01 Fronimo 153 2 colonne

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01 Fronimo 153 2 colonne
il Fronimo
rivista di chitarra
fondata da Ruggero Chiesa
EDIZIONI
Il Dialogo - MILANO
n. 153 - anno trentanovesimo - gennaio/marzo 2011 - €. 12
DIRETTORE RESPONSABILE: LENA KOKKALIARI
COLLABORATORI:
MARCO RIBONI, FRANCESCO BIRAGHI
ANTONIO BORRELLI, ELENA CASOLI
GIORGIO FERRARIS, FRÉDÉRIC ZIGANTE
a questo numero:
ANDREA BISSOLI, MICHAEL EL KHOURI, DAVIDE FICCO
DANILO PREFUMO, ALDO VIANELLO
WEBMASTER:
CLAUDIO TUMEO
DIREZIONE, AMMINISTRAZIONE E PUBBLICITÀ:
EDIZIONI IL DIALOGO
Via Orti 14 - 20122 Milano
tel. 0254120818; fax 0254125182
E-mail: [email protected]
http://www.fronimo.it
AUTORIZZAZIONE: TRIBUNALE DI MILANO N. 741 DEL 26 NOVEMBRE 1999
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
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ALL RIGHTS RESERVED
UN NUMERO: ITALIA
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PRINTED IN ITALY
ESTERO EURO 12
ABBONAMENTO ANNUO: ITALIA EURO 40
ABBONAMENTO SOSTENITORE:
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ITALIA -
ESTERO EURO 60
ESTERO EURO 90
MEDIANTE VERSAMENTO IN CONTO CORRENTE POSTALE CCP 13711205
MEDIANTE CARTA DI CREDITO
NUMERI ARRETRATI DISPONIBILI: ITALIA
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ESTERO: EURO 12
MANOSCRITTI E FOTOGRAFIE ANCHE SE NON PUBBLICATI NON VERRANNO RESTITUITI
SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 45%
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MILANO
FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI GENNAIO 2011
CON I TIPI DELLA
INGRAF INDUSTRIA GRAFICA
SRL
-
MILANO
sommario
Editoriale.............................................................5
Editorial .............................................................5
Incontri
Intervista a Sigrun Richter e Nico van der
Waals
di Aldo Vianello .................................................7
Encounters
Interview with Sigrun Richter and Nico van
der Waals
by Aldo Vianello ................................................7
Ricerche e approfondimenti
Bruno Bettinelli: una modernità non dogmatica
di Davide Ficco (parte prima) .........................12
Studies and research
Bruno Bettinelli: a non-dogmatic modernism
by Davide Ficco (first part)..............................12
Heitor Villa-Lobos: le opere perdute.
Speculazioni e considerazioni
di Andrea Bissoli .............................................26
Heitor Villa-Lobos: the lost works.
Speculations and considerations
by Andrea Bissoli ...........................................26
Lo stile classico. La forma sonata e i
chitarristi dell’Ottocento
di Marco Riboni (parte prima) ........................34
The classical style. The sonata form and
19th century guitarists
by Marco Riboni (first part).............................34
Idee a confronto ...........................................51
Exchange of Ideas and Opinions ..............51
Recensioni
Dischi ................................................................53
Libri ...................................................................57
Musiche .............................................................59
Reviews
Recordings ........................................................53
Books ................................................................57
Music .................................................................59
Corsi e concorsi ............................................61
Master classes and competitions ..............61
La bottega della chitarra .............................64
Guitar Shop ....................................................64
editoriale
D
Dallapiccola e quella più giovane di Maderna,
Berio, Donatoni, Clementi, ecc.), sia analizzando approfonditamente le peculiarità stilistiche dei
vari brani, quasi una sorta di guida all’ascolto.
Segue il contributo di Andrea Bissoli che ci propone alcune ipotesi e riflessioni sulle opere giovanili di Villa-Lobos con un particolare riferimento
alla riscoperta di un breve frammento manoscritto,
una Valsa di poche righe per chitarra sola. Non
si tratta di un saggio che ha la pretesa di dare
risposte inoppugnabili o proporre verità scientificamente dimostrabili: il suo obiettivo è semplicemente quello di porci davanti ad alcuni interrogativi e, fantasticando sulle possibili risposte, farci conoscere alcuni aspetti meno noti del
compositore brasiliano. Confessiamo che, dopo
la pubblicazione nel numero scorso dell’articolo
di Alfredo Escande sulla vita di Segovia a
Montevideo, ci ha fatto ora sorridere l’aver scoperto che i due musicisti dalla personalità decisamente forte e ingombrante (e che, con ogni
probabilità, non si sopportavano proprio perché
per certi aspetti erano molto simili) avevano un
altro punto in comune: entrambi bistrattarono
due donne, eccellenti pianiste e musiciste – e
che, almeno in quei momenti, godevano di una
notorietà pari alla loro – che li avevano amati
e sostenuti nei momenti di difficoltà.
Il terzo articolo è di Marco Riboni, il quale
affronta le varie tematiche legate allo stile classico – ossia il linguaggio musicale dominante
dell’epoca compresa all’incirca fra il 1770 e il
1830, cioè dall’esperienza di Gluck e Mozart sino a Beethoven – rapportandole e confrontandole con le composizioni dei chitarristi dell’epoca. Il punto nodale di riferimento è la Sonata
opo un anno di intervallo, con il 2011 torniamo a fare l’omaggio di un CD ai nostri
abbonati. È vero che prima di inviarlo non abbiamo aspettato l’arrivo del rinnovo di tutti, ma
speriamo che la nostra fiducia sarà premiata e
che potremo contare ancora sul vostro sostegno.
Si tratta di un CD dedicato alle opere per chitarra sola di Bruno Bettinelli: un progetto discografico che siamo orgogliosi di aver aiutato a venire alla luce. Come abbiamo accennato nei numeri scorsi, diverse case discografiche stanno adottando la politica di distribuire i loro prodotti solo tramite il download da Internet, a meno che
non ne venga garantita la vendita (o l’acquisto,
dipende dai punti di vista) di una cospicua quantità. Noi questa garanzia ci siamo sentiti di darla, convinti del fatto che le opere per chitarra di
Bruno Bettinelli meritino di essere conosciute, divulgate ed eseguite. L’interpretazione di Davide
Ficco è convincente, rispettosa e coerente: speriamo che l’ascolto faccia apprezzare questa musica a chi non la conosce e che le permetta di
rientrare nel repertorio corrente.
E ora uno sguardo al contenuto della rivista.
L’intervista ci riporta nell’affascinante mondo
della musica antica grazie all’incontro con la liutista Sigrun Richter e con il liutaio Nico van der
Waals, pioniere nella costruzione di strumenti antichi con più di quarant’anni di esperienza alle
spalle.
Per quanto riguarda gli articoli, l’apertura è firmata da Davide Ficco che presenta le opere eseguite nel CD, sia delineando i tratti biografici e
artistici di Bruno Bettinelli (ricordiamolo: figura
di grande importanza della musica italiana del
‘900 a cavallo fra la generazione di Petrassi e
5
una minuscola terzina (copia) l’ultimo e posizione tradizionale. La terzina sembrava addirittura dotata di amplificazione incorporata: impressionante! Il concerto è stato interessante non
solo per il programma, ma anche per la possibilità di mettere a confronto due maniere diverse di affrontare la scena e il repertorio. Tre
personaggi disinvolti, spiritosi e perfettamente a
proprio agio hanno superato egregiamente la
prova. In fondo, strumento e posizione non contano, conta la musica. La vera sorpresa della nostra spedizione a Pordenone è stata, però, il
concerto finale dello stage “Musica insieme 2010”.
Più di cinquanta bambini provenienti da diverse scuole di musica del circondario (e qualcuna anche fuori confine) dopo aver studiato le
parti con i propri maestri hanno “montato” i
brani con l’orchestra durante i tre giorni precedenti il concerto sotto la guida di Angela Tagliariol.
Non siamo mai stati grandi fautori delle orchestre chitarristiche, ma questa volta abbiamo dovuto ricrederci. Il risultato è stato impeccabile,
il legato musicale non è mai venuto a mancare (cosa che spesso succede nelle orchestre di
chitarre) e i bambini hanno dimostrato professionalità e compostezza esemplari. Uno sforzo
organizzativo che ha dato ottimi frutti dal punto di vista musicale e sociale. Congratulazioni!
classica o, meglio, la forma-sonata impiegata nella scrittura del primo movimento della Sonata
stessa. Si inizia in questa puntata dalla tradizione chitarristica viennese (Molitor e Matiegka) per
poi proseguire nella prossima con l’altro viennese, Diabelli, e il contributo del chitarrismo
francese. Seguirà l’analisi delle sonate spagnole
(Sor) e infine verrà esaminato l’apporto dei chitarristi italiani. Insomma, una serie di articoli che
ci accompagnerà per tutto l’anno e ci darà l’occasione di continuare con l’iniziativa degli inserti
musicali che, come ci avete fatto sapere, è stata molto apprezzata.
Per quanto riguarda l’attualità, vorremmo potervi raccontare tante belle notizie, ma purtroppo non ci sono grandi novità. Essendo rimasti
digiuni da appuntamenti chitarristici a Milano,
ci siamo spinti fino a Pordenone dove, all’interno dell’annuale Festival Chitarristico del Friuli
Venezia Giulia – giunto ormai alla 15a edizione
– ci ha attirati la prospettiva di un appuntamento con tutti e tre i Concerti per chitarra e
orchestra di Giuliani. Protagonisti il duo Pugliese
-Maccari (che in questa occasione hanno dimostrato di esistere anche autonomamente), rispettivamente per i Concerti opp. 30 e 36, e
Pablo Márquez per l’op. 70. Chitarre Guadagnini
originali i primi e la scelta di suonare in piedi,
il Fronimo
Campagna abbonamenti
2011
I prezzi rimangono invariati
Abbonamento semplice € 40
Abbonamento estero € 60
Abbonamento sostenitore € 90
L’abbonamento quest’anno comprende il
CD:
Bruno Bettinelli: Complete works for guitar.
Chitarrista Davide Ficco
Inserti musicali con due dei prossimi numeri
6
incontri
SIGRUN
INTERVISTA
RICHTER E NICO
A
VAN DER
WAALS
di Aldo Vianello
I
no e la sua costruzione. In questo senso non
bisogna parlare di liuto o di chitarra ma di liuti e di chitarre. La parola liuto racchiude una serie di forme e possibilità di immaginazione di
suono molto diverse, così come la parola chitarra. Il plurale serve oggi a determinare l’esistenza di famiglie di strumenti che si sono evolute e trasformate nei secoli: le parole singole
chitarra e liuto rimangono ormai troppo povere.
Per me gli strumenti di Nico hanno un grande fascino perché lui mi mette a disposizione la
voce giusta per parlare la lingua musicale di quel
periodo o quello stile. Così io, potendo parlare
tramite la loro voce, mi sento in grado di esprimere tutto ciò che voglio. Per questo i diversi
strumenti sono e diventano un attrezzo ideale
per un musicista. Certo, ci vuole una tecnica sviluppata e meccaniche adeguate per far parlare
agli strumenti tante lingue differenti.
n occasione della master class “Prassi interpretativa della musica antica” tenuta dalla
liutista di Francoforte Sigrun Richter e dedicata
ai liutisti e ai chitarristi che hanno partecipato
alle “Vacanze Chitarristiche 2010” abbiamo incontrato ed intervistato Sigrun e suo marito, il
liutaio Nico van der Waals.
A. V.: Ciao Sigrun, ciao Nico, è molto bello intervistare una coppia come voi dove, se posso dire, l’amore è cullato anche nelle musica attraverso le vostre professioni di liutista e di liutaio.
Hai ragione Aldo. È la musica e lo spirito della musica che ci ha portato insieme. Lo scambio di idee, di vedute, di emozioni ed espressioni musicali influenza ed ha influenzato reciprocamente in modo positivo la nostra creatività, sia nell’ambito musicale che in quello della costruzione degli strumenti. Tutto questo si
moltiplica nella vita di coppia che comunque si
sostiene nello scambio di energie positive.
Nico, tu sei famoso in tutto il mondo per i tuoi
liuti, hai particolari preferenze nel realizzare
uno strumento barocco o rinascimentale?
Sigrun, tu suoni con strumenti costruiti da tuo
marito Nico van der Waals: ho notato che esiste
un entusiasmo comune tra voi nell’immaginare
e progettare un programma musicale che prevede la ricerca dello strumento ideale, adatto al repertorio che verrà proposto.
NvdW: Non ho proprio delle preferenze. Quando
costruisco uno strumento sono sempre profondamente dentro la materia; ogni strumento per
me è un mondo, completo ed affascinante nella potenza delle sue possibilità. Sono sempre alla ricerca del suono ottimale per ogni tipo di
strumento.
S. R.: Ogni stile di musica, ogni epoca vuole
e necessita dello strumento o degli strumenti
adatti ed adeguati per esprimere al meglio la
musica prodotta in quel periodo.
Il liuto dal ‘400 fino al ‘700 ha attraversato
tanti cambiamenti concernenti l’estetica del suo-
Ultimamente hai costruito una chitarra da
concerto che abbiamo ed ho trovato particolarmente affascinante: pensi che l’esperienza sugli
strumenti antichi possa aiutare un liutaio nella
7
portanti come, per esempio, Michele Hartung
di Padova. In seguito, insieme al liutista Michael
Schaeffer, ho visitato il Museo di Bruxelles dove ho misurato e studiato i modelli originali
con molta cura, specialmente i liuti barocchi di
Martin e Johann Christian Hoffmann. Basandomi
su queste esperienze ho formato le mie convinzioni e ho costruito liuti barocchi per
Michael Schaeffer e altri suoi colleghi. Quindi
oltre lo studio dei trattati e degli scritti è molto importante osservare con particolare attenzione gli strumenti originali antichi conservati
nei musei.
Negli ultimi anni, durante la collaborazione
con Sigrun, ho sviluppato molto la qualità del
suono non solo dei liuti barocchi ma anche dei
liuti rinascimentali a 6, 7, 8 e 10 ordini, arciliuti e chitarroni. Recentemente, grazie alla richiesta di Sigrun, ho costruito un chitarrone a 14 ordini per corde di ottone (come il clavicembalo)
e un liuto a plettro, un modello del tardo ‘400
secondo il famoso affresco di Francesco Cossa
che si trova nel Palazzo Schifanoia a Ferrara.
messa a punto di strumenti moderni oppure i
due campi non sono commensurabili?
L’esperienza sugli strumenti antichi, specialmente nel campo del restauro di strumenti originali, sviluppa l’orecchio e porta avanti la ricerca del suono. Questo costruisce negli anni
una esperienza che sicuramente può essere un
valore aggiunto.
Costruisci liuti dagli anni Settanta: come si è
evoluto il tuo lavoro in questi quarant’anni?
Ho iniziato l’esperienza di liutaio nel 1964
aprendo un laboratorio ad Amsterdam dove costruivo chitarre, quindi il mio viaggio è iniziato
con la chitarra; non tutti i liutai però seguono
lo stesso percorso. Ho sperimentato molto sulla
costruzione della chitarra, per esempio il manico libero dal 12° al 19° tasto. Ho sempre usato
legni di prima classe: abete per la tavola armonica, acero o palissandro per la cassa, mogano
o cedro per il manico, ebano per la tastiera.
Questa era la mia prima preoccupazione e ancora oggi sono convinto dell’importanza di scegliere con grande cura il materiale.
Il dialogo con musicisti come Julian Bream,
Pepe Romero, Narciso Yepes, Andrés Segovia,
Presti-Lagoya e tanti altri ha rinforzato le mie
idee che sono in continua evoluzione e mi ha
permesso di elaborare nuove strategie nel rispetto della tradizione o, meglio, delle tradizioni. Il mio scopo era ed è costruire chitarre che
possano rispondere velocemente, che reagiscano in tutti i registri e i colori e che abbiano un
suono che viaggi leggero arrivando lontano.
Negli ultimi dieci anni credo di essermi avvicinato molto a questo mio ideale. Ad esempio, la
chitarra che ho costruito per te nella primavera
2010 mi ha dato grande soddisfazione.
Credo di aver capito come la tua arte sia frutto dello studio costante dei materiali che direttamente provengono dal mondo antico (non solo strumenti ma anche quadri, affreschi e altro)
e del confronto continuo con gli interpreti che
devono dar voce all’anima dei tuoi strumenti.
Si certo è così.
Quali cambiamenti importanti hai notato nel
mondo del liuto in questo periodo? Sono cambiate le richieste dei liutisti? In caso affermativo
come si sono adeguati i costruttori alle nuove richieste?
Negli ultimi anni i liutisti hanno scoperto il
liuto come strumento di ensemble. Suonano
molto più il basso continuo e meno come solisti. Perciò sono più richiesti i chitarroni e, in
genere, gli strumenti funzionali per praticare il
continuo. Certo non è un male e io costruisco
volentieri tutti i tipi e i modelli di liuti. Penso
comunque che il repertorio del liuto solista sia
di grande valore e di indiscussa importanza musicale oltre ad essere molto vasto. Mi auguro
che le nuove generazioni non dimentichino di
suonarlo.
Anche a me. Raccontaci ora come ti sei avvicinato al liuto.
Ho iniziato ad interessarmi al liuto dal 1968
circa. In principio sono stato influenzato dai
tanti articoli di Friedemann Hellwig sulla storia
del liuto e della liuteria e ho seguito i suoi seminari presso il “Germanisches Nationalmuseum”
di Norimberga. In quel museo sono conservati
tanti liuti originali di costruttori famosi e im8
mento dal 25 aprile fino al 30 ottobre. La nostra esposizione permette al visitatore di fare esperienza diretta della tradizione antica degli strumenti a pizzico osservandoli ed ascoltandoli. Nello
stesso ambiente tengo il mio Corso di Liuto e
di Musica Antica (nel 2011 dal 25 al 30 aprile).
Anche tu Aldo hai suonato la scorsa estate a
Monterone con il tuo mandolino barocco G.
Battista Fabbricatore e hai potuto notare come
il tempo depositato nelle pietre e nel legno delle case antiche aiuti e predisponga all’ascolto.
Voi avete una casa a Monterone, vicino a Sestino
in Toscana in provincia di Arezzo e vivete da
diversi anni e per lunghi periodi in Italia. Come
mai avete scelto questo luogo denominato ora per
volere della amministrazione comunale “Borgo
del Liuto”?
