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In "Umanesimo e rivolta in Blade Runner. Ridley Scott vs Philip K. Dick" a cura di L. Cimmino,
A. Clericuzio, G. Pangaro. Rubbettino Editore, 2015
L’insostenibile pesantezza dell’immagine: suono e musica in Blade Runner
“Si può condannare ciò che è effimero?”1
Fabio Cifariello Ciardi
Dai suoni per la visione alle immagini per l’ascolto
All’inizio del celebre romanzo di Milan Kundera L'insostenibile leggerezza dell'essere, uno dei
protagonisti, Tomáš, ripete fra sé il proverbio tedesco “Einmal ist Keinmal”: ciò che avviene
soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto. Eppure, nel gennaio del 1896, durante la
prima proiezione de L'Arrivée d'un train en gare de la Ciotat dei fratelli Auguste e Louis Lumière,
le brevi immagini in movimento di un treno che avanza inesorabile verso la piccola stazione
ferroviaria di Ciotat, lasciarono una traccia indelebile nella vita degli spettatori presenti. L’evento,
considerato l’icona fondante del mito del cinema, aveva una durata di poco più di una decina di
secondi ed era involontariamente accompagnato solo dal ritmico rumore dei rocchetti dentati, delle
cinghie e delle pulegge del proiettore, ma ciononostante si impose come un’esperienza che azzerò la
normale attività mentale degli spettatori per più di qualche momento.
In quell’occasione, poche tremolanti immagini in movimento prive del loro colore naturale, fuori
scala e senza suono, furono sufficienti ad attivare quello che oggi gli psicologi chiamerebbero un
fenomeno di attenzione selettiva: la novità dello stimolo visivo fu tale da bloccare altri indicatori
sensoriali che pure avrebbero potuto svelare la natura apparente dell’evento. La novità di ciò che
essi videro inibì la loro capacità di discernere la finzione dal ‘vero’, provocando un coinvolgimento
ben testimoniato dalle scene di panico che le cronache dell’epoca raccontano.
Una tale predominio esclusivo della visione sugli altri sensi non durò a lungo. Per continuare a
rapire il fruitore con l’offerta di emozioni credibili, il cinema aveva bisogno di ‘farsi sentire’.
L’introduzione di suoni coerenti con le immagini – dal vivo durante la proiezione, già dal 1895, e
dal 1927 direttamente nella pellicola cinematografica – resero il cinema la travolgente esperienza
che oggi conosciamo.
Durante la visione di un film il flusso dell’informazione visiva e uditiva induce emozioni
irrefrenabili che a volte ci lasciano attoniti, impotenti, più o meno consapevolmente manipolati e
consenzienti. Per dirla con Adorno, da questa prospettiva oggi per noi piacevolmente abituale,
l’audiovisivo non è solo totalizzante, ma per certi versi anche totalitario.
A ben vedere, tuttavia, se il mezzo cinematografico dopo l’avvento del sonoro “non lascia più, alla
fantasia e al pensiero degli spettatori, alcuna dimensione in cui essi possano […] spaziare e
muoversi a proprio talento senza perdere il filo della narrazione” portando “le vittime del suo
trattamento a identificarlo senz’altro e immediatamente con la realtà” (Adorno.& Horkheimer,1947,
p.132), ciò è possibile non a partire da quella che il filosofo interpretava come una paralisi della
libera immaginazione dello spettatore, ma proprio grazie a quella stessa immaginazione e, dunque, a
partire dalle esperienze dalle quali l’immaginazione trae origine.
Durante la proiezione di un film, così come nella vita reale, è anzitutto la nostra esperienza del
mondo che ci consente di mettere ordine e dare significato a ciò che vediamo e ascoltiamo.
Se consideriamo che nel fare esperienza del mondo per lo più siamo portati ad utilizzare
inevitabilmente tanto la vista quanto l’udito, appare plausibile attendersi che le componenti estratte
dallo spettatore – cercando, appunto, di mettere ordine e dare senso a ciò che il film gli propone –
possano diventare entità in grado di evocare emozioni proprio per il loro essere il risultato integrato
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MILAN KUNDERA (1984). L'insostenibile leggerezza dell'essere, trad. Antonio Barbato, Adelphi, 1985, p.1
di informazioni visive e uditive; una matassa cognitiva dinamica non facilmente dipanabile
affermando semplicemente la supremazia dell’immagine sul suono o del suono sull’immagine.
Eppure, fino a qualche decennio fa, a fronte di un intreccio tanto complesso fra il visto e il sentito,
sia le scienze cognitive, sia l’analisi dei prodotti audiovisivi e della musica si sono per lo più
concentrate sulla supremazia di un canale sensoriale sull’altro.
