Il piacere
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Il piacere
Il piacere (Le plaisir) (Francia, 1952) bianco e nero, durata: 94’ regia: Max Ophüls soggetto: da tre racconti di Guy de Maupassant sceneggiatura: Max Ophüls, Jacques Natanson fotografia: Philippe Agostini, Christian Matras scenografia: Jean d’Eaubonne costumi: Georges Annenkov montaggio: Léonide Azar; musiche: Joe Hajos interpreti: La maschera - Claude Dauphin (il dottore), Janine Viénot (l’amica del dottore), Jean Galland (Ambroise, la maschera), Gaby Morlay (la moglie di Ambroise), Paul Azais (il direttore); La casa Tellier - Madeleine Renaud (Madame Tellier), Danielle Darrieux (Rose), Ginette Leclerc (Flora), Paulette Dubost (Fernande), Mila Parély (Raffaelle), Mathilde Casadeus (Luise), Pierre Brasseur (il commesso viaggoatpre), Jean Gabin (Joseph), Héléna Manson (Marie), Joelle Jany (Constance), Antoine Balpetré (il sindaco), Marcel Pérez (l’armatore), Louis Seiguer (il salatore di pesci), Robert Lombard (il figlio del banchiere), Henri Crémieux (l’esattore), Jean Meyer (l’assicuratore); La modella - Daniel Gélin (Jean), Simone Simon (Joséphine), Michel Vadet (il giornalista sulla spiaggia), Jean Servais (Maupassant). Il piacere è il più ophulsiano dei film di Ophüls: è il romanticismo tedesco in una porcellana di Limoges, ed è anche l’impressionismo francese in uno specchio di Vienna. (Jean-Luc Godard) Il cinema di Max Ophüls, nel corso del tempo, riesce ancora ad accendere i sensi con la stessa immutata efficacia. Sarà per i movimenti della macchina da presa che sembra danzare attorno ai corpi, sarà per quella sua costante frenesia che innalza progressivamente il livello di uno stato di ebbrezza che coinvolge uno sguardo consapevole degli inganni artificiali della finzione (che Ophüls si diverte a esibire sin dai décor) e accetta, intenzionalmente, di trovarsi amabilmente drogato. Tra tutti i film di Ophüls, Il piacere è forse quello che provoca un delirio sensoriale pressoché completo. L’olfatto e il gusto sembrano essere continuamente presenti; ne Il piacere sembrano incrociarsi infatti una moltitudine di odori, da quelli della campagna in cui si trovano le “dame di piacere” in La Maison Tellier a quello vago di morte in Le Masque. Il gusto invece si affaccia appena nella degustazione dei cibi, sia nella scena del banchetto di La Maison Tellier sia in Le Modèle dove i due protagonisti mangiano sardine sognando il salmone. (...) La vista viene immediatamente attivata sin dall’incipit, in cui le parole di Guy de Maupassant precedono l’entrata, in Le Masque, nel brulicante Palais de la Danse. Senso in tensione costante e sin da subito stimolato da Ophüls che procede quasi “vedendo al buio”, così come Maupassant (che nel film ha la voce di Jean Servais), come avverte egli stesso all’inizio, “parla al buio”. L’oscurità con cui si aprono i primi due episodi - con accesi contrasti chiaroscurali che si differenziano dai contorni sfumati e dalle tonalità meno accese e tendenti al grigio del terzo (non a caso il direttore della fotografia dei primi due episodi è Christian Matras e quello del terzo è Philippe Agostini) - e la velocità con cui si muove la cinepresa di Ophüls richiedono in chi guarda uno sforzo maggiore. Uno sguardo spesso costretto a riconoscere i propri personaggi (soprattutto nell’episodio La Maison Tellier in cui Ophüls apporta impercettibili varianti nella costruzione fisica delle dame di piacere rispetto alla meticolosa descrizione di Guy de Maupassant) e a separare questi da décor volutamente ingombranti e da una maniacale attenzione per i dettagli, che all’interno del quadro visivo pongono l’oggetto in posizione affatto subordinata rispetto ai protagonisti (come il reggicalze che le “signore” si provano durante il loro viaggio in treno in La Maison Tellier o la maschera di Ambroise in Le Masque). L’udito diviene senso che attiva il corpo (la frenetica musica che trascina Ambroise al centro della sala da ballo), oppure elemento in grado di risvegliare emozioni improvvise e vecchi ricordi (l’Ave Verum