbandono e i rimorsi per l’”adulterio” effettuato con
l’emigrazione, che obbligava gli italiani ad andare via e abbracciare altri paesi
invece di rimanere nel proprio nido e sistemare le differenze e i problemi interni
(un esempio lo troviamo nella poesia Italy).
Giovanni Pascoli, nelle vesti di eroe patriottico, personifica un trovatore che
canta le gesta di Garibaldi e, raccogliendo l’eredità di Carducci, scrive una
poesia celebrativa e solenne nella quale la patria e gli eroi sono il sottofondo.
Dicevo che la critica ha definito quest’ultimo periodo del Nostro come lontano
dal vero Pascoli, infatti il già rammentato Luigi Baldacci definisce questa ultima
stagione
come
quella
del
non-Pascoli
ma,
come
ho
già
spiegato
precedentemente, se dovessimo parlare di un periodo di non-Pascoli sarebbe
quello
della
seconda
stagione,
il
periodo
dell’eroe
piangente
che,
paradossalmente viene considerato tradizionalmente dalla critica e dalla scuola,
come la fase del vero e unico Pascoli, trascurando il resto della produzione
poetica e anche gli scritti in prosa, che sono invece quelli che ci spiegano
l’essenza della sua opera: una produzione ricca di contenuti politici, storici,
mitologici e culturali, raccontati con una eleganza impeccabile quando si tratta
di poesia, e con un raffinatissimo gusto lirico e filosofico quando parliamo della
sua prosa. Per fortuna alcuni studiosi e critici letterari stanno portando alla luce
questo dimenticato filone di ricerca e oggi possiamo trovare alcuni commenti
sui periodi goliardici e anche su quelli più solenni.
In conclusione, il poeta dell’ultima stagione ricongiunge le caratteristiche del
Pascoli di tutti i restanti periodi. Si tratta di un poeta maturo. La solennità dei
suoi scritti si manifesta fortemente in questa stagione, è un’oratoria aulica
presente in tutta la sua opera precedente; tuttavia in questa fase prende più
forza e si dimostra più retorica che mai, arrivando all’obiettivo che cercava nella
stagione dell’eroe dionisiaco. La vita e opera di Giovanni Pascoli è letteratura
nella sua massima espressione. Il ciclo si chiude nello stesso punto in cui era
iniziato, dove la passione, la dialettica e la poesia si racchiudono nella figura
dell’eroe decadente che – anche se stanco delle vicissitudini della vita – lotta
con le armi che crede più opportune e dimostra la sua astuzia a base di colpi di
penna e d’inchiostro, ascoltando un fanciullino a volte troppo impaurito per dire
la sua, ma sempre con la speranza di convertire il suo dolore in miele per gli
altri.
Il ricordo è poesia e la poesia non è se non ricordo.32
CAPITOLO 2
Il tesoro di Giovanni Pascoli.
Tanti sono gli studiosi e ricercatori che nel corso degli anni hanno eseguito degli
esami esegetici sulle poesie di Giovanni Pascoli. Giuseppe Nava, ad esempio, ha
commento recentemente le raccolte Myricae e Canti di Castelvecchio. Nava
espone delle interessanti teorie sulle fonti delle onomatopee uccelline adoperate
negli scritti pascoliani. Secondo Nava una delle fonti che hanno ispirato Pascoli
è Il cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro. Anche La vita degli animali
del naturalista tedesco Brehm è stata fonte di riferimento per creare i famosi
versi: scilp, dib e vitt, videvitt.
Ma cominciamo dall’inizio.
Che cos’è l’esegesi?
La parola esegesi deriva dal greco ἐξήγησις che a sua volta deriva da ἐξηγέομαι
«guidare, spiegare, interpretare». Si riferisce all’attività critica d’un interprete,
generalmente per ciò che concerne la Bibbia. In materia letteraria possiamo
dire che questo termine fa allusione allo studio e interpretazione critica di un
testo.
32
Giovanni Pascoli, Primi Poemetti, Prefazione, in Tutte le opere di Giovanni Pascoli, vol. I,
Mondadori, Milano 1965, p. 169
Giovanni Pascoli è noto per la sua sfaccettatura di poeta ma non dobbiamo
dimenticare una caratteristica molto importante: il suo lavoro di esegeta. Pascoli
dedicò buona parte della sua vita allo studio e critica dell’opera di Dante
Alighieri.
Il rapporto del nostro poeta con la critica si è sempre distinto per la dicotomia
amore-odio. La personalità di Pascoli era contorta, perciò forma parte del
gruppo dei poeti decadenti più importanti della letteratura italiana. Oltre ad
essere oscuro e circondato da un alone di pessimismo che imprime buona parte
della sua poesia – e si materializza nel poeta che lottava per cause sociali e
politiche – Pascoli ha un obiettivo molto chiaro: l’aspirazione all’immortalità. Con
l’esegesi dantesca perseguita questa finalità. Il poeta è consapevole della
fortuna di Dante dopo più di mezzo millennio dalla sua morte, e aspira a
raggiungere questo risultato affidando il suo futuro allo studio dell’opera del
padre della lingua italiana. Perciò fa uso di una tecnica che gli varrà molte
critiche: il Nostro pascolizza tutto ciò che tocca, come re Mida, e pretende
anche di far diventare oro la sua poesia. La differenza che esiste rispetto al re
mitologico risiede nel fatto che Pascoli è cosciente dell’importanza delle rose
nella sua vita; non è un caso che personifichi la figura della rosa nella sorella
amata, Ida, e sostituisca il suo nome per quello del fiore nel «romanzo
georgico» (come lo definisce il critico Giorgio Bàrberi Squarotti) dei Primi
poemetti. In quel poema Ida, cioè Rosa, acquisisce l’epiteto omerico «dalle
bianche braccia» che nell’Iliade e l’Odissea designavano le figure mitologiche di
Giunone e Nausicaa. Giunone era sovrana dalla superba bellezza; Greci e
Romani adoravano questa dea dell'amore e della fedeltà coniugale alla quale
era affidata la protezione del focolare domestico. Un dato bibliografico molto
significativo in quanto è presente il nome Ida insieme all’epiteto omerico, è
rappresentato dai seguenti versi dell’Iliade33:
[…] Disse; né ad ubbidir si fu restìa / La Dea Giunone dalle bianche braccia. / Da’ monti d’Ida al
lungo Olimpo venne; / Come quando si move lo ‘ntelletto, / Dell’uomo, che già visto molto
mondo.
33
Iliade d’Omero tradotta dall’originale greco in versi sciolti, Anton Maria Salvini, Tomo Primo,
Stamperia del Seminario, Padova 1760 (3ª ed.).
Non dimentichiamo che Pascoli dona a Ida l’epiteto di Reginella: colei che
portava il mazzo di chiavi di casa, alla quale era affidata la gestione della casa,
come del resto lo era anche Giunone. Possiamo vedere un chiaro esempio in
questo poemetto, appartenente alle Myricae, intitolato O Reginella:
Non trasandata ti creò per vero
la cara madre: tal, lungo la via,
tela albeggia, onde godi in tuo pensiero:
presso è la festa, e ognuno a te domanda
candidi i lini, poi che in tua balìa
è il cassone odorato di lavanda.
Felici i vecchi tuoi; felici ancora
i tuoi fratelli; e più, quando a te piaccia,
chi sua ti porti nella sua dimora,
o reginella dalle bianche braccia.
Dicevo che il Nostro pascolizza tutto ciò che tocca, così quando lavora sugli
scritti danteschi e sugli autori classici non può fare a meno di aggiungere
aspetti della sua poetica e della sua biografia. Nello stesso modo, quando scrive
Pensieri e discorsi o le Lezioni leopardiane, non esime dal fare riferimenti a se
stesso e dal paragonarsi al poeta di Recanati. Un commento simile lo troviamo
nelle Prose disperse di Giovanni Capecchi:34
Le circa duemila pagine di esegesi dantesca risultano esemplari per comprendere quanto
pascoliani diventino gli autori con i quali il poeta di Castelvecchio intrattiene un lungo e
approfondito colloquio: un testo come la Divina Commedia diventa occasione per ripensare alla
propria poetica e alla propria esistenza seguendo le tappe del viaggio dantesco, tanto che alla
fine coloro che superino l’ostico impatto rappresentato dai volumi di esegesi dantesca, dalla
Minerva oscura alla Prolusione al Paradiso, si trovano di fronte alla Commedia di Pascoli più che
a quella di Dante. Pur rappresentando un debito nei confronti della formazione positivista,
l’individuazione delle «fonti prime» […] finisce per assumere in Pascoli il carattere di uno
stratagemma, più o meno consapevole, per imboccare un sentiero autonomo e non battuto
dalla critica ufficiale.
34
Giovanni Pascoli. Prose disperse, a cura di G. Capecchi, Carabba, Lanciano 2004, pp. 22-23
Pascoli reinterpreta gli autori letti in base alla propria sensibilità, evidenzia le note e i caratteri
più vicini al proprio gusto e non di rado si sovrappone a questi, svuotandoli della loro sostanza e
riempiendoli di sé.
In questo testo Capecchi testimonia che Giovanni Pascoli va oltre la smania
ossessiva di rendere tutto ciò che scrive portatore della sua persona e pretende
di innovare – con un esame esegetico totalmente diverso da quello che
tradizionalmente si è sempre ammesso – facendo una critica letteraria tutta
sua, immedesimandosi nel testo, nelle storie, e arrivando alla presunzione di
diventare autore stesso dell’opera che commenta. Pascoli scrive che Dante
additerà il suo sepolcro e questa affermazione sposta l’ago della bilancia sulla
sua esegesi e lo distingue dagli altri critici. Secondo il poeta romagnolo è
proprio Dante quello che dirà all’umanità che lui è l’unico che è riuscito a
capirlo:
[…] Dante additerà il mio sepolcro
35
Mettendo da parte la sua ansia di vanagloria, devo dire che le sue pretese
avevano un fondo di ragione: Pascoli è poeta, non critico, e sicuramente quel
sentimento poetico del quale ci parla nel Fanciullino è molto più sviluppato in lui
che in un filologo o in un ricercatore (a volte la poesia arriva laddove lo studioso
non può capire) perciò il Nostro decide che è lui – e non la critica – a
interpretare obiettivamente Dante.36
Pascoli è incoerente, una parte del suo essere è discreto (o pretende di esserlo)
trasmettendo testi come il seguente:
Ricordiamo, o Maria: ricordiamo! Il ricordo è del fatto come una pittura: pittura bella, se
impressa bene in anima buona, anche se di cose non belle. Il ricordo è poesia, e la poesia non è
se non ricordo. Quindi noi di poesia ne abbiamo a dovizia. Potrò significarla altrui? Aspettando i
«Canti di Castelvecchio» e i «Canti di San Mauro», il presente e il passato, la consolazione e il
rimpianto, aspettando questi canti che echeggiano già così soave nelle nostre due anime sole;
leggi, o Maria, anzi rileggi questi poemetti. E leggeteli voi, anime candide, cui li affido. Leggeteli
candidamente. Perché pare naturale in chi legge una continua preoccupazione, come se egli
pensasse o sapesse che chi scrive si rivolge a lui con aria di baldanza e quasi di sfida,
35
36
Il tesoro in Prose disperse, Giovanni Capecchi, Carabba, Lanciano 2004, p. 433
L’argomento viene approfondito nella Premessa di questa Tesi.
dicendogli: Vedi come sono bravo! Onde il lettore fa ogni sforzo per resistere e non lasciarsi
persuadere o commuovere da colui che egli suppone sia per menar vanto di tale successo. Oh!
no, candide anime! io non voglio farmi onore; voglio, cioè vorrei, trasfondere in voi, nel modo
rapido che si conviene alla poesia, qualche sentimento e pensiero mio non cattivo. Vorrei che
voi osservaste con me, che a vivere discretamente, in questo mondo, non è necessario che un
po' di discrezione...
Anche la filosofia del Fanciullino ci consiglia di scrivere per il piacere di farlo,
come opera lo stesso fanciullo del testo, o come Virgilio «che cantò, per
cantare».
D’altronde nella psiche di Giovanni Pascoli un'altra personalità combatte per
uscirne fuori, è il poeta che si vanagloria, il critico che osa dire che Dante
veglierà sulla sua tomba facendo vivere la sua poesia dopo la propria morte, è
lo scrittore permaloso che non accetta una critica negativa e pone fine a delle
amicizie perché non condividono con lui le stesse idee.
Il carattere di Giovanni Pascoli, quella sorta di complesso di superiorità
derivante da un senso d’inferiorità, da un’ambizione repressa, da un
egocentrismo quasi infantile che pone se stesso e la propria problematica al
centro di ogni esperienza – rendendolo incapace di ammettere un punto di vista
diverso dal proprio e propiziando tutti gli scontri con la critica – l’ha spinto a
crearsi uno scudo protettore. Questo si traduce in un atteggiamento
d’insicurezza quando si esprime nei suoi scritti.