Le scienze cognitive hanno tradizionalmente privilegiato un’indagine sperimentale che rimandava
ad una concezione modulare delle nostre capacità percettive in cui differenti modalità sensoriali
operano in larga misura come moduli separati e indipendenti fra loro (Fodor, 1983). Da un punto di
vista ecologico, tuttavia, è stato ben presto chiaro che la nostra ricca e spesso unica percezione del
mondo che ci circonda non può che derivare da un’amalgama delle informazioni provenienti dai
diversi canali sensoriali (Burr, D., 1999). Il conseguente interesse verso l’integrazione
multisensoriale ha spinto i ricercatori ad approfondire anzitutto il modo in cui la visione altera altre
modalità percettive. I risultati ottenuti ci permettono oggi di capire alcuni fenomeni tipici della
comunicazione audiovisiva. La così detta “illusione del ventriloquo” (Howard & Templeton, 1966)
mostra, ad esempio, quanto la posizione spaziale percepita di un suono possa essere influenzata
dalla contemporanea visione della sorgente plausibilmente associata a quel suono; ecco perché –
soprattutto prima del graduale progresso dei sistemi di diffusione del suono multi-canale (Russo,
2005) – le voci di un film sembravano provenire dalle bocche degli attori nonostante l’effettiva
distanza fra i loro volti e gli altoparlanti. Anche una fase cruciale nella produzione audiovisiva
come il doppiaggio dipende dall’interazione di fenomeni percettivi oggi ampiamente indagati: da un
lato il “McGurk effect” (McGurk & MacDonald, 1976) che mostra come la visione possa alterare la
percezione del parlato (il suono del fonema ‘ba’ tende ad essere percepito come ‘da’ se accoppiato
alla visione di un movimento delle labbra associato al fonema ‘ga’); dall’altro,
la preferenza del nostro sistema percettivo per le integrazioni sensoriali semanticamente coerenti
(Marks, 2004), soprattutto in presenza di un sovraccarico di stimoli sensoriali, che può spiegare
perché nel seguire il rapido alternarsi di battute fra i diversi personaggi di un dialogo
cinematografico, siamo portati a considerare come irrilevanti le incoerenze fra il movimento labiale
della parola recitata da un attore in una lingua diversa dalla nostra e la parola pronunciata dal suo
doppiatore.
L’industria del cinema, dal canto suo, considerando la dimensione visiva come perno
dell’esperienza audiovisiva, si è concentrata inizialmente sull'influenza della musica sulle immagini
più che non sul potere delle immagini di influenzare l’ascolto. Il ruolo assegnato alla colonna
sonora è tradizionalmente centrale e al tempo stesso subalterno. La dimensione musicale e sonora è
centrale perché contribuisce in vario modo all’esperienza di un film: orienta l’attenzione dello
spettatore alterando l’interpretazione degli eventi messi maggiormente a fuoco (Cook, 1998),
mascherando informazioni visive rilevanti (Levin & Simons, 2000), ma anche rendendo visibili
dettagli altrimenti nascosti dalla complessità o dalla dinamica dell’immagine; qualifica particolari
eventi e personaggi per mezzo di convenzioni sonore e musicali codificate; dà continuità e coerenza
al movimento della macchina da presa; contribuisce ad evocare una polifonia di emozioni non
lontana dalle sovrapposizioni e rapide successioni che caratterizza la nostra vita emozionale di tutti i
giorni (Cohen & Juslin, 2001). “La musica è una piccola fiamma posta sotto lo schermo per
riscaldarlo” sintetizzava il celebre compositore americano Aaron Copland, che tuttavia aggiungeva
“tuttavia, è proprio questa funzione che così spesso assegna al compositore della colonna sonora un
ruolo secondario. Non ha senso negare tale ruolo subordinato. In definitive, la musica da film ha
senso solo se aiuta il film; non conta quanto sia buona, celebre o di successo, la musica deve avere
un’importanza secondaria rispetto alla storia raccontata sullo schermo” (Copland, 1940, p.111)2.