S. R.: Durante i miei viaggi in Italia per fare
ricerca sulla musica rinascimentale e barocca mi
era venuta l’idea di trovare una casa come punto d’appoggio.
Attraversando l’Alpe della Luna nell’Appenino
centrale tra Toscana, Marche e Romagna ho conosciuto casualmente il borgo medioevale di
Monterone. Sono rimasta estremamente affascinata dalla casa nel centro del paese che deriva
dall’epoca di Cristoforo Colombo, 1495. Le nostre attività (corsi di liuto e di musica antica,
concerti e mostre), che sono iniziate nel 2003 e
che continuano a pieno ritmo tutt’oggi, hanno
dato la spinta all’amministrazione comunale di
denominare Monterone “Castello del Liuto”. Ogni
estate a Monterone, presso la nostra Casa del
Liuto, mettiamo in esposizione un grande assortimento di liuti – tutti i modelli dal rinascimento al barocco – e chitarre barocche e classiche. La mostra nell’anno 2011 sarà in allesti-
Sì, certo sono molto invidioso della vostra casa del Liuto a Monterone!
Anche noi siamo invidiosi di te che puoi guardare il mare e passeggiare a piedi nudi sulla
spiaggia d’estate e d’inverno... e puoi pensare
ogni giorno a quale accordo il colore del mare
ci inclina...
Sigrun, tu oltre che un’affermata concertista
svolgi un’intensa attività didattica: insegni Liuto
e Pratica della interpretazione storica al Dr. Hochs
Conservatorium di Francoforte sul Meno e Liuto
e Stilistica del Seicento per cantanti alla Hochschule
für Musik und Theater di Saarbrucken; vorresti
Nico van der Waals e Sigrun Richter
9
parlarci dell’organizzazione degli studi musicali professionali in Germania?
È una domanda difficile; tocchiamo un argomento molto importante e scottante. Bisogna cercare di realizzare una programmazione con regole e percorsi determinati che però non irrigidiscano la creatività dell’allievo. Ogni programma e ogni percorso didattico necessita di una
certa flessibilità: è come camminare sul filo del
rasoio e spesso sono la responsabilità, l’intuizione e la passione del docente a far sì che nessuno si tagli, né allievo né insegnante. Non è
facile trovare l’equilibrio.
Cosa pensi dei programmi dei Conservatori
italiani?
Per quello che ho conosciuto e per quello che
posso dire esistono gli stessi problemi presenti
in Germania. Mi sembra inoltre che gli studi siano ancora più regolarizzati e rigidi e, soprattutto, che durino troppo a lungo.
Sigrun Richter e Aldo Vianello
gere per i giovani musicisti, ma non possono
sostituire la lettura delle fonti originali che ci
portano informazioni importanti e spesso più
dettagliate per l’interpretazione della musica. Inoltre
molto spesso le fonti da Internet sono piene di
errori e solo una conoscenza approfondita delle stampe originali ci salvaguarda dalla confusione. Per questo è necessario il confronto con
l’originale che sarà sempre insostituibile anche
nel futuro. Non bisogna mai perdere il gusto e
l’emozione di entrare in una biblioteca e cominciare una ricerca... anche casualmente, anche
per gioco.
Secondo voi è importante oggi per un giovane
chitarrista che si prepara alla carriera di musicista conoscere gli strumenti a pizzico antichi e
studiare la prassi interpretativa dell’epoca?
Oggi per un musicista sembra inevitabile conoscere la prassi interpretativa storica e il linguaggio caratteristico di ogni epoca.
Sigrun, tu nei tuoi corsi accetti di far lezione
anche a chitarristi che si presentano con strumenti moderni?
Durante un corso “misto” di liutisti e chitarristi, il chitarrista impara molto sullo stile e sulle
tecniche storiche; però fa bene anche ai liutisti
avere la mente aperta alla musica della chitarra
moderna.
Come sei arrivata al liuto e perché?
Mentre studiavo la chitarra classica mi sono
chiesta il perché di tutti gli arrangiamenti della
musica di Bach, Weiss, Dowland, etc. Ero curiosa di vedere l’originale. Prendendo un liuto
in mano ho trovato la mia strada…
Che rapporto hai con la “rete” (Internet)? È
possibile secondo la tua esperienza che le fonti
disponibili in Internet possano aiutare la crescita di una competenza seria sulla musica antica?
È importante la pratica della musica da camera e la collaborazione con gli altri musicisti?
Le fonti che mette a disposizione Internet possono essere di prima utilità e facili da raggiun-
Sì, certo, indiscutibilmente. Il liuto poi dispone di un ricchissimo repertorio di musica da ca10
luzione dal liuto rinascimentale al liuto barocco
francese. In questa maniera continuerei anche la
serie di CD Les Accords Nouveaux che contiene
per il momento due dischi: le opere di Pierre
Gaultier e il libro di Ballard del 1632.
A Monterone mi piacerebbe continuare a realizzare corsi ed incontri per liutisti, concerti e
mostre. Nella nostra Casa del Liuto esponiamo
un grande assortimento di liuti, chitarre barocche e classiche. La mostra nell’anno 2011 sarà
in allestimento dal 25 aprile fino al 30 ottobre.
La nostra esposizione permette al visitatore di
entrare direttamente in contatto con la tradizione antica degli strumenti a pizzico osservandoli
ed ascoltandoli. Nello stesso ambiente terrò il
mio corso di Liuto e Musica Antica dal 25 al 30
aprile.
Nico si sente aperto a tutte le richieste, sia di
liuti che di chitarre. Il suo scopo sarà sempre
quello di realizzare il tipo di strumento a pizzico preciso per ottenere il suono ideale adatto a
ciascuna epoca e a ciascun tipo di musica.
mera. Pensiamo innanzitutto quanto possiamo
suonare realizzando il basso continuo: è una
quantità enorme di musica! Non basta una vita
per suonare tutto.
Abbiamo particolarmente apprezzato il recital
che hai tenuto in ottobre presso il Corte Coriano
Teatro a Coriano: il programma era incentrato
sulla figura di John Dowland e oltre a suonare
hai proiettato immagini e letto testi del Seicento.
Nei miei concerti seguo sempre un percorso
storico, stilistico o di genere. Trovo sempre stimolante stabilire il programma seguendo un filo rosso tematico. Potrebbe essere un personaggio:
il compositore, oppure anche un tema storico o
filosofico.
Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Il prossimo programma solistico sarà dedicato al personaggio di François Dufaut e all’evo-
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ricerche e approfondimenti
BRUNO BETTINELLI:
UNA MODERNITÀ NON DOGMATICA.
di Davide Ficco
Prima parte
B
runo Bettinelli (Milano 1913-ivi 2004), compìto gentiluomo milanese – figlio del pittore
Mario Bettinelli (1880-1953) e nipote del compositore e pianista Angelo Bettinelli (1878-1953)
– è una delle figure di prima grandezza del secondo Novecento italiano, sia come compositore che come didatta. Dedicatosi anche alla critica e alla musicologia, si è formato presso il
Conservatorio “G. Verdi” di Milano (sotto la guida di Giulio Cesare Paribeni e Renzo Bossi), dove ha in seguito ricevuto la cattedra di Composizione. Tra i suoi allievi figurano nomi di
grande rilievo quali Claudio Abbado, Bruno Canino,
Aldo Ceccato, Riccardo Chailly, Azio Corghi,
Armando Gentilucci, Riccardo Muti, Maurizio
Pollini, Uto Ughi e, nell’ambito della musica extracolta, la cantautrice Gianna Nannini. Il prezioso messaggio che ha infuso come didatta si
riflette in toto nel suo stesso cammino di compositore, improntato al continuo migliorarsi e rimettere in discussione i propri risultati e anche
le presunte certezze acquisite:
complessi che costituiscono l’essenza stessa
della musica.”1
Vincitore di concorsi internazionali di composizione, Bettinelli ha ricevuto negli anni
Quaranta, tra gli altri, il premio dell’Accademia
di Santa Cecilia in Roma (dove è stato poi eletto Accademico), divenendo in seguito membro
dell’Accademia Luigi Cherubini di Firenze.
Partito da una giovanile vicinanza a un neoclassicismo molto contrappuntistico (arricchito
anche dall’utilizzo di frammenti gregoriani o di
forme quali la fuga, l’invenzione e il ricercare)
con influenze di Bartók, Hindemith e Stravinskij,
il suo percorso si è poi avvicinato all’atonalità,
a una dodecafonia non stretta, all’aleatorietà
controllata e alle tecniche strumentali non tradizionali (multifonici, armonici e altri effetti specifici) per sfociare in un linguaggio cromatico
libero e in una ricerca timbrica sempre più peculiare.
Certamente il ricco universo sonoro che emerge dalla musica per chitarra di Bettinelli, fatto
di instancabile fantasia ritmica e di attenta ricerca intervallare e dinamica, non può essere ricondotto per un qualche senso di similitudine
alle tante pagine genericamente atonali (per dirla come Schoenberg non avrebbe voluto) che
caratterizzano parte della musica del ‘900; tantomeno può assimilarsi all’eredità di pagine alea-
“Badate – diceva agli allievi – che di anno
in anno si possono cambiare e rivedere molte opinioni in fatto di gusto e di valutazione.
Ogni dieci anni, poi, considerando in prospettiva
il tempo trascorso e le relative esperienze accumulate, si verifica in noi, immancabilmente,
una strana e imbarazzante sensazione: una voce interiore, nostro malgrado, sembra sussurrarci: «...si vede che allora non eri ancora abbastanza maturo per capire certe cose...». È così per tutta la vita, perché in realtà non si finisce mai di scoprire, di progredire e di assimilare il coacervo di problemi inesauribili e
1. ELISABETTA GABELLICH (a cura di), Linguaggio musicale di Bruno Bettinelli, G. Miano, Milano, 1995, 2a ed.
aggiornata, p. 15.
12
dell’Ottanta in Italia e con Stravinskij, Bartók e
Hindemith in Europa; esempi ai quali Bettinelli
guardò nella sua formazione con vivo interesse,
passando per le opportunità offerte dalla dodecafonia in generale. E l’intero e sostanzioso corpus delle opere per chitarra proprio così risulta: un lavoro omogeneo di libero utilizzo dei legami seriali (come utensile preso e lasciato, non
vincolante) e, soprattutto, del totale cromatico,
resi vividi da sapienti elaborazioni delle cellule
tematiche, da ceselli contrappuntistici e giochi
ritmici e accentuativi, oltre che da un melodiare ricercato, in un contesto armonico cangiante
e caleidoscopico, non sempre lontano da fugaci suggestioni tonali, a volte del tutto negate, altre volte amabilmente evocate. Ecco come sintetizzava le proprie idee lo stesso Bettinelli:
Bruno Bettinelli con Riccardo Muti, Teatro alla Scala,
Milano, 1972
Fabio Di Gerolamo: Come si pone nei confronti della atonalità o della dodecafonia?
B.B.: Sono un po’ anarchico, nel senso che
non amo la serialità, perchè è una palla al piede. Devo essere libero di condurre un discorso
dove voglio, senza le regole che mi impone la
serie. [...]3
torie o dogmaticamente regolate, filosoficamente connotate, del periodo post-weberniano: nella musica di Bettinelli si manifestano una volontà precisa di allontanamento – non assoluto
– dalle rive tonali e uno stile, sin dalle prime
opere, personale e coerente. Il mezzo riconduce prevalentemente alla serialità, sebbene blandamente condotta, ma ad emergere è un chiaro gusto per la libera elaborazione melodico-intervallare, con una spontanea germinazione delle idee e una loro continua variazione.
Nato a cavallo tra le prime due fondamentali
personalità del musica moderna italiana del ‘900,
Petrassi e Dallapiccola, e la generazione degli
anni Venti (Maderna, Nono, Berio, Donatoni,
Clementi, etc.), Bettinelli ha mantenuto una strada propria e poco ortodossa, dove la scelta espressiva risulta preminente nel contesto della gestione delle dodici note. L’essenzialità antiretorica e la ricerca di una sostanza prettamente strumentale (“non melodrammatica”),2 informano tutta la sua musica, prosieguo ideale di quella ricerca del nuovo e, insieme, della conoscenza-riconoscenza nei confronti della musica pre-romantica che era iniziata già con la Generazione
Ruggero Chiesa: Riferendosi al procedimento
dodecafonico, Lei crede che si possa ancora impiegare?
B.B.: Io penso di sì, per quanto attualmente
esso venga snobbato. Una delle cose più tragiche del nostro tempo è che da un anno all’altro tutto si brucia. [...] Non ci si è ancora fermati su un modo di esprimersi veramente sincero, quindi non vedo perchè la tecnica dodecafonica non potrebbe dare buoni risultati, così come quella strutturale o qualsiasi altra. Non
preoccupiamoci di sapere quale sarà la musica
dell’avvenire, se ancora non conosciamo come
potrà essere la sensibilità dei nostri figli e nipoti.
R.C.: Dopo la lunga esperienza dell’avanguardia,
sembra che oggi si stia assistendo a un riflusso
verso posizioni meno dogmatiche. Secondo Lei
c’è del nuovo o si sta ritornando al passato?
2. http://www.ricordi.it/catalogo/archivio-compositori/bruno-bettinelli
3. FABIO DE GIROLAMO, Colloquio con Bruno Bettinelli
(estratto dalla tesi di laurea La letteratura chitarristica
italiana del Novecento), da “Sei corde per sei compositori: Bettinelli, Castelnuovo Tedesco, Chiereghin, Margola,
Mosso e Rosetta”, in “Seicorde”, n. 48, novembre-dicembre 1994, p. 16
13
le e dal peso specifico rilevante. A conferma di
ciò, ad aver reso così originali le opere chitarristiche del Nostro sono proprio la chiara e libera personalità, e quella padronanza di stili e
tecniche che ne ha informato la scrittura, in una
volontà di autonomia non troppo incline a proposte di rimaneggiamento o adattamento ad idiomi esecutivi stereotipati o comunque “più chitarristici” da parte degli esecutori.
B.B.: Ritornare al passato è semplicemente
impossibile, ma, come dicevo, materiale da sfruttare ne abbiamo moltissimo [...] Queste esperienze (le sperimentazioni di Cage, n.d.r.) forse
hanno avuto un valore di rottura, di polemica,
per superare certe posizioni, ma ora, pur senza
rivolgersi al passato, penso sia il momento di
un equilibrio che contemperi gli eccessi di un’avanguardia estrema dove si è raggiunto l’assurdo e
il cliché. [...] Bisogna tornare su posizioni di ricerca autentica, sincera, con se stessi [...] anche
se mi si può accusare di un discorso borghese,
la via giusta sta nel mezzo.4
Ruggero Chiesa: Quali sono le caratteristiche
della chitarra che Lei preferisce?
B.B.: Direi prima di tutto il colore, poi le risorse tecniche, che non sono poche, e la duttilità dinamica, che permette di passare da un’atmosfera dolcemente cantabile all’aggressività. Negli
Studi ho cercato proprio di dimostrare tutti questi elementi.
R.C.: Vorrei ora chiederLe se c’è, secondo Lei,
uno stile musicale che meglio si adatta alla natura della chitarra, oppure se essa sia flessibile
ad ogni tipo di linguaggio.
B.B.: Penso che non vi sia nessun limite: tutto dipende dalla capacità del compositore. Circa
il linguaggio, io dico sempre ai miei allievi che
con la grammatica musicale di cui disponiamo
possiamo ancora scrivere musica per cento anni.” [...]6
Renzo Cresti: Della attuale situazione in cui
versa la composizione, Bettinelli non è contento,
perché vede un disorientamento, causato dall’esaurirsi dello sperimentalismo, un esaurimento per
altro positivo, ma che ha lasciato campo libero
a un certo qualunquismo, ma “ciò che conta” –
dice Bettinelli – “è il saper rendersi conto nel dovuto modo che in musica tutto è permesso, niente è permesso. Ai velleitari si addice il silenzio.”5
Nella chitarra, Bettinelli ha trovato alcune caratteristiche sonore alle quali rispondere con un
lessico specifico e con un fruttuoso adattamento allo strumento, in cui cercare, scavare e giocare con libertà per esaltarne la consistenza; l’impresa, avvincente, è stata fino alla fine del XIX
secolo appannaggio esclusivo dei chitarristi (i soli a scrivere per il proprio strumento), ma nel
‘900 sono numerose le prove di quanto l’apertura al contributo dei compositori non chitarristi
fosse gravida di importanti novità. Infatti, mentre fu da sempre fatto usuale che talune peculiari tecniche esecutive si trasformassero in un
nuovo mezzo espressivo attraverso le mani degli strumentisti, l’inventiva musicale, la padronanza di forma e di procedimenti e l’utilizzo ragionato (e non gravato dal facile richiamo di automatismi esecutivi) di efficaci tecniche specifiche hanno permesso ai compositori non chitarristi di poter dare spesso un contributo origina-
Le opere per chitarra sola di Bettinelli, composte in un arco di tempo che va dal 1970 al
1994, sono uno dei lasciti più importanti tra
quelli dedicati a questo strumento da compositori contemporanei di musica colta. Fondamentale
fu la sollecitazione e la fattiva collaborazione di
Angelo Gilardino e Ruggero Chiesa, quest’ultimo
suo collega e concittadino, che spinsero il
Compositore a concretizzare un interesse verso
la chitarra che fino a quegli anni era sì stato
espresso, ma senza prendere forma. In questi
trenta brani troviamo un clima a volte diverso
rispetto a varie sue pagine extra-chitarristiche,
dove l’impiego di altre peculiarità e impasti strumentali ha consentito a spesse armonie, clusters,
4. RUGGERO CHIESA, Intervista a Bruno Bettinelli, 13-111980, “Il Fronimo”, n. 34, gennaio 1981, pp. 3-4.
5. R ENZO C RESTI , Bruno Bettinelli, Il Signore del
Contrappunto in “Angeli e Poeti” n. 4, Milano 2000, ovvero in “Piano time”, n. 97, Roma, Aprile 1991.
6. RUGGERO CHIESA, op. cit., p. 4.
14
note sospese e tenute (viene in mente l’atmosfera del Ricercare per due pianoforti del 1976),
grandi dinamiche e ricche sedimentazioni timbriche (Sinfonie e Concerti per Orchestra / opere corali) di veicolare con voce più varia e forte i contenuti musicali.