Il «mazzolin di rose e di viole»
Per rendere più chiara la teoria proposta in precedenza vorrei fare un esempio
usando la famosa critica di Giovanni Pascoli al «mazzolin di rose e di viole» che
appare nella poesia Il sabato del villaggio di Giacomo Leopardi:
La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine […]
Come avevo detto prima il nostro poeta, nello stile di re Mida, pascolizza tutto
ciò che tocca. Perseguita la fine poetica (l’oro della poesia) anche in opere che
non sono sue. Così, studiando la poesia di Leopardi non può fare a meno di
“castigare” l’autore del Sabato del villaggio trovando tutte le imperfezioni o –
come gli chiama Pascoli stesso – errori d’indeterminatezza, e gli rammenta in
continuazione (in modo più o meno esplicito) creando componimenti che
trattano esclusivamente di questi errori, come si può osservare anche nel
seguente testo:
Oh! egli avrebbe fatto meglio, dico io non ostante le lodi di Carlo, a metterli a dirittura in un
collegio vero e fuori di casa. Nella tristezza della solitudine, che si fa in esso così fiera nella
celletta dopo il chiasso del giorno e il brusio della sera, si sarebbero essi con tutta l’anima rivolti
alla famiglia lontana. Pare assurdo il dirlo; eppure è così: al poeta del dolore mancò nella sua
fanciullezza un po’ di dolore. Non ne ebbe assai, di dolore, Giacomo Leopardi, da fanciullo!
Io ricordo che strette al cuore sentivo quando mi giungeva, la notte, nella veglia non consolata,
“il suon dell’ore„. Era la voce della città straniera; non del borgo natio. E io pensavo al babbo e
alla mamma. E Giacomo non poteva nemmeno, fuggendo dal padre, correre al seno della
madre. Essa tutta occupata nel restaurare il patrimonio Leopardi, non accarezzava i figli che con
lo sguardo. Se era così dolce, come so io d’un’altra, come sanno tutti, o quasi, d’ una, poteva
bastare. Ma...
37
Il complesso di superiorità di Pascoli esce fuori ogni volta che trova l’occasione.
L’insicurezza del nostro poeta s’intravede in questi scritti nei quali fa capire ai
lettori che le banalità, le licenze poetiche, i lamenti, diventano bersaglio della
sua penna inquisitiva. L’argomento si chiuderebbe qui, con un commento sulla
pignoleria di Giovanni Pascoli, ma dobbiamo andare oltre questo pensiero o
discorso del Nostro.
Pascoli ammette l’importanza della presenza di Leopardi nella letteratura
italiana, dedicando tempo di lavoro allo studio della sua poesia e preparando
lezioni e discorsi sul poeta di Recanati. Nonostante ciò Giovanni Pascoli – come
37
Pensieri e discorsi di Giovanni Pascoli, 1895-1906 seconda edizione, Nicola Zanichelli editore,
Bologna 1914.
abbiamo già visto – ha un carattere complicato, un Super-Io che, pur
ammettendo che gli altri scrittori abbiano un successo meritato, lo spinge a
cercare la debolissima macchia d’inchiostro che segnali l’imperfezione di un
codice in apparenza immacolato, e perciò riempie questi scritti di paragoni dal
senso autobiografico, adornati certe volte da commenti molto soggettivi.
Seguendo la costante incongruenza del poeta, nonostante ci siano momenti di
trasformazione della realtà attraverso un viaggio nell’universo pascoliano (come
si dimostra nel testo precedente), non dobbiamo dimenticare ancora una volta
che il Nostro è il poeta della determinatezza, la sua conoscenza del mondo
naturale lo porta a essere preciso nell’evocare uccelli, piante, fiori. Ed è questa
ossessione – la meticolosa precisione nel nominare fauna e flora – che ha
portato il poeta della determinatezza a dimostrare come si fa a mettere nello
stesso mazzolino – cioè, in contemporanea – rose e viole.
La conferenza Il sabato fu tenuta il 24 marzo del 1896, da quel momento in poi
l’uso del nome dei due fiori sarà molto frequente nelle sue poesie: troviamo
“rosa” e “viola” in forma di fiori, come nomi di donne oppure come colori.
Vediamo come fa il poeta della determinatezza ad accoppiare viole con rose – in
apparenza incompatibili una con l’altra – in un tutt’uno indissociabile.
Nella raccolta di poesie Primi poemetti (1897), successiva alla conferenza
leopardiana, la prima sezione intitolata La Sementa contiene una serie di poemi
che raccontano la storia di una famiglia contadina e i lavori agricoli che
svolgono i suoi componenti. Curiosamente i personaggi principali sono due
sorelle; Rosa, la figlia maggiore, e Viola, quella più piccola, insieme a due
fratelli minori, la madre e il capofamiglia. Per la prima volta, dopo la critica a
Leopardi, Giovanni Pascoli ci parla di due “fiori”, due sorelle che hanno per
nome Rosa e Viola. Qui si dimostra come lo spirito puntiglioso di Pascoli gioca
con le parole e rende vera la frase «un mazzolin di rose e di viole», e come –
simultaneamente – continua a pascolizzare tutto ciò che scrive (è risaputo che
le ragazze dei Poemetti rappresentano le proprie sorelle, Ida e Maria).
Pascoli va oltre nella sua azione pascolizzatrice inserendo indizi nascosti ai
lettori distratti (come abbiamo visto nella Premessa di questa tesi quando
parlavo del Tesoro e l’ambrosia). Vediamo come lo fa nei Primi poemetti. Il
fratello più piccolo, nel poema Nei campi, è chiamato Dore. Facendo una ricerca
sul significato del nome risaliamo al dialetto sardo. Nelle carte antiche si
presenta come l’aferesi di Sarvadore (Salvatore). Dore è un cognome specifico
della Sardegna settentrionale e ha origine da un’antica casata sarda che il
professor Giuseppe Concas, dell’Università di Cagliari, fa risalire il massimo della
sua potenza al 1113, quando Torchitorio De Zori, divenne Giudice di Gallura.
Che Giovanni Pascoli abbia voluto mettere di nascosto il nome dello Straniero
dentro della casa dei contadini non sembra una teoria con una base solida,
anche se il bambino che porta quel nome è nominato soltanto in una poesia, e
non lo troviamo dentro la casa bensì lavorando nei campi. Perciò le mie ricerche
sono andate verso altre sponde e così approdiamo a terreni romagnoli. Oltre al
diminutivo del nome Salvatore, dopo diventato cognome, troviamo che nella
tradizione popolare, nel cesenate e nel riminese, le bambine della zona
cantavano una filastrocca – quando giocavano a girotondo – intitolata O quante
belle figlie Madama Dorè. Il nome del bambino Dore è scritto senza l’accento,
ma conoscendo l’uso che faceva Pascoli delle parole possiamo ipotizzare che
forse abbia voluto mascherare il nome della signora della canzone in quello del
bambino. Perché questo gesto? Lo vediamo a continuazione nel testo della
filastrocca:
- O quante belle figlie, Madama Dorè,
o quante belle figlie.
- Son belle e me le tengo, scudiero del re,
son belle e me le tengo.
- Il re ne domanda una, Madama Dorè,
il re ne domanda una.
- Che cosa ne vuol fare, scudiero del re,
che cosa ne vuol fare?
- La vuole maritare, Madama Dorè,
la vuole maritare.
- Con chi la maritereste, scudiero del re,
con chi la maritereste?
- Col principe di Spagna, Madama Dorè,
col principe di Spagna.
- E come la vestireste, scudiero del re,
e come la vestireste?
- Di rose e di viole, Madama Dorè,
di rose e di viole.
- Prendete la più bella, scudiero del re,
prendete la più bella .
- La più bella l'ho già scelta , Madama Dorè,
la più bella l'ho già scelta.
- Allora vi saluto, scudiero del re,
allora vi saluto.
Nella Sementa la figlia maggiore, Rosa, s’innamora di un cacciatore che è
riuscito a entrare in casa nonostante la siepe e il fossetto. I commenti della
critica hanno identificato il cacciatore nella persona di Salvatore Berti, tuttavia
chiamare Dore quel cacciatore non sarebbe stato un gesto pascoliano. Invece il
vero Dore (il figlio più piccolo che non esiste nella vita reale nella famiglia
Pascoli) non ci dovrebbe essere – come nemmeno il mazzolino di viole e di rose
– quel bambino inesistente, che ci ricorda la filastrocca contenente un errore
d’indeterminatezza esattamente uguale a quello di Leopardi, e che avrebbe il
diminutivo nel nome Salvatore, non dovrebbe esistere, come per l’autore non ci
dovrebbe essere nemmeno il vero Salvatore Berti. Con questi giochi linguistici
Pascoli ci dimostra ancora una volta che pur pretendendo di essere preciso è
anche il padre del Simbolismo italiano e perciò soggettivo nella sua poesia.
Un altro esempio pascoliano di com’è possibile trovare le rose e le viole insieme
lo incontriamo nell’inquietante poesia Digitale purpurea. Si tratta di una
correzione al mazzolino di Leopardi fatto «tacitamente» (come scriveva
Gianfranco Contini),38 anche se in questo caso non sono rose e viole ma «rose e
viole a ciocche». Il modo in cui Pascoli scrive il nome del fiore “viola a ciocca”
non è particolare poiché all’epoca era comune trovarlo staccato, tuttavia era
anche usata la forma attaccata, ma il Nostro sceglie la variante a più parti e
scherza ancora una volta con le parole riuscendo così a creare quel mazzolino,
quella ciocca di viole e rose che non si troverebbe mai in natura. È risaputo che
38
Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Gianfranco Contini, Sansoni, Firenze 1968.
il nostro poeta si dilettava a giocare con le parole, inventava pseudonimi,
termini e toponimi, usava onomatopee creando un linguaggio tutto nuovo.
Anche nelle sue poesie la cura delle parole è ossessiva e la loro posizione
all’inizio o fine dei versi serve a creare quell’atmosfera di mistero, nella quale i
semplici sguardi dei lettori poco attenti vedrebbero soltanto banalità. Chissà se
il poeta simbolista abbia voluto giocare con la voce fiorentina violacciocca?:
VIOLE A CIOCCHE, o, come da taluni si scrive, VIOLACCIOCCHE. T. botan. vulg. Cosi chiamano
i Fiorentini quelle che da noi si dicono semplicemente Viole: e sono costretti a cosi chiamarle
dall'aver dato il nome di Viola o Vivuola o Vivuolo a quel fìore che, per mandar l'odore del
garofano, arómato, da tutti gli altri Italiani Garofano è detto. Al qual proposito scrive il Magalotti
(Lett. scient., lett. 9, p. 130): « Ci può egli esser maggior somiglianza d' odore di quella che è
tra 'l garofano, spezie, e il vivuolo? Basti dire che da Firenze in poi, dove sempre piacque il
raffinare, in tutto il resto dell'Italia questo fiore si chiama garofano.»
39
E poi abbia inserito la spiegazione delle accezioni in quest’altra poesia?:
Sentii parlare ed un odor vicino.
Avean qualche garofano e viola:
una ghirlanda per il mio bambino.
40
Comunque sia si dimostra ancora una volta che il Nostro, dopo la conferenza
del 24 marzo del 1896, partendo da un errore d’indeterminatezza, ha creato
degli esempi nei quali le rose e le viole possono esistere contemporaneamente.
Un altro esempio molto più pascoliano per il carattere contorto, e degno quasi
di un esperto in decodifica dei testi, sarebbe quello che troviamo nella poesia
Casa mia:
Mia madre era al cancello.
Che pianto fu! Quante ore!
Lì, sotto il verde ombrello
della mimosa in fiore!
M'era la casa avanti,
tacita al vespro puro,
tutta fiorita al muro
39
Tratto da Voci e maniere di dire italiane additate a’ futuri vocabolaristi, Giovanni Gherardini,
Vol. II, G.B. Bianchi, Milano 1840, p. 103.
40
Giovanni Pascoli, Nuovi Poemetti, La vendemmia, Canto II.
di rose rampicanti.
[…]
S'udivano sussurri
cupi di macroglosse
su le peonie rosse
e sui giaggioli azzurri.
- Fanno per casa (io siedo)
le tue sorelle tutto.
Quando così le vedo,
col grembiul bianco, in lutto... Io vidi allor la mia
vita passar soave,
tra le sorelle brave,
presso la madre pia.
[…]
Vidi nel mio cammino
al sangue del trifoglio
presso il celeste lino.
In questa poesia appartenente alla raccolta Canti di Castelvecchio troviamo
alcune chiavi per capire il simbolismo di Giovanni Pascoli. Si tratta di un poema
dedicato alla madre e alle due sorelle, che non chiama più Rosa e Viola per non
trattarsi dei Primi poemetti, bensì le caratterizza con questi colori. I colori in
Pascoli sono molto significativi, per lui il bianco rammenta la morte come ci
spiega nella sua poesia intitolata Nebbia, quel fumo scialbo che invita a
nascondere quello ch’è morto per il poeta, oppure il bianco di strada che un
giorno avrà da fare tra stanco don don di campane. Perciò nella poesia Casa
mia, quando parla delle sorelle col grembiul bianco, in lutto capiamo che con il
colore bianco dei grembiuli Pascoli ha voluto simboleggiare il lutto per il padre
morto. Anche nella poesia La tovaglia il bianco del tessuto invita i pallidi morti a
sedere alla mensa di casa Pascoli. Ma torniamo al discorso delle rose e le viole.
Nella poesia Casa mia esiste il mazzolino di rose e di viole, questa volta è
rappresentato ancora più tacitamente che nella poesia Digitale purpurea.
Pascoli ci dà degli indizi ma è il lettore colui che deve cogliere questi dati e
metterli insieme per ottenere il voluto mazzolino. Vi spiegherò come: nei diversi
passaggi selezionati e riportati in precedenza, possiamo leggere che la madre si
trova sotto il verde ombrello della mimosa in fiore. Se pensiamo ai fiori della
mimosa ci viene in mente un’esplosione di colore, ma non è verde bensì giallo.