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Una parziale eccezione a questa consuetudine è rappresentata dal cinema d’animazione che non di rado ha costruito la
propria narrazione proprio a partire da celebri brani musicali, sia per mezzo di divertenti performance affidate ai propri
personaggi più noti, sia per mezzo di immagini e scenari nati con l’intento primario di interpretare strutture e peculiarità
di specifche pagine musicali. Un brano come la seconda Rapsodia Ungherese di Listz utilizzato dalla Disney nel 1929 e
quindi ampiamente ripreso da diversi celebri personaggi della Warner Brothers o l’intero film Fantasia prodotto da
Un più evidente interesse dei ricercatori per la natura squisitamente biunivoca del rapporto fra
suono e immagine si sviluppa a partire dagli anni ’80 quando la rivoluzione del mercato musicale
derivante dalla nascita di MTV imprime un’accelerazione esponenziale dell’interesse economico,
sociale e anche scientifico nei confronti delle immagini create appositamente per valorizzare un
prodotto musicale. Nei decenni immediatamente seguenti, estendendo quando già emerso nella
letteratura dedicata alla percezione inter-sensoriale (Shams e al., 2004), alcuni studiosi hanno
elaborato dei modelli utili a comprendere i diversi processi cognitivi che caratterizzano
specificatamente la fruizione di un prodotto audiovisivo superando la tradizionale centralità della
dimensione visiva. In particolare, secondo il “Congruence Associationist Model” (Cohen, 2001) le
tre principali fonti d’informazione utilizzate dal cinema – il parlato, il suono e le immagini – sono
elaborate separatamente solo durante i primissimi istanti, quando le diverse caratteristiche fisiche
dell’informazione audiovisuale vengono captate dai nostri sensi. Nelle fasi successive,
l’elaborazione dipende dagli esiti di correlazioni anche ‘trasversali’ tra le informazioni rilevate da
diversi canali sensoriali: più alta sarà la congruenza fra le informazioni visive e uditive, maggiore
sarà il numero di proprietà comuni, più efficiente sarà l’integrazione di tali informazioni con i
sistemi di memoria che lo spettatore utilizza per seguire e comprendere lo svolgimento del film.
La capacità del cinema di veicolare e creare significati ed emozioni derivanti dall’integrazione di
informazioni sonore e visive è legata al fatto che sia le immagini sia il suono sembrano essere in
grado di evocare una stessa atmosfera3.
Certamente, affinché queste ricerche siano utili anche al di fuori del ristretto ambito scientifico di
riferimento, i risultati ottenuti devono essere contestualizzati. L’esperienza audiovisiva reale poggia
su categorie più complesse rispetto a quelle che possono emergere nel contesto rigidamente
controllato di un esperimento di psicologia sperimentale. Nel nostro caso e fortunatamente per lo
spettatore, la colonna sonora articola il linguaggio audiovisivo attraverso categorie non certo
riducibili in termini di atmosfere semplicemente ‘tristi’ e ‘allegre’. Ciononostante il quadro
delineato dalle ricerche sulla percezione audiovisiva sembra farsi via via più chiaro. Non solo il
suono influenza e amplifica il potere evocativo delle immagini, ma anche le immagini influenzano
la fruizione dei suoni ad esse associate in modo complesso e inevitabile. Non è quindi solo il suono
che può contribuire al successo di un film, ma sono anche le immagini che possono far sentire il
proprio inevitabile ‘peso’ durante l’ascolto di una colonna sonora, durante e anche dopo la
proiezione del film.
Vangelis e la musica dalle immagini
Il mutuo rapporto di influenza fra il suono l'immagine ci sembra un punto di partenza necessario
all’analisi di una qualsiasi colonna sonora e anche nell’analisi di quel caratteristico prodotto
‘secondario’ dell'industria cinematografica che è la realizzazione discografica della colonna sonora.
La colonna sonora come musica indipendente dalle immagini può imporsi almeno per tre ragioni.
Se si è rimasti particolarmente colpiti da un film, l’ascolto dei suoni che, come dice Aron Copland,
avevano “riscaldato” le immagini ci consente di rievocare il ricordo della nostra esperienza davanti
Walt Disney nel 1940 sono solo due degli innumerevoli possibili esempi del ruolo, anche educativo, avuto dai cartoni
animati nell’avvicinare intere generazioni di ragazzi alla musica classica (Goldmar & Taylor, 2002). L’eccezione è
tuttavia solo parziale se si analizzano questi esempi da una prospettiva economica: le immagini sono chiarmente
subordinate alla musica, ma questa rimane funzionale alla componente visiva. E’ pur sempre il cartone animato il
prodotto di finale che genera profitto: la musica, anche se da protagonista, garantisce un ritorno ai produttori di cartoni
animati più che non ai produttori di dischi.
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Diversi studi hanno esaminato le risposte verbali e le espressioni non verbali attivate dall’ascolto della musica
trovando un tendenziale accordo sulla relazione fra una determinata atmosfera e le caratteristiche della musica in grado
di evocarla. Nella musica per le immagini sono stati trovati molti esempi di melodie utilizzate per evocare atmosfere
‘tristi’ costantemente caratterizzate da un tempo lento, una dinamica tenue, armonie di modi minori e ambito melodico
limitato. Viceversa, tempi rapidi, caratteristiche opposte sono state rilevate in musiche utilizzate per rimarcare
atmosfere ‘allegre’ (Boltz, 2009).