Giuseppe Martella Arte, tecnica e cultura Ipotesi di fondo: Ogni

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Giuseppe Martella Arte, tecnica e cultura Ipotesi di fondo: Ogni
Giuseppe Martella
Arte, tecnica e cultura
Ipotesi di fondo: Ogni nuova tecnologia, che deriva dal progresso della scienza e a sua volta lo indirizza,
non produce solo nuovi strumenti per l’uso ma anche nuove abitudini, stili di vita, visioni del mondo. - In
una formula: gli strumenti sono anche modelli (occhiali sul) del mondo.
La conquista dell’ubiquità e il mutamento sinestetico
Si tratta allora di esaminare, esemplificando per ciascun caso particolare, insieme le opportunità e i vincoli
creati dal progresso della scienza-tecnica, come fa Walter Benjamin nel noto saggio del 1936 su arte e
riproducibilità tecnica. (W. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della su riproducibilità tecnica”) E già
prima di lui lo aveva fatto Paul Valery (“La conquista dell’ubiquità”: 1928), che con notevole lungimiranza
scriveva: “il sorprendente sviluppo dei nostri mezzi, la duttilità e la precisione che hanno raggiunto, le idee
e le abitudini che hanno introdotto ci garantiscono cambiamenti imminenti e assai profondi nell’antica
industria del bello. […] Né la materia, né lo spazio, né il tempo sono da vent’anni ciò che erano
sempre stati. Bisogna aspettarsi che novità così grandi trasformino completamente la tecnica delle arti,
agiscano con essa sulla stessa invenzione, giungano forse a modificare meravigliosamente anche la nozione
stessa di arte. […A causa della riproduzione e trasmissione a distanza] le opere acquisteranno una sorta
di ubiquità. […] saremo alimentati da immagini visive o auditive, che appariranno e spariranno al minimo
gesto, quasi a un cenno. […] Non so se un filosofo abbia mai sognato una società per la distribuzione
della realtà sensibile a domicilio.” Benjamin, a qualche anno di distanza, lo seguiva nello studio degli
effetti sociali ed estetici della riproducibilità tecnica delle opere d’arte.
Il discorso di Benjamin, ridotto all’osso e spogliato dalle sue notevoli sottigliezze e suggestioni, si
può riassumere come segue, per ciò che ci riguarda: l’opera d’arte è stata sempre riproducibile. Ma la
riproduzione tecnica, automatizzata e seriale, che si è di recente potenziata, è qualcosa di diverso e ha
profonde conseguenze sociali. Con la riproduzione tecnica, l’opera perde la sua autenticità, intesa come
il suo hic et nunc, nonché la sua autorità e virtù di testimonianza: tutto ciò che egli riassume
nell’espressione suggestiva di “perdita dell’aura.” Ciò determina un generale rivolgimento di ogni
tradizione ed eredità culturale. I media tecnologici modificano infatti la nostra percezione sensoriale,
inducendo una aumentata “sensibilità per ciò che nel mondo è dello stesso genere […] Così, nell’ambito
dell’intuizione si annuncia ciò che nell’ambito della teoria si manifesta come un incremento
dell’importanza della statistica”, e nella pratica, in un aumentato gusto per la serialità.
Nel complesso, diminuisce l’originario valore cultuale dell’arte e aumenta il suo valore
spettacolare (il suo indice di disponibilità e di consumo), che le conferisce funzioni del tutto nuove: quelle
che oggi potremmo chiamare industriali-pubblicitarie. 27 L’arte allenta il suo legame originario con la
religione, da cui deriva, e rafforza quelli con l’economia e la politica. D’altronde sappaimo che anche il
rito arcaico costituiva un meccanismo di regolazione psico-sociale dei conflitti (Freud, Girard). La
riproduzione tecnica consente ora all’arte di massa di tagliare gli ultimi legami col rito e di presentarsi
autonomamente come strumento di produzione del consenso sociale. Benjamin si riferisce qui in
particolare al cinema (medium dominante del suo tempo), in quanto tipo di riproduzione tecnica
dell’immagine-mivimento che induce una nuova tipo di ‘compensazione tattica’ dell’eccesso o carenza di
stimoli sensoriali nella perforarmance (vedi la funzione vicaria della colonna sonora) e di ‘percezione
distratta’ (digressiva o eckphrastica) degli eventi che ci si presentano.
