Benozzo G. e il cammino dei Magi (1°parte)

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Benozzo G. e il cammino dei Magi (1°parte)
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Benozzo Gozzoli e il cammino dei Magi
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(prima parte)
“Et é vvi una cappella/ tanto ornata/ che
nonn’a pari in tutto l’universo,/tanto al
chulto di Dio è preparata.”
La Cappella di cui si parla è quella di
Palazzo Medici Riccardi, una delle prime
cappelle ricavate all’interno delle mura dei
palazzi nobiliari: un piccolo gioiello che ha
saputo mantenere, nonostante le
manomissioni e gli inopportuni restauri, la
sua atmosfera originaria e la sua sacralità.
L’idea di una cappella all’interno del
Palazzo di Via Larga probabilmente nacque
quando papa Martino V concesse a Cosimo
il Vecchio il privilegio di poter disporre di un
altare portatile da collocare all’interno dei
propri ambienti familiari per l’ “officiatura
privata”.
Un simile dono doveva trovare un luogo degno ad accoglierlo e fu così che il
grande Mecenate Mediceo intorno al 1446 commissionò al Michelozzo, oltre
che l’intero palazzo, anche la cappella che avrebbe contenuto il prezioso
altare.
I versi sopracitati, di autore anonimo, si riferiscono al momento di stupore
che assalì Galeazzo Maria Sforza ed i suoi
uomini di corte, quando nell’aprile 1459
vennero introdotti in quel piccolo “tempio”
di arte rinascimentale.
Quell’ambiente intimo, senza finestre, ma
carico di simboliche geometrie, racchiudeva
il pensiero ermetico di Marsilio Ficino e
dell’Accademia Platonica.
“Il filosofo esperto delle cose naturali e degli
astri, che propriamente noi siamo soliti
chiamare Mago, opportunamente congiunge,
valendosi di convenienti lusinghe, le cose
celesti alle terrene”, scriveva il Ficino nel suo
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“De Vita”, introducendo l’idea del Mago-Sacerdote che sa attingere alle
forze che sono presenti nell’universo per uscire dal giro perpetuo di nascitavita-morte che affligge tutta l’umanità.
Intarsi preziosi di pietre e marmi si
combinarono in forme geometriche
suddividendo il pavimento in tre parti
precise: un tarsia marmorea di forma
rettangolare davanti all’altare, una larga
fascia che fungeva da “intermezzo” e un
grande quadrato (di 5 braccia per 5) che
incorniciava un cerchio di porfido rosso
contornato da quattordici tonde
formelle.
L’idea che se ne traeva, e che tutt’oggi
riappare, era di voler immortalare
l’antico assioma ermetico che vedeva il
Cielo riflettersi sulla Terra.
In quel periodo storico stavano già
nascendo i primi giardini alchemici e la
loro ripartizione in aiuole dai semplici o
a volta complessi disegni geometricosimbolici, doveva servire anche ad
attrarre benefici influssi dal cielo.
Concetto ben chiaro che seppe ribadire anche l’Alberti perché nel suo “De
Re Aedificatoria” scrisse che linee e figure geometriche “rendono inclini al
culto dello spirito”.
Per la Cappella di Palazzo Medici, come materiali lapidei vennero utilizzati il
verde marmo serpentino di Prato, il bianco marmo di Carrara e il rosso
porfido egiziano: pietre e colori
che ben si sposavano con il
percorso di conoscenza
sapienziale che la Dottrina
Ermetica proponeva.
Quel marmo verde serpentino,
che presenta sfumature tendenti
al grigio-nero, trova riferimento
con l’Opera al Nero degli
alchimisti, mentre il marmo
bianco, chiamato anche “pietra
splendente”, con l’Opera al
Bianco ed infine il rosso porfido,
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roccia ignea anticamente associata alla dignità regale, ben si adatta all’Opera
al Rosso.
L’Alchimia si basa sulla sperimentazione e così possiamo intuire che alle tre
“opere” proposte dagli Alchimisti, corrispondono altrettanti stati interiori da
realizzare: il colore “verde-nero” riporta alla lotta da sostenere contro i vizi
che albergano nella coscienza, il “bianco” alle prime luci dell’alba che
arrivano dopo avere vinto le prime
intime battaglie e il “rosso” a quello
stato di “sublimazione” di amore e
sacrificio che solo pochi riescono a
conquistare.
A queste “opere” si aggiunge infine
l’Opera all’Oro, ovvero il grado più
alto di perfezione dell’anima, e di
“oro” in questa piccola Cappella ve ne
è ancora oggi in profusione: il soffitto
dell’abside ha al centro un gigantesco
sole fiammeggiante, e dorato è anche il
soffitto a cassettoni e riquadri del resto della stanza.
