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Giorgio Fontana
Sette peccati capitali e una virtù
0. Questo pezzo è la sintesi di diverse idee che mi girano in testa da parecchio tempo, e che
forse meriterebbero uno sviluppo più ampio: ma per il momento va bene così. Nei primi
sette paragrafi parlo di quelli che a mio avviso sono i sette peccati capitali di Milano, i suoi
aspetti più negativi. Devo ammettere che uso la lama più della penna, ma non si è mai
abbastanza severi con questa città. Tale accanimento viene però smussato — e in qualche
modo risolto — nell'ultimo paragrafo, dedicato alla più grande virtù della città in cui vivo.
E nonostante la sproporzione, resto ancora convinto che questa virtù sia in grado di
riscattare i peccati precedenti.
Forse.
1. Anestesia. Milano è una città anestetica — nel senso che è contraria all'esperienza
sensoriale. Di cosa sa Milano? Mistero. Sappiamo di cosa sa Marsiglia, di cosa sa Roma, di
cosa sa Praga. Invece Milano non ha un odore identificante. Puzza quando lo smog supera
i livelli di guardia, ma puzza appunto di smog, come ogni altro smog: non ha una
fragranza, non un profumo, non una nota peculiare. Al primo accenno di una strada
odorosa — il quadrato di vie di fianco al parco ex Trotter, ad esempio — è come se tutta la
città intorno facesse scudo, tendesse a limitare la dissidenza.
E ancora, qual è il colore identificante di Milano? Si potrebbe dire una sorta di grigio
diffuso, ma non è esatto. Una sera di giugno — una bella sera luminosa e calda —
un'amica ha cercato di arrivarci. Ha cercato di isolare la sfumatura esatta di questa città:
ma non ce l'ha fatta. C'è qualcosa di eternamente indistinto nel modo in cui si fa
esperienza Milano, qualcosa che non confonde tanto i sensi quanto li inganna. Udito,
gusto, odorato, tatto... Di strato in strato, Milano sembra progressivamente perdere il suo
desiderio di farsi percepire. Di farsi mangiare e di farsi vedere. Mi domando cosa possa
rimanere in questo processo: se ci sia ancora, a conti fatti, qualcosa di pulsante da
afferrare.
2. Velocità. Il luogo comune del milanese che cammina al doppio della velocità è molto
più che realistico. Milano è una città veloce perché abituata a divorarsi — perché il fare è
costantemente più importante del fatto. A Milano, per metterla con un esempio banale, ci
sono pochissime panchine. La realtà non ha tempo di essere contemplata: deve
continuamente prodursi e riprodursi. (Questo dipende anche dall'avarizia e
dall'immaterialità: vedi punti 3 e 5).
La velocità di una metropoli tende a consumare inevitabilmente chi ci vive, e ho il sospetto
fondato che — a parte alcuni casi fortunati, e un buon numero di semplici arresi — Milano
sia una città purgatoriale. Insomma, mi ha sempre dato l'impressione di un luogo di
mezzo, di un porto dove difficilmente si ha voglia di mettere radici. Dove si sta per
necessità e abitudine, più che per vero amore: sospinti a un moto uniforme che non
differisce dalla stasi.
3. Avarizia. Lo splendore è una categoria urbana ben precisa. Le città splendide si offrono
attraverso verticalità e orizzontalità: in un certo senso, è come se fornissero continuamente
luoghi dove ci si sente al centro del cosmo. Una sensazione del genere a Milano è
impossibile. Milano riflette la sua avarizia nell'assenza di splendore, o meglio — nella sua
continua necessità di celare la bellezza. Le corti del centro storico sono quasi sempre
sbarrate da portoni di legno: non c'è equità nemmeno nel bello, a Milano: nemmeno nella
sua forma più immediata e popolare. L'occhio è costretto a mendicare per avere un
frammento di giardino, un vecchio pozzo, uno scorcio di ringhiera.
Anche per questo motivo, Milano è una delle città dove passeggiare è più fastidioso. Qui
non può esistere un flâneur naturale: perdersi e camminare necessitano di apparenza nel
senso più nobile del termine — necessitano di almeno un minimo di esteriorità. Ma, come
la mette Luca Doninelli, Milano “si nega qualunque esteriorità, qualunque bellezza nel
senso spaziale della parola”. Nel suo radicalismo, questa frase mi sembra assolutamente
vera.
A Milano, il flâneur può essere solo un perverso, o un individuo che cerca di andare
disperatamente sotto il velo delle cose. (Ecco perché, mi viene da aggiungere, ci sono stati
e ci sono attualmente così tanti scrittori a Milano).