Nel contesto delle opere per chitarra ogni elemento musicale (in primis la melodia, esplicita
o sottesa, frammentata, ritorta o lineare che sia)
deve incontrare la condivisione, la partecipe interpretazione dell’esecutore che, non ingannato
dall’algidità apparente dell’ambientazione e dai
toni talvolta spigolosi e inospitali di alcune sequenze intervallari, deve saperne restituire la
poesia e la vibrazione interna. Questa musica è
introspettiva, estatica, volitiva, esplicita ed energica, pur rimanendo se stessa; la forma è ogni
volta costruita a misura del singolo pezzo e attorno ad essa si inerpicano disegni melodici e
armonie in un equilibrio di espressività e compostezza, irruenza e misura; un contesto sobrio,
ma mai privo di emozione.
B.B.: Ho sempre sentito una grande attrazione per le infinite possibilità timbriche dell’orchestra e del coro [...] mi ha aiutato la fortuna
di sentire dentro di me, senza che nessuno me
lo abbia mai spiegato, il colore, gli impasti sonori, il peso, il timbro degli strumenti, le proporzioni e gli equilibri nella distribuzione delle
varie sezioni. Da tale sensibilità timbrica deriva
la mia predilezione per il genere sinfonico e per
l’ampiezza del respiro, per l’infinita gamma di
colori che offre la possibilità di concepire alla
grande e in piena libertà formale.7
B.B. La mia musica ha sempre un’articolazione discorsiva. Il pulsare ritmico e la sottile inquietudine armonica sono i fattori costanti che,
da sempre, caratterizzano la mia produzione.
Costituiscono un’ossatura che consente di portare avanti un discorso coerente, strutturato sulla base di un continuo variare degli elementi
proposti all’inizio e, successivamente, scomposti, rielaborati [...] rovesciati, riesposti nelle figurazioni cellulari più svariate che, derivate dalla
speculazione contrappuntistica dei fiamminghi,
costituiscono anche la complessa elaborazione
della tecnica seriale ortodossa. Una tecnica che
io, dopo alcuni esperimenti, ho abbandonato,
Ma scopriamo che, in qualche misura, l’orchestra, il pianoforte o il coro trovano nelle pagine per chitarra una parziale eco, filtrata, ridotta; come se uno spazio ridotto potesse contenere il tutto, rimasto autentico – dalla sfumatura al gesto di stizza – ma solo un poco più
piccolo... È pur vero che la speculazione timbrica dell’autore rende ogni suo pezzo un unicum e che le opere di più ampia concezione,
soprattutto quelle orchestrali e/o vocali, si nutrono di una tavolozza timbrica e dinamica che
non può essere trasferita sulla chitarra se non in
termini di pura suggestione: ad esempio, la rapida decadenza del suono dopo l’attacco, come
è naturale, impone ad ascoltatori ed esecutori
un declinare astratto di quanto sarebbe offerto
da strumenti a suono tenuto come archi, a fiato o dalle voci. Bettinelli, soprattutto nei lavori
solistici, cerca quindi del singolo strumento la
natura profonda, in qualche modo a sè stante,
da assecondare ed esaltare, pur nella coerenza
del proprio linguaggio.
B.B. [...] La mia preoccupazione è sempre stata
quella di penetrare a fondo lo spirito e non solo
l’ambito tecnico degli strumenti.”[...]8
7. RENZO CRESTI, op. cit.
8. RUGGERO CHIESA, op. cit., p. 3.
Bruno Bettinelli, 2002
15
B.B.: Non voglio fare descrittivismi di sorta.
Ho vissuto i momenti più drammatici di questo
secolo; queste tensioni si trovano nella mia musica, ma senza precisi programmi. Nella mia musica c’è il senso drammatico e poetico dell’esistenza.11
perché troppo vincolante. Ho preferito quindi
attenermi al solo totale cromatico, più libero e
ricco di risultati altrettanto coerenti, ma, al tempo stesso, più spontanei.9
Fabio De Girolamo: Nella Sua musica c’è sempre un’alternanza tra momenti in cui il ritmo è
molto libero e altri in cui è ripetitivo e uniforme.
B.B. Sì, ci sono momenti di stasi e di aggressività. Dopo momenti poetici, che creano
un’atmosfera tranquilla sognante, improvvisamente
arriva la frustata, entra una sezione ritmica e aggressiva. Tutto questo, però, lo sento istintivamente, non è mai un partito preso.10
Nell’affrontare questo repertorio l’esecutore è
chiamato a integrare sforzi necessari in varie direzioni: l’esattezza della lettura (poiché la scrittura del Nostro è accurata, senza essere pedante, ed è talvolta complessa, specialmente nel rispetto della polifonìa e delle accentazioni), la
precisione esecutiva e l’articolazione del discorso musicale. Le linee melodiche e le armonie
chiedono attenzione sul contenuto di ogni intervallo che le compone, affinchè lo stesso non
sia banalizzato e ridotto a singola presenza in
un insieme di suoni: diversamente, e vale per la
grande parte della musica moderna, non potrebbe essere in un contesto dove le sequenze
intervallari non rientrano più volutamente nei
cliché strutturati e pienamente assimilati della
melodia tradizionale, le distanze interne devono
assumere particolare importanza e ricevere una
ancor più attenta considerazione. Nelle sezioni
di “sviluppo”, dove trova espressione non solo
la sapienza contrappuntistica di Bettinelli, ma più
in generale una vasta sedimentazione di spunti
musicali, non devono esser lasciati cadere i numerosi riferimenti, sempre variati, al materiale tematico; e infine la forma, da rilevare riconoscendo l’importanza delle proporzioni, la sequenzialità strutturata del discorso musicale e,
come si è detto, i ritorni del materiale esposto
precedentemente, quand’anche fossero soli accenni; tutti elementi che rappresentano il mai casuale frame su cui ogni pezzo è costruito.
Le indicazioni timbriche, agogiche, dinamiche
e articolative sono puntuali, ma mai pretestuose
e inapplicabili. Una certa libertà è stata lasciata
all’esecutore nello Studio n. 7 (Intervalli spezzati / Allegro, a piacere), dove è lo stesso Autore
a specificare che i “I coloriti sono lasciati alla
libera scelta dell’esecutore. (...)” e dove la presenza di sette corone offre una ulteriore opportunità di personalizzazione interpretativa: una scelta sicuramente pedagogico-esemplificativa, oltre
che musicale.
Le opere solistiche per chitarra sono state
composte nel seguente ordine cronologico:
E diventano così parte non casuale del discorso il silenzio e l’attesa tra un evento sonoro e l’altro: elementi pregnanti, misteriosi e attivi del lessico bettinelliano, soprattutto nelle pagine più rarefatte, dove il fluire del discorso sembra nascere proprio dal silenzio, che non è più
solo occasione di riposo, di respiro, ma che pare un contenitore “in negativo” dal quale attingere suoni, timbri e ritmi. Figure e colori che
emergono dall’ombra come nelle tele del
Caravaggio, dove l’assenza di luce imprime alle
figure che vi si distagliano un’aura di profonda
e intensa vividità. Questo geste bettinelliano di
libero recupero nella memoria, dal silenzio all’articolazione di un discorso musicale, ci piace in
qualche misura affiancarlo allo spirito compositivo del più giovane Carlo Mosso (1931-1995),
altro “signore del contrappunto”, anche se
nell’altrettanto antiretorico artigianato del Maestro franco-piemontese l’essenzialità assume talvolta misure più asciutte ed estemporanee che
in Bettinelli, con proposizioni quasi icastiche:
amaro, ironico, distaccato parlare musicale senza causa o effetto. In Bettinelli, a parere dello
scrivente, non v’è invece traccia di pulsioni nichiliste, quanto piuttosto di una narratività dialogica nel suo costrutto.
Fabio De Girolamo: La fonte di ispirazione
dei Suoi pezzi è più di carattere musicale o esistenziale?
9. RENZO CRESTI, op. cit.
10. FABIO DE GIROLAMO, op. cit.
11. Ibidem.
16
Lettera di Bruno Bettinelli a Davide Ficco. Purtroppo il compositore non ha potuto vedere la realizzazione del progetto discografico dedicato alla sue opere per chitarra
Improvvisazione (1970)
Cinque Preludi (1971), dedica a Ruggero Chiesa
Quattro Pezzi (1972), dedica ad Angelo Gilardino
Sonata Breve (1976), dedica ad Aldo Minella
12 Studi (1977)
Come una Cadenza (1983)
Notturno (1985), dedica a Guido Margaria
Mutazioni su Tre Temi Noti (1994)
Montrucchio-Preda, Due Liriche (1977) per voce
e chitarra e il Concerto per orchestra d’archi con
vibrafono (1980), dove il compositore dà una
personale risposta al problema dell’equilibrio tra
il solista e l’orchestra.
Ruggero Chiesa: C’è qualcosa che vorrebbe
ancora scrivere per chitarra, di genere diverso?
B.B.: Non sarei alieno dall’idea di un Concerto
per chitarra e archi. Bisogna però pensare che
la chitarra è uno strumento delicato [...]. Dovrei
quindi comportarmi come ho fatto nel Divertimento
per clavicembalo e orchestra, dove ho agito sulle alternanze e dove il clavicembalo era impiegato insieme a pochissimi strumenti, come il vibrafono e la percussione.12
Ad esse dobbiamo aggiungere: Divertimento
a Due (1982) per duo di chitarre, Musica a due
(1982) per flauto e chitarra con dedica al Duo
12. RUGGERO CHIESA, op. cit., p. 4.
17
LE OPERE PER CHITARRA SOLA
Con l’Improvvisazione Bettinelli, nel 1970, si
presenta al mondo della chitarra con un modello di composizione già ben delineato e che verrà
poi ripreso in Come una Cadenza e in Notturno,
ad esempio: la concatenazione di episodi, spesso contrastanti e indicati da cambi di tempo (cfr.
Tavola 1 qui sotto), che rappresenta l’architettu-
ra stessa del brano. Ulteriormente colorata da elasticità agogiche, la varietà del materiale esposto
arricchisce così tanto il discorso, qui sostanzialmente monodico, da allontanare nell’ascoltatore
eventuali necessità di maggiori sedimentazioni sonore. Questo tratto, comune a molti altri dei suoi
brani chitarristici, appare già chiaro nell’esordio.
1. a)
1. b)
1. d)
1. c)
1. e)
Tavola 1. Improvvisazione, ed. Bèrben, 1970. a) Incipit; b) Mosso, p. 1, rigo 6; c) Più mosso e brillante,
p. 2, rigo 4; d) Più lento, p. 2, rigo 7; e) Più mosso p. 3, rigo 1 e Calmo, p. 3, rigo 4.
I Cinque Preludi (1971), nella loro essenziale assertività e chiarezza, sono una prima conferma della coerenza lessicale del Compositore,
il quale, a un anno dall’Improvvisazione, propone un taglio formale differente: cinque brevi
quadri, diversi tra loro e perfettamente compiuti, anziché un solo movimento articolato. Nei
preludi è sempre l’eloquio della melodia, ora
cantato e solitario o ritmico e chiassoso, ovvero leggero e danzante, a condurre il discorso,
incrociando voci e accordi di sostegno. Ognuno
dei cinque brani ha struttura a sè, resa tale dal
contingente sviluppo del discorso, ed emergono
– specie in apertura dei Preludi I e III – ricorrenti giochi che frammentano e ribaltano le linee melodiche.
L’inizio del Preludio I come appare nel manoscritto di Bruno Bettinelli con l’aggiunta della diteggiatura di R. Chiesa
18
2. a)
2. b)
2. c)
2. d)
2. e)
Tavola 2. Cinque Preludi, ed. Zanibon, 1972. a) Preludio I, Incipit; b) Preludio II, Incipit; c) Preludio III,
Incipit; d) Preludio IV, Incipit; e) Preludio V, Incipit.
Quattro Pezzi è il terzo titolo chitarristico di
Bettinelli, risalente al 1972, e il breve lasso di
tempo intercorso dai precedenti lavori sembra
parlarci di un momento particolarmente prolifi-
co del compositore, come se un corposo insieme di idee maturate precedentemente avesse finalmente trovato l’occasione per materializzarsi
sul pentagramma.
3. a)
3. b)
3. c)
3. d)
Tavola 3. Quattro pezzi, ed. Bèrben, 1973. a) I. Introduzione, Incipit; b) II. Toccata, Incipit; c) III.
Notturno, Incipit; d) IV. Ritmico, Incipit.
19
Effettivamente vi è molta densità di contenuti
in questi quattro movimenti, che potremmo qualificare come un grande esercizio di conduzione
melodica; in essa si incrociano tuttalpiù scarni dialoghi contrappuntistici con una seconda linea. Le
armonie sono momentanee (cfr. Tav. 4 a, b), a
volte accordali, altre volte “melodicizzate” in forma di arpeggio (cfr. Tav. 4c). Come nelle pagine più meditative, anche qui il canto si scontra
in fugaci diafonie, intese come “interferenze” (o
“dissonanze”, come ebbe a far notare Angelo
Gilardino)13 e assecondate da una diteggiatura che
lascia vibrare una nota sull’altra.
Elemento a parte sono i fantasmatici e lontani rasgueados del Pezzo III e l’asciutto intervento
del Pezzo IV (cfr. Tav. 4d, e), che richiamano
alla memoria le sonorità vocianti del Preludio V
(cfr. Tav. 4f).
4. a)
4. b)
4. c)
4. d)
4. e)
4. f)
Tavola 4. Quattro pezzi, ed. Bèrben, 1973. a) I. bb. 34-39; b) III. bb. 12-18; c) III. bb. 31-32: d) III. b. 28-29; e) IV.
b. 20; f) Preludio V, bb. 9-10
13. ANGELO GILARDINO, Bruno Bettinelli, Cinque Preludi per Chitarra, “Il Fronimo”, n. 4, luglio 1973, p. 28.
20
La Sonata Breve, del 1976, dedicata al chitarrista milanese Aldo Minella, è un vivo trittico
(Tav. 5 a, b, c) dove è particolarmente ampia
l’escursione linguistica tra gli scorci tonali e i
momenti di più libero impiego dei dodici semi-
toni (specificamente nel I e III movimento, molto ritmici e spigolosi, a parte la sognante parentesi del tranquillo del tempo finale, cfr. Tav.
5d) e in cui spicca l’amabile, eterea, Aria centrale (Tav. 5 b).
5. a)
5. b)
5. c)
5. d)
Tavola 5. Sonata breve, ed. Zanibon, 1977. a) I. incipit; b) II. incipit; c) III. incipit; d) III. bb. 43-52
Sono particolarmente esplicite le riproposizioni del tema nei due tempi rapidi (cfr. Tav.
6 a, b), a chiusura di un disegno interno tripartito, dove si può leggere, pensando al classicissimo titolo, un voluto omaggio a strutture
formali tradizionali. Ma anche nell’Aria, in
sol respiro, è stato riservato lo spazio per
richiamo finale al tema (per aumentazione,
Lento cfr. Tav. 6 c), dopo diversi accenni
riati allo stesso.
6. a)
6. b)
6. c)
Tavola 6. Sonata breve, ed. Zanibon, 1977. Rientri del tema. a) I. bb. 101-105; b) III. bb. 56; c) II. bb. 19-20
21
un
un
nel
va-
Inizio dello Studio III come appare nel manoscritto di Bruno Bettinelli con l’aggiunta di diteggiature da R. Chiesa
I Dodici Studi, del 1977, sono la risposta dell’autore alle esigenze degli studenti di chitarra, ai
quali offrono la possibilità di risolvere problemi tecnico-interpretativi utilizzando un lessico
moderno e sofisticato.
Il numero dodici, ricorrente in celebri raccolte della storia della musica quali, ad esempio,
gli studi di Chopin, Liszt e Debussy, e in
Kreutzer e Thalberg, fino a Kurtág o – più familiarmente per i chitarristi – a Villa-Lobos, non
è collegato in Bettinelli a logiche di ordinamento
degli studi basate sul procedere semitonale della scala cromatica (come ad esempio, il succedersi delle tonalità dei 24 Preludi e Fughe di
ciascun volume del Clavicembalo ben Temperato di Bach, o, in ambito non tonale, ai diversi incipit dei dodici Microludi per quartetto
d’archi di Kurtág, che – sebbene in parte – ricalcano le altezze di una scala cromatica ascendente). Bettinelli sceglie invece un criterio diverso e in un certo senso legato allo strumento destinatario dei suoi Studi; come ha acutamente evidenziato Paola Brino osservando le
note iniziali di ciascun brano:
“più di uno studio esordisce con il Mi [...] e
quindi l’altezza ritorna ciclicamente ogni quattro
studi. I sei Studi centrali, invece, esordiscono ciascuno con una delle sei note dell’accordatura
della chitarra, anche se non con il medesimo ordine. Per finire, le note iniziali dei primi e degli ultimi tre Studi sono contenute nell’ambito di
un intervallo di due toni interi [...]. Ora, non è
difficile scorgere in tutto questo due tipi di suddivisione differenti: di quattro in quattro se consideriamo la cadenza con cui ritorna l’altezza Mi,
di tre in tre [...] se invece consideriamo il rapporto intervallare tra le note iniziali degli Studi.
Dunque Bettinelli, invece di privilegiare una suddivisione dell’ottava in dodici semitoni uguali [...]
ha preferito evidenziare altri tipi di suddivisione
possibili, sempre simmetrici, per terze minori e
per terze maggiori, ossia i due intervalli che sono alla base di tutti gli accordi.”14
14. Paola Brino, Tra spontaneità e rigore. Dodici Studi
per chitarra di Bruno Bettinelli, “Il Fronimo”, n. 130,
aprile 2005, p. 22.
22
7. I
7. II
7. III
7. IV
7. V
7. VII
7. VIII
7. IX
Tavola 7. Dodici Studi, ed. Suvini Zerboni, 1979. Incipit degli Studi I, II, III, IV, V, VII, VIII, IX
Bettinelli evidenzia il contenuto didattico di
ogni studio indicandone la caratteristica prevalente e la correlata finalità pedagogica: i titoli
monodico (I), ritmico (II), arpeggi e canto superiore (III), accordi (IV), registri alternati (V),
note ribattute (VI), intervalli spezzati (VII), polifonia (VIII), prevalenza di melodia nel basso
(IX) cònnotano i primi nove studi, e la scrittura personale e volutamente non troppo idiomatica spicca ovunque nel materiale utilizzato:
ad esempio, nelle note ribattute dello Studio VI
che non cedono alle lusinghe del classico tremolo (pur utilizzato nella prima delle Due
Liriche del 1977).