Pascoli è il poeta della determinatezza, non potrebbe mai sbagliare parlando di
fiori, tuttavia in questo poema ci dice che la madre è sotto un ombrello verde;
perché? La spiegazione è molto semplice, ancora oggi nel giardino di Casa
Pascoli a San Mauro possiamo trovare una pianta di mimosa, i suoi fiori non
sono gialli ma rosa e hanno la caratteristica di essere più grandi e meno
abbondanti. Stiamo parlando dell’Albizia julibrissin, e anche se si tratta di una
pianta appartenente alla famiglia delle Mimosaceae (fabaceae secondo la nuova
classificazione APG41), non è la Acacia dealbata dalle vistose infiorescenze gialle
bensì la specie dei fiori meno abbondanti e a forma di piumino, perciò non è il
rosa il colore che predomina nella pianta ma il verde delle sue foglie.
© ALR 2012 Mimosa. Giardino Casa Pascoli, San Mauro Pascoli.
41
Angiosperm Phylogeny Group (2009). An update of the Angiosperm Phylogeny Group
classification for the orders and families of flowering plants: APG III, Botanical Journal of the
Linnean Society, volume 161, issue 2, articolo del 8 OCT 2009.
Abbiamo trovato il colore rosa per prima volta nel poema, nascosto, seguito
dalla più evidente rosa rampicante; la sorella Ida (Rosa nei Primi Poemetti), il
fiore e il colore rosa sono presenti nella stessa poesia. Ora è il momento di
trovare il colore viola. In una prima lettura sembrerebbe che Pascoli si fosse
dimenticato della sorella Maria (o Viola), ma in questa poesia il Nostro ci parla
della madre e delle due sorelle, di seguito vedremo come si risale al colore
viola.
Ricordo ai lettori che Giovanni Pascoli è il padre del simbolismo italiano, la
lettura delle sue opere richiede un esaustivo lavoro di decodifica; le
macroglosse del poema volano su due tipi di fiori (le peonie e i giaggioli) e in
questo testo il viola viene mascherato da altri colori: dal rosso delle peonie e dal
azzurro dei giaggioli. Questi due fiori possono essere rosa, bianchi, gialli,
arancione, ma l’autore sceglie proprio il colore rosso e l’azzurro per identificarli
perché soltanto l’insieme di rosso e di azzurro produce il colore viola. Tuttavia
non è l’unico esempio che Pascoli ci lascia nel poema; più avanti nella poesia
troviamo nel cammino, vicino ai fiori celesti del lino, una varietà di trifoglio, il
trifolium pratense, che ha la caratteristica di avere i fiori di color rosso. Ancora
una volta il colore rosso e il celeste messi insieme danno il consecutivo viola.
Anche in questo poema troviamo la triade Maria (Viola), fiore e colore con un
triplo mascheramento.
Possiamo identificare le sorelle del poema come Ida e Maria anche se il
racconto non è oggettivo riguardo ai parametri spaziotemporali perché
coesistono nel poema le sorelle, già grandi, e la madre. Inoltre abbiamo visto in
che modo l’autore nasconde il colore viola dietro il rosso e l’azzurro, e infine il
fiore, che in questo caso non è la vera e propria viola, ma il simbolo di Firenze,
il giglio – nella poesia chiamato alla maniera fiorentina giaggiolo – che è legato
storicamente al nome che i romani diedero alla città, Florentia, giacché all’epoca
dei fondatori i fiori di giglio riempivano con il colore viola i prati e le colline che
circondavano la città.
Odi et amo. Un sentimento pascoliano
Nell’opera di Giovanni Pascoli, soprattutto il periodo che comprende quello che
io ho chiamato la stagione dell’eroe stanco, s’incontrano diversi aspetti che uniti
daranno luogo a uno stile meno bucolico e più attuale. Come avevo spiegato nel
capito riservato agli eroi, Giovanni Pascoli comincia un processo di catarsi dopo
il matrimonio della sorella Ida. Il poeta pretende di purificarsi dalla passione che
lo aveva portato fino alla follia con stratagemmi tali come la ricerca del
mazzolino di rose e di viole e, in questo percorso verso la purificazione
dell’anima, la poesia diventerà rimedio infallibile man mano che i discorsi e gli
scritti civili distoglieranno la mente del poeta dall’ossessione di quella passione.
In questa stagione la triade passione-dialettica-poetica subisce un’alterazione,
la componente della passione intesa come follia d’amore si trasforma
lentamente in una dedizione verso la patria che si traduce in ode, inni e testi di
contenuto sociale e civile; la poetica lascia spazio a prose, discorsi e pensieri
(senza perdere tuttavia il posto principale nell’opera del Nostro); la dialettica,
che nella seconda stagione dell’eroe piangente aveva perso forza, è rinvigorita e
continuerà su questo verso fino all’ultima stagione, dell’eroe trovatore, nella
quale la dialettica diventa il timone che guida Giovanni Pascoli nel buio della sua
tempesta interiore.
È risaputo che Giovanni Pascoli ammirava il poeta Leopardi, ma abbiamo visto
come la sua mente contorta e il suo inconscio gestito dall’egocentrismo infantile
– insieme al processo di catarsi – lo portano a voler essere migliore del suo
modello. Nel corso degli anni sono stati creati dei profili psicologici basati sulla
personalità di Giovanni Pascoli e possiamo trovare infinità di diagnosi diverse,
malgrado si basino su supposizioni, commenti, pettegoli e lettere (e non sullo
studio effettuato sul vero soggetto), la veridicità di queste interpretazioni
mediche sono state ben accolte, e il motivo principale di questo consenso è che
sappiamo che la mente del Nostro non trovava la quiete.
La mia ipotesi sull’ossessione di essere ricordato e di superare i suoi modelli (in
questo caso parliamo di Leopardi) non ha fondamento scientifico; non prendo
come spunto i commenti dei critici né alcuna testimonianza di persone vicine a
Pascoli, mi baso esclusivamente sullo studio dei suoi scritti e commenti, sulle
affermazioni che possiamo trovare sulla sua opera poetica e, soprattutto, sulla
sua prosa. Per rendere più chiara questa ipotesi vorrei fare un breve paragone
fra Giovanni Pascoli e Giacomo Leopardi confrontando alcuni aspetti della vita e
opera di entrambi.
Giacomo Leopardi (Recanati 1798 – Napoli 1837) è noto per la sua filosofia sul
pessimismo cosmico e per l’appartenenza a Romanticismo.
Pascoli non è definito come un autore romantico, anche se ha tante
caratteristiche in comune con quel movimento artistico. Il Romanticismo si
oppone all’Illuminismo poiché gli illuministi pensavano che la ragione potesse
dare una risposta a ogni domanda e per i romantici, invece, alcuni sentimenti e
stati d’animo sfuggivano alla ragione.42 Gli illuministi, inoltre, pensavano che
con la ragione si potesse costruire una società perfetta; per i romantici esiste
una frattura fra ideale di bellezza e felicità e la realtà piena di dolore e
sofferenza
che
provoca
lo
stato
d’animo
tipico
del
Romanticismo:
l’insoddisfazione del presente. In Pascoli esiste questa negazione della ragione
illuministica e i sentimenti, il sogno o la follia fanno parte di alcuni suoi scritti
(soprattutto nel periodo in cui Ida si sposa), l’esotismo come meta, come locus
amoenus lo portano a scrivere sulla classicità e la fugga del luogo
d’appartenenza gli fanno creare l’orto e la siepe e fanno chiedere alla nebbia di
nascondergli le cose lontane (Ida, la Romagna) che sono piene di dolore e di
pensieri funebri.
L’individualismo illuminista che percepisce gli uomini come tutti uguali poiché
provvisti di ragione viene rivalutato dal Romanticismo, che afferma che ogni
uomo è diverso perché i sentimenti privati sono differenti, tuttavia queste
emozioni possono manifestarsi in forme diverse come il vittimismo – che porta
al chiudersi in se stessi, all’autobiografismo – come sappiamo che faceva il
nostro poeta; o al titanismo, che si tratta di una sorta di esaltazione del proprio
Io, del proprio genio creatore, dell’ardore eroico di salvare la patria e la società;
tutti aspetti che troviamo in molti testi pascoliani. Pascoli coltiva anche la
42
Il discorso sul Mythos e il Logos è trattato nel capitolo 1 di questa tesi.
poetica dell’Io, il poeta fugge dalla dolorosa realtà e si chiude in se stesso,
questa azione lo porta a cantare l’infelicità e l’angoscia esistenziale
rappresentate dalla lirica individuale e autobiografica; ma nello stesso tempo si
sente un eroe che deve lottare per il concetto di popolo e nazione, perciò
Omero, che rappresenta una fonte d’ispirazione per tutti i poeti romantici,
compare anche nell’opera di Giovanni Pascoli e gli scritti di fondo nazionalistico
e sociale sono abbondanti nella bibliografia del Nostro. Il soggettivismo
romantico è legato all’idea di concepire la poesia come espressione spontanea
degli ideali dell’artista, dà voce all’irrequietezza e insoddisfazione dello spirito
umano e, anche se Giovanni Pascoli è il padre del Simbolismo, la dialettica che
troviamo
in
opere
come
Il
fanciullino,
ci
persuadono
a
scrivere
spensieratamente, tuttavia il Nostro è un poeta che studia le parole e le colloca
nelle poesie in un modo predeterminato. Danno fede di ciò i quaderni e i
manoscritti che si conservano nell’archivio di Casa Pascoli, a Castelvecchio, sui
quali si possono osservare tecniche varie come delle bozze con dei versi
completamente in bianco tranne che per le parole finali, appunti ai margini con
frasi da inserire nella poesia in elaborazione, annotazioni, elenchi di lemmi che
fanno rima con delle parole scelte in anticipo dall’autore, schemi metrici
prosodici nei quali non ci sono parole ma dei segni grafici per le vocali brevi o
lunghe, ecc.
Come succede nell’opera di Leopardi, in cui il concetto di Romanticismo non è
ben definito, l’appartenenza a una corrente letteraria è ambigua in Pascoli
poiché nella sua poetica esistono elementi che ci riconducono all’Illuminismo e
al Classicismo; Carducci ha parlato d’una parte dell’opera del padre del
Simbolismo chiamandola «Romanticismo classico del Pascoli greco-latino».
Per i romantici gli origini e le radici sono molto importanti e le tradizioni e
abitudini dei luoghi d’appartenenza aiutano a creare l’identità dei popoli. Perciò
il Romanticismo crea ed esalta il concetto di nazione, di popolo e di patria.
Nell’opera di Pascoli esistono allusioni alla tradizione romagnola e parole del
dialetto familiare. Un chiaro esempio lo troviamo nella poesia La voce nella
quale la madre del poeta lo chiama con il nome in dialetto romagnolo Zvanî. In
Canti di Castelvecchio ci sono accenni ai costumi e al dialetto della Garfagnana;
inoltre sono tante le poesie che alludono alla tradizione popolare e contadina,
alla vita in campagna e alle piccole cose quotidiane che, nei testi del Nostro,
acquisiscono un’importanza quasi vitale. Sono queste piccole cose quelle che
marcano l’andamento dei giorni, che trasmettono serenità alla fantasia
irrequieta del poeta e conferiscono quel senso identitario mancato dovuto ai
suoi spostamenti e a una famiglia che, in poco tempo, si è vista distrutta per la
scomparsa dei propri membri. Il senso di appartenenza a un popolo, che per il
poeta non ha dimostrato di agire con giustizia, è molto forte e pur volendo
fuggire da una terra che non ha condannato l’assassinio del padre e dalla quale
proveniva lo Straniero, Pascoli si sente romagnolo. Con Mariù parla in dialetto,
la poesia Casa mia è ambientata a San Mauro e anche se si rifiuta apertamente
di ritornare in Romagna perché le sensazioni e i ricordi sono dolorosi: è in
Romagna dove tutti i suoi cari sono sepolti, ed è lì dove Ida è andata a vivere
con lo Straniero. Pascoli rammenta in buona parte della sua opera i paesaggi, i
colori, la fauna e la flora, le persone care e i costumi della tradizione romagnola
ma è un sentimento di amore-odio come quello del carme numero 85 di Catullo
«Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et
excrucior», nel quale il poeta romano afferma di odiare e amare in
contemporanea, senza conoscere il motivo e sapendo unicamente che lì risiede
il suo tormento. Pascoli ama la sua terra, tuttavia la Romagna è anche
portatrice di ricordi dolorosi, perciò Pascoli fugge in un’altra realtà, quella
garfagnina, cercando nelle tradizioni e dialetto toscano un santuario che lo
protegga dalle intrusioni esterne, una realtà ideale che lo distacchi dalle cose
lontane, come ci ripete insistentemente nella poesia Nebbia.
Il Nostro prende da Leopardi l’idea della filosofia, e nel Fanciullino troviamo un
Pascoli incoerente che ci detta un insegnamento e di seguito ne fa l’esatto
contrario (ho accennato in questa tesi l’imitatio, Platone e il mythos/logos).
Anche nel discorso su Leopardi del 1896 troviamo questa caratteristica, come si
può osservare di seguito:
[…] io non voglio, né so né devo, fare il moralista: certo mi piacerebbe che l’uomo facesse
bene, senza aver sempre di mira un altro di cui far meglio; e che specialmente nell’arte e in
particolare nella poesia, la quale non è nessun merito far bene, perché non si può far male; o si
fa o non si fa; l’artista e il poeta si contentasse di piacere a sé senza cercare di piacere a tutti i
costi agli altri e più d’altri.