di Mozart che coinvolge prima Rose, poi le altre dame del gruppo, poi ancora, come una dionisiaca epidemia, tutti i partecipanti alla funzione religiosa in La Maison Tellier), o ancora fastidiosa e monocorde onomatopea che svela impietosamente il capolinea sentimentale tra Jean e Joséphine in Le Modèle in cui il disgusto subentra a una passione intensa ma anche rapida ad esaurirsi; è infatti il tono della voce (petulante quello di Joséphine, menefreghista quello di Jean) e non il contenuto dei loro discorsi il fattore irritante. Il piacere è anche esempio di “cinema tattile”, così fisicamente caldo nelle sue propagazioni affettive (Rose che abbraccia Constance nel letto la sera prima della cerimonia della comunione in La Maison Tellier), così estremo nell’evidenziare tracce di discreto ma evidente erotismo (Jean in Le Modèle che descrive la grazia dei movimenti di Joséphine) in cui, anche nel gesto più impercettibile si avverte un contatto, un tocco epidermico. Simone Emiliani, in Cineforum, ottobre 1998 Le plaisir fa parte della cosiddetta fase della maturità ophulsiana; quella che, insieme a La ronde o Lola Montès, è considerata rappresentare la perfezione definitiva del suo cinema. Sarebbe dunque facile enumerare i tratti distintivi che in questo film manifestano “l’essenziale” dell’universo di Ophüls: l’ossessione per il movimento di macchina a fare da calco mimetico di quello degli attori, gagliardo sussulto vitale che cerca di esorcizzare la morte ma se ne ritrova, letteralmente, accerchiata dal ricomporsi dell’onnipresente leitmotiv figurativo circolare; la sovrabbondanza di sfarzosi orpelli scenografici che spesso mascherano ciò che è dato a vedere nel quadro; le simmetrie che vanno sistematicamente a far combaciare passato e presente; la presenza abituale di un meneur de jeu con in mano le redini della narrazione. (...) Jean-Pierre Berthomé ha mostrato come Le plaisir sia, fondamentalmente, un trittico: due episodi “laterali” all’inizio e alla fine (Le masque e Le modèle) a incorniciare un più ampio segmento centrale (La maison Tellier), a propria volta suddiviso in sezioni via via simmetriche e concentriche. I “pannelli laterali” stessi rimandano l’uno all’altro attraverso un intricato gioco di simmetrie (le scale, in ambo le occasioni sia salite che scese), ma è in La maison Tellier che il gioco di anelli concentrici diventa vertiginoso. Si comincia con gli avventori di un bordello, si prosegue con una ricognizione sommaria dell’interno di esso (visto rigorosamente dall’esterno attraverso grate e finestre), poi ancora una parte all’esterno, dove si raccolgono mesti i clienti deprivati del loro plaisir da una serata di chiusura. Dopodiché, il viaggio nella campagna normanna per raggiungere il villaggio dove si terrà la prima comunione di una parente della maîtresse della casa chiusa. Poi la casa dove le ragazze vengono ospitate, la cerimonia in chiesa... e si torna a ritroso: la casa, il viaggio in treno, l’esterno con i clienti rassicurati dalla riapertura del locale, e così via, fino a chiudere per l’ennesima volta il cerchio. Marco Grosoli, lafuriaumana.it Il film è come tenuto insieme da un tema musicale, una canzone che si sente appena nel primo episodio, che viene cantata spesso da Danielle Darrieux nel secondo e che riprende la ragazza nel terzo e ultimo episodio. Il cinema di Ophüls è visivamente un cinema molto musicale. Anche se non ci fosse la musica, grazie ai movimenti di macchina e ai movimenti dei personaggi all’interno dell’inquadratura, i suoi film hanno ritmi, cadenze, vertigini musicali. Ciò che in particolare mi colpisce al cuore in Le plaisir è la capacità di Ophüls di raccontare e descrivere insieme. Lui descrivendo manda avanti il racconto e mandando avanti il racconto fa anche delle descrizioni. Questa è una capacità che si è persa quasi ovunque nel cinema contemporaneo. Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione, Garzanti, 2010, pag. 223-224 prossimo film: Iris – Un amore vero (Eyre, 2001) 18 novembre, ore 21 basato su Elegia per Iris di John Bayley