Ciberspazio e cibercultura
Le considerazioni di Valery e di Benjamin sull’impatto della tecnica sull’evoluzione culturale si possono
estendere alla cultura digitale odierna, dove la manipolabilità tecnica ha raggiunto l’ordine dei codici
(digitale e genetico, per es.). Ma questo salto di livello comporta tanto l’intensificazione di alcune tendenze
già innescate dai mass media, quanto l’inversione di altre. Prendiamo quelle più importanti segnalate da
Benjamin: la perdita dell’aura, o della individualità, degli artefatti si intensifica in ambiente digitale. Così
per gli ipertesti digitali si accentua anche la crisi del concetto di autorità e autorialità. Ma nel lavoro o
nel gioco al computer e sul WEB non si può parlare affatto né di percezione distratta, né di fruizione di
massa, né di gusto della serialità, come accadeva per il cinema e la televisione. L’interattività inverte qui
sia la tendenza sociale alla percezione distratta che quella alla massificazione dei prodotti. La
tecnologia digitale consente ora dei percorsi di fruizione individuali, che richiedono attenzione e facoltà di
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scelta. Mentre invece risulta aumentata l’abitudine alla sinestesia, e all’uso sincretico (il bricolage:
taglia e cuci) di diversi linguaggi e media (visivo, uditivo, alfabetico, numerico, ecc.), che possono essere
tutti trattati insieme nella codifica digitale.
Ma il valore speciale dell’arte nel costituile un laboratorio sperimentale (o “controambiente”,
come lo definisce McLuhan), utile alla diagnosi e cura del disagio psico-sociale (cfr. Freud: “il disagio
della civiltà”) indotto delle nuove tecnologie continua a sussistere. In ciò gli ipertesti digitali e le
istallazioni di Realtà Virtuale non fanno eccezione. In campo letterario, nella fiction cyberpunk, l’impatto
della convergenza al digitale dei vari media e modi di rappresentazione, è divenuto un tema ricorrente e lo
stesso termine di ‘Cyberspazio’ è stato definito da William Gibson, il capostipite di questo genere, come
“un’allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori” di ogni sorta
(Neuromancer, 1984).
Verso un nuovo approccio ai Cultural Studies e ai Media Studies
All’origine degli studi culturali britannici non vi è una scelta di metodo ma una scelta politica, quella
della ‘democratizzazione’ della cultura e della promozione della cultura pop come oggetto di studio
accademico. La teoria dei “cultural studies” si basa essenzialmente sul principio dell’indistinzione di
valore fra cultura alta e cultura popolare, e questo ne definisce il metodo empirico e ne consente la
applicazione prevalente alla cultura pop, in quanto dovrebbe esprimere più direttamente il costume e lo stile
di vita della collettività.
Tuttavia, più che di una scelta di metodo si trattava di una scelta politica, valida nel tempo e nel luogo in
cui i Cultural Studies sono nati: la Gran Bretagna (e l’accademia inglese) degli anni 50-60.
Per il resto essi non hanno mai metodologicamente e coerentemente giustificato la scelta degli oggetti e lo
stile delle analisi condotte. Queste sono rimaste interamente affidate all’empiria e al pragmatismo, e il loro
stile si è, se mai, conformato per principio alle tendenze e alle mode dell’industria culturale, finendo per
promuoverne le ragioni e gli effetti, in una sorta di una smorfia critica, del mero dato di fatto. Una volta
diffusisi in tutto il mondo e divenuti materia di insegnamento universitario, i Cultural Studies hanno
diffuso una critica tanto varia e interessante, quanto innocua se non addirittura funzionale al
mantenimento dell’egemonia socio- culturale vigente.
Quanto al rapporto fra arte/tecnica/cultura, in particolare, si deve anzitutto osservare che il concetto di
‘cultura’ ha un’estensione troppo ampia (N CF. da ultimo Terry Eagleton, 2000). Per meglio definirlo
allora introduciamo il concetto di ‘spazio artistico’.