8. a)
8. b)
Tavola 8. a) incipit dello Studio VI; b) incipit di Lirica I per soprano e chitarra
I tre ultimi studi, come Bettinelli stesso segnala, possono essere considerati autonomamente
a titolo riassuntivo “come i tre tempi di una sonata”: gli appellativi di mosso, calmo e tempo di
Passacaglia riprendono infatti alcuni spunti degli studi precedenti, condensandone e sovrapponendone idee e contenuti, e lasciando a una
ispirata e architettonicamente densa Passacaglia
la funzione di congedo. Carlo Mosso chiuderà
similmente i suoi tre Quaderni per chitarra nel
1986, confermando come una parte significativa
del pensiero compositivo moderno scelga ancora di ancorare lo sviluppo alle strutture più solide della tradizione colta occidentale.
23
9. a)
9. b)
9. c)
9. d)
Tavola 9. a, b, c) Incipit degli Studi X, XI, XII; d) Carlo Mosso, Quaderno III (Passacaglia), incipit.
Come una Cadenza, composto nel 1983 e
pubblicato nell’85, è una tesa ed efficace pagina rappresentativa dell’autore, una pseudo-improvvisazione cadenzale caratterizzata dalla varietà di atmosfere, dall’alternanza di sospensioni
introspettive e fluide rincorse, e da un geste inventivo in un’unica articolata campata chiusa sul
finire, come un cerchio, da un rapido richiamo
all’idea tematica iniziale.
La divisione del discorso appare più sfumata
10. a)
rispetto all'Improvvisazione, muovendosi attraverso un’agogica che prepara ai vari cambi di
luce: dato un tempo metronomico iniziale (Tav.
10a), si incontra un Meno Mosso e poi un Calmo
(Tav. 10b); quindi un Allegro a 104 di metronomo (Tav. 10c) che – inframezzato da un graduale acquietarsi centrale, metronomicamente guidato – porterà alla ripresa tematica, con esiti
quasi in stretto (Tav. 10d), e al Lento di congedo Tav. 10e).
10. b)
10. c)
10. e)
10. d)
Tavola 10. Come una cadenza, ed. Suvini Zerboni, 1985. a) incipit; b) Meno mosso (p. 2, rigo 11) e Calmo (p. 2
rigo 13); c) Allegro (p. 2, rigo 16); d) Tempo I (p. 3, rigo 32); e) Lento finale (p. 3, rigo 34)
Il Notturno (1985), dedicato al chitarrista alessandrino Guido Margaria, si porta su di un piano decisamente più introspettivo e impegnativo all’ascolto, soprattutto dove la melodia incede, intensa, da sola. Quest’ultima si sviluppa, con giusta lentezza, a partire dalla quinta
corda (Tav. 11a) e, passando per il sospeso,
etereo nucleo del brano (Tav. 11b) si scopre
sollevata di un semitono nella ripresa del tema, già smontato e proiettato nell’evaporazione finale (Tav. 11c). Sono frequenti i momenti di apertura estatica verso l’acuto: cercati, lenti, intensi. Il Notturno inizia e finisce sulla nota Si: dapprima grave e isolata, e infine acuta
e immersa in una luminosa triade maggiore (Tav.
11d).
24
11. a)
11. b)
11. c)
11. d)
Tavola 11. Notturno, ed. Ricordi, 1987. a) incipit; b) bb. 50-54; c) bb. 60-64; d) bb. 80-82 (fine)
L’ultima opera per chitarra sola, in ordine
cronologico, risale al 1994: le Mutazioni su Tre
Temi Noti (da Mozart, Chopin e Stravinskij) sono indubbiamente le pagine più tradizionali di
questo suo repertorio; in esse il compositore
pare voler dimostrare quanto, con gesto leggero, si possa trattare materiale tematico celeberrimo senza stravolgerne necessariamente il portato, ma, scivolando su di un terreno più mo-
bile e personale, illuminarlo con garbo di luce
diversa.15 Proprio questo riuscito sforzo di variare un poco la natura di questi tre brani rispetto ai precedenti, mantenendo al contempo
con quelli una palpabile coerenza di certi procedimenti compositivi, ci ricorda quanto unitario sia stato il percorso di Bettinelli in ventiquattro anni di rapporto con la scrittura chitarristica.
12. a)
12. b)
12. c)
Tavola 12. Mutazioni su tre temi noti, ed. Suvini Zerboni, 1996. a) I. su “La ci darem la mano” dal Don Giovanni
di Mozart; II. su Notturno op. 9 n. 3 di Chopin; c) III: su Piccolo valzer da Petrouschka di Stravinskij
15. Alfonso Baschiera, revisore del brano che è contenuto nell’antologia La chitarra oggi, 19 novembre
2010: “quando feci l’antologia mi recai due volte a casa di Bettinelli a Milano; gli proposi di scrivere dei brani semplici, adatti a ragazzi dal 3° al 5° anno di studi,
brani dove ci fosse sia la presenza di un tema cono-
sciuto, sia l’intervento di un compositore moderno, con
il suo specifico linguaggio” [...] “Le Mutazioni sono concepite come la presentazione di un linguaggio originale attraverso la presenza di un tema noto che, via via,
si rimodella in una nuova scrittura”
25
HEITOR VILLA-LOBOS:
LE OPERE PERDUTE
speculazioni e considerazioni
di Andrea Bissoli
C
irca un anno fa ci siamo imbattuti nel manoscritto di un frammento per chitarra intitolato Valsa, composto da Villa-Lobos in data
non precisata e rimasto nella casa della prima
moglie, Lucília Guimarães, fino al 1996. In quell’anno, infatti, una donazione della famiglia Guimarães
lo ha reso al Museu Villa-Lobos, mettendolo a
disposizione di interpreti, curiosi e appassionati
esegeti.1
Al momento del suo ritrovamento il brano non
figurava in alcun catalogo, ma alcune circostanze hanno fatto sì che questo frammento si associasse, nella nostra immaginazione, ad un altro
inedito, andato perduto: la pagina smarrita si
chiamava Valsa sentimental. Alcune insolite coincidenze ci hanno indotti a valutare quest’idea:
forse il brano smarrito e la pagina riscoperta erano in realtà una cosa sola.
Le nostre peregrinazioni ci hanno condotti ad
una visione insolita del rapporto di Villa-Lobos
con la musica scritta. Non ci riferiamo alla leggenda secondo cui aveva rischiato di finire sulla graticola per stenografare i canti degli indios
nella foresta amazzonica: ci riferiamo invece alla realtà di Rio, dei chorões, dell’improvvisazione…
Nel 1975 il Museu Villa-Lobos pubblicò un
saggio del chitarrista brasiliano Turibio Santos,
dal titolo Heitor Villa-Lobos e o violão. Herminio
Bello de Carvalho, poeta e musicologo amico di
Villa-Lobos, aveva contribuito alla realizzazione
compilando il catalogo delle opere chitarristiche
del compositore. L’elenco di Bello de Carvalho
riporta una quantità stupefacente di brani giovanili andati perduti.
La leggerezza e l’originalità della Suite populaire brésilienne riecheggiano nella memoria e
la fantasia si anima sentendo i nomi di queste
composizioni: Panqueca (composta nel 1900,
quando Villa-Lobos aveva tredici anni), Mazurka
em ré maior (19012), Valsa Concerto n. 2 (1904,
dedicata a Miguel Llobet; poi ritrovata 3 ),
Fantasia (1909), Oito dobrados (composti fra il
1909 e il 1912, negli anni della Suite), Canção
brasileira, Dobrado pitoresco, Quadrilha (una
quadrilha, la Quadrilha das moças, aveva reso
celebre il nonno materno, il pianista Antonio
Santos Monteiro) e Tarantela (questi ultimi quattro brani composti nel 1910).
La serie di manoscritti mancanti si interrompe
nel 1911, con il brano Simples: di cui ci è giunta una versione autografa completa. Da quel mo-
* * *
1. Circa le ragioni di una risoluzione tanto tardiva, cfr.
EDUARDO FERNÀNDEZ, Villa-Lobos: New Manuscripts, “Guitar
Review”, Fall 1996, p. 22.
2. Bello de Carvalho, veramente, riporta: Mazurka em
ré maior (1899) e Panqueca (1900). Egli stesso, però,
ci avverte che Villa-Lobos “contribuì a creare confusione, […] affermando che era stata la Panqueca la sua
prima opera. […] Poi rettificò l’informazione”.
Cfr. HERMINIO BELLO DE CARVALHO, Relação das obras
compostas para violão por Heitor Villa-Lobos, in TURIBIO
SANTOS, Heitor Villa-Lobos e o violão, Rio de Janeiro,
Museu Villa-Lobos, 1975, p. 51.
La datazione da noi adottata si basa sull’ultima edizione del catalogo Villa-Lobos, Sua obra, Rio de Janeiro,
Museu Villa-Lobos, 2009.
3. Cfr. EDUARDO FERNÀNDEZ, op. cit., p. 23.
26
mento in poi, per quanto riguarda la produzione per chitarra sola descritta da Bello de
Carvalho, non ci sono più lacune.4
Volgendo lo sguardo alla produzione pianistica di quegli anni, siamo attirati da una curiosa
coincidenza. Anche qui, infatti, Villa-Lobos inizia
a mettere sistematicamente nero su bianco le proprie invenzioni solamente nel 1911, con i brani
Bailado infantil, Tarantela e Valsa lenta. Per
quanto riguarda gli autografi pianistici giunti a
noi integralmente, passiamo da un massimo di
un manoscritto nel 1907 e uno nel 1910,5 a ben
tre stesure complete in un solo anno nel 1911.
Qualcosa, evidentemente, era accaduto.
Villa-Lobos tendeva notoriamente ad annotare
frammenti, idee originali con tanto di luogo e
data dell’intuizione, per poi portarli ad una forma compiuta solo negli anni successivi: la data
riportata nella stesura definitiva, a questo punto, sarebbe stata quella dell’intuizione, anziché
quella del compimento. È possibile, anzi verosimile, che le pièces pianistiche Valsa romântica e Tristorosa siano state ultimate soltanto dopo il 1911, sulla base di abbozzi concepiti, rispettivamente, nel 1907 e nel 1910. Tale visione collimerebbe appieno con la data di pubblicazione della Valsa romântica (pur essendo datata 1907, infatti, fu pubblicata nel 1912) e con
la data della prima esecuzione di Tristorosa (pur
essendo datato 1910, il brano fu eseguito postumo nel 1968 6).
Il 1911, dunque, costituisce una linea di confine tra due diversi modi di considerare la musica scritta: la negligenza totale o la semplice annotazione di un’idea da una parte (prima del
1911); la stesura integrale di ogni singola opera
dall’altra (dal 1911 in poi). Questa circostanza
può essere spiegata alla luce di alcuni cenni biografici.
La sera di Ognissanti del 1912 Villa-Lobos conobbe Lucília Guimarães, eminente pianista,
nonché apprezzata didatta nella città di Rio de
Janeiro. L’incontro era organizzato a casa Guimarães.
Scrive Lucília:
“La serata musicale andò molto bene, fu molto gradevole e, per noi, la chitarra nelle mani
di Villa-Lobos fu un vero successo.
Finita la sua esibizione, Villa-Lobos manifestò
il desiderio di ascoltare il pianoforte e io suonai,
quindi, alcuni brani di Chopin: l’esecuzione mi
parve aver fatto una buona impressione, dal punto di vista tecnico e interpretativo. Villa-Lobos,
però, era a disagio; forse si sentiva umiliato, perché a quel tempo la chitarra non era uno strumento da salotto, per la vera musica, ma uno
strumento popolare, per i chorões e i seresteiros.
Improvvisamente, però, come facendosi coraggio, dichiarò che il suo strumento era il violoncello e chiese di organizzare un incontro, a
casa nostra, per farsi ascoltare con il suo primo
strumento.
4. In realtà Bello de Carvalho fa riferimento anche ad
un sesto Preludio, sulla cui esistenza pare che lo stesso Villa-Lobos alimentasse la leggenda. Sia Angelo Gilardino
che Frédéric Zigante giungono a ritenere, con argomentazioni pertinenti, che questo brano non sia mai esistito; per questo non l’abbiamo inserito nel novero delle partiture smarrite. Cfr.: ANGELO GILARDINO, “Heitor
Villa-Lobos, genio ribelle che divenne maestro e profe-
ta”, in Heitor Villa-Lobos / L’opera per chitarra, a cura
di Angelo Gilardino e Frédéric Zigante, speciale
“Guitart”, n. 13, 2005, p. 22; cfr. FRÉDÉRIC ZIGANTE, H.
Villa-Lobos, Cinq Préludes, Eschig, 2008.
5. Rispettivamente, la Valsa romântica e Tristorosa.
6. Il brano fu eseguito da Arnaldo Estrella in prima
assoluta il 20 novembre 1968, a Rio de Janeiro.
27
Fu fissato un nuovo incontro e si stabilì che
Villa-Lobos avrebbe inviato anticipatamente la
parte pianistica, perché la studiassi e potessi accompagnarlo, il sabato successivo.7
Nel giorno stabilito si ripeté l’audizione, questa volta con Villa-Lobos al violoncello. Altri incontri seguirono. I contatti frequenti, l’affinità artistica e un’attrazione naturale e crescente culminarono nel nostro fidanzamento.
Il 12 novembre 1913 ci sposammo.
[…] Villa (così lo chiamavo) cominciò a comporre le sue prime opere, con tenacia. Poiché
non suonava ancora il pianoforte, ero io che facevo le prime esecuzioni.”8
Lucília Guimarães
L’incontro con Lucília fu un evento fondamentale nella vita del compositore, che vide i
propri sforzi apprezzati da un’interprete riconosciuta, nonché le proprie opere regolarmente
eseguite in pubblico: proprio per questo, probabilmente, dovette compiere lo sforzo di trasferirle sulla carta con una certa regolarità… In
realtà i primi concerti interamente dedicati ai
suoi lavori risalgono al 1915, ma l’intento di dar
vita ad un corpus di opere originali è verosimilmente databile al periodo in cui incontrò
Lucília, la quale riconobbe il suo talento e lo
spronò a cercare un riscontro, a crearsi un pubblico. Non è un caso che la prima opera edita
di Villa-Lobos (Valsa romântica 9) sia stata pubblicata nell’anno del loro incontro, nonostante
fosse stata composta, stando all’indicazione dell’autore, ben cinque anni prima.
L’inflazione di manoscritti integrali nel 1911
può essere dunque spiegata così: nel 1912 VillaLobos incontra Lucília e, dietro suo consiglio,
non solo inizia a portare sistematicamente a
compimento le opere a venire, ma compie la
medesima operazione con le intuizioni più fresche, quelle dell’ultimo anno, cioè quelle scritte
fra il 1911 e il 1912. Questo spiegherebbe il numero di manoscritti autografi datati 1911. Vista
la scarsa propensione, fino ad allora, ad annotare per intero i vari brani, Villa-Lobos avrebbe
potuto ultimare soltanto i lavori ancora vivi nella memoria. A questo punto avrebbe riportato
nel manoscritto la data in cui aveva avuto l’idea,
invece della data in cui l’aveva portata a compimento.
La vita in casa Guimarães giovò anche alle
opere chitarristiche, che da allora furono riportate con costanza.10 Oltre al benefico influsso
sull’attività del compositore, a Lucília Guimarães
dobbiamo la prima esecuzione di molte delle
sue opere pianistiche (solistiche e cameristiche),
nonché la trascrizione per pianoforte solo del
Poema sinfonico Ibericarabe (1914).
La nuova tendenza di Villa-Lobos a concludere i lavori abbozzati ci induce ad una considerazione disincantata sulle opere smarrite: se
non sono state ultimate nel 1912, non erano
7. Sono datate 1910 le prime pagine per cello e pianoforte del compositore: si tratta di trascrizioni da Bach
e Chopin, rispettivamente una fuga dal Clavicembalo
ben temperato e il Preludio in Fa diesis minore. Siamo
tentati a credere che Villa-Lobos aveva chiesto una seconda serata, da dedicare al suo violoncello, con l’ntenzione di eseguire, in quell’occasione, proprio questi brani. Le parti sono andate perdute.
8. LUCILIA GUIMARÃES, Memoirs, in OLDEMAR GUIMARÃES,
DINORAH GUIMARÃES CAMPOS & ALVARO DE OLIVEIRA GUIMARÃES,
Villa-Lobos visto da platéia e na intimidade (1912/1935),
Grafica Editôra Arte Moderna, Rio de Janeiro, 1972, pp.
223-224.
9. Pubblicato dalla casa editrice Casa Vieira Machado
di Rio de Janeiro.
10. Nel caso specifico di Simples, però, dobbiamo notare che la sopravvivenza del manoscritto è da attribuirsi ad una contingenza specifica, estranea all’incontro con Lucília. Infatti, Villa-Lobos mise il brano nero
su bianco per farne dono al chitarrista Eduardo Luiz
Gomes, suo allievo e, stando alla seconda versione del
catalogo Villa-Lobos, Sua obra, dedicatario dell’opera.
Fu proprio la figlia di Luiz Gomes a donare il manoscritto al Museu Villa-Lobos. Cfr. HERMINIO BELLO DE
CARVALHO, op. cit., p. 53.
28
nemmeno state parzialmente annotate al momento
del concepimento. Per i brani del 1911, se anche non fossero stati abbozzati in precedenza,
avrebbe potuto soccorrerlo la memoria. Per la
Valsa romântica e per Tristorosa, concepiti alcuni anni prima, potrebbero averlo aiutato le annotazioni prese in tempo reale, al sopraggiungere delle idee. Per i brani non ultimati, evidentemente, non giunsero in soccorso né la memoria (era passato troppo tempo), né gli abbozzi: verosimilmente le idee compositive non
erano nemmeno state annotate. Scrive Eduardo
Fernàndez: «[Nel 199611] una nipote di Lucília
Guimarães arrivò al Museu Villa-Lobos e disse
al direttore, Turibio Santos: “Abbiamo trovato alcuni manoscritti di Villa-Lobos a casa e vorremmo portarli qui al Museo.” Quando i manoscritti furono consegnati, arrivarono a formare una
pila alta quasi un metro e, logicamente, ci volle del tempo per organizzarli e classificarli».12 La
catalogazione ebbe luogo e portò alla stesura
della quarta e ultima versione del catalogo Villa-
Lobos, Sua obra: delle opere giovanili citate da
Bello de Carvalho davvero nessuna traccia.13
Verosimilmente di quei brani non è mai esistita
una stesura su carta e tale prospettiva è in piena sintonia con le tendenze dei chorões, che
Villa-Lobos frequentò assiduamente.