43
Pascoli vuole credere a queste parole, ma il suo senso d’inferiorità è doloroso e
con la sua poesia, con l’esegesi dantesca e con i discorsi e critiche a Leopardi ci
dimostra che l’altra sua personalità lotta continuamente per venire a galla e
dimostrare a se stesso e all’umanità quanto sia preziosa la sua poesia.
Una delle caratteristiche della scrittura di Giacomo Leopardi è il pessimismo. Gli
studiosi hanno individuato tre momenti nel pensiero pessimista leopardiano: la
fase del pessimismo storico, quella del pessimismo cosmico e la stagione eroica.
Il pessimismo storico è caratterizzato da una visione negativa verso la propria
persona – che si traduce in una sorta di pessimismo individuale – e verso
l’epoca storica nella quale vive – che vede come deludente a confronto con le
epoche antiche e gloriose – cioè il periodo della Restaurazione.
Pascoli adotta dalla fase storica soprattutto la versione individualistica,
l’infelicità e l’autocompassione e la credenza che la vita sia stata spietata con la
propria persona. Leopardi rifletteva spesso sul dolore dell’esistenza a
conseguenza delle sue malattie che lo portarono a una morte precoce; per
Pascoli succede qualcosa di simile, la sua situazione personale lo ha spinto a
crearsi un’etichetta sfortunata che accresce il suo senso di vittimismo. Il
pessimismo come epoca storica in sé, invece, ha un valore diverso per Pascoli
che, lontano dalla delusione creata dalla Restaurazione, pensa che si possa
lottare per un’Italia unita non soltanto sulla carta, e con i suoi scritti, carichi di
una forte dialettica, ha intenzione di infondere il sentimento dell’unità anche
nella popolazione e di ampliare i margini del nido-patria (come possiamo
leggere in Italy).
43
Pensieri e discorsi di Giovanni Pascoli, 1895-1906 seconda edizione, Nicola Zanichelli editore,
Bologna 1914.
Nella fase del pessimismo cosmico Leopardi scopre che anche gli antichi
avevano parlato del dolore e dell’infelicità, ergo esisteva anche per loro; in
questa fase la Natura intesa come madre donatrice d’illusioni e di sogni si
trasforma in quella che ha procurato anche la ragione agli uomini e quindi
l’infelicità dovuta alla rottura di quei sogni illusionistici. Possiamo vedere un
esempio nelle seguenti parole del poeta di Recanati:
Questo io conosco, e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.44
Anche Giovanni Pascoli concepisce la dualità sogno/ragione (ricordiamo il
discorso del mythos/logos), ma a differenza di Leopardi il Nostro riesce a creare
un’alternativa a codesto pessimismo, e sarà il Fanciullino a portare un po’ d’aria
fresca e spensierata alla mente del poeta. Tuttavia il male di vivere è presente
nel Nostro poiché costituisce una ricorrenza nella vita di filosofi e poeti, che
esisteva nell’antichità ed è perdurata sino ai nostri giorni; un esempio lo
troviamo nell’opera di Eugenio Montale, la poesia Spesso il male di vivere ho
incontrato costituisce la testimonianza più chiara di questo senso d’infelicità
nella vita dei poeti, non a caso la motivazione della consegna del Premio Nobel
per la letteratura nel 1975 è stata «Per la sua poetica distinta che, con grande
sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione
della vita priva di illusioni».
La stagione eroica costituisce l’ultimo periodo della vita di Giacomo Leopardi. In
questa fase il poeta di Recanati recupera in parte il vecchio eroismo che
dimostrava nella poesia civile dei primi anni (1818-21), anche se con un
atteggiamento polemico nei confronti dei suoi contemporanei che lo accusavano
di ateismo, scarso patriottismo e mancanza di fiducia nell’umanità.
Giovanni Pascoli ha un percorso simile: nei suoi anni di goliardia i suoi scritti
socialisti e il suo attivismo erano in pieno apogeo, dopo arriveranno gli anni bui
44
Canti, Giacomo Leopardi, Felice Le Monnier, Firenze 1860, pp. 74-75
nei quali gli scritti sono colmi di pianto e pensieri funebri, testi che lentamente
si trasformeranno in odi e inni, in discorsi e prose cariche di senso morale e
patriottico.
Abbiamo visto come l’Io incoerente di Pascoli ci fa credere che canti per il
piacere di farlo quando in realtà scrive con calma, curando ogni parola e verso,
adeguando il ritmo allo schema metrico e riprovando più volte finché il risultato
lo soddisfa. Abbiamo scoperto analizzando testi come Il tesoro oppure Il
fanciullino, che il Nostro non cerca soltanto la bellezza nella poesia ma anche e
soprattutto la gloria, l’essere riconosciuto e conosciuto, l’essere ricordato e
lodato. Anche Leopardi cerca la gloria, e Pascoli ce lo ricorda nel discorso Il
sabato parlando a proposito del padre di del poeta di Recanati:
Tuttavia osserviamo che egli [Leopardi] conclude come sia utilità inestimabile trovarsi innanzi
nella giovinezza una guida esperta ed amorosa, sebbene aggiunga che ne deriva “una sorta di
nullità e della giovinezza e generalmente della vita”. Ebbene che cosa poteva da ragazzo temer
più che tale nullità, chi nel 17 affermava: “Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente,
desiderio di gloria; io voglio alzarmi, farmi grande ed eterno coll’ingegno e collo studio”; e nel
19: “voglio piuttosto essere infelice che piccolo”? Questo voto, povero Giacomo, si adempie.
Per il pessimismo cosmico la natura è maligna poiché condanna gli uomini alla
morte deludendo ogni speranza. Anche Pascoli ha pensieri negativi e
pessimistici in questo senso. Possiamo vedere un esempio negli ultimi versi
della poesia XXIV dei Poemi conviviali, intitolata L’ultimo viaggio:
- Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! –
La sconsolata visione che Pascoli ha della vita si traduce nelle dolorose parole di
Calipso, dea immortale che riesce a capire la sofferenza universale degli uomini
costretti a vivere in «quell’atomo opaco del male». Con l’arrivo al punto di
partenza della sua odissea, compiuta in senso inverso, e dopo aver approdato a
isole e luoghi dove nessuno l’ha riconosciuto, Ulisse ritorna da Calipso, morto.
Con questa storia Pascoli ci insegna che nessuna immortalità è più importante
della propria dipartita, poiché è solo dopo la morte che l’eroe rimarrà vivo nel
ricordo degli altri.
La critica ha parlato delle crisi di fede di Giacomo Leopardi, è negli ultimi anni di
vita quando il poeta scrive La ginestra. In questa poesia Leopardi identifica il
nostro pianeta con un granel di sabbia. Anche per Pascoli la vita è vista da una
prospettiva simile, lo testimoniano le ultime righe della poesia X Agosto:
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
Oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!
Fino qui abbiamo visto come Leopardi e Pascoli hanno delle caratteristiche in
comune pur appartenendo a correnti letterarie diverse.
Il miele della poesia
Nella Premessa di questo lavoro abbiamo visto come per il nostro poeta il miele
sia sinonimo di poesia. In questo paragrafo vorrei parlare del simbolismo del
miele, che può essere interpretato come tesoro, come poesia, o come i capelli
dorati di Ida:
[…] bionda la Rosa e bruna la Viola.45
Ida era bionda e Maria bruna. Le poesie del Nostro sono fatte di boccoli d’oro,
di capelli biondi arruffati, insomma di versi con un contenuto sintattico che ci
evoca la capigliatura bionda della sorella amata. Nella poesia Digitale purpurea
Giovanni Pascoli ci racconta un ricordo di Maria. I commenti della critica hanno
individuato Maria nell’omonima ragazza del componimento, e Ida nelle veci di
Rachele, l’amica degli occhi ch’ardono, con il mascheramento dei capelli. In
questo poema Maria appare come bionda e Rachele invece è bruna. Il poema è
scritto dopo che Ida si sposa e abbandona il nido familiare. Per Pascoli è un
duro colpo, vuole dimenticare la sorella amata per non soffrirne l’assenza e
scrive la poesia Nebbia nella quale chiede con ossessiva insistenza di
nascondergli le cose che sono lontane. La critica ha commentato che queste
45
Ultimo verso della poesia "L'Angelus", della raccolta La Sementa dei Primi Poemetti, G. Pascoli
«cose» sono i familiari morti, prendendo come giustificazione la frase
«nascondimi quello ch’è morto!», ma nella mia ipotesi si tratta della sorella Ida,
che è andata via abbandonandolo, è lontana… morta.
Qui possiamo vedere come Pascoli usa parole e simboli conosciuti dalla
tradizione letteraria; per secoli le donne bionde davano l’idea di bellezza, di
purezza, infatti nella Digitale purpurea è Maria la ragazza che si mantiene
lontana dal fiore (che rappresenta l’Eros) e perciò è bionda e ha lo sguardo
semplice e modesto. Invece Rachele, la ragazza che ha respirato il profumo
inebriante del fiore, è quella bruna che ha gli occhi «ch’ardono», quella che
s’introduce in un orto chiuso, con i rovi, per trovare quel «fior di morte». È
dopo il ricordo del fiore che Pascoli introduce la bellissima frase:
Vedono; e si profuma il lor pensiero
d’odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d’innocenza e di mistero.
E subito dopo la confessione di Rachele:
[…]Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a
ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d’un sogno che notturno arse e che s’era
all’alba, nell’ignara anima, spento.
Più avanti nella poesia Pascoli rimemora in un certo modo la giornata del
matrimonio di Ida ma questa volta dal punto di vista dell’unica protagonista che
non aveva parlato in quella scena di lotta di appartenenza, cioè, Ida stessa:
Maria, ricordo quella grave sera.
L’aria soffiava luce di baleni
silenzïosi. M’inoltrai leggiera,
cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!
Vieni! E fu molta la dolcezza! Molta!
tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore
alza deli occhi, e vede ora, ed ascolta
con un suo lungo brivido…) si muore!
«Vieni», ci ricorda «andiamo», le parole pronunciate dal marito dopo le nozze.
Il passaggio «soffiava luce di baleni» ci ricorda anche il Fanciullino, quando il
Nostro, secondo il pensiero stoico, ci dice che alla fine del mondo avverrà una
conflagrazione che consumerà l'intero universo:
[…] e balenava all'orizzonte la conflagrazione del mondo in una guerra di tutti contro tutti e
d'ognuno contro ognuno.46
Per Pascoli è la fine del mondo, o almeno del suo mondo, quello che aveva
costruito intorno a Ida, e dal momento in cui decide di andare via – seguendo
la parola «vieni» – e sente il profumo del fiore dell’Eros, Ida muore per il poeta.
Dunque per Giovanni Pascoli Ida è lontana, non è più con lui, per il poeta è
morta dopo che lo Straniero ha vinto la battaglia dell’appartenenza che il Nostro
rilascia nel componimento intitolato Nelle nozze di Ida, nel quale lui e Maria
lottano per ripetere la parola «nostra», ma essa perde forza e l’espressione
«mia» pronunciata dallo sposo soltanto una volta diventa dominante nella
narrazione man mano che la distanza fra i fratelli si allarga e la parola
«andiamo» serve a descrivere la vicinanza rispetto al marito; mentre la
lontananza dai fratelli si vede segnata dalla ripetizione della parola «addio».
Questa amara situazione viene descritta nel discorso diretto riportato nel
componimento:
Egli ti dice: Andiamo, Ida; e noi ti diciamo: Ida nostra, addio! […] Un altro dice: Andiamo, Ida
mia; e io, io e Maria, diciamo: Ida nostra, addio! addio! addio!
È in questo momento che per Pascoli Ida non è più sua. Lo fa capire nell’incipit
del testo Nelle nozze di Ida:
Addio dunque, Ida sorella di Maria!
46
Il fanciullino, G. Pascoli, Nottetempo, Roma 2012, p. 54
Per il poeta la partenza di Ida è così dolorosa che preferisce immaginarla morta,
vuole dimenticarla, addirittura rompe il legame di sangue che li unisce negando
il loro rapporto familiare. Per questo motivo nella poesia Digitale purpurea
assegna il nome di Rachele alla compagna di Maria, a quella che aveva
annusato il fiore di morte (chiara allusione alla combinazione Eros/Thanatos
molto presente nell’opera del poeta). Ma perché sceglie proprio Rachele? Non
sarebbe pascoliano affermare che il motivo sia fare la rima con la parola miele.
Abbiamo visto che Pascoli è ferito nell’anima, il suo cuore piange per
l’abbandono della sorella e cerca di dimenticarla, perciò il motivo del cambio di
nome di Ida nella Digitale purpurea suppone un dispetto verso la responsabile
della rottura del nido familiare, il giorno 30 settembre, che curiosamente è il
giorno dell'onomastico delle donne chiamate Rachele.