Inoltre, il gioco ordinato di quei geometrici intarsi marmorei del pavimento,
riconduce alle raffinate tessiture dei tappeti islamici ed agli antichi mandala
del mondo induista, riproponendo il concetto, espresso da Platone, che “Dio
geometrizza”.
Questo riferimento lo possiamo soprattutto
cogliere nel cerchio di porfido rosso,
intorno al quale ruotano quattordici dischi
con temi decorativi diversi. L’astrologo
arabo Albumasar, già nel IX secolo, aveva
individuato la possibilità di rappresentare le
costellazioni celesti con simbolici “fiori” le
cui linee geometriche avrebbero attirato le
energie celesti.
Non dimentichiamo che il legame con il
mondo orientale era iniziato già nel 1439
quando Firenze ospitò quel Concilio che
vedeva l’unione della Chiesa d’Occidente
con quella d’Oriente.
I personaggi più in vista del mondo religioso orientale, come il Patriarca
Giuseppe, l’Imperatore di Costantinopoli Giovanni VIII il Paleologo, il
teologo Giorgio Gemisto Pletone, il metropolita Isidoro di Kiev e il cardinale
Bessarione, furono invitati da Cosimo il Vecchio a Firenze e l’aria che in quel
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fortunato periodo storico si cominciò a respirare, era di una conoscenza
tradizionale antica che vedeva riunite le due Chiese ad un unico Dio.
Questo “sposalizio” di culture,
all’inizio, lo si leg geva sul
pavimento e sul soffitto della
piccola Cappella, ma si sarebbe
poi letto con maggiore chiarezza
nell’allegorica decorazione
parietale che Benozzo Gozzoli
allestì nel luglio del 1459.
Cristina Acidini, storica dell’arte,
ricorda che quel ciclo di affreschi
“fu concepito e realizzato a lume
di candela” perché esprimesse una
sua migliore leggibilità nella
penombra.
La penombra e la semioscurità riconducono all’idea di un viaggio spirituale
intimo, personale, un viaggio dell’anima che prendeva inizio da un punto
preciso della parete Est per svilupparsi, in maniera ordinata, lungo la parete
Sud e la parete Ovest, per poi infine terminare a Nord in un tripudio di
Angeli davanti al quadro dell’ “Adorazione del Bambino” di Filippo Lippi.
Per realizzare tutto ciò fu utilizzata una
gamma straordinaria di colori: brillii
d’oro e di lapislazzuli si alternarono ai
verdi smeraldo, ai pastello, ai bianchi e
al verde sottobosco del paesaggio
circostante. Non meno cariche di
preziosità furono le lacche rosse e le
note color fiamma che regalò il colore
rubino utilizzato per i copricapi di
feltro, i velluti operati ed i finimenti
dei Re Magi e dei loro cavalli. Infine
l’azzurro oltremare dei cieli si fuse
con il rosa tenue ed oro delle soffici
nuvole che risaltavano su quello
sfondo.
Gentile Becchi, precettore di Lorenzo
il Magnifico, fornì nel suo “Titulus” i
tre punti focali da cogliere in quella
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raffigurazione pittorica: “Alla cappella di Cosimo nella cui prima parte sono i
Magi, nella seconda gli Angeli cantori, nella terza Maria che adora il suo
nato, affinché i visitatori sacrificasser col cuore, colla parola e coll’opera,
veniva dipinto”.
Il termine “Mago”, con le sue derivazioni etimologiche “Mag” “Megh” in
lingua zend e pelvi, era sinonimo di “sapiente assoluto”.
La tradizione parla di tre Re sapienti
perfettissimi, depositari di un’antica
dottrina solare, che vedendo
dall’Oriente sorgere una stella,
decidono di seguirla e da lei si fanno
condurre fino al luogo che vede la
nascita del Redentore dell’Umanità.
Il Figlio di Dio sceglie di nascere
nell’oscurità di una g rotta e
precisamente in una “mangiatoia”
situata in uno spazio circoscritto che
la tradizione popolare chiama
Presepe o Presepio.
Presepio deriva dal latino
“praesaepe” o “praes(a)epio” con il
significato di “chiudere davanti,
sbarrare”: un luogo segreto, che sa
ben proteggere Colui che diventerà l’“alimento” salvifico di tutta l’Umanità.
Guardando il quadro dell’ “Adorazione” posto sopra l’altare della piccola
Cappella, riusciamo a cogliere la sacralità di quella raffigurazione. La tela
originale fu dipinta da Filippo Lippi, mentre quella attuale è una copia
proveniente dalla sua scuola, ma si è riusciti lo stesso a mantenere l’intimo
significato che il Lippi seppe trasmettere.