Villa-Lobos ricorda il 1899 come l’anno in cui
iniziò a comporre: fu l’anno in cui la malattia
portò alla morte il padre Raúl e in cui Heitor
iniziò a frequentare regolarmente i chorões, che
Raúl considerava sconvenienti, immorali. Os sedutores (1899), cançoneta per pianoforte e voce, è la prima composizione di cui Villa-Lobos
avesse memoria; probabilmente era un omaggio
a due grandi del chôro, Joaquim Callado e
Chiquinha Gonzaga: scrissero, rispettivamente, i
brani A sedutora e Seductor.14 È probabile che
proprio quest’aspetto spingesse il compositore
ad associare, nella memoria e nel racconto di
sé, la cançoneta al 1899, anno in cui entrò a
far parte dei chorões: potrebbe aver qui evocato le sue prime impressioni di chorão.
Tra il 1900 e il 1901 Villa-Lobos si dedicò quasi esclusivamente alla chitarra, scrivendo la
Panqueca e la Mazurka em ré maior. Anche
queste due opere, evidentemente, dovevano nascere nell’ambiente dei chorões ed essere intimamente legate, quindi, all’improvvisazione che
ne costituiva la quintessenza.
Ecco spiegato il motivo per cui, nel primo periodo, l’assenza di manoscritti è pressoché totale15. Bello de Carvalho dice che Sátiro Bilhar,
talentuoso chitarrista dei chorões, “era un elemento fondamentale e, per molto tempo, rappresentò un’incognita per gli studiosi di questo
genere musicale. Perché così importante? Perché
11. N.d.a.
12. EDUARDO FERNÀNDEZ, op. cit., p. 22.
13. Eccezion fatta per la Valsa Concerto n. 2. Cfr. nota 2.
14. Joaquim Antônio da Silva Callado junior, padre
del chôro, scrisse la polka A sedutora. Francisca
Hedwiges Gonzaga, amica e compagna di chôro di
Callado, rispose con il tango Seductor.
15. L’unico brano che ci è pervenuto di quegli anni
è Dime perché di cui Villa-Lobos, al momento della stesura autografa del proprio catalogo, non ricordava bene né il titolo, né l’autore del testo.
29
così celebrato, se non rimane quasi nulla delle
sue composizioni? Mozart de Araujo fece questa
domanda a Villa-Lobos, che gli diede la stessa
risposta che Donga aveva dato a me: non era
quel che suonava, ma come suonava. […] Come
compositore aveva tre o quattro musiche solamente e, come si dice, con esse fazia a festa.
A seconda dell’ambiente in cui suonava, eseguiva queste musiche in maniera differente, rendendole classiche o popolari. Così un chôro diventava un preludio, una sonata o uno studio.
E quale fantasia nell’improvvisare!”.16
Potremmo, in sintesi, avanzare l’ipotesi secondo
la quale gran parte della prima produzione di
Villa-Lobos condividesse con i chôros, oltre allo
stile e all’ispirazione, anche la tendenza a considerare le composizioni una sorta di standard
jazzistici ante-litteram. Poteva trattarsi di semplici melodie armonizzate, che non era necessario annotare, perché erano brevi e rimanevano vive nella memoria attraverso la pratica: una
sera si eseguiva un chôro di Sátiro e un’altra sera la Mazurka di Villa, probabilmente la prima
Mazurka-chôro che avesse composto.
Dobbiamo tuttavia considerare, a questo punto, un elemento che potrebbe turbare questa nostra prospettiva. La donazione della famiglia
Guimarães, a metà degli anni Novanta, mise a
disposizione del Museu Villa-Lobos un manoscritto autografo della Valsa-Concerto n. 2.
Nonostante il manoscritto sia incompleto, incontriamo un Andante introduttivo, un primo tema in Mi maggiore (tempo di valzer brillante),
una modulazione al quarto grado, un secondo
tema, una modulazione a La minore e l’inizio di
un nuovo tema: qui il manoscritto si interrompe. Una tale solerzia davvero non si addice al
chorão di quegli anni. Per quale ragione avrebbe annotato una composizione chitarristica quasi per intero?
La risposta potrebbe essere: per consegnarla
a Miguel Llobet.
Bello de Carvalho riporta a questo riguardo
una testimonianza dello stesso Villa-Lobos, che
dice:
16. TURIBIO SANTOS, Heitor Villa-Lobos e o violão, Rio
de Janeiro, Museu Villa-Lobos, 1975, p. 7.
17. TURIBIO SANTOS, op. cit., p. 11.
Villa-Lobos parlò dell’incontro con Llobet anche in occasione di un’intervista per la “Guitar Review”. Il compositore rimarcava l’importanza che l’influenza del vir-
tuoso catalano ebbe per la conoscenza di una chitarra
diversa, non necessariamente legata allo stile ritmico e
staccato della musica popolare brasiliana, ma che ambisse alla purezza e all’espressività del tocco.
Cfr. RALPH J. GLADSTONE, An Interview with Heitor VillaLobos, “Guitar Review”, n. 21, 1957, p. 13.
“Incontrai Segovia nel 1923 o nel 1924, non
ricordo bene. Fu a casa di Olga de Moraes
Sarmento Nobre; c’erano tutti quella sera. Notai
un ragazzo dall’acconciatura esuberante, circondato di donne. Più che simpatico, mi sembrò
volgare e pretenzioso. Costa, il violinista portoghese, chiese a Segovia se conosceva VillaLobos, ma senza dirgli che ero lì. Segovia disse che Miguel Llobet, chitarrista spagnolo, gli
aveva parlato di me e gli aveva presentato alcuni miei lavori. Io avevo scritto una ValsaConcerto per Llobet. Purtroppo la parte è andata perduta”.17
Proprio la necessità di offrire la parte al chitarrista potrebbe avere indotto il compositore a
fare un’eccezione, davvero l’unica, prima del 1911.
La Valsa è datata 1904, mentre l’incontro fra i
due potrebbe essere avvenuto alcuni anni più
tardi, in occasione delle prime tournées sudamericane di Llobet: secondo la logica consueta,
Villa-Lobos potrebbe aver concepito e annotato
il brano nel 1904 e averlo “scritto” (in senso letterale) per il chitarrista catalano soltanto in seguito.
In sintesi, prima del 1912 Villa-Lobos ha riportato sulla carta pochissimo, solo il necessario; si è quindi risparmiato la fatica di mettere
nero su bianco i morceaux per pianoforte e per
chitarra. Sono giunti sino a noi, oltre a Simples
e alla Valsa-Concerto n. 2, ai due brani pianistici citati e alle opere datate 1911 (ma verosimilmente annotate per intero solo nel 1912),
due canções per voce e pianoforte (Dime perché, Confidência) e la Fantasia característica
Cânticos sertanejos. Non ci stupirebbe se quest’ultimo brano, scritto nel 1907 per flauto, clarinetto e archi, della durata di tre minuti, coin-
30
tiva, una piccola consolazione ci è data dal ritrovamento, nel voluminoso labirinto della donazione Guimarães, di un frammento intitolato
Valsa. Le condizioni del manoscritto, un foglio
di 15,5 x 25 cm, sono travagliate, ma non al
punto di minarne la leggibilità. Si tratta di trentadue battute, disposte in quattro righi di otto
battute ciascuno. La scrittura è inconfondibile: la
pagina è autografa.
cidesse con il brano Recouli, scritto nel 1908
per flauto, clarinetto e archi, della durata di tre
minuti, di cui non si trova traccia. Quest’ultimo,
infatti, fu eseguito il 26 aprile del 1908 per gli
studenti di Paraná, sotto la direzione del compositore. Villa-Lobos, com’era sua consuetudine,
potrebbe aver messo la musica nero su bianco
soltanto in vista dell’esecuzione pubblica, scegliendo un titolo ad hoc.18
Al delinearsi di una tale disincantata prospet-
Valsa, incipit. Copyright © Villa-Lobos (Academia Brasileira de Música), cortesia del Museu Villa-Lobos
Il frammento, della durata di un minuto circa, è privo di dedica; il tono espressivo, in queste poche righe, indulge ad un lirismo pungente ed appassionato. Astraendo questi dati essenziali, l’immagine del brano che ne risulta
coincide stranamente con le notizie che abbiamo di un altro manoscritto, la Valsa sentimen-
tal, andata perduta. L’esistenza del brano è riportata per la prima volta in una copia del catalogo Villa-Lobos, Sua obra, conservata al
Museu Villa-Lobos di Rio de Janeiro. La descrizione del brano è aggiunta alla stampa tramite
un’inserzione in penna: la parte smarrita era priva di dedica e durava circa un minuto.
Museu Villa-Lobos: Villa-Lobos, Sua obra, seconda edizione (1972), l’inserzione in penna relativa alla
Valsa sentimental
Museu Villa-Lobos: la prima versione del catalogo (1965), priva dell’aggiunta manoscritta
18. Il titolo Recouli assomiglia molto alla parola “recolhi”, che in portoghese significa “raccolsi”: Cânticos
sertanejos era, infatti, una raccolta di tre melodie tipiche.
31
La grafia dell’inserzione in penna è incerta,
ma sappiamo che fu Arminda Neves d’Almeida,
seconda moglie del compositore,19 a curare la
stesura del catalogo. Mindinha fu direttrice del
Museu dal 1960 al 1985 e, verosimilmente, le
notizie sulla Valsa sentimental sono da attribuire a lei. È curioso notare come sia riuscita a datare il brano pur non avendo a disposizione alcun manoscritto. Lei e il marito erano inseparabili e, comprensibilmente, non esiste traccia di
una loro corrispondenza; dunque non poteva aver
attinto le informazioni da una lettera del marito. Il primo segno dell’esistenza del brano coincide proprio con l’inserzione in penna nel catalogo e Arminda, dunque, non può aver attinto
che alla propria memoria. Siamo tentati di credere che abbia datato questo frammento in base ad un preciso riferimento biografico. Dell’accadimento, risalente al 1936, ci è giunta una testimonianza diretta.
Il 28 maggio 1936 il compositore scrisse a
Lucília:
caduto, se non la scomparsa di ogni traccia dei
sentimenti che provavi per me. […] Hai detto
che tutto ciò che ti lega a me è un senso di
gratitudine per la mia lealtà: posso dirti con orgoglio che in tal senso non ho debiti verso di
te. Se ultimamente non ho condiviso le tue gioie
e le tue tristezze, è semplicemente perché non
mi hai dato l’opportunità di farlo. […] Quindi,
Villa, sono pronta ad affidarmi alla volontà di
Dio, ma, almeno per soddisfare la mia coscienza, continuerò ad aspettare di sentire da te le
tue ragioni o la tua ultima parola.”20
“Villa, […] non è necessario che io commenti la tua oltraggiosa e assurda decisione. […] Non
trovo altro punto di partenza per spiegarmi l’ac-
Fu un un duro colpo per Lucília e Villa-Lobos,
dal canto suo, nel 1936 compose pochissimo. La
Valsa sentimental potrebbe essere rimasta, nella
memoria di Arminda, indissolubilmente legata agli
avvenimenti di allora, ai segni che gli eventi lasciarono nella vita di ognuno. Potrebbe trattarsi
di uno degli ultimi brani composti da Villa-Lobos
nella convivenza con la prima moglie: in tal caso la parte potrebbe essere rimasta nella vecchia
casa… Questo ulteriore elemento ci ha indotti
ad accarezzare un’ipotesi: è possibile che la
Valsa della donazione Guimarães sia proprio la
Valsa sentimental ricordata da Arminda. La Valsa
Guimarães, infatti, essendo rimasta nella casa in
cui Villa-Lobos aveva vissuto con la prima moglie, non può essere stata composta più tardi
del 1936, quando si lasciarono. Il 1936, però, è
anche l’anno in cui, secondo Arminda, Villa-Lobos
aveva scritto la Valsa sentimental che lei non
riusciva a trovare. Se davvero le due pagine
coincidessero, quindi, non spiegheremmo soltanto
la presenza della Valsa sentimental nel catalogo
curato da Mindinha, ma anche l’assenza, nello
stesso catalogo, della Valsa rinvenuta nel ‘96.
19. “Lei e Villa-Lobos non poterono sposarsi, perché
Lucília morì sei anni e mezzo dopo il marito [nel 1966,
n.d.a.] e in Brasile il divorzio fu introdotto nel 1977.
Molto più tardi Arminda cambiò il suo nome in Arminda
Villa-Lobos e divenne, a tutti gli effetti, la seconda
Signora Villa-Lobos.” LISA MARGOT PEPPERCORN, The World
of Villa-Lobos in Pictures and Documents, Scolar Press,
Aldershot, 1996, p. 163.
20. Lettera di Lucília Villa-Lobos al marito del 14 giugno 1936. Per la corrispondenza epistolare cfr. LISA MARGOT
PEPPERCORN, The Villa-Lobos Letters, Toccata Press, London,
1994, pp. 56-59.
“Lucília,
ho intrapreso questo viaggio di tre mesi in
Europa soprattutto per decidere della mia vita privata, una volta per tutte, più che per ottemperare ai miei doveri di delegato dell’International
Congress of Musical Education. […] Non posso
vivere in compagnia di qualcuno a cui mi sento
totalmente estraneo, da cui mi sento isolato, costretto, in breve senza provare alcun sentimento
se non una certa gratitudine per la tua lealtà in
tutti questi anni che hai vissuto con me.
Proclamo la nostra assoluta libertà. […] Manderò
una persona fidata a ritirare le mie cose”.
La risposta di Lucília è composta e decisa:
32
La Valsa Guimarães ricorda, sotto il profilo stilistico, la Suite populaire brésilienne. Se effettivamente coincidesse con la Valsa sentimental,
però, sarebbe databile 1936, quindi risalirebbe
ad un periodo di molto posteriore a quello in
cui fu scritta la Suite.
Potremmo allora leggere nella linearità formale di questo frammento un segno premonitore
dei Cinq Préludes. In particolare, la scrittura della Valsa ricorda quella del Prélude n. 5, pregnante memoria delle sere nella Rio del primo
Novecento. Notiamo per inciso che, se riorganizzassimo la prima pagina del Prélude n. 5, suddividendo ciascuna battuta da 6/4 in due battute uguali da 3/4, otterremmo un brano in 3/4
della lunghezza di trentadue battute, cioè esattamente delle stesse proporzioni della Valsa.
Questo frammento, insomma, costituisce verosi-
milmente il refrain di un’opera più ampia rimasta incompiuta: un rondò nello stile della
Suite, oppure una forma ternaria premonitrice
dei Cinq Préludes.
Naturalmente le nostre sono e rimangono delle ipotesi, ma hanno suscitato su di noi un tale fascino da spingerci a condividerle con i lettori. Non intendiamo imporle come scientificamente provate, ma semplicemente contribuire ad
una ricerca non ancora conclusa: l’esplorazione
del cosmo villalobossiano, dell’ammaliante inventiva di questo “indio bianco”, come Villa-Lobos
amava definirsi. Intendiamo il nostro lavoro come una base dalla quale muovere alla ricerca
dei tasselli mancanti per salvare il salvabile delle belle invenzioni di questo artista, consolandoci dell’impossibilità di attingere alle fantasie
della sua giovinezza.
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33
LO
LA
STILE CLASSICO.
FORMA-SONATA E I CHITARRISTI DELL’OTTOCENTO
di Marco Riboni
Prima parte
I
n questo articolo esamineremo in quale maniera i chitarristi della prima metà dell’Ottocento
si siano rapportati con la forma principe dello
stile classico: la forma-sonata. L’argomento o,
meglio, la sua definizione è particolarmente
complessa e quindi necessita di alcune premesse, dapprima di ordine generale e poi via via
sempre più focalizzate sull’oggetto del nostro
studio: vi sono infatti da chiarire alcune questioni di primaria importanza e tutt’altro che
scontate.
di consumo), da un ideale di sobrietà, compostezza, buon gusto, esattezza ed equilibrio delle proporzioni (la forma classica, il genere classico, l’architettura classica) all’idea di un modello di riferimento esatto, normativo, da imitare,
ricreare e riproporre, spesso con forti connotazioni tradizionaliste e accademiche (ad esempio
lo stile neoclassico). Tra tutti questi intendimenti (ma spesso anche fraintendimenti), l’aspetto
normativo e di modello codificato che ha assunto il significato più rilevante è forse proprio
quello della musica (con ogni probabilità la disciplina artistica con il maggiore apparato normativo), tanto che ha finito per indicare un’epoca storica e stilistica di riferimento: quella vissuta a cavallo fra XVIII e XIX secolo. Per questa ragione, nel linguaggio comune l’aggettivo è
stato addirittura sostantivato ed ecco così che ormai tradizionalmente si parla di “classicismo” e,
in particolare, di “classicismo viennese”. Ma a
questo punto le cose anziché chiarirsi e semplificarsi, come sembrerebbe in apparenza, si
complicano ulteriormente e necessitano di una
seconda premessa.
La definizione precisa e appropriata di un’epoca stilistica di ampio respiro (stile barocco, stile
galante, stile classico, stile romantico, ecc.) è infatti da sempre un arduo e insidioso banco di
prova per gli studiosi. Uno dei problemi che subito si pone consiste nel fatto che non sempre
le aree artistico-estetiche sono pienamente sovrapponibili a quelle storico-cronologiche, mentre invece assai di frequente le coordinate delle
due categorie di giudizio sono fra loro confuse.