Vorrei approfondire la spiegazione della scelta del nome Rachele. Abbiamo visto
che nell’opera del Nostro tutti i concetti sono in stretto rapporto. Vediamo in
che modo il nome di Rachele è collegato agli altri simboli pascoliani. In
precedenza ho nominato l’erba cedrina, si tratta di una pianta molto presente
nella vita di Giovanni Pascoli poiché rappresenta la madre. È anche chiamata
melissa e, oltre ad essere la pianta che troviamo sulla soglia di casa Pascoli, è il
nome della Musa Melissa: la produttrice di miele incaricata di allevare il dio Zeus
fanciullo nascosto sul Monte Ida, in Creta. Così il nome adoperato nella poesia
Digitale purpurea viene associato alla parola miele. Senz’altro questa teoria è
meno banale della semplice spiegazione “Rachele fa rima con miele”, e per dare
forza a questo pensiero pascoliano abbiamo realizzato una connessione fra i
concetti e collegato Rachele con miele senza dover usare la motivazione della
rima dei versi.
© ALR 2012 Melissa. Uscio di Casa Pascoli, Castelvecchio di Barga.
Nella prosa Il tesoro Pascoli si basa nell’idea preconcetta di Orazio, cioè,
paragona il miele alla poesia. Nel 1894 Pascoli manda una lettera a un suo
allievo, Ernesto Mandes, nella quale, facendo uso dell’imitatio dell’Ode II del
libro IV del Carmina di Orazio, crea uno pseudonimo per se stesso (Giano
Nemorino) e per i suoi due alunni, come fece anche Orazio nell’ode, che
paragonava Pindaro a un cigno e se stesso a un ape nata a capo Matino (oggi
Matinata di Lucania). Aveva scelto per sé questo piccolo insetto perché vicino a
Pindaro, il più grande poeta lirico-corale della Grecia, lui si vedeva come un
piccolo poeta che come un’ape coglie il polline con fatica e compone i carmi con
una lunga pazienza laboriosa. Pascoli nella prosa Il tesoro ci rimanda a questo
carmine di Orazio quando lo stesso poeta greco dà l’appellativo Ape Matina al
proprio Pascoli, nell’intenzione dell’autore di dare importanza ai due grandi poeti
che sono venuti a visitarlo a Castelvecchio diminuendo così la propria
importanza come aveva già fatto Orazio con Pindaro.
La vita del poeta dopo la propria morte
Come ha fatto Agamben47 nel suo saggio filosofico su Giovanni Pascoli, vorrei
continuare a parlare delle affermazioni di Contini48 che indicava che Pascoli
utilizza le lingue morte nella sua poesia, e non sono nell’opera latina, e che
impregna praticamente tutta la sua produzione letteraria di questi «oggetti
poetici che furono vivi e a cui si restituisce la vita». Su questo pensiero
Agamben aggiunge: «Inseguendo l’ambizione, comune a tutti i grandi decadenti
europei […] di lavorare in una lingua inedita». È senz’altro così ma io vorrei
allargare questa frase andando indietro nel passato e ampliando frontiere con
Edgar A. Poe, che era uno scrittore nordamericano, anche esse decadente, che
ha usato la simbologia di un uccello – nel suo caso il corvo – per rendere l’idea
di notturnità intesa come il momento in cui si pensa alla morte, alle tenebre, il
momento nel quale ci sentiamo più soli e più vicini alla morte.
I pensieri di Contini e di Agamben li ho conosciuti solo dopo aver letto Il
fanciullino, quindi avevo un’idea personale previa sull’argomento. Intendo
questa identificazione poetica come la tradizione non solo latina, ma anche
greca, come l’ambizione di restituire alla vita quegli autori che, grazie alla loro
poesia, ancora oggi vengono nominati e non lasciati nell’oblio dentro l’urne non
confortate di pianto, usando le parole di un altro poeta decadente, Ugo Foscolo.
Abbiamo visto nel capitolo Il pianto degli eroi che Pascoli, come tutti gli altri
decadenti, diventa l’eroe di altri tempi, non quello che usciva di casa in cerca di
avventure con la spada appesa alla cinghia, ma a quell’altro gruppo, quello degli
eroi stanchi di esserlo, gli eroi epici che, disperati, piangevano alla morte d’un
compagno (come fece Achille con Patroclo); gli eroi del ciclo carolingio che
morivano per salvare il re e la patria (come l’eroe della Chanson de Roland),
che poi nel poema burlesco Il Morgante di Pulci diventerà un eroe quasi irrisorio
che insegue o scappa dalla donna amata, anche se alla fine muore eroicamente
47
Giorgio Agamben, “Pascoli e il pensiero della voce”, in Il fanciullino, Nottetempo, Roma 2012.
Gianfranco Contini, “Il linguaggio di Pascoli”, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino
1970
48
a mani dei saraceni nel suo intento di aiutare Carlo Magno. Sono poi gli altri
personaggi importanti del romanzo – gli pseudo-eroi Morgante e Margutte –
quelli
che
muoiono
di
forma
tremendamente
banale
e
praticamente
inverosimile; poi troviamo negli eroi cavallereschi – che erano vicini al periodo
del Romanticismo – quelli che morivano per amore; qui compare il tema del
suicidio che sarà poi frequente negli eroi romantici. Il più grande esempio nella
letteratura italiana lo troviamo in Jacopo Ortis, il suo suicidio lo possiamo
interpretare per amore della donna amata ma anche della patria, poiché in tutto
il romanzo c’è un parallelismo fra le due componenti. Con Ugo Foscolo ho
voluto preparare il passaggio dell’eroe personaggio dei romanzi a quello
dell’eroe scrittore. Lo stesso Foscolo, nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, crea
un’atmosfera di mistero intorno al personaggio e a se stesso. La biografia di
Ortis è simile a quella di Foscolo, sono entrambi esuli, una delle caratteristiche
che più li accomuna è la scrittura: quello che sappiamo di Jacopo Ortis lo
dobbiamo al suo rapporto epistolare con Lorenzo, Teresa e sua madre; e non
c’è bisogno di ricordare che l’autore del romanzo è famoso per il fatto di essere
uno scrittore. Foscolo aveva previsto il successo della sua opera, e
comprendendo di aver fatto uso di una moderna imitatio con il romanzo I dolori
del giovane Werther, inviò a Goethe una lettera insieme a una copia del suo
romanzo epistolare.
A quei tempi, quando ancora non esistevano i diritti di autore, era comune fare
uso d’idee o addirittura di storie per crearne altre nuove. Foscolo, con la lettera
del 16 gennaio del 1802, fa capire a Goethe che è stato lui a ispirare il proprio
libro, il quale chiama volumetto quasi come per toglierle importanza davanti al
capolavoro di Goethe. La parte più importante della lettera a Goethe che
m’interessa per la tesi è la frase nella quale dice «ho dipinto me stesso, le mie
passioni, i miei tempi, sotto il nome di un amico ammazzatosi a Padova».
Queste parole diventano la chiave di volta: è l’affermazione dell’autore che ci
dice che lui e Jacopo coincidono, sono la stessa entità, e da questa
affermazione in poi l’eroe personaggio diventerà l’eroe scrittore, in un percorso
che chiuderà il cerchio cominciando con gli eroi mitologici, quelli che vincevano
e avevano gloria (e non gloriola come dice il fanciullino), passando per gli eroi
carolingi e romantici e finendo con gli scrittori decadenti nelle vesti di eroi
stanchi. In questo modo la gloria dell’eroe epico, del personaggio dei romanzi,
si trasmette allo scrittore permettendogli di essere ricordato dopo la morte:
l’aspirazione in assoluto di Giovanni Pascoli.
Gli eroi romantici nascono alla fine del ‘700 in Germania e Inghilterra e poi
prenderanno vita nella prima metà dell’Ottocento nel resto. Giovanni Pascoli si
trova all’interno di quest’ultimo periodo nel quale gli eroi romantici si
chiedevano il motivo delle cose, erano eroi tristi, stanchi. Sono le piccole cose
che caratterizzano le poesie della raccolta Myricae che, anche se piccole,
rendono grande il poeta che le canta.
Ritornando alle piccole cose, vorrei riprendere il concetto del miele della poesia
che, a mio avviso, è nucleo fondamentale della poesia di tutti i tempi e diventa
la base dell’opera e pensiero pascoliano.
Tanti sono gli scrittori, i poeti, gli studiosi, i letterati e gli uomini di cultura che
hanno cercato di spiegare che cosa sia la poesia. Alcuni sono arrivati a un
consenso e hanno scritto dei trattati e dei regolamenti, altri hanno ideato delle
rime speciali per diffondere un messaggio che perdurasse nel tempo nel modo
più fedele possibile, come fece Dante Alighieri con la sua terzina di endecasillabi
incatenati. Altri, nello stesso impegno di rendere la poesia leggibile e più vicina
agli uomini, hanno creato degli schemi o composizioni metriche, come ad
esempio Giacomo da Lentini e i suoi sonetti. La parola sonetto deriva dal
termine provenzale sonet, che vuol dire ‘suono’. Il poeta e linguista Gian Giorgio
Trissino – per nominare solo uno fra i tanti – riteneva nel suo trattato sulla
poetica che: «Il sonetto, il cui nome non vuol dir altro, che canto picciolo,
perciò che gli antiqui dicevano suono a quello che oggidì chiamiamo canto…».49
Il poeta rende la poesia, il nettare degli dei, più vicina ai semplici mortali
cantando. Nel capitolo dedicato agli eroi, abbiamo visto come Giovanni Pascoli
scrive il Fanciullino come se avesse voluto creare un saggio sull’essenza della
poesia in un intento riuscito di regalarci una sorta di poetica. Ci parla del
49
Gian Giorgio Trissino, Poetica, 1529
sentimento poetico, di quel fanciullino che è dentro a ogni uomo e che canta
spensieratamente.
Per Giovanni Pascoli, riprendendo l’idea di Platone, è in noi un fanciullino che
piange e sorride per le cose più piccole, quelle alle quali gli adulti non badano
più ma che in realtà sono l’essenza del vero sentimento poetico. Nel testo
Pascoli intraprende un dialogo con il fanciullino, che interviene soltanto due
volte, un dialogo che a un certo punto diventa un discorso, e anche una
parabola. Il poeta parla al fanciullino, lo loda e talvolta lo biasima pur
comprendendo che è quest’ultimo ad avere ragione. Pascoli chiede al suo
fanciullino quale sia il suo fine, alla domanda questi risponde con sei gruppi di
sei versi, novenari i cinque primi e un senario finale con rima ABABCC nei
gruppi 1,2,4,5 mentre nei gruppi 3 e 6 la rima è ABCABC e la metrica non è
perfetta. Nella stanza terza questa imperfezione è dovuta alla mancanza di una
sillaba nel verso terzo – che diventa un ottonario – e alla presenza di una
splendida divisione, nel quinto verso, che lo fa diventare novenario, tagliando la
parola passero in passe/ro facciamo coincidere passe- con la rima del secondo
verso grasse; l’ultima sillaba -ro contribuisce al quinario del verso successivo.
Nella stanza sesta il terzo verso è un ottonario come succede anche nella stanza
terza; e anche qui l’ultimo verso è un quinario.
Dopo questa breve analisi, possiamo confermare che il fanciullino fa poesia in
modo tutt’altro che spensierato ma facendo uso di figure retoriche e tecniche
poetiche molto elaborate e strutturate. Conoscendo Pascoli sappiamo che dava
molta importanza ai grandi poeti antichi: Virgilio, Omero, Orazio, e che era
studioso ed esegeta di Dante Alighieri; perciò mi azzardo a postulare che la
prima volta che il fanciullino parla in tutto il componimento, Pascoli voglia
omaggiare uno dei più grandi poeti di tutti i tempi con la ricorrenza di numeri di
reminiscenza dantesca, vale a dire scegliendo sei stanze, composte da sei versi,
di nove o sei sillabe (per la maggior parte dei versi), e che siano proprio le
stanze numero tre e sei ad essere modificate.
Quando il fanciullino rivela al poeta il suo fine, Pascoli ci dice che esso non
ragiona sulle parole, che dice soltanto quello che vede e sente, ma che così
facendo forse esprime il fine proprio della poesia, ed è solo dopo che tocca al
poeta «ragionarci sopra».50 Pascoli dice che il poeta canta, ma che canta per
cantare, come lo fanno gli uccellini, come lo fa l’usignolo, e se il poeta sente
che questo canto è più potente delle guerre, della politica, delle teorie sociali e
fa poesia senza pensare ad altro, allora l’effetto di questo canto perdurerà nel
tempo. Questo è il pensiero che persegue Pascoli nella sua poesia:
l’immortalità.
Dov’è il sentimento poetico? Per Pascoli non bisogna andare lontano per
trovare la poesia, anzi, il vero poeta è colui che guardandosi intorno la trova, è
quello che riesce a far poesia dal suono del ronzio delle api vicino all’alveare,
annusando il profumo inebriante del miele, osservando i colori dei fiori del
giardino. Il vero poeta deve emozionare con la sua parola, sincera, semplice e
pura.
Con questi ragionamenti Giovanni Pascoli spiega che la fantasia e le cose
lontane sono un’illusione effimera, rallegrano subito ma annoiano presto il
lettore. Invece il vero poeta, colui che ha trovato il sentimento poetico nelle
cose vicine, riesce a porre un leggero freno all’instancabile desiderio della
felicità, un desiderio perpetuo e infelice, come l’idea dell’Inferno dantesco, dove
il concetto di eternità è forse peggiore condanna che la condanna in se stessa,
ma è il Poeta e poi la poesia quelli che riescono a guidare Dante nel suo
viaggio; la poesia è il sorriso di Beatrice che riesce ad avvicinare Dante a Dio
«Così orai; e quella sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si
tornò a l’etterna fontana»51. Pascoli, come esegeta di Dante, e come lettore di
opere antiche, inserisce nell’anima del fanciullino caratteristiche della letteratura
epica ma anche dello stile medievale, e si basa sulla percezione visiva e
immediata delle cose. Il sorriso di Beatrice diventa poesia poiché, lontana
com’era lei, il sorriso nelle labbra dell’amata arriva a Dante e lo avvicina alla
bellezza divina, alla perfezione, alla luce eterna: riesce a vedere Dio soltanto
50
51
Il fanciullino, Giovanni Pascoli, Nottetempo, Roma 2012, p. 52.