Il Bambino Divino è adagiato su un prato
punteggiato di gigli bianchi e rose e accanto a
Lui vi è la Vergine Maria, simbolo della
“protezione materna” che delimita e difende
quello spazio sacro. Sul lato sinistro Giovanni
Battista e San Bernardo da Chiaravalle e
dall’alto il Padre Eterno, con la colomba dello
Spirito Santo, che soprassiede a quella
misteriosa nascita.
La presenza di San Bernardo da Chiaravalle
apre ad ulteriori comprensioni. San Bernardo è
strettamente legato al ciclo pittorico raffigurato
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dal Gozzoli, non solo perché nei suoi scritti si era a lungo prodigato affinché
avvenisse la riunione delle due Chiese, ma perché fu lui a dare la Regola ai
Cavalieri del Tempio e sarà sempre lui che, nell’ultimo canto del Paradiso
accompagnerà Dante Alighieri nell’Empireo e
alla visione della Rosa Mistica. Il Santo,
chiamato la “luce della cristianità”, si delinea
con nitida evidenza dall’oscurità di quel
fondale e, riscaldato dallo stesso magico
chiarore che abbraccia il Battista e tutta la
scena della natività, è ritratto in preghiera a
fianco del Bambino Divino.
I gigli bianchi, simbolo di purezza e castità,
evocano anche “maestà” e “grandezza”,
mentre la rosa per la sua struttura a spirale,
richiama all’idea della ruota, simbolo di
perennità, segretezza e di amore. La scena è
ambientata in un paesaggio impervio, nella
penombra di un fondale boschivo fitto, che
chiude il passaggio ad ogni intrusione
molesta e inopportuna.
L’angusto e impervio viottolo che conduce a
quel prato fiorito sul quale poggiano la
Vergine e il Bambino, sembra voler ricordare
la frase tratta dal Vangelo di Luca (13:23):
“Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno
di entrarvi, ma non ci riusciranno”. Un invito quindi a farsi le qualità giuste
per compiere un percorso conoscitivo dell’anima e entrare da quella “porta”
per trovare Gesù Cristo.
Nell’allegorico dipinto di
Benozzo Gozzoli, che si
snoda lungo tre pareti per
poi terminare lì davanti a
quel Bambino Divino, è
riassunto l’intimo cammino
che l’anima deve compiere.
Il viaggio prende inizio
dalla parete orientale e
precisamente dal Castello
turrito e ben fortificato
posto sulla sommità di una
collina verde, brulicante di
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fiori, sotto un cielo azzurro oltremare. Nel
guardare attentamente quella Fortezza ci
accorgiamo che davanti al suo portone
d’ingresso si staglia una figurina bianca,
appena abbozzata da qualche tocco di
pennello, nella quale possiamo riconoscere un
cavaliere con lancia in resta stanziato lì in atto
di difesa. La piccola immagine, la cui
presenza sfugge ad un occhio non troppo
indagatore, fa riflettere sull’importanza della
solida costruzione che vi è dietro.
Il Castello, situato su un’altura pressoché
inaccessibile, protetto da solide mura e dal
bianco cavaliere che ne segna il limite
invalicabile, ci riporta alla simbolica del
Castello del Graal, chiamato anche Eden, la
cui entrata è difesa dal
Cherubino.
Il cammino dei tre Re Magi
quindi parte da lì, da quel
“Castello di Luce”, la cui
altezza spirituale quasi si
confonde con il cielo, e da lì
prosegue per una via stretta
che dal verde si fa sempre
più arida e sassosa con
s p e ro n i ro c c i o s i d a l l e
geometrie astratte che
sembrano voler inghiottire
le ultime file di quel lento
corteo. Anche il cielo, nella discesa, perde la sua limpidezza per coprirsi di
pesanti nuvole che paiono incombere su quell’ultimo sparuto gruppo di
cavalieri che sorte dalla selva.
In alto, vicino al Castello, una bianca
colomba vola inseguita da un nero rapace,
mentre un uccello non ben identificabile, ma
sproporzionatamente grande, sembra
osservare lo scenario che gli si presenta.
Un fitto di personaggi è riuscito ad arrivare a
valle ed in quella “solenne” ma affollata
scena di massa, si possono riconoscere i volti
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degli illustri patriarchi del mondo orientale,
di Cosimo il Vecchio e del figlio Piero.
Davanti a quel nutrito gruppo vi è il Re
Mago Gasparre, identificato nel giovane
Lorenzo il Magnifico, che su cavallo bianco
fregiato di ricchi finimenti, procede con passo
vigoroso e deciso.
Sulla sua veste vi è una profusione di ori e di
gemme e sul suo capo una corona che va a
terminare con otto punte triangolari ornate
da rubini, perle e smeraldi.