4. Crudeltà. Una sera, nei dintorni di Lambrate, il mio amico Marco è esploso. Ha
cominciato ad agitare la testa e le mani come a voler fare a brandelli l'aria circostante, o
nuotare in un'acqua che lo stava soffocando. "Ma che vita è", diceva. E la sua vita era
questa: un lavoro più o meno odiato e più o meno precario, qualche amico visto di rado,
un'interminabile quantità di spazi vuoti. Niente di terrificante, eppure. "Mi sembra di
impazzire", diceva. "e non capisco. Mi sembra di essere dietro a un vetro e non riuscire a
cogliere niente. Questa città ti fa sopravvivere quanto le basta per averti, e niente di più."
Ecco il tipo di crudeltà esercitato da Milano: sottile, esteriormente invisibile, ma
interiormente devastante. Se non avete una rete sociale di un certo tipo, che proviene
generalmente dagli anni studenteschi, siete spacciati. Se non avete un amore straordinario
o un lavoro che vi gratifica, è la fine. Milano non vi concederà un solo angolo: non ha zone
dove ripararsi quando piove, e non ha spazi dove fermarsi a tirare il fiato. Vi costringe
continuamente a tenere i pugni alti, ben piazzati ad altezza del volto, e non esiterà a tirarvi
sul fondo se date cenno di affogare (vedi anche il punto 6).
A Milano si cammina sul filo e senza rete: ho conosciuto diverse persone che, una volta
smarrito ciò che le teneva a galla, sono finite nel mare anonimo di chi è lì, non si sa bene
per quale motivo, e non riesce ad avere una seconda chance. Perché a differenza di altre
città dove la possibilità regna sovrana (le città del Mediterraneo su tutte), a Milano domina
solo la realtà. Ogni gesto spinge irrimediabilmente al realismo, fino alla sua manifestazione
più bassa e sterile: la sopravvivenza fisica.
5. Immateralità. Le città contemporanee sembrano viaggiare sempre più verso una
dimensione immateriale: attività finanziaria, dati, internet, relazioni, non-luoghi ecc.
Milano, fra tutte le città e soprattutto fra le città italiane (così ricche di storia, che spesso
questa viene eretta a giustificazione per tutto), è la più immateriale. La più inconsistente.
Fondata com'è sull'attività e l'informazione, sulla rapidità di scambio e sul lavoro, deve
per forza trascurare l'aspetto materiale: deve trascurare se stessa in quanto la sua
materialità è un obbligo, ciarpame che va sbrigato il prima possibile — o utilizzato per fare
bella figura secondo i suoi canoni.
Forse anche per questo fotografare Milano è un'impresa strana e complicata. Fotografare
una città significa due cose: coglierne gli aspetti più eclatanti oppure gli aspetti più segreti.
Nel primo caso la foto ha una valenza quasi turistica, nel secondo sfiora quella
documentaria. Ora, Milano non ha possibilità di fotografie eclatanti. Mancando di
splendore (punto 3), non offre alcuna prospettiva da cui partire per un'immagine
memorabile. Il Duomo è talmente rinchiuso che alla peggio si può fotografarne la facciata
— e allora? Mancano spazi. Manca un fiume che tagli la città e ne offra un quadro classico
o anche solo retorico (Praga, Parigi...). Milano è priva degli spazi necessari per una
fotografia essenziale. Al contrario, l'immagine documentaria si trova perfettamente a suo
agio: fin troppo. (Ovunque si possono trovare spunti).
Da un estremo all'altro: e nel mezzo, rimane questa sorta di vacuo nulla, di biancore dove
si galleggia più che muoversi. Paradossalmente, pur essendo una città realista (vedi punto
5), Milano è anche una città immateriale e anestetica (vedi punto 1). Da brividi, vero?
6. Individualismo. Milano è un luogo individualista, rigorosamente fondato sull'interesse
personale o tutt'al più (ma sempre meno) famigliare. La conseguenza più diretta di questo
atomismo sociale è la sua incapacità di gioire. Milano non gioisce mai come città, non sa
trasmettere il suo senso globale, il suo battito e respiro. Non esiste alcun periodo di felicità
urbana a Milano: non una festa che faccia da livellatore sociale, non un posto dove ognuno
si possa riconoscere. L'offerta culturale è quasi sempre di buon livello, ma invita a una
fruizione individualistica o per gruppetti già formati.