Per entrare nel vivo del nostro argomento, le
istanze stilistiche che caratterizzano l’età classica
PREMESSA
Cominciamo con l’affrontare la problematica
relativa al termine “classico”, una sorta di vexata quaestio annosa e non certo indenne da insidiosi fraintendimenti. Questo aggettivo è usato
spessissimo nell’ambito delle materie umanistiche ma sovente con un’accezione di spiccata genericità e con significati non sempre ben precisi e definiti: si parla infatti di musica classica e
di arte classica, di studi classici e di materie classiche, di stile classico e di forme classiche, di
genere classico e di moda classica e via dicendo. Si passa da un senso di antica civiltà artistica quasi idealizzata (l’arte della Grecia classica) all’idea di un’epoca storica del passato (il
periodo classico, l’età classica), da un concetto
di tradizione, conservazione e accademia (gli studi classici, lo stile classico appunto) contrapposto a quello di innovazione, contemporaneità e
rottura con la tradizione, dalla concezione di seriosità, cultura e passato (la musica classica o
cosiddetta “colta”) opposta a quella di giovanilità, facilità e accessibilità (la musica leggera o
34
tradizionalmente intesa – all’incirca dal 1770 al
1830, cioè dall’esperienza di Gluck e Mozart sino a Beethoven – non sono racchiuse e totalmente esaurite in quell’unico lasso di tempo ma
anzi si protraggono con profonda influenza anche nelle epoche successive. A questo proposito,
è impossibile scindere l’operato della triade classica Haydn-Mozart-Beethoven da Schumann,
Mendelssohn, Liszt, Brahms e gli altri romantici
ma anche, avvicinandoci alla nostra epoca, dall’esperienza neoclassica (ed è quasi una tautologia) vissuta nella prima metà del Novecento dai vari
Casella, Stravinskij, Hindemith, ecc. (con Castelnuovo-Tedesco e Rebay per la chitarra).1 D’altra
parte, alla stessa maniera precise peculiarità dello stile galante e addirittura di quello barocco sopravvivono e s’innestano senza soluzione di continuità in quello classico (basti pensare alla pratica del contrappunto o del basso albertino).
Insomma, la diatriba del primato metodologico fra
storia ed estetica è sempre insidiosamente aperta2 e se è vero che dal punto di vista diacronico non si può pensare che le epoche storiche
marcino disciplinatamente in fila indiana senza lasciare alcuna influenza l’una sull’altra (per dirla
con Dahlhaus3), è ancor più vero che da quello
sincronico non si può concepire che il periodo
classico coincida tout court con lo stile classico.
Chiarite le differenze fra ambito storico ed
estetico (per quanto non sempre sia semplice o
possibile tracciare una netta linea di demarcazione fra i due), possiamo ora affermare che la
nostra indagine sullo stile classico si svolgerà
principalmente nel secondo settore. Tale scelta,
tuttavia, da sola non basta ancora a risolvere tutte le questioni epistemologiche della ricerca,
giacché in campo rimangono altri aspetti da puntualizzare prima di entrare nel vivo del nostro
argomento e quindi è necessaria una terza e ultima premessa.
Dicevamo sopra che in ambito musicale, tradizionalmente, lo stile classico è stato inteso come
“classicismo”. Quest’ultimo, sempre secondo la stessa tradizione e con un passaggio tanto automatico quanto cruciale, divenne repentinamente “classicismo viennese” e come tale viene ormai accettato e considerato da almeno un secolo e mezzo a questa parte, ossia dalla nascita in terra tedesca delle discipline musicologiche. Ed è proprio questo il punto nodale di una questione che,
pur non potendo ovviamente in questa sede essere affrontata in maniera approfondita per la sua
complessità (e sulla quale il dibattito musicologico è ancora serrato), merita tuttavia un breve accenno in quanto inerente all’argomento del nostro articolo. La storiografia musicale tradizionale
ha infatti sempre privilegiato la componente austro-tedesca all’interno della caleidoscopica realtà
musicale europea a cavallo fra Sette e Ottocento,
considerandola come visione unica, centripeta e
autoreferenziale rispetto agli ambienti artistici delle altre capitali europee, visti come dimensioni
marginali, satellitari e comunque secondarie rispetto al cuore culturale della mitteleuropa.4 A
volte, le tendenze “non-viennesi” sono state addirittura lette e giudicate in maniera negativa in
1. È tuttavia opportuno precisare che l’approccio neoclassico non fu certo lo stesso per tutti gli autori citati:
c’è chi riprende il modello classico come risposta agli
eccessi romantici e lo ricrea solo dal punto di vista formale, usandolo cioè come un sorta di guscio esterno
da riempire con altre tematiche (Stravinskij), chi invece
(Castelnuovo-Tedesco e Rebay) adotta e crede in questo modello in tutto e per tutto, non solo nell’aspetto
formale, ma anche e soprattutto in quello sostanziale
creando così una sorta di modello al quadrato (modello del modello).
2. Si veda sull’argomento il denso scritto di CARL DAHLAUS
Fondamenti di storiografia musicale, Fiesole, Discanto,
1980 nel quale in più punti (cfr. in particolare le pp.
23, 151, 154, 159 e 160) si spiega approfonditamente
come il concetto di storia della musica cambi radicalmente se concepito come “storia della musica”, ossia
con il primato della storia che spiega e giustifica l’arte
musicale o, al contrario, come “storia della musica”, dove invece è l’arte musicale la chiave interpretativa dei
procedimenti storici.
3. Ancora di Dahlaus cfr. Storia europea della musica nell’età del classicismo viennese, in “Nuova Rivista
Musicale Italiana”, Torino, ERI, 1978, n. 4, p. 501.
4. Il profondo senso di superiorità – anzi, un vero e
proprio complesso – della musica tedesca sopra quello
delle altre nazioni già emerge a chiare lettere nei numerosissimi scritti di Robert Schumann sulla “Neue
Zeitschrift für Musik”, la rivista da lui fondata nel 1834
che segnò la nascita della critica musicale professionale e che influenzò profondamente la cultura tedesca (e
non solo). Va inoltre ricordato che la ricerca musicologica nacque in quegli anni proprio in Germania e quindi è facile comprendere come la concezione germanocentrica abbia decisamente condizionato la storiografia
musicale.
35
quanto centrifughe, discordanti e devianti da un
modello chiaramente codificato e dalla normativa
esatta. Se quindi l’accezione di “classicismo” risulta fortemente ambigua quando si riferisce genericamente allo stile classico (per le questioni
storiche ed estetiche di cui sopra), ancora più forzoso è rubricare sotto la sola etichetta di “classicismo viennese” tutti i fermenti e le tendenze che
animarono la meravigliosa e insuperata civiltà musicale dell’età di Mozart e Beethoven. Pare quindi più opportuno, utile e funzionale parlare di diversi classicismi invece che di uno solo e viennese. Pensiamo all’opera ma anche alla scuola
strumentale italiana (che non visse solo nell’epoca dei Lumi ma proseguì sino a Ottocento inoltrato), agli ambienti di Londra, di Parigi, della
Germania settentrionale e della Spagna (e subito
vengono in mente le fondamentali esperienze a
Madrid di Scarlatti prima e Boccherini dopo): ognuno di questi ambiti può infatti assurgere (e di fatto assurse) a modello normativo. Per concludere:
la civiltà musicale del periodo classico nel suo
splendente fulgore diede vita a diversi stili classici e se è indubbio che quello viennese fu importantissimo (se non dominante), è altrettanto
vero che esso di certo non racchiuse in sé tutte
le varie tendenze stilistiche – classiche a loro volta – della medesima epoca.5
Identificate quindi tutte le varie insidie che si
celano dietro la definizione di “stile classico”,
possiamo ora dedicarci alla nostra indagine e finalmente indicarne l’ambito preciso tracciandone con chiarezza l’area di competenza e i confini senza rischio di ambiguità e fraintendimenti: la relazione dei chitarristi con lo stile classico viennese, ossia il loro personale approccio
con la forma-sonata nei vari tipi di composizioni.
La forma-sonata fu infatti la forma principe
dello stile classico viennese e la struttura compositiva predominante nel periodo classico. Se il
grande musicologo tedesco Hugo Riemann fu
geniale nel definire il barocco come l’età del
basso continuo,6 molto meno genialmente e ben
più banalmente si potrebbe essere tentati di qualificare lo stile classico come l’età della formasonata, vista la disarmante ovvietà dell’assunto.
Essa infatti venne impiegata nel movimento di
apertura di tutte le opere strumentali che ambivano a una caratura artistica elevata (e che quindi presentavano una campata strutturale di ampio respiro) quali la sonata per pianoforte (e in
duo con il violino), il concerto, la sinfonia, il
quartetto e gli altri organici cameristici. Il suo
modello di riferimento tradizionale – che però
in realtà divenne consciamente normativo e codificato solo a Ottocento inoltrato – consiste,
com’è noto, nella forma tripartita di esposizione, sviluppo, ripresa e nel bitematismo dell’esposizione e della ripresa.
Il suo fondamento risiede nella concezione organica e unitaria della composizione musicale,
nella quale la coerenza e la solidità formali sono garantite da una parte dalla strettissima relazione fra la struttura tematica e la struttura tonale, dall’altra dalla profonda concezione dell’elaborazione motivico-tematica. Prevale quindi la logica dialettica, drammatica, organico-strutturale della forma musicale. Le frasi musicali sono organizzate sintatticamente nel periodo e trovano la
loro ragion d’essere l’una nell’altra e nella loro
reciproca connessione.7 Vedremo tuttavia come
5. L’esponente più illustre della visione musicologica austro-tedesca è CHARLES ROSEN del quale, fra i suoi
numerosi e importanti scritti, bisogna ricordare due testi fondamentali: Le forme-sonata, Milano, Feltrinelli,
1986 e Lo stile classico, Milano, Feltrinelli, 3ª ed, 1989.
L’impostazione metodologica dei due libri è eccellente per inquadrare e comprendere le peculiarità storico-stilistiche del classicismo viennese tradizionalmente
inteso, ma risulta profondamente penalizzante per tutto quanto ne è marginale o estraneo: caso clamoroso
è quello di Luigi Boccherini (con Vivaldi il maggiore
sinfonista italiano nonché uno dei più grandi strumentalisti del nostro Paese), pressoché ignorato dallo
studioso americano. Un quadro invece molto più am-
pio sul ben più variegato universo dello stile e del periodo classico si può trovare in LEONARD G. RATNER,
Classic Music. Expression, Form and Style, New York,
Schirmer, 1980.
6. Cfr. MANFRED BUKOFZER, La musica nell’età barocca,
Milano, Rusconi, 1982, p. 15.
7. Questa affascinante concezione, profondamente logica e razionale, a prescindere dai soliti luoghi comuni
è chiaramente figlia del pensiero e della mentalità al
nord delle Alpi. Vedremo invece come una visione opposta – ossia paratattica, con frasi paradigmatiche e
quindi con senso autonomo e indipendente le une dalle altre – sarà assai differente ma parimenti affascinante nei musicisti italiani (Giuliani su tutti).
36
molte saranno le deroghe e le licenze che i chitarristi (ma non solo loro) si prenderanno nei
confronti di questo schema.8
La forma-sonata sarà dunque il nostro banco
di prova per constatare quale fu l’atteggiamento dei chitarristi nei confronti dello stile classico, come una sorta di cartina di tornasole non
solo per misurare il loro grado di partecipazione alle peculiarità stilistiche del linguaggio dominante di quel periodo, ma anche per evidenziare le caratteristiche musicali che proprio di
questo linguaggio più interessavano a ciascuno
di loro. Divideremo i chitarristi in gruppi a seconda delle aree geografiche di appartenenza,
proprio per verificare le tendenze stilistiche comuni a seconda delle differenti tradizioni musicali.9
Salvo sporadiche occasioni, nella nostra analisi delle sonate per chitarra sola10 verrà preso
in esame dettagliatamente solo il primo tempo,
proprio perché è il movimento nel quale viene
applicata da tutti la forma-sonata e quindi permette di distinguere i diversi atteggiamenti.
La struttura generale, d’altra parte, è comune
a tutti gli autori: i canonici tre o quattro movi-
menti, al cui interno dopo il primo tempo (a
volte preceduto da un’introduzione lenta) vi è
solitamente un adagio e/o un minuetto con trio
cui segue un rondò conclusivo (spesso in forma di rondò-sonata), più raramente un tema con
variazioni.
Ovviamente, per evidenti ragioni di praticità
non analizzeremo nel dettaglio tutte le composizioni nelle quali compare la forma-sonata ma
solamente le opere più note o significative, sforzandoci di cogliere caratteristiche personali e
tendenze di fondo.
Riguardo a questo inevitabile sfoltimento, va
decisamente ridimensionato il luogo comune che
vedrebbe i chitarristi della prima metà dell’Ottocento
ben poco inclini alla composizione di sonate o
di brani in forma-sonata: sono decine le opere
che abbiamo analizzato e basta l’esempio del solo Wenzeslaus Matiegka (nel cui catalogo compaiono ben tredici sonate) per dissipare ogni
dubbio. Se poi, come detto in nota, si prendessero in considerazione anche i concerti e i brani cameristici con ogni probabilità l’unità di misura non sarebbe più a due bensì a tre cifre.
Non altrettanto si può dire per i chitarristi compositori del successivo periodo romantico (la triade Mertz-Coste-Regondi, gli altri a nostro parere
non sono da prendere in considerazione) che
non presentano nella loro produzione esempi di
sonate o forme-sonata: un dato che dovrebbe far
riflettere su come la chitarra dagli anni Quaranta
in poi fosse ormai uscita dai linguaggi musicali
dominanti (nei quali la forma-sonata continuò a
vivere pur dilatandosi e trasformandosi radicalmente) e stesse già ripiegandosi su se stessa.
8. Assai intelligentemente Rosen intitola il suo libro al
plurale, Le forme-sonata (“Sonata Forms”), proprio per
evidenziare le molteplici varianti di questa forma compositiva.
9. Preferiamo parlare di “tradizioni” perché ci sembra
un termine più elastico e meno tecnico-specialistico di
“scuole” che, se e dove ci furono, si formarono in un
momento successivo: infatti, se è oggi possibile identificare, ad esempio, una scuola spagnola assai differente da quella italiana, questo è per quanto avvenne dopo la nascita e la formazione di una tradizione chitarristica nella prima metà dell’Ottocento e nelle varie nazioni. Com’è ovvio, l’aspetto didattico e normativo può
crearsi solo dopo un certo tempo dalla formazione della disciplina artistica e la pratica esecutivo-compositiva
sulla neonata chitarra esacorde era ai sui albori nei primi decenni del XIX secolo.
10. La forma-sonata nel primo tempo è quasi sempre
presente nei concerti per chitarra e orchestra e nel vastissimo repertorio cameristico, generi che invece non
prenderemo in considerazione sia per non dilatare a dismisura il campo della ricerca, sia perché l’orchestrazione e la concertazione influenzano pesantemente le
modalità di scrittura e gli stili espressivi. Troppe le differenze con il repertorio solistico, impossibile quindi
creare paragoni e modelli funzionali anche perché molti autori che eccelsero nella musica da camera spesso
nelle opere per chitarra sola non andarono oltre una
grigia mediocrità. Non è escluso che questo possa diventare l’argomento di un prossimo articolo.
Haydn, Mozart, Beethoven
37
cale dal padre e si trasferì a Vienna dove trascorse quasi tutta la sua vita. Nonostante la predisposizione e le qualità, come la grande maggioranza dei suoi colleghi chitarristi, trovò impiego nella pubblica amministrazione. La ricerca
storica, la composizione e la collezione di partiture furono le sue grandi passioni che coltivò
sino alla morte.13 Molitor oggi è ancora un personaggio quasi sconosciuto, come d’altra parte
le sue opere. In realtà proprio per la sua produzione sonatistica meriterebbe qualche attenzione in più, soprattutto alla luce dell’influenza
che in questo genere compositivo proiettò sui
suoi più illustri successori in terra viennese (fra
i quali anche Giuliani).
Per chitarra sola ha lasciato quattro sonate: la
considerevole Grosse Sonate op. 7 e le opp. 11,
12 e 15. L’op. 7, in La minore, è indubbiamente
la più importante di Molitor ed è emblematica
dello stile sonatistico viennese applicato alla chitarra. Merita quindi particolare attenzione, tanto
più che lo stesso Molitor, consapevole di consegnare alle stampe un’opera ambiziosa e dal
carattere volutamente normativo, le dedicò una
lunga introduzione e numerose note esplicative
in calce a quasi tutte le pagine riguardo alla
modalità esecutiva di alcuni passaggi.
L’AREA AUSTRO-TEDESCA: MOLITOR, MATIEGKA,
DIABELLI.
Molitor e Matiegka
La nostra indagine non può che iniziare nella patria della forma-sonata, in particolare nella
città dove tale forma si innalzò a livelli insuperati di civiltà musicale: Vienna. Diverse sono le
fonti che testimoniano la notevole diffusione della chitarra nella capitale dell’impero asburgico
ancor prima dell’arrivo di Giuliani nel 1806.11 La
qualità della produzione dei compositori chitarristi non rispecchiò, è ovvio, quella delle opere
degli straordinari protagonisti che vissero in
quell’epoca irripetibile; di certo comunque ne riprese – almeno in parte – le tendenze stilistiche. Ecco così che alcuni chitarristi, particolarmente sensibili, colti e pienamente inseriti nel
formidabile ambiente musicale viennese, fecero
tesoro della lezione dei grandi maestri e, rendendosi pienamente conto del valore e dell’importanza dello stile classico,12 si sforzarono di ricreare sulle sei corde la sua forma principe.
Tra loro, per anzianità bisogna cominciare ad
occuparsi del tedesco del Württemberg Simon
Molitor (Neckarsulm, 1768-Vienna, 1848). Figura
di grande erudizione, ebbe la formazione musi-
Il titolo dell’op. 7 di Molitor come appare all’inizio della voluminosa prefazione
11. Basti almeno citare l’ormai famosa prefazione di
SIMON MOLITOR e R. Klinger (pseudonimo di WILHELM
KLINGENBRUNNER) al Versuch einer vollständingen methodischen Anleitung zum Guitare-spielen, Vienna, Chemischen
Drucherey, 1812.
12. La moderna musicologia austriaca ha dimostrato
che i contemporanei si rendevano perfettamente conto
che la loro città stava vivendo un periodo magico e irripetibile della storia della musica. Cfr. in particolare
ANTONICEK, THEOPHIL Vienna, IV: 1740-1830, in The New
Grove Dictionary of Music, London, Macmillan, 1980,
vol. 19, p. 722.