Par. XXXI, 91-93
guidato dal sentimento poetico nato dal sorriso dell’amata. È un sorriso capace
di liberare il cuore del Poeta, il significato poetico di bellezza della donna amata
diventa il simbolo della libertà dell’uomo, della felicità eterna.
Anche Virgilio – principe dei poeti latini – è, allo stesso modo di Beatrice,
allegoria della poesia e diventa guida per Dante Alighieri.
Approfondiamo ancora il concetto “miele della poesia”. I greci consideravano il
miele come il cibo degli dei. Invece nella cultura norrena (scandinava)
precristiana, Kvasir (l’essere creato dalla saliva degli dei), possedeva immensa
sapienza e andava in giro per il mondo a elargirla. Due nani, per impossessarsi
della sua saggezza, lo uccisero e raccolsero il suo sangue che mescolato con il
miele produsse una bevanda preziosa, l’idromele, e chi la beveva diventava
poeta.52
Virgilio, nelle Georgiche, libro IV, parla dell’importanza della figura delle api.
Riprende la metafora sociale di Cicerone che afferma che le api hanno
un’organizzazione comunitaria, caratterizzata dalla fedeltà alla casa e alle leggi,
dalla condivisione delle risorse e dalla dedizione al lavoro (visione stoica della
società). Le api sono disposte al sacrificio personale per il bene comune, come
fa Pascoli, che dona del miele agli altri ricevendo in compenso soltanto del fiele.
Nella prosa Il tesoro il concetto ritorna sotto la forma dell’ambrosia e dello
sciame di api. Si tratta dell’idea che Pascoli aveva dell’immortalità, paragonando
le api ai singoli poeti e il miele alla poesia. In questo modo, anche se gli scrittori
muoiono, la poesia sempre rimarrà viva nel miele prodotto da essi.
52
Delia Guasco, Miti del Nord, in Atlanti di Mitologia, Giunti editore, Bussolengo 1996, p. 25
© ALR 2012 Il miele della poesia. Alveare di Casa Pascoli, Castelvecchio di Barga.
Vorrei riportare un commento di Matteo Palumbo a proposito dell’ambrosia che
contribuisce a chiarire il concetto pascoliano:
Ambrosia: per il valore del termine e per la connotazione divina che implica, cfr. Alla amica
risanata, v.45, e il sonetto E tu ne’ carmi avrai…, v.14. La spiegazione più analitica della
ricchezza semantica della parola è fornita nelle considerazioni che Foscolo stende, in rapporto
alla traduzione del primo canto dell’Iliade, a proposito del Cenno di Giove: «Voce piena di
fragranza, di mollezza, e di deità. Virgilio la derivò; ma né Servio, grammatico della lingua latina
vivente, sa darne idea precisa. Negli antichi l’ambrosia è cibo degli Dei; spesso nei greci
bevanda: talvolta unguento che fa incorruttibili i corpi. Gl’interpreti tutti a questo luogo si
ostinano a tradurre chiome divine, immortali, dall’alfa privativo e da Brotòs, mortale. Ma questo
significato primitivo e generale seconda gli accidenti delle cose alle quali si riferisce. Ambrosia
spesso si scambia con nettare, e nell’Iliade le vesti degli Eroi sono nettaree. La veste ambrosia
in che fu involto il cadavere di Achille pare che ardesse con la pira; e Silio attribuisce capelli
ambrosii a un fanciullo morente. L’olio ambrosio con che Giunone si fa bella per allettar Giove è
soave e odorifero. La fragranza era a’mortali indizio di un iddio presente, e Ippolito conosce
Diana all’odore celeste. Omero dunque mirava in questi versi a quell’idea religiosa quasi che
tutti gli elementi circostanti s’accorgessero della volontà di Giove. Il che sento nella voce
ambrosia, la quale non per tanto sarebbe indistinta nella lingua italiana e la perifrasi la
stemperebbe».53
Il tesoro, il miele, Rachele, sono tutte parole dell’universo pascoliano che,
insieme a tante altre, ci riconducono allo stesso concetto e possono essere
interpretate soltanto conoscendo il linguaggio della magia della poesia.
53
Ugo Foscolo, Poesie, a cura di Matteo Palumbo, Bur, Milano 2010, p. 114 (in nota 62).
Esconde las cosas lejanas…
CAPITOLO 3
La sfortuna spagnola di Giovanni Pascoli.
Questo capitolo rappresenta una nuova rivisitazione della poesia di Giovanni
Pascoli vista dall’ottica della fortuna spagnola utilizzando un’analisi e
l’interpretazione personale della poesia Nebbia per rendere nota la difficoltà che
presenta la traduzione in altre lingue.
Vorrei cominciare a parlare di questa poesia inserendo la sua traduzione in
spagnolo. Avrei voluto parlare delle diverse traduzioni e interpretazioni che si
sono fatte di questa e di altre poesie nella mia lingua materna, purtroppo la
fortuna del Nostro in lingua spagnola è praticamente assente, quello che c’è
non attende alla realtà pascoliana e non riconosco l’autore in quei testi. Per
questo motivo ho scelto di tradurla io stessa. Avendo impegnato tempo e lavoro
nel passaggio allo spagnolo mi rendo conto di quanto sia difficile l’impresa.
Giovanni Pascoli non è un poeta semplice, il suo linguaggio e la simbologia che
è dietro ad ogni singola parola si potrebbero tradurre soltanto in forma di prosa.
Tuttavia, le ore dedicate a questo lavoro mi hanno permesso di riprodurre il
pensiero dell’autore conservando nel modo più fedele possibile lo schema
metrico e il ritmo interno. Il risultato è il seguente:
Nebbia
Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l'alba,
da' lampi notturni e da' crolli
5
d'aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch'è morto!
Ch'io veda soltanto la siepe
dell'orto,
10
la mura ch'ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch'io veda i due peschi, i due meli,
15
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch'ami e che vada!
20
Ch'io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane...
Nascondi le cose lontane,
25
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch'io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest'orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.
30
Niebla
Esconde las cosas lejanas,
Tú, oh niebla impalpable y clara
tú humo que surges ahora,
al alba,
¡de rayos nocturnos la aurora
aérea manas!
Esconde las cosas lejanas,
¡escóndeme todo lo muerto!
Que vea solamente el seto
del huerto,
las grietas del muro completo
de valerianas.
Esconde las cosas lejanas:
¡las cosas son ebrias de llanto!
Que vea mis dos árboles, fieles
por tanto,
que dan muy suaves sus mieles;
pan negro y manzanas.
¡Esconde las cosas lejanas
que quieren que ame y que vaya!
Que vea yo solo la blanca
calzada,
que un día he de hacer en la caja:
don don de campanas…
Esconde las cosas lejanas,
escóndelas, ¡lejos del dolo
del alma! Que yo vea el ciprés
él, solo,
sí, solo mi huerto, donde aprés
oh perro descansas.
In genere, i commenti fatti su questa poesia raccontano un desiderio di
occultare le cose lontane viste, queste cose, come i lutti familiari. Secondo me,
invece, nella poesia il poeta parla di Ida Pascoli. Quando nei versi 19-20 dice
«Nascondi le cose lontane / che vogliono ch’ami e che vada!», il poeta fa
allusione a una frase che Ida, nel giorno del suo matrimonio, aveva riferito al
fratello in lacrime, cioè «Fa anche tu quello che ho fatto io».54
Quando si parla di Giovanni Pascoli irrimediabilmente viene alla luce l’idea del
nido. Il nido detiene un ruolo molto importante in tutta la poesia pascoliana, ma
questo nido dovrebbe essere visto anche da un’altra prospettiva. Il nostro poeta
perde il padre a undici anni di età, quando era in collegio, ancora piccolo. Dopo
la morte del padre continua i suoi studi, girando alcune città finché comincia a
frequentare l’Università. Dopo i nove anni trascorsi a Bologna per laurearsi, nei
quali scriveva racconti molto spensierati, che sfioravano l’erotismo e la burla,
finalmente riesce a laurearsi e, nel Luglio del 1882, fa la famosa visita alle
sorelline, a Sogliano. È rischioso formulare un’ipotesi o concretizzare la
situazione emozionale del poeta nei confronti delle sorelle, soprattutto di Ida.
Alcuni professionisti della medicina psichiatrica hanno esposto alcune ipotesi
che non possono essere accertate poiché proposte dopo la morte del poeta e,
anche se fossero giustificate, non potrebbero essere confermate da un’analisi
oggettiva sul poeta e apparterrebbero più al gossip che alla critica letteraria.
Non vorrei cadere anch’io nella trappola, ma è giusto far riferimento alla
situazione anomala e inquietante di quel nido creatosi dopo Sogliano.
Dopo aver visitato le sorelle Pascoli scrive Il pellegrino e comincia un incessante
rapporto epistolare con loro che finirà soltanto con la morte del poeta. Sono
lettere con una forte carica affettiva che a volte sfiora l’incestuoso, se si
pensano come parole attuali, ma il bisogno d’amore nella dimensione
pascoliana è molto profondo e la mancanza della madre (più marcata di quella
del padre) segna la psiche del nostro poeta. In quegli anni, amare era sinonimo
di voler bene e i rapporti familiari erano diversi da come li vediamo oggigiorno.
Inoltre non dobbiamo dimenticare che Giovanni Pascoli ha avvertito questo
sentimento di abbandono durante tutta la sua vita: era stato mandato in
54
Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, memorie curate e integrate da Augusto
Vicinelli, Mondadori, Milano 1961.
collegio, si trovava lontano da casa quando avvennero le morti dei genitori e dei
fratelli; a questi fatti seguono lo smarrimento politico negli anni universitari e
l’incarcerazione. Pascoli è una persona con una fortissima mancanza di affetto e
vuole rasserenare questa sensazione creando il famoso nido del quale tutti
quanti parlano.
Nel saggio di Giorgio Agamben che precede Il fanciullino ci sono dei riferimenti
ad alcune frasi di Giaime Pintor a proposito della figura di Giovanni Pascoli. Ce
n’è una che mi ha colpito particolarmente poiché Pintor afferma che il Nostro è
«il più europeo dei nostri poeti alla fine del secolo»55 anche se la sua fama non
si estende in maniera particolare oltre i confini dell’Italia.
In precedenza ho affermato che questa poesia tratta della lontananza di Ida.
Alcuni critici invece dicono si riferisca al padre, soprattutto dall’analisi dei versi
7-8, altri commenti parlano del passato luttuoso. Io condivido in parte queste
teorie, i suoi familiari sono sepolti lontano, in Romagna, ma non è vero che il
poeta vuole nasconderli o dimenticarli, anzi. Pascoli rammenta raramente i suoi
cari defunti (ricorda molto più spesso sua madre, anche se la critica si ostina a
parlare quasi esclusivamente del padre), non nomina mai (almeno per nome) i
suoi genitori tranne che nelle dediche alle raccolte Myricae e Canti di
Castelvecchio, dedicate rispettivamente «A Ruggero Pascoli mio padre» e «A
Caterina Allocatelli Vincenzi mia madre», ma non è vero che li voglia
dimenticare o nascondere perché sono morti. Ovviamente non lo fa in modo
esplicito poiché il Nostro è il padre del Simbolismo, ma parla con loro, tutti i
giorni, nelle sue poesie, li porta dentro, li tiene vivi nella mente, nei gesti
quotidiani, come descrive nella poesia La tovaglia (che dovrebbe essere letta
insieme a Nebbia), dove parla di una tovaglia “bianca”, il colore che identifica la
morte nei testi pascoliani.
La prima volta che ho letto la poesia mi sono chiesta per quale motivo Pascoli
specifichi il colore della stoffa. È risaputo che la sua opera è piena di dettagli e
di determinatezza, per quanto riguarda i colori non è un poeta che li usa molto,
55
Il fanciullino, a cura di Giorgio Agamben, Nottetempo, Roma 2012, p. 26.
tuttavia quando lo fa racchiude il simbolismo di quello che ci vuole dire senza
usare le parole. Le due poesie – La tovaglia e Nebbia – sono correlative, il
bianco intorno al quale siedono i morti non è quello delle briciole di pane, ma
proprio il bianco della tovaglia (lo usa anche nella poesia intitolata Poesia della
raccolta Canti di Castelvecchio), forse perché il pane non era bianco ma nero?
Nei versi 33-38 parla di «cose lontane» di «pane» e di «lagrime amare» (questa
ultima in contrapposizione ai «soavi lor mieli» della poesia Nebbia). Pascoli
porta la piantina di cedrina ovunque va, un po’ allo stile di Lisabetta da Messina
e il suo vaso di basilico del Decamerone, e quindi troviamo l’erba cedrina oltre
che a San Mauro anche a Castelvecchio. La colloca proprio davanti all’uscio di
casa, cioè all’interno delle mura, della siepe, non dalla parte dove ci sono la
nebbia e le spine, così riempie gli angoli della sua nuova dimora lontana da San
Mauro con oggetti che gli ricordino la madre.