Così l'individuo degrada come le cerchie della metropoli, in un purgatorio dove i peccati si
scontano con maggior forza a seconda del reddito e della situazione sociale. Ma, in ogni
caso, rimane solo — urbanamente solo, come se la stessa conformazione territoriale gli
togliesse delle chance.
Dopotutto, Milano non offre veri spazi di condivisione (come i Murazzi a Torino o certe
vie di Roma o Bologna). Basta pensare alle piazze, regolarmente semivuote o ridotte alla
mera funzione nominale. Piazzale Loreto è qualsiasi cosa tranne una piazza: uno svincolo,
una rotonda, un'aberrazione. E Piazza Duomo alle nove di sera è il simbolo concreto di
questa città: il suo cuore, vuoto.
7. Antifuturismo. Qui esplose, cento anni fa, il movimento futurista. Oggi Milano è la città
dove il futuro è diventato una variabile insignificante del presente, dove la tanto decantata
velocità (vedi punto 2) si rattrappisce su se stessa. Uscita mutilata dalla guerra, capitale
possibile del sud Europa durante la ricostruzione, Milano è stata stroncata dalla
metamorfosi edonista degli anni '80 — di cui tangentopoli è soltanto una sorta di culmine
immorale. Da allora il futuro è negato nel senso più reciso del termine: finché mi va bene
ora, tutto okay, altrimenti fottetevi. E proprio in quel periodo — accidenti a me — sono nato
io.
8. Il diavolo dormiente. Ma ecco finalmente la virtù. Nel suo libro Il crollo delle aspettative,
da cui ho già citato una frase in precedenza, Luca Doninelli scrive che nel petto di Milano
ancora dorme un diavolo. Perché Milano è anche il luogo delle Cinque Giornate: una città
irredenta, una città fondamentalmente restia a cedere del tutto. È paradossale che una
virtù sia impersonata da un demonio, ma da un luogo del genere non ci si può aspettare
nulla di meno.
Dove si sente allora l'artiglio del diavolo? Innanzitutto, io credo, nella complessità. Tempo
fa mi domandavo perché uscissero così tanti libri su Milano. E mi domando ora perché
anche a me sembri necessario scriverne. La risposta è una soltanto: al di là dei suoi peccati
Milano è una città estremamente complessa, e non può essere ridotta alla sua immagine di
"capitale della moda". Questo è il lato manifesto e sempre più presente. Ma c'è anche un
lato nascosto.
Ad esempio: Milano è probabilmente la città più multiculturale d'Italia. È la città che
probabilmente offre più lavoro. È la sola città che può mirare a essere davvero
internazionale. Per molti versi è una delle città più oneste: è crudele, sì, ma non mente
quasi mai: tutto il male che può fare lo si scopre nel giro di qualche giorno, e difficilmente
colpirà alle spalle. È un luogo dove ancora c'è la possibilità di fare, concretamente,
qualcosa. E ha una trama fittissima di sottoculture, che attendono solo di essere scoperte.
Ma l'artiglio del diavolo si sente anche in dettagli più semplici. Nel girare in bici una
domenica d'aprile lungo il naviglio della Martesana: nelle ultime trattorie a sud d'inverno,
a darci dentro con riso e vino: nell'ammirare la periferia dall'alto del Monte Stella, con un
paio di birre e le mani in tasca, d'estate.
Qui dorme il diavolo. La materialità di Milano, del tutto negata nel centro, esplode
violentemente ai margini — nei nuovi quartieri dove la vita si rintana e cerca di ripararsi,
di reinventarsi. Uscite da quella fottuta cerchia dei Navigli. Andate in Bovisa. Andate nei
dintorni di via Padova, andate a bervi una birra a due euro e cinquanta alla Bocciofila
Caccialanza. Andate al Giambellino. Andate ad ammirare la storta armonia dell'oltrecirconvallazione. Fate qualsiasi cosa, ma cercate: frugate: muovetevi. In questa città troppe
scelte storiche hanno condannato la bellezza a una condizione marginale dell'esperienza
urbana. Ma è ancora possibile dire di no, e rimettere la bellezza in circolo. Qualunque essa
sia.
Alla fine delle parole, mi accorgo che Milano è inchiodata proprio a tale contraddizione: al
suo lato manifesto e al suo volto nascosto che ci impedisce di abbandonarla, che ci invita a
provare ancora fiducia. Perché Milano è, dopotutto, anche questo. La città dove dorme un
diavolo.
E io aspetto con ansia il suo risveglio.
Giorgio Fontana
("Lo Straniero", 06/2009)