13. Per nformazioni su Molitor cfr. FRANCESCO GORIO,
Simon Molitor, in “il Fronimo”, 1984, n. 46, pp. 34-44.
38
La Grosse Sonate è un’ampia composizione articolata in quattro movimenti: Adagio introduttivo cui si aggancia un Agitato ma non troppo
Allegro, quindi un elegante Andante, poi un
classico Minuetto e Trio e infine un esteso
Rondò. L’Adagio (Es. 1) con il suo tipico ritmo
puntato d’apertura richiama molto l’introduzione
della Grande Ouverture op. 61 di Giuliani (e
non sarà questo l’unico punto di contatto con
lo stile del grande pugliese, come vedremo), tra
l’altro con l’impiego degli stessi accordi cromatici di sesta cadenzanti sulla dominante:
Es. 1, bb. 1-17
Il primo tema di 12 bb. è costruito su una successione di bicordi (con una densità di scrittura
che sarà tipica di Molitor) caratterizzati da appoggiature, accordi smorzati e sforzati in levare.
Es. 2, bb. 1-12
Il successivo ponte modulante, anch’esso di
12 bb., conduce canonicamente nella zona della Dominante al relativo maggiore (Do) per in-
trodurre il secondo tema (Es. 3), altrettanto canonicamente dal carattere più dolce rispetto al
primo:
Es. 3, 24-32
39
L’area del secondo tema è molto più ampia
(36 bb.), come era tipico nella musica di quel
periodo, a causa dell’estensione e della proliferazione di formule cadenzali e code che servivano a concludere l’esposizione, esattamente co-
me fa Molitor. Caratteristico l’uso del basso albertino in Do maggiore e le concatenazioni accordali (Es. 4). Così come il pedale nel basso e
gli accordi di settima (anche con la tipica diminuita) (Es. 5):
Es. 4, bb. 42-55
Es. 5, bb. 56-61
Conclusa l’esposizione – come appena visto,
già di per sé ricca di spunti interessanti – inizia
la sezione dello sviluppo, ossia il più cruciale
fra i punti cardine della forma-sonata poiché è
al suo interno che si possono cogliere le maggiori differenze fra i compositori.
Molitor si dimostra pienamente aderente alle peculiarità tipiche dello stile classico viennese che vede proprio nello sviluppo la sua
caratteristica più evidente, ossia la stretta dialettica fra le due aree tematiche dell’esposizione con l’analisi delle reciproche matrici costruttive. Ecco così che le prime venti battute
riprendono l’arpeggio di quartine del ponte
modulante, ma con un’inedita successione accordale che tocca tonalità inconsuete quali Si
bemolle maggiore, Sol minore e Mi bemolle
maggiore (Es. 6):
Es. 6, bb. 62-70
Anche questa serie di modulazioni è tipica dello sviluppo tradizionale che va ad esplorare varie zone tonali mantenendo alcune caratteristiche dei temi esposti.
Ma ecco che laddove nell’esposizione il ponte
modulante portava al secondo tema, qui nello sviluppo avviene un piccolo colpo di scena: la falsa ripresa del primo tema, dapprima esposto nel
modo minore e poi maggiore di quella che era
la Dominante del secondo tema (Sol). (Es. 7)
40
Es. 7, bb. 80-93
La falsa ripresa – o ripresa prematura – era
un tipico espediente di sorpresa dello stile classico (Haydn, per esempio, lo usava per fare degli scherzi musicali, una specie di ironia in musica) e non è casuale che Molitor l’abbia impiegata nella sua composizione più ambiziosa,
tra l’altro perfettamente congegnata nell’impianto tonale in quanto non cita la tonalità del secondo tema ma la sua Dominante, creando una
sorta di doppia falsa ripresa o, meglio, una falsa ripresa al quadrato.
La seconda parte dello sviluppo riprende i ti-
pici accordi smorzati con gli sforzati di entrambi i temi e le formule brillanti che chiudevano
il secondo tema, così come la coda conclusiva
con tanto di cadenza vera e propria, punto coronato e trillo scritti secondo tradizione in notazione più piccola e senza segno di battuta (alla Dominante di La, Es. 8).
Anche questa è un’altra caratteristica dello stile classico proveniente in particolare dal genere del concerto per solista e orchestra, quasi
una sorta di luogo comune e di topos inevitabile.
Es. 8, bb. 98-101
Questo primo tempo di sonata è esemplare
sia dal punto di vista della struttura, ben equilibrata nella tripartizione (circa 150 bb. quasi
equamente divise nelle tre sezioni), sia da quello della concezione tradizionale viennese, del
quale riprende il modello di scrittura con uno
sviluppo secondo i canoni (l’elaborazione e la
dialettica dei due temi) ma anche con alcune
varianti (la falsa ripresa e l’omissione del primo
tema nella ripresa) per altro ben radicate nello
stile classico. Anche il carattere è decisamente
viennese, ossia molto sobrio ma non austero,
con una condotta armonica rigorosa ma non priva di interessanti aperture a tonalità lontane e
una scrittura densa senza essere prolissa. I due
La ripresa parte direttamente dal secondo tema – secondo tradizione nella Tonica maggiore
di La – omettendo del tutto il primo. Tale procedimento, oltre a essere particolarmente frequente anche fra i “non-viennesi”, come vedremo in seguito, risulta particolarmente intelligente dal punto di vista dell’equilibrio formale: il
primo tempo si era appena ascoltato nella precedente falsa ripresa (seppur in altra tonalità) e
la sua ripresa testuale sarebbe apparsa prolissa
e ridondante.
Da qui in avanti tutto procede secondo norma, con l’intero materiale del secondo gruppo
tematico ripreso testualmente in La maggiore e
la coda conclusiva.
41
temi, pur non essendo particolarmente icastici e
incisivi dal punto di vista melodico, sono comunque assai funzionali all’impianto rielaborativo dello sviluppo e finalizzati alla struttura generale.
In deroga a quanto affermato nella premessa,
spenderemo qualche breve parola anche per i
movimenti successivi. L’Andante è un bel pezzo in sei ottavi in un Do maggiore che ricorda
molto lo stile di Giuliani nel movimento delle
parti per moto contrario, nel tipo di scrittura e
tessitura, nelle diminuzioni progressive del tema,
nel basso albertino e persino in alcune successioni armoniche. Già dalle prime battute del primo movimento è possibile cogliere diversi stilemi ripresi in seguito da Giuliani che, evidentemente, appena arrivato a Vienna si era subito
messo a studiare le opere e lo stile di uno fra
i chitarristi più rinomati della città (la Grosse
Sonate fu composta nell’autunno del 1806, ossia
proprio quando egli arrivò a Vienna). L’attenzione di Giuliani dimostra quindi l’importanza di
Molitor nello sviluppo del chitarrismo nella capitale asburgica.
Molto bello anche il Minuetto in La minore
con saporose sincopi e interessanti progressioni,
mentre il successivo Trio alla Tonica maggiore è
un po’ più convenzionale ma ben scritto. Il tutto comunque ricorda abbastanza il Diabelli delle Serenate, in particolare l’op. 105. Il Rondò finale è un brano assai ampio (più di 150 bb.)
ma che per il suo andamento lieve e sereno riesce a non essere prolisso (pericolo sempre in
agguato in questi autori, come vedremo). Strutturato
in una sorta di rondò-sonata – ossia A-B-A /C/
A-B-A, ma in questo caso con alcune varianti
nella sezione conclusiva – quest’ultimo movimento ha un dolce carattere di pastorale conclusiva, anch’essa caratteristica assai tipica viennese e che ricorda ancora Diabelli, questa volta quello della bucolica Pastorale che chiude la
splendida Grande Sonata brillante op. 102 per
chitarra e fortepiano.
Di livello assai più basso sono invece le due
sonate opp. 11 e 15. La prima, in Do maggiore (composta fra il 1806 e il 1807), è articolata
in tre movimenti ed è purtroppo estremamente
prolissa (come detto, difetto sempre in agguato
negli autori dell’area austro-tedesca). Qualche
spunto d’interesse si può cogliere nell’Allegro
moderato d’apertura, nel quale il ponte modu-
lante fra il primo e il secondo tema è caratterizzato da una serie di modulazioni a gradi lontani abbastanza inconsuete in quel punto (molto più frequenti invece all’inizio dello sviluppo).
Potrebbe essere un’influenza dello stile concertante: nel concerto solistico, infatti, alcuni passaggi estesi e sviluppati di solito cadono proprio
nelle sezioni di raccordo fra i punti nodali della struttura. Niente di particolarmente interessante nell’Andante successivo (più di 100 bb.) e
nello Scherzando capriccioso conclusivo (quest’ultimo più del doppio, quasi 230 bb.), nei quali la scarsa inventiva non riesce a reggere strutture così ampie.
Anche la Sonata op. 15 in Sol maggiore (scritta fra il 1807 e il 1810) non presenta particolarità di rilievo: dopo un Preludio dallo stile un
po’ arcaico, polifonico e una condotta delle parti dotta e osservata (con tanto di antiche progressioni) vi è la Marcia in una forma-sonata
estremamente semplificata e poco interessante.
Poca fantasia anche nel tema variato finale, prolisso e ripetitivo.
Degna di nota è invece la Sonata op. 12 in
Do maggiore (composta negli stessi anni dell’op.
15) e per diversi motivi. Il primo movimento in
forma-sonata è una Marcia. Allegro maestoso e
il suo maggior interesse risiede in una struttura
talmente chiara e lineare da far quasi pensare a
intenti didattici, sia dal punto di vista compositivo (quasi una sorta di primo modello di riferimento per gli studenti) che da quello esecutivo (abituare i principianti a identificare gli assi
portanti della forma-sonata e quindi adottare fraseggio e interpretazione adeguati). Inoltre la sua
semplicità costruttiva non coincide affatto con la
banalità. Il primo tema è di 8 bb., così come il
ponte modulante e il secondo tema. Quest’ultimo è totalmente privo di figurazioni brillanti o
virtuosistiche che sovente si incontrano in questo punto, a testimonianza sia degli intenti didattici di cui sopra, sia del segno di decisa disgiunzione dallo stile brillante italiano e concertistico (come vedremo in seguito).
L’esposizione è rigorosamente simmetrica (8
+8 +8 bb.) e quindi difficilmente equivocabile
nell’identificazione dei suoi punti nodali (ovviamente secondo la consolidata ortodossia: Tonica
al primo tema, Dominante della Dominante il
ponte modulante e Dominante il secondo tema).
Perfettamente leggibile è anche lo sviluppo, di
42
sole 36 bb. (dalla 24 alla 60) ma anche questo
quasi normativo nella chiarezza della sua struttura. Vi sono infatti le consuete modulazioni ai
gradi lontani nelle prime 20 bb. (Si bemolle mag-
giore, Sol minore, Mi bemolle maggiore, Do minore, Fa minore e addirittura Si bemolle minore) con anche una efficace enarmonia conclusiva (Es. 9):
Es. 9, bb. 24-44
è la ripresa quasi testuale e abbreviata del Rondò
di apertura).14
Simon Molitor fu uno dei padri fondatori del
chitarrismo viennese e un punto di riferimento
per tutti i chitarristi a Vienna nel genere del sonatismo: egli (per primo sulle sei corde) ne definì con precisione le coordinate stilistiche fondamentali, in particolare nella concezione dello
sviluppo nel quale le caratteristiche dei due temi vengono analizzate, sviscerate e confrontate
dialetticamente (com’è appunto tipico dello stile viennese tradizionalmente inteso).
Ancora secondo la norma, il materiale musicale impiegato proviene dai due temi che canonicamente ricompaiono testualmente nella ripresa in Tonica. Niente di trascendentale, per carità, ma il tutto è assai esemplificativo su come
costruire una forma-sonata seguendo i canoni
tradizionali.
Qualche parola va spesa non tanto per i due
movimenti centrali (uno Scherzando e il classico Minuetto e Trio che ricordano un po’
Diabelli), quanto piuttosto per il Rondò finale o,
meglio, per la sua struttura. Si tratta infatti di un
Rondò-sonata un po’ mascherato, in quanto la
tripartizione (A-B-A /C/ A-B-A) non è esattamente speculare ma è evidenziata da tre indicazioni agogiche con altrettanti cambi di tempo:
un Rondò in 2/4 in Do maggiore, un Andante
moderato in 3/4 in La maggiore/minore e un
Allegretto conclusivo in Do maggiore in 6/8 (ma
Dopo Molitor ci dobbiamo occupare ora di
Wenzeslaus Matiegka. Segnalato dallo stesso Molitor
nella prefazione della sua Grosse Sonate op. 7
come uno dei protagonisti della scuola chitarristica viennese (assieme a Diabelli), Matiegka
nacque a Chotzen, in Boemia (oggi Repubblica
14. Se la si guarda con attenzione, questa struttura è
la medesima del Rondò conclusivo della Sonata op. 15
di Giuliani – pubblicata proprio in quegli stessi anni a
Vienna (1808) – che appunto ha nel movimento centrale un brusco cambiamento di tempo e di carattere.
Che Giuliani abbia avuto modo di studiare anche que-
sta Sonata come la precedente dell’op. 7? Trattandosi di
un’opera manoscritta e rimasta inedita ( Cfr. FRANCESCO
GORIO, op. cit., p. 40) a differenza invece della Sonata
di Giuliani, è difficile dare una datazione precisa a questa composizione di Molitor e quindi la nostra rimane
solo una semplice ipotesi.
43
Come detto in precedenza, Matiegka è stato
il più prolifico compositore di sonate per chitarra sola della prima metà dell’Ottocento – tredici opere – e quindi già solo per l’aspetto puramente numerico merita la massima attenzione
(anche se purtroppo non sempre la quantità
coincide con la qualità). Dalla nostra analisi sono rimaste escluse la Sonata op. 23 – in quanto, com’è ormai risaputo, si tratta di una parziale trascrizione della Sonata Hob. XVI:32 di
Haydn – e le due sonate catalogate da Gorio
come G. A6 e G. A7.16
La Grande Sonate N. I in Re maggiore, del
1808, è un’estesa composizione in tre movimenti.
Fin troppo estesa e anche decisamente prolissa:
il Rondò Capriccioso finale è un brano interminabile di più di 400 battute. Quello che però interessa a noi è il Maestoso di apertura, anch’esso di ampia campata (172 bb.) ma innervato in
un’ottima struttura, solida e funzionale che riesce a mimetizzare alcuni momenti un po’ ripetitivi.
Il primo tema è ripetuto due volte per un totale di 16 bb. con all’interno una sezione di raccordo che servirà per l’innesto della ripresa (Es.
10). Da notare i caratteristici accordi smorzati e
il pedale di La nel basso, peculiarità che già avevamo colto in Molitor.
Frontespizio della Grande Sonate n. 1 di Matiegka
Ceca) nel 1773 e morì a Vienna nel 1830. La
sua figura e le sue opere sono più conosciute
di quelle di Molitor e per tutte le informazioni
rimandiamo agli scritti a lui dedicati.15
Es. 10, bb. 1-16
15. Cfr. ancora gli articoli di FRANCESCO GORIO pubblicati sempre su “il Fronimo” nei nn. 52, 53, 54 e 55
fra il luglio del 1985 e l’aprile del 1986. Un generale e
aggiornato riepilogo si può leggere nella prefazione curata da MASSIMO AGOSTINELLI e GIOVANNI PODERA a Matiegka,
Opere scelte, Ancona, Bèrben, 1995.
16. Cfr. FRANCESCO GORIO, op. cit., n. 55, p. 28. Lo studioso bresciano ha desunto l’esistenza di queste due
opere dall’indice tematico pubblicato sulla copertina della Sonate I e Sonata II, ma purtroppo non ne ha reperito alcun esemplare, né tantomeno noi.
44
Il ponte modulante (Es. 11), che porta al secondo tema, oltre a presentare un aspetto polifonico a due voci con moto contrario e risposte alternate fra alto e basso, è importante perché sarà uno degli spunti per lo sviluppo.
Il secondo tema, secondo consuetudine, è molto più articolato (una trentina di battute, dalla 28
alla 56) ed è contraddistinto da uno stile antico,
quasi toccatistico e con progressioni barocche che
ne evidenziano il carattere brillante (Es. 12).
Es. 11, bb. 18-27
Es. 12, bb. 29-34
Una breve coda con arpeggi di sestine chiude quindi l’esposizione. La sezione dello sviluppo (che copre una cinquantina di battute) si apre
riprendendo il ritmo della testa del primo tema
(minima e quattro crome) e la condotta a due
voci del ponte modulante, la cui terzina apparsa quasi casualmente e una volta sola assurge
ora a unità strutturale:
Es. 13, bb. 55-69
Lo sviluppo prosegue poi prendendo spunto
dalle progressioni nello stile antico del secondo tema, questa volta però nella zona della
Sopradominante. Si nota la presenza dei tipici
accordi cromatici17 e anche di un breve accenno alla chiusa ancora del secondo tema (Es.
14):
17. È sicuramente un caso, ma queste progressioni in
Si minore ricordano molto da vicino quelle di Barrios
nell’“Allegro solemne” della sua celebre Catedral.
45
Es. 14, bb. 87-101
La ripresa è canonica (primo tema lievemente
abbreviato e secondo testuale in Tonica), però
con un’estrema dilatazione della codetta dell’esposizione che dalle originali 5 bb. quasi si quintuplica a 23 bb., ma, soprattutto, sposta pericolosamente l’asse tonale dapprima a Re minore e poi a Si bemolle maggiore, rendendo
un po’ brusca e inaspettata la breve citazione
in Re maggiore del tema iniziale che chiude il
brano.
La forma-sonata di questo primo tempo è comunque esemplare: solida, ben strutturata, con
uno stile un po’ baroccheggiante e austero ma,
soprattutto, molto “austro-tedesca” nella concezione tematica e dello sviluppo.
La Grande Sonate N. II in La maggiore, anch’essa del 1808, è in tre movimenti: il Mo-
derato d’apertura, un Andante e infine un tema di Haydn con otto lunghissime variazioni
(la concisione non era certo una qualità di
Matiegka che evidentemente necessitava di molto spazio per esprimere il suo pensiero musicale).