Re Gasparre, nella tradizione solare zendica,
assume il nome di “Signore del Castello” e il
dono che porta è la “mirra”, l’Unguento
Sacro con il quale si consacravano i Re.
Dietro a lui si apre uno scenario di caccia: un
possente cervo di spropositate dimensioni,
inseguito da un cavaliere armato di lancia,
corre via su per un pietroso viottolo.
Il cervo per la sua caratteristica di perdere le
corna e di riacquistarle, viene messo in
relazione all’“eterna giovinezza” e quindi a
Gesù Cristo. Nel Cantico dei Cantici si parla
di un cervo che fugge e che si rifugia “sui
monti degli aromi”, per poi salire “ai monti
della casa di Dio” (Cant.2,9).
Benozzo Gozzoli doveva ben conoscere queste
tematiche perché il giovane cervo da lui
dipinto, ha delle piccole gibbosità al posto
delle corna e sta correndo su per un aspro
viottolo con il chiaro intento di risalire verso la
montagna.
Il Re Gasparre, da un
punto di vista simbolico, rappresenta la giovinezza e
l’ardimento necessario per dare inizio al suo viaggio
conoscitivo, ma anche il sacrificio (ben reso dalla
figura del cervo) a cui l’anima si dovrà costantemente
sottoporre per portare a compimento il suo cammino.
Il colore bianco, che lo contraddistingue, può trovare
relazione con la candida tunica che veniva fatta
indossare al neofita per prepararsi all’Iniziazione
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Cristiana, mentre l’eterea ragnatela d’oro che
arricchisce la sua veste, ricorda il Sole al
momento dell’alba, quando una sottile luce
azzurro-dorata pervade tutto l’orizzonte.
Il Sole nasce all’Alba, poi sale alto nel cielo a
Mezzogiorno e va a morire al Tramonto,
portando con sé l’immagine di gioventù,
maturità e vecchiezza, ma anche di “morte” e
“nuova vita”.
Questo tema ci riporta all’antica tradizione
egiziana e quindi alla cultura ermetica che il
Concilio di Firenze aveva traslato in Occidente.
In un inno dedicato al dio Atùm-Râ, rinvenuto
ad Eliopoli, leggiamo: “Io sono Colui che apre
gli occhi/ e fa splendere la luce,/ che chiude gli occhi/ e fa incombere
l’oscurità./Io sono Khepri al mattino, Râ a mezzogiorno, Atùm alla sera”.
Per gli egiziani Khepri identificava lo “scarabeo”, quel piccolo coleottero che
prima di arrivare alla sua forma alata finale, passa attraverso i tre stadi
fondamentali di uovo, larva e ninfa. Questa sua metamorfosi fu messa in
relazione alle fasi di sviluppo che il Sole deve attraversare per compiere il suo
percorso.
Quindi in Khepri, che deriva dalla radice “khr” con il significato di “sorgere,
divenire, trasformarsi”, venne ravvisato l’itinerario creativo-rivelativo del Sole
nel suo divenire cosmico.
Gli egiziani oltre a riconoscere nell’astro solare
questi tre aspetti diurni (alba, mattino e
tramonto) gli riconobbero un quarto aspetto nottur no - ammantato di mistero e
segretezza. Quest’aspetto, da loro identificato
nel “passaggio dalle porte di Aker”,
introduceva l’idea di un viaggio sotterraneo
che vedeva il Sole “morire” nel ventre oscuro
della dea madre Iside, per poi “rinascere”
all’alba come Khepri, lo Scarabeo Sacro,
ovvero il “figlio che nasce”.
Anche nel cammino dei tre Re Magi possiamo
ravvisare quelle medesime fasi solari che trovano una stretta analogia con
l’itinerario ascetico di trasmutazione interiore che l’uomo e la donna devono
realizzare.
La Tradizione ermetica ha un unico linguaggio che si avvale di miti, allegorie
e simboli che si ripetono con nomi diversi in ogni civiltà e religione.
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Ad esempio l’astronomo greco Antioco definì l’evento del sorgere del Sole
“Dies solemnis Solis crescit Lux”, chiaro riferimento ad un antico retaggio
misterico che vedeva l’Astro Solare come veicolo igneo della Divinità.
Con parole diverse, nelle Sacre Scritture, troviamo lo stesso concetto espresso
da Davide nel Salmo 110: “Tra santi splendori/ dal seno dell’aurora,/ come
rugiada,/io ti ho generato.”
Re Gasparre, Signore del Castello, dalla parete Est inizia il suo percorso, e
noi continueremo a seguire le fasi successive di quell’intimo viaggio.
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Il Re Mago Gasparre
Cappella dei Magi, Palazzo Medici Riccardi
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