La frase «nascondimi quello ch’è morto!» allude al desiderio di nascondere o
dimenticare Ida, che è lontana, è andata via, e per Pascoli è come se fosse
morta, non ce l’ha più, non è più a casa con lui.
Nella poesia All’Ida assente possiamo vedere come il poeta chiede a Ida dove
abbia murato il suo nidino, dandole della rondinella56, come si ripete d’altronde
nella poesia Per sempre! Quando dice «lontano portavano i piedi / un cuor che
pensava al ritorno. / E dunque tornai... tu non c’eri».
Arriviamo al verso 17, l’uso della parola miele è ripetuto nell’opera di Giovanni
Pascoli. Ho già accennato in questa tesi a un piccolo testo, tratto dal volume
Prose disperse, intitolato Pensiero non so se triste o lieto,57 il quale parla della
vita del poeta e afferma che comincia con la morte di esso. Abbiamo visto
precedentemente, nel paragrafo destinato al paragone fra Pascoli e Leopardi,
che questo pensiero è ricorrente nell’opera del Nostro. Alla fine del testo,
Pascoli scrive «Di qua non c’era che un pover uomo il quale soffriva e tribolava
e masticava tanto fiele in compenso del tanto miele che preparava per gli altri ».
56
57
Il tema del ritorno si ripete. Vorrei approfondire questo tema in future ricerche.
Prose disperse a cura di G. Capecchi, Carabba, Lanciano 2004, p. 528.
È chiaro che qui Pascoli, con la parola miele, voglia riferirsi alla poesia. Tuttavia
per Pascoli ha tanti altri significati; nell’alveare scoperto a Castelvecchio
troviamo la rappresentazione iconica del Tesoro (che non è altro che la
sostituzione del suo vero tesoro, cioè Ida), il poeta fugge ancora dalla realtà
aiutato dalla nebbia e, nel periodo che per lui significa l’ultimo della sua vita,
chiama «casa mia» quella che le «sia stata concessa così tardi», in una
confessione d’amore per la costante ricerca di quel nido familiare, e di odio per
saperla vuota dalla persona amata. La fusione amore-odio ritorna ancora a
essere cantata, dopo Catullo, da un Pascoli che soffre e odia perché ama. Dalla
poesia Casa mia ambientata a San Mauro, con la madre e le sorelle come
protagoniste, arriviamo a questi testi, Il tesoro e Nebbia, che confessano
l’impegno dell’autore nel voltare pagina, la rassegnazione nel sapere che la
realtà non cambierà, e allora cerca in quel «asilo […] d’un tacito eremita», nella
nebbia che nasconde le cose lontane e nella casa di Castelvecchio – che chiama
casa mia – un rifugio per la sua anima sconsolata.
Per Pascoli il miele è anche la sostituzione della sessualità, è rappresentato così
nella frase «è come un miele» della Digitale purpurea, oppure nel Gelsomino
notturno quando accenna al profumo della pianta e ci parla d’un ape tardiva
che trova già prese le celle. Quell’ape come il poeta è arrivata troppo tardi
nell’ora dell’amore, rimanendone fuori. Nella poesia del Nostro l’amore è
intimamente legato alla morte. Infatti, ogni volta che nei suoi testi Pascoli parla
di sessualità ricorre all’unione indissolubile Eros/Thanatos. Perciò morte,
sessualità e miele sono in stretto legame.
Il verso 18 fa così: «pel nero mio pane». Il pane nero si faceva con la farina più
economica e perciò era alla mensa dei meno abbienti. È un topos anche nella
poesia e letteratura spagnole, ma non dobbiamo dimenticare che il poeta delle
piccole cose è anche un poeta simbolista. In una prima lettura quella
spiegazione sarebbe la più probabile, tuttavia rileggendo più attentamente la
poesia, mi sono chiesta se quel nero non fosse usato perché viene dal di fuori
della siepe, dall’oblio buio e nascosto, e non perché era impastato con la farina
più economica. Potrebbe darsi che Mariù comprasse il pane al forno o, ed è la
spiegazione più probabile, che utilizzasse la farina che veniva da fuori per fare il
pane in casa. Sappiamo soltanto che il pane che mangia Pascoli è un pane
nero, ed è in opposizione alla strada bianca – carica d’una pessimistica speranza
– che lo porterà dai suoi cari. Immaginiamo un pane al quale viene aggiunto del
miele, il miele dei meli e dei peschi, cioè le marmellate che Mariù faceva a casa
con i frutti cresciuti dalla parte della siepe dove nascono i fiori. In realtà è il
miele dei poveri, come il pane nero fatto di crusca e altri cereali meno pregiati;
le mele e le pesche sono il miele per i meno abbienti, per quelli che mangiano il
pane nero. Arrivata a questo punto dell’analisi ero rimasta piuttosto d’accordo
con la spiegazione che dà la critica, cioè, il pane nero come rappresentazione
dell’umiltà. Più avanti nelle mie ricerche, quando sono stata nell’archivio di Casa
Pascoli, ho avuto la possibilità di vedere il manoscritto ed ecco che si è fatta
luce in mezzo a tanta nebbia. Nel documento originale la poesia è lontana da
come la vediamo oggi:
Io non voglio vedere le cose
lontane
hanno tutte un invito a
camminare o a ritornare
e io voglio posare
posare nella mia casa,
tra i miei due alberi etc.
......
Bisogna ritornare e ritorna
Ai margini, invece, ho trovato un paio di versi che fanno rima fra loro:
Sonnecchia il mio cane
Che mangio col pane
E ancora ai margini un elenco di parole che fanno rima con cane e con pane:
porcellane
campane
rimane
Queste parole mi hanno riportato con il pensiero a una cartolina scritta a
Bologna il 24-1-78, che Giovanni Pascoli indirizzò al suo buon amico Severino
Ferrari:
Al signor Severino Ferrari – Via Santa Apollonia N. 7 – Firenze.
Carissimo.
Sono un mendico: eppure a me favella
la pietra miliare e il monumento,
eppur fra siepi polverose io sento
i gai versetti di miglior novella;
sono un mendico errante; eppur la bella
dama bianca m’adora, eppure io tento
strane ebbrezze di mare e firmamento
con lei fra guizzi di tramonti nella
terrazza dedalèa d’un tempio ignoto;
se conto i mercenari oboli e il pane
buscato io ceno e il dolce fior del loto.
E si pensa e si sogna e si rivede
il passato dei morti... Intanto il cane
sembra una sfinge che ci vegli al piede.
È una lettera alquanto importante tenendo presente la continuità nell’uso delle
parole cane e pane. Pascoli confessa all’amico che vive nella povertà, anche se
cerca di trovare un compenso economico in quello che scrive, ma non è
sufficiente. Per questo motivo la bella dama bianca lo cerca, la morte è
presente sotto forma di carestia e di pensieri suicidi a causa dell’incertezza del
proprio futuro. I mercenari oboli, sono i soldi che gli servono per comprare il
pane per sopravvivere, ma anche i soldi che servono per morire come si può
pervenire dalla commedia Le Rane, nella quale Aristofane ci dice che Dioniso –
il dio del teatro – per poter scendere nell’Ade e riportare sulla terra Euripide si
portò con sé due oboli58. Nel penultimo verso appare la parola cane, che sarà
ripetuta dal poeta in poesie come Nebbia. Senz’altro rappresenta una figura
simbolica, che ben potrebbe essere la ragione, il cane che nei periodi di buio e
disperazione è una sfinge che veglia ai suoi piedi, mentre nella rassegnazione
58
Le Rane costituisce la prima attestazione letteraria del pagamento di un pedaggio a Caronte.
dell’età matura, quando le passioni e le illusioni si sono rasserenate, è un
tranquillo cagnolino che sonnecchia nella sicurezza dell’orto.
C’è un altro manoscritto, in bella copia, in cui Pascoli aggiunge una frase che
poi cancella: Sonnecchia il mio cane che è sostituito dal definitivo di valeriane
(che conferisce comunque l’idea della tranquillità) della poesia finale.
Dopo aver analizzato i manoscritti ho capito che l’idea di partenza di Pascoli era
parlare del ritorno (argomento che approfondirò in future ricerche), e già
dall’inizio il cane è presente nel testo. Si tratta di una figura simbolica, la quiete.
Iil cane è un animale che non abbandonerebbe il padrone, un caro membro
della famiglia che non andrebbe mai via di casa, la fedeltà per antonomasia; al
contrario di Ida, che è lontana. Anche in un quaderno di appunti ci sono delle
terminazioni di versi che fanno rima fra loro e anche qui appare più volte la
parola cane, che fa rima con campane. Cane e campane, vita e morte, sicurezza
e infinito, sono dicotomie pascoliane che si ripetono incessantemente. Le
campane per il Nostro hanno un simbolismo particolare. Una delle prime volte
che le nomina è quando rammenta il periodo passato in collegio, ricorda
campane che parlano una lingua diversa, non quella di casa. Sicuramente nella
psiche del piccolo Pascoli quel tinnio che dovrebbe rassicurare il popolo
donando suono al silenzio e buio della notte, diventa una costante e tenebrosa
voce che ricorda la morte. Le campane di nozze, dopo il matrimonio di Ida, si
convertono in un rumore insopportabile e il Nostro riempie la sua poesia di
questi suoni di morte. Nel poema La mia sera, ad esempio, il Don… Don… delle
campane porta il ricordo della madre al poeta; questa onomatopea viene
ripresa nella poesia Nebbia, con lo «stanco don don di campane» che evoca il
momento in cui dovrà percorrere la strada verso il cimitero. Nella poesia La
voce la madre di Pascoli persuade il poeta dai pensieri di morte ma la sua voce
è così lontana che quasi svanisce (da lì il gioco di parole Zvanî). In quella poesia
rimemora la situazione raccontata anni prima all’amico Severino Ferrari in quella
cartolina, e ci racconta che davanti agli argini innevati del Reno (ecco che
ritorna la bella dama bianca), il nostro poeta sente l’impulso di togliersi la vita,
ma è la madre con la sua voce che lo persuade dal farlo; è una voce come di
campane lontane che lo addormentano «col placido canto»; è un dondolio
come quello della poesia Alba festiva, delle Myricae:
Che hanno le campane,
che squillano vicine,
che ronzano lontane?
E' un inno senza fine,
or d'oro, ora d'argento,
nell'ombre mattutine.
Con un dondolio lento
implori, o voce d'oro,
nel cielo sonnolento.
Tra il cantico sonoro
il tuo tintinno squilla
voce argentina - Adoro,
adoro - Dilla, dilla,
la nota d'oro - L'onda
pende dal ciel, tranquilla.
Ma voce più profonda
sotto l'amor rimbomba,
par che al desìo risponda:
la voce della tomba.
Questa poesia sembra una ninna nanna, una cantilena che dona pace e serenità
al poeta perché per Giovanni Pascoli l’amore e la morte sono un tutt’uno. Le
campane di nozze diventano il funerale di Ida, è morta, se n’è andata, ma il
sentimento di amore-odio che prova il poeta lo porta ad avere bisogno del
suono di quelle campane, a cantarle, perché così le cose lontane e morte della
poesia Nebbia diventano più vicine. Per questo motivo, perché Giovanni Pascoli
aveva il bisogno di sentire vicini i genitori sepolti in Romagna, fece appendere
due campane, che possiamo ammirare ancora oggi, nel terrazzo della sua casa
a Castelvecchio e che battezzò con i nomi di Ruggero e Caterina, i genitori che,
con il loro suono potevano parlargli e dargli dei consigli, come vediamo che
succede con le campane della poesia Le rane:
© ALR 2012 Campane di Casa Pascoli. Castelvecchio di Barga.
[…]Per l’aria, mi giungono voci
con una sonorità stanca.
Da siepi, lunghe ombre di croci
si stendono su la via bianca.
Notando nel cielo di rosa
mi arriva un ronzìo di campane,
che dice: Ritorna! Rimane!
Riposa!
Come
abbiamo
visto
nel
capitolo
anteriore,
Giovanni
Pascoli
aspira
all’immortalità. Purtroppo la sua fortuna fuori dall’Italia è piuttosto scarsa e
quella in territorio italiano è limitata.
A continuazione farò un elenco dei volumi, raccolte e articoli che trattano in
qualche modo l’opera e biografia del nostro poeta in stretto rapporto con la sua
fortuna spagnola.
Lo scrittore Miguel D’Ors ha partecipato all’edizione di due volumi su tematiche
pascoliane. Il primo s’intitola 25 poemas de Giovanni Pascoli, selezione e
traduzione di Miguel D’Ors, Casa editrice Comares, Granada 1995. Si tratta di
un volumetto di 72 pagine nel quale il curatore ha fatto una scelta di solo
venticinque poesie ed è stato pubblicato in Spagna.
Invece il secondo volume ha avuto più successo, soprattutto per la natura del
progetto. Appartiene a una collana destinata alla diffusione dell’opera dei poeti
italiani in America Latina. La siembra secreta del alma: antología poética.
Dall’editore Arci solidarietà Cesenate, Cesena 2005. È un’antologia di Giovanni
Pascoli a cura di Gianpietro Schibotto presentata alla XII Fiera Internazionale
del Libro a Lima, in Perù, nel luglio del 2007. Questo volume è più esteso di
quello edito in Spagna, raccoglie in 145 pagine le principali opere di Giovanni
Pascoli, ma il fatto di avere i testi italiani a fronte dimezza il contenuto in lingua
spagnola, ricavando alla fine un numero di pagine simile al libro del quale
abbiamo parlato in precedenza. Questo volume appartiene a una collana diretta
dal prof. Danilo Manera dell’Università degli Studi di Milano. Le traduzioni in
spagnolo sono del prof. Miguel Ángel Cestao, dell’Università degli Studi di
Milano, e di Miguel D’Ors.