Il Moderato in forma-sonata è ancora più lungo del Maestoso della sonata precedente (201
bb. contro 172) ma, paradossalmente, appare
meno prolisso per una migliore felicità di scrittura. Il primo gruppo tematico (che si articola
su 28 bb.) è diviso in due sezioni di 14 bb.
ciascuna e la seconda parte vede una fioritura
contrappuntistica del tema iniziale che già sembra un micro-sviluppo (Es. 15). Il ponte modulante riprende gli incisi tematici e contrappuntistici con una buona resa melodica (Es. 16).
Es. 15, bb. 1-17
46
Es. 16, bb. 28-38
Già da queste prime battute dell’esposizione
si può notare come il tutto appaia già estremamente coeso e logicamente connesso.
Il secondo tema alla Dominante (bb. 45-80)
non presenta una vena melodica particolarmente felice ed evidente, ma nel suo fluido scorrere delle terzine contrasta efficacemente con la
scrittura quasi geometrica del primo tema:
Es. 17, bb. 44-55
Le terzine dei bicordi ribattuti poi si snocciolano in agili arpeggi che portano a un breve ac-
cenno del primo tema cui segue un pedale di
Dominante che chiude l’esposizione:
Es. 18, bb. 60-73
47
Le 80 battute dell’esposizione sono quindi innervate in una struttura ampia, solida e senza
alcuna prolissità tanto è bilanciata ed equilibrata nelle sue proporzioni (primo gruppo tematico di 28 bb., ponte di 16 e secondo gruppo tematico di 36).
Ovviamente la sezione dello sviluppo non può
che rispecchiare fedelmente un impianto così razionale. L’esordio riprende le sestine della coda
e subito attacca con l’analisi del primo tema (ma
anche della coda del secondo) dapprima proiettandolo in tonalità lontane (Do maggiore, Fa
maggiore e Re minore) e poi dilatandone il dialogo contrappuntistico:
Es. 19, bb. 80-99
Del secondo tema sono invece riprese le terzine di bicordi ribattuti (Es. 20) non senza una
suggestiva falsa ripresa nel modo minore (Fa diesis) del dolce che chiudeva il secondo tema pri-
ma della coda dell’esposizione (Es. 21). Qui il
carattere è particolarmente malinconico e ricorda
da vicino lo spirito della “Zingara” del famoso
Notturno op. 21 per flauto, viola e chitarra:
Es. 20, bb. 106-112
Es. 21, bb. 117-128
48
Dominante è invece una Marcia di 40 bb. e la
coda seguente che conclude l’esposizione è un
Allegro assai in 6/8. Insomma, una tripartizione
“ufficiale” con tanto di didascalie all’interno della prima parte di una struttura tripartita. Ma non
è finita: lo sviluppo di una cinquantina di bb.
(dalla 103 alla 151) cambia ancora il tempo che
torna di 4/4 e presenta le ormai consuete caratteristiche analitiche e dialettiche del materiale
tematico dell’esposizione. La ripresa, lievemente
abbreviata di una trentina di bb. rispetto all’esposizione (da b. 152 a b. 222: meno male, altrimenti questo primo tempo sarebbe stato interminabile…), dopo il primo gruppo tematico vede ancora un altro cambio di carattere con la
Marcia del secondo tema – ora canonicamente
in Tonica – e poi ancora l’ultima mutazione di
tempo con l’Allegro in 6/8 della coda finale.
Essendo quasi del tutto speculare all’esposizione, anche la ripresa si presenta quindi “ufficialmente” tripartita con tanto di sezioni segnate dalle didascalie. La creazione di due microstrutture
tripartite agli estremi della macrostruttura a sua
volta tripartita più che a una forma-sonata fa
pensare a un rondò-sonata (A-B-A / C / A-B-A),
ma curiosamente già in apertura di sonata e
quindi contro la tradizione che vuole tale forma
nel terzo movimento (peraltro il terzo tempo di
questa op. 17 è pure una sorta di rondò-sonata, lievemente mutato nella sua massiccia struttura, di più di 200 bb.).
In generale la Sonate progressive non sarebbe
affatto male (l’Andante centrale è lirico e ispirato, il Rondò conclusivo assai efficace nella sua
idiomaticità) se non fosse schiacciata dal suo
stesso peso che, proseguendo nella metafora, le
impedisce letteralmente di decollare. Un Matiegka “iperstrutturalista” insomma, che porta
quasi a conseguenze estreme un pensiero
profondamente costruttivista e razionalistico.
Con il blocco delle Six Sonates progressives
op. 31, pubblicate nel 1817 in tre fascicoli separati dieci anni dopo l’op. 17, Matiegka riduce
a più miti propositi le sue velleità compositive
ma, purtroppo, anche i suoi risultati artistici.
Tutte e sei articolate in tre movimenti, sono brevi, asciutte, tenderebbero all’essenzialità ma, al
di là di una vena inventiva tutt’altro che disprezzabile e di una solida padronanza della forma, non riescono ad elevarsi al di sopra di un
buon artigianato, soprattutto se paragonate con
Come nella Sonata N. I, la ripresa parte dalla sezione di raccordo fra le due parti del primo tema e poi prosegue canonicamente in
Tonica con tutto il materiale tematico dell’esposizione lievemente abbreviato (per un totale di
una sessantina di battute) e con una suggestiva
coda in pianissimo, dolce, bucolica e molto viennese.
Anche questa sonata è quindi esemplare della concezione austro-viennese che vede appunto un’impostazione molto chiara degli assi portanti della struttura, in particolare dello sviluppo
nel quale vi è quasi la celebrazione dello stile
classico tradizionalmente inteso: al contrario dei
“non-viennesi” (e, ancora come nella premessa,
questa è quasi una tautologia) non vi è alcuna
aggiunta di materiale tematico inedito bensì un
profondo spirito analitico su quanto già espresso nell’esposizione, una sorta di riflessione e dialettica sulle tesi esposte in precedenza (altro aspetto tipicamente tedesco).
Meno interessante è la Sonate Facile op. 16 in
Do maggiore e in tre movimenti (del 1807), il
cui primo tempo vede una forma-sonata molto
semplificata, chiara, asciutta e leggibile nella sua
struttura e quindi concepita con chiari scopi didattici.
La Sonate progressive op. 17 in Sol maggiore
– come la precedente dell’op. 16 articolata in tre
movimenti e del 1807 – è invece assai particolare e proprio per la singolare struttura del suo
primo tempo, decisamente degna di nota.
Intanto va subito evidenziata la sua estensione
(222 battute) che, esempio unico nella produzione sonatistica di Matiegka, sorpassa nella lunghezza anche il terzo movimento. Inoltre si tratta di un caso assai raro nel panorama del primo Ottocento (e non solo nell’ambito chitarristico) di una forma-sonata talmente dilatata e
strutturata da presentare al suo interno addirittura cambi di metro e di tempo, con tanto di
didascalia e indicazioni agogiche.18
L’esposizione, di ben 102 bb., inizia con un
Cantabile in 4/4 di 34 bb. che corrisponde al
primo gruppo tematico; il secondo tema alla
18. Solo a tardo Ottocento e quindi con la dilatazione ipertrofica della forma-sonata – una sorta di bulimia
strutturale – si possono assistere a esempi del genere.
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le grandi sonate precedenti (anche se la sesta in
Si minore presenta aspetti interessanti, in particolare nello stile contrappuntistico che, tra l’altro, ricorda molto lo Studio Op. 51 n. 7 di Giuliani).
L’autore, con ogni evidenza, non era in grado
di coniugare brevità e concisione con icasticità
e felicità inventiva. Riguardo all’aspetto formale,
va sottolineato come in tre di queste sonate (la
seconda, la terza e la quarta) nel primo tempo
la struttura sia bipartita, con tanto di segno di
ritornello non solo dopo l’esposizione – come
di consueto – ma anche alla fine del brano dopo la ripresa. Questo, tuttavia, era allora molto
frequente e non deve stupire perché in realtà a
quel tempo la forma-sonata era ancora concepita e vissuta dai contemporanei come bipartita
(esempi se ne trovano anche nelle opere giovanili di Mozart). Solo più tardi, come già detto a Ottocento inoltrato, le è stato attribuito un
senso tripartito. La logica prevalente dell’epoca
era quella del percorso armonico, che nella prima parte andava dalla Tonica alla Dominante e
nella seconda, con una sezione di transizione
(che poi è stata identificata come sviluppo), dalla Dominante tornava alla Tonica.19
Matiegka e Molitor sono figure tipiche del
pensiero musicale austro-tedesco e di fondamentale importanza per la creazione e lo sviluppo del sonatismo viennese nella chitarra.
Condividono l’impianto strutturalistico generale,
con i temi che emergono più dalla concezione
armonica che dall’inventiva melodica e nei quali il secondo gruppo tematico è più dilatato ma
è sostanzialmente estraneo al carattere brillante
e virtuosistico dello stile italiano. Lo sviluppo per
entrambi è molto tradizionale e saldamente innervato nella mentalità austro-tedesca, senza alcuna concessione a materiale tematico inedito
ma, al contrario, con lo svisceramento analitico
di quanto espresso nell’esposizione. Ambedue,
per la formazione musicale colta e permeata nella pratica della coralità e della musica sacra, sono attratti dal contrappunto e dalla polifonia,
mantenendo uno stile improntato al rigore,
all’antico e all’austerità, derivante anche dall’intensa attività didattica e di ricerca. E, non a caso viste tutte queste caratteristiche, ancora per
entrambi è sempre in agguato il rischio di scivolare nella prolissità e nella ripetitività, pur facendo salve tutte le eccellenti qualità intellettuali
di cui sopra.
(continua)
19. La struttura della sonata bipartita, che privilegia la
struttura armonica su quella tematica, fu meticolosamente descritta e analizzata alla fine del XVIII secolo
da Francesco Galeazzi (Torino, 1758 - Roma, 1819), teorico della musica, violinista e compositore nonché autore dell’importante trattato Elementi teorici-pratici di musica, 2 voll., Roma, 1791-1796, Pilucchi Cracas e Puccinelli.
La concezione sonatistica dei teorici musicali fra la fine
del XVIII e dell’inizio del XIX secolo era diversa da
quella attuale (cioè la forma-sonata tradizionalmente intesa) che appunto si creò solamente a Ottocento avanzato. Ecco infatti come ce la descrive la studiosa Bathia
Churgin in un suo articolo del 1968:
siderandole come caratteristiche basilari della struttura.
I teorici avevano poco interesse riguardo al numero e al
carattere dei temi. Così, secondo l’usuale descrizione
Classica, un movimento nella forma-sonata è bipartito,
non tripartito, dal momento che è l’impianto tonale, non
la sequenza tematica, a provvedere a un primario livello di organizzazione. Le due parti principali del movimento contengono ognuna due sezioni che sono totalmente contrastanti. Nella prima parte, la prima sezione
è alla tonica e la seconda alla dominante se la tonica
è maggiore, o al relativo maggiore se la tonica è minore.
Nella seconda parte, la terza sezione è modulante e la
quarta sezione stabilisce ancora una volta la tonalità
della tonica. (BATHIA CHURGIN, Francesco Galeazzi’s
Description (1796) of Sonata Form, JAMS, 1968, XXI/2,
p. 181.
[…] I teorici della fine del XVIII secolo posero l’accento sulla divisione bipartita e sull’impianto tonale, con50
idee a confronto
Caro Fronimo,
La lettura del numero scorso ha stimolato la
mia curiosità su alcune questioni.
Sull’uso del quinto dito (il mignolo!): condivido in pieno le argomentazioni di Colin Cooper,
anche quando scrive che abbiamo “quattro dita
e un pollice”; comunque, mantenendo le indicazioni p, i, m, a, dovremmo inventare qualcosa per il mignolo, parola che – ahinoi! – ha la
stessa iniziale del medio.
Ma vediamo, prima, se davvero vale la pena
di usarlo, questo ditino. Anche il mio maestro,
Bruno Tonazzi, alla fine degli anni Sessanta mi
aveva detto di averci provato, rimanendo poi fedele alla tecnica tradizionale, e, all’epoca, segoviana: quattro dita e basta. In effetti, la chitarra
ha sei corde, le dita sono cinque; quindi comunque amplieremmo le possibilità in maniera
imperfetta.
Potrebbe però l’uso del mignolo evitare che
quest’ultimo si muova insieme all’anulare? E questo riflesso meccanico nuoce realmente all’agilità
delle altre dita? Credo che una risposta attendibile potrebbe darcela, più che uno studio teorico di fisiologia, l’utilizzo pratico del mignolo per
l’esecuzione e non solo per lo studio. Ancora
una volta, tornano buone le considerazioni di
Colin Cooper: “La storia ci dimostra che una tecnica strumentale si sviluppa per soddisfare le esigenze dei compositori, non il contrario”.
Perciò, in attesa di musiche che richiedano effettivamente cinque dita, si potrebbe provare a
sviluppare la novità tecnica proponendola ai bambini, non come cavie, ma come collaboratori. Un
corpo che cresce sviluppa abilità che un adulto
non ricercherà (quasi) mai di propria iniziativa.
Insomma, magari le parti si invertiranno: bambini che insegnano agli adulti.
Qualche docente se la sente, lui o lei sì, di
fare da cavia?
E veniamo all’altra mano. Il pollice sinistro
non si usa più, diversamente da quanto fanno i
chitarristi elettrici. Anche qui, secondo me val
più la pratica (dimensioni del manico, necessità
esecutive ed espressive) della grammatica (meglio il pollice o un barrè obliquo? Piegare il polso fa male?).
Non dimentichiamo che la tecnica è un mezzo, non un fine, e anche in questo senso è “strumentale”.
Sperando che altri amanti della chitarra contribuiscano con le loro idee ed esperienze, cordiali saluti
Riccardo Cechet (Trieste)
TECNICA E STUDIO
Prendo spunto dall’intervento di Giuliano D’Aiuto
che discute l’approccio tecnico di Bungarten.
Come anche ha sottolineato Angelo Gilardino in
un articolo sul Fronimo, vi sono varie tecniche,
alcune fisiche, altre mentali: combinate tra loro,
permettono di trasformare e realizzare un pensiero musicale attraverso l’uso di uno strumento
adeguato. Parlando ora di “tecnica” mi riferisco
a quella fisica/manuale, alla meccanica di un
movimento che permette di trasformare un segno scritto in un suono attraverso la chitarra.
Quando una volta interrogai il mio primo
Maestro su come tenere le mani sullo strumento, egli tirò fuori un certo numero di fotografie:
Ecco Ida Presti le tiene così; Segovia così; Manuel
Diaz Cano in questo modo; ognuno fa un po’
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quello che vuole. Come ho già raccontato sul
Fronimo, fu Ruggero Chiesa a spingermi a frequentare un corso di Abel Carlevaro, a quel tempo conosciuto come il “chitarrista più tecnico del
mondo”. Da lui, in due settimane di corso a sette ore al giorno, ho imparato alcune nozioni fondamentali, dalle quali discende la cosiddetta “tecnica”, la meccanica che permette alle mani di
muoversi sugli impulsi del cervello. Ho imparato, pertanto, che noi abbiamo una fisiologia articolare che funziona in un certo modo e che è
sostanzialmente identica per tutte le persone (anche se nei cosiddetti fuoriclasse le articolazioni
o la muscolatura possono essere iperfunzionali);
che lo strumento che suoniamo ha una propria
fisiologia; che la tecnica per suonare è data dall’incontro, dal rispetto e dall’adattamento della fisiologia dello strumento alla nostra e non viceversa. Carlevaro, oltretutto, aveva una visione
globale della fisiologia dell’intero corpo e curava la postura della seduta, del portamento del
busto, delle braccia e delle spalle partendo da
una considerazione importante: dimostrava come la chitarra possa sostenersi da sola sulle gambe dell’esecutore, senza nessun intervento muscolare e senza fare sforzi prima ancora di cominciare a suonare.
Concordo con D’Aiuto: lo studio della tecnica passa attraverso queste conoscenze fondamentali. Motivo per cui mi sono studiato alcuni
manuali di fisiologia articolare usati in medicina, ho discusso con medici e fisioterapisti e con
molto interesse ho sempre letto chi tratta di tecnica come Angelo Gilardino, Mauro Storti o in
campo liutistico Pat O’Brien.
Ritengo importante che un insegnante pratichi la “tecnica” con l’allievo; diffido di quegli
insegnanti, anche e proprio quelli delle masterclass, che snobbano la tecnica privilegiando solo musica o che parlano ma non praticano.
Concordo ancora perfettamente con D’Aiuto sul
discorso musicalità e tecnica. Mentre esiste una
fisiologia indiscutibile, non c’è una tecnica assoluta ma è l’obiettivo musicale che indirizza la
nostra attività manuale a compiere certi movimenti per assecondarlo. Penso al liuto che esige una tecnica della mano destra completamente differente da quella chitarristica per esprimere le potenzialità della musica rinascimentale o barocca restando funzionale alla necessità
di soddisfare le esigenze stilistiche ed estetiche
dell’epoca e dello strumento preso in considerazione (liuto rinascimentale, liuto barocco francese, vihuela ecc.). In campo chitarristico, penso allo straordinario Duo Maccari/Pugliese che
nell’ottica della ricerca filologica ha sviluppato
una nuova “tecnica globale” (la postura in piedi con la tracolla, le unghie presenti ma corte,
le scale pollice-indice secondo necessità, l’adattamento fisico completo agli strumenti originali, tanto per citare qualche aspetto). Per esprimere al meglio la propria sensibilità artistica, il
Duo ha decisamente abbandonato il concetto
segoviano di “chitarra classica” verso un concetto di chitarra che esprime una potenzialità
musicale sollecitata in una certa direzione, quella storica ottocentesca. Capisco infine le perplessità sul discorso di Bungarten “immaginiamo la musica e la tecnica segue”. È un discorso esatto ma da insegnante professionista, non
certo da allievo. Immaginare la musica (quella
del Novecento, dell’Ottocento o di un certo autore) e la sua esecuzione è già un lavoro culturale avanzatissimo che richiede conoscenze di
storia, armonia, composizione e quant’altro. Non
c’è contraddizione quindi se si devono eseguire molti esercizi per entrare nel discorso di
Bungarten.
Ringrazio per l’ospitalità e l’attenzione.
Giorgio Ferraris (Milano)
Errata corrige:
il direttore d’orchestra giapponese intervistato da Aldo Vianello sul numero scorso (n. 152,
ottobre 2010, pp. 11-14) si chiama Akira Yanagisawa e non Yaganisawa come è apparso erroneamente nell’articolo.
Chiediamo scusa per la svista.
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