Nei due esempi anteriori la brevità è una caratteristica comune. Per rendere
comprensibile la difficoltà che implica la traduzione della poesia di Giovanni
Pascoli, propongo un esempio tratto dal volume di 94 pagine Cantos de
Castelvecchio y otros poemas, casa editrice Centro Editor de América Latina,
Buenos Aires 1979. Si tratta del lavoro di studio, traduzione e selezione di
Leopoldo di Leo. Ho scelto un poema intitolato Il prigioniero, della raccolta
Nuovi poemetti. L’originale in italiano presenta uno schema metrico abbastanza
fisso e conosciuto: la rima dantesca, perciò la sua traduzione in spagnolo
dovrebbe essere la più fedele possibile poiché l’opera dantesca influisce in
buona parte nella poesia di Giovanni Pascoli. Tuttavia nella traduzione spagnola
non si rispetta la rima né i versi, essi diventano endecasillabi e decenari, con
alcuni versi di dodici sillabe e qualche novenario a seconda dei casi:
Il prigioniero
Prendi, infelice, il tuo dolore in pace!
"Perché?" Tu, perché gridi, urti la porta?
"Perché dolore è più dolor, se tace".
Se lo nascondi, frutterà. Sopporta,
attendi, spera... "O vanità! Non spero.
Non credo". Eppure... "Dio non è!" Che importa?
C'è del mistero intorno a te... "Mistero?
Io non lo vedo". Ciò che tu non vedi,
o prigioniero, è un altro prigioniero;
e un altro e un altro. Hanno nei ceppi i piedi...
"Anch'io". Presto la morte, ora catene!
"Anch'io". Dunque tu sai, dunque tu credi.
Non li destare! "Io, dormo forse?" Ebbene?
Se vuoi parlare, parla sì, ma piano;
canta, se vuoi, ciò che dal cuor ti viene:
canta, ma un dolce canto, esile, vano,
che su la piuma delle sue parole
li porti in collo al loro amor lontano:
cantalo quello che nel cuor ti duole!
piangano anch'essi, ma dormendo ancora!
Chi piange in sogno, è giunto a ciò che vuole,
è giunto alfine a tutto ciò che implora
invano. Canta: e l'anima pugnace
tua placherai. Ritroverà l'aurora
anche te forse addormentato in pace.
La traduzione:
El prisionero
¡Oh desdichado, acepta tu dolor!
"¿Por qué?" ¿Y tú por qué gritas tan fuerte?
"Porque dolor que calla es más dolor".
Si tú lo escondes frutará. Soporta,
espera... "¡Oh vanidad! Yo nada espero,
no creo". Pero... "¡Dios no existe!" ¿Importa?
Te rodea el misterio... "¿Qué misterio?
Yo no lo veo". Lo que tú no ves,
oh prisionero, es otro prisionero,
y otro más. Con grillos en los pies:
¡pronto la muerte, ahora las cadenas!
"¡También yo!" Luego sabes, luego crees.
¡No los despiertes! "¿Duermo yo?" ¿Y bien?
Habla si quieres, habla sí, pero llano,
canta si quieres lo que en pecho tienes.
¡Cántalo aquello que en tu alma duele!
¡Y también ellos, pero durmiendo, lloren!
Quien llora en sueño alcanza lo que quiere,
llora por fin a todo lo que implora
en vano. Canta, tu alma que es guerrera
se aplacará y te hallará la aurora
durmiendo de paz en la ribera.
È una bellissima interpretazione, ma l’essenza pascoliana non la si trova;
l’ossessiva ricerca della rima perfetta, del ritmo interno e della metrica non
esistono in questa traduzione, come succede – del resto – in quasi tutta la
bibliografia tradotta in spagnolo.
In un articolo del 2005 intitolato I cent’anni dei Poemi Conviviali di Giovanni
Pascoli,59 il prof. Rinaldo Froldi dell’Università di Bologna fa un breve commento
sulla fortuna spagnola del poeta romagnolo. Nel riassunto del cosiddetto
articolo possiamo leggere le seguenti parole:
L’articolo si propone di presentare l’opera, analizzarla criticamente e, nel caso della Spagna ove
i poemi non sono mai stati tradotti e neppure specificamente esaminati, vuole anche essere uno
stimolo per gli italianisti di Spagna, a considerarli e criticamente affrontarli.
Più avanti nel testo leggiamo a proposito della critica sui Poemi Conviviali:
[…] i Conviviali costituiscono un testo indubbiamente difficile e che, in confronto ad altre più
note raccolte poetiche ed alla poetica del Pascoli espressa nel Fanciullino, ha goduto di una
minore attenzione da parte degli studiosi. In Spagna[6] poi i Conviviali non sono stati mai
tradotti e neppure specificamente studiati[7].
Rispetto alle note [6] e [7] Froldi scrive:
[6] Froldi, R. (1955): Di recenti pubblicazioni spagnole conosco solo: Pascoli, G., 25 poemas,
trad. di D’ors, M., Granada, Comares, 1995, e Pascoli, G., El chiquillo, trad. de Morillas, E.,
Valencia, Pre-textos, 2002.
[7] A differenza della Francia: Valentin, A. (1925): e, anche se in forma più limitata, della
Germania. Vedi: Mazzucchelli, L., 1955.
Froldi finisce l’articolo facendo un appello agli italianisti spagnoli, nel quale
chiede loro di lavorare ai Conviviali di Giovanni Pascoli malgrado le difficoltà
poetiche e filosofiche che presentano:
M’auguro che questo mio contributo nel centenario della pubblicazione dei Conviviali possa
invogliare qualche italianista di Spagna a studiare questa raccolta poetica del Pascoli, da molti
ritenuta la maggiore delle sue opere di poesia, anche se forse la meno conosciuta e popolare
probabilmente per la sua difficoltà, dovuta alla ricchezza di cultura, di pensiero e di lirismo: una
creazione profondamente umana.
Nei Quaderns d’Italià60 la prof.ssa Gabriella Gavagnin, dell’Universitat de
Barcelona, ha scritto un articolo intitolato Le versioni pascoliane di Maria
Antònia Salvà: Un approccio storico e un’indagine formale. La poetessa
maiorchina Maria Antònia Salvà, nei primi trenta anni del 1900, si è dedicata
59
60
Revista de Filología Románica, 2005, numero 22, pp. 7-20
Quaderns d’Italià 4/5, 1999/2000, pp. 145-161
alla traduzione in catalano e alla diffusione di numerose poesie dell’opera di
Giovanni Pascoli. Tuttavia una gran parte del suo lavoro non è stata pubblicata
o è inedita. Le versioni poetiche di Salvà sono di grande importanza:
costituiscono le prime e uniche traduzioni dei poemi del Nostro in una delle
lingue della penisola Iberica prima dello scatenarsi della Guerra Civile spagnola,
dopo la quale esprimersi in una lingua diversa dal castigliano era perseguito e
punito. L’articolo della prof.ssa Gavagnin raccoglie le informazioni storiche e
spiega la storia della composizione e pubblicazione di queste poesie in catalano.
Infine analizza alcune traduzioni dal punto di vista linguistico e stilistico, e rende
nota la particolare cura – nelle traduzioni di Salvà – dei valori fonosimbolici e lo
straordinario lavoro di adattazione alla lingua catalana e la fedeltà semantica e
ritmico-fonica rispetto all’originale, non presenti in nessun altro lavoro di
traduzione.
Nella rivista Faventia61 la prof.ssa Silvia Acerbi, dell’Universidad de Cantabria,
ha scritto su uno dei carmini di Giovanni Pascoli. L’articolo s’intitola Flet Thallusa
canens, aeque memor, immemor aeque. Un carmen latino de Giovanni Pascoli.
L’articolo tratta l’argomento del profilo letterario e biografico del poeta
romagnolo e offre una breve presentazione della sua vasta produzione in lingua
latina, in particolare del carme Thallusa, il quale viene tradotto per la prima
volta in lingua spagnola. L’obiettivo finale dell’articolo è di mettere in mostra
l’opera latina di questo autore che, fino a quel momento e secondo la prof.ssa
Acerbi, è scarsamente conosciuto in Spagna.
In Cuadernos de Filología Italiana62 la prof.ssa Aurora Conde Muñoz,
dell’Universidad Complutense di Madrid, nel suo articolo Ancora su Pascoli e
l’uso del novenario. Analisi de La Voce, ci parla dell’uso particolare che fa il
poeta del novenario e propone un’analisi sulla metrica e sulla tematica del
poema La voce, tratto da Canti di Castelvecchio, sottolineando la complessità
dell’opera pascoliana.
61
Faventia 28/1-2, 2006 pp. 175-195
Cuadernos de Filología Italiana 2004, vol. 11, pp. 113-142
62
Come si può percepire dal breve elenco, la fortuna in lingua spagnola del Nostro
è scarsa, perciò ho voluto intitolare questo capitolo La sfortuna spagnola di
Giovanni Pascoli. Nella volontà di proseguire le mie ricerche pascoliane vorrei
invitare tutti gli italianisti spagnoli ad aderire alla proposta fatta dal professor
Froldi, ma non fermandosi solamente sui Conviviali bensì ampliando il loro
studio a tutta la produzione pascoliana, mantenendo il profondo impegno della
poetessa maiorchina Maria Antònia Salvà nel conservare la fedeltà semantica e
ritmico-fonica, così come la vera essenza del poeta.
Indice
Dedicatoria e ringraziamenti
Premessa
Introduzione
CAPITOLO 1. Il pianto degli eroi
CAPITOLO 2. Il tesoro di Giovanni Pascoli
CAPITOLO 3. La sfortuna spagnola di Giovanni Pascoli
Indice
Bibliografia
Bibliografia
Giovanni Capecchi, Giovanni Pascoli, Le Monnier, Milano 2011
Il fanciullino, Giovanni Pascoli, a cura di G. Agamben, Nottetempo, Roma 2012
Giovanni Pascoli. Prose disperse, a cura di G. Capecchi, Carabba, Lanciano, 2004
Species Plantarum vol. II, Carl Von Linnaeus, Imprensis Laurentii Salvii, Holmiae, 1753
Platone, Fedro
Platone, Teeteto
M. Ciavolella, La tradizione dell’“aegritudo amoris” nel D., in “Giorn. Stor. Lett. It.”
LXXXVII, 1970; M. Ciavolella, “La malattia d’amore” dall’Antichità al Medioevo, Bulzoni,
Roma 1976
Sesto Empirico, Adversus mathematicos, VII
Vite dei filosofi, VIII, 2
Ravenna. Poeti per una città a cura di Tino Dalla Valle, Longo Editore, Ravenna, 1993,
edizione ampliata dalla prima e precedente del 1968
Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, memorie curate e integrate da Augusto
Vicinelli, Mondadori, Milano 1961
Omaggio a Giovanni Pascoli nel centenario della nascita, Mondadori, Milano 1955
Ugo Foscolo, Epistolario, vol. I a cura di P. Carli, Firenze, Le Monnier, 1970
Giovanni Pascoli, Primi Poemetti, Prefazione, in Tutte le opere di Giovanni Pascoli, vol.
I, Mondadori, Milano 1965
Iliade d’Omero tradotta dall’originale greco in versi sciolti, Anton Maria Salvini, Tomo
Primo, Stamperia del Seminario, Padova 1760 (3ª ed.).
Pensieri e discorsi di Giovanni Pascoli, 1895-1906 seconda edizione, Nicola Zanichelli
editore, Bologna 1914
Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, Gianfranco Contini, Sansoni, Firenze 1968
Voci e maniere di dire italiane additate a’ futuri vocabolaristi, Giovanni Gherardini, Vol.
II, G.B. Bianchi, Milano 1840
Giovanni Pascoli, Nuovi Poemetti
Angiosperm Phylogeny Group (2009). An update of the Angiosperm Phylogeny Group
classification for the orders and families of flowering plants: APG III, Botanical Journal
of the Linnean Society, volume 161, issue 2, articolo del 8 OCT 2009
Canti, Giacomo Leopardi, Felice Le Monnier, Firenze 1860
Gianfranco Contini, “Il linguaggio di Pascoli”, in Varianti e altra linguistica, Einaudi,
Torino 1970
Gian Giorgio Trissino, Poetica, 1529
Par. XXXI, 91-93
Delia Guasco, Miti del Nord, in Atlanti di Mitologia, Giunti editore, Bussolengo 1996
Ugo Foscolo, Poesie, a cura di Matteo Palumbo, Bur, Milano 2010
Le Rane, Aristofane
Virgilio, Georgiche, libro IV
25 poemas de Giovanni Pascoli, selezione e traduzione di Miguel D’Ors, Casa editrice
Comares, Granada 1995
La siembra secreta del alma: antología poética, a cura di Gianpietro Schibotto, Arci
solidarietà Cesenate, Cesena 2005.
Cantos de Castelvecchio y otros poemas, casa editrice Centro Editor de América Latina,
Buenos Aires 1979
Revista de Filología Románica, 2005, numero 22
Quaderns d’Italià 4/5, 1999/2000
Faventia 28/1-2, 2006
Cuadernos de Filología Italiana 2004, vol. 11