Diciamo allora che lo spazio artistico (tecno-logico o pratico-ideativo) proprio di un’opera, è il campo
di gioco regolato, cioè sperimentale, in cui si mettono alla prova le forme dell’esperienza ricevute e si
delinea l’orizzonte di attese del futuro. Tale campo si definisce nella tensione fra strumenti materiali
(media) e simbolici (linguaggi) volta a volta disponibili, tramite cui si tramanda il passato e si produce
l’avvenire. In questa prospettiva, un qualsiasi artefatto, quindi, racchiude nella propria forma/funzione certi
tratti della memoria e del progetto esistenziali di un individuo e di un popolo. Quanto a dire che
nell’artefatto la tradizione prende una forma determinata e contingente: cioè si storicizza. Tale forma
risulta più o meno significativa e funzionale per la società cui si rivolge. Essa può cioè assumere un valore
più o meno elevato, più o meno condiviso. Se nel corso del tempo tale valore permane grande e costante,
allora quell’artefatto diviene un luogo classico della trasmissione culturale. La sua forma/funzione diviene
per se stessa criterio normativo in un certo ambito o disciplina: è il caso dei classici letterari, nel lungo
periodo, ma anche quello degli status symbol della società dei consumi (automobili, telefonini, ecc.), nei
tempi brevi della industria culturale di massa. In questa prospettiva non distinguiamo in via di principio
fra opera d’arte e artefatto tecnologico. Sì da evitare il rischio di mettere in parentesi, nel discorso su
gioco, arte e cultura, la questione della tecnica in quanto fattore primario e formale della trasmissione
culturale, riducendola a semplice oggetto del discorso (nella figura del marchingegno occasionale) o
viceversa trasfigurandola nella idea di opera d’arte spirituale eterna. Ricordiamo che téchne in greco vale
sia per la prassi strumentale che per quella estetica, per la produzione dell’utile come di quella del bello: sia
per il regno dei mezzi che per quello dei fini.
Possiamo ora introdurre una definizione operativa di cultura come rapporto fra pratiche
materiali e simboliche, nonché fra regno dei mezzi e regno dei fini per la sussistenza di una comunità.
L’idea di ‘cultura’ si può articolare poi quanto meno su tre assi opposizionali: sistema/processo (civiltà vs
cultura); descrittivo/valutativo (intero stile di vita vs le idee e/o opere più rappresentative di un’epoca);
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alto/basso (forme più valide e durature vs forme più scadenti ed effimere). Gli studi culturali britannici
hanno avuto il merito di ampliare l’indagine culturale fino ad includere come suo oggetto l’intero stile di
vita di un gruppo sociale. Ma ampliando oltre un certo grado il contesto d’uso di un qualsiasi termine
vengono meno i criteri della sua applicazione e ne risultano indeboliti il metodo di indagine e le capacità di
valutazione relative.
La cultura è in senso ampio tutto ciò che siamo divenuti, materialmente e idealmente, tramite la
tecnica, essa è il residuo (o retaggio) tecno-logico oggi disponibile della e alla natura umana. Essa è
insieme ricetta di cucina e spartito musicale, Beethoven e i Beatles, Divina Commedia e spot politicocommerciale, spiritual e rave party, ecc. Essa insomma racchiude il campo sterminato dell’esperienza
predisposta dalla tradizione: nell’analisi di tale campo abbiamo anzitutto bisogno di procedimenti e criteri
di orientamento. Noi dobbiamo storicizzare e mappare lo spazio dell’esperienza (fosse anche solo
all’interno di una singola disciplina), affinché da esso possa scaturire un orizzonte di attese
sufficientemente delineato e condiviso da produrre senso critico. Gli artifici artistici (convenzioni e
linguaggi, stili e maniere, forme e generi) hanno proprio tale duplice funzione, inventiva e comunicativa:
per es. la forma rigida del sonetto, fece sì per lungo tempo che il poeta potesse esprimersi in modo
‘originale’ ma comprensibile e valutabile da una cerchia sociale transnazionale per quanto d’élite.
Per orientarci all’interno dei sistemi e dei processi culturali, utilizziamo ora la nozione di
tratto dominante, come quello che caratterizza (anche al limite della caricatura) un qualsiasi testo
artistico, inteso come sistema, e lo focalizza all’interno di un dato contesto sociele. Tale tratto si può
individuare in una forma o in una funzione che caratterizzano il testo. Pensiamo per es. alle ben note sei
funzioni basilari del linguaggio individuate da Jakobson: emotiva, referenziale, conativa, poetica, fatica,
metalinguistica. Esse vengono distinte a seconda che l’enunciato di cui si tratta insista prevalentemente uno
dei sei fattori insopprimibili della comunicazione verbale: mittente, contesto, destinatario, messaggio,
contatto, codice. Nell’ambito dell’evoluzione letteraria, per esempio, (vedi Tynjanov) la forma del poema
in versi ha perso il ruolo dominante che aveva avuto per un paio di secoli e che è stato invece assunto, nel
corso del Settecento, dalla forma del romanzo realistico in prosa (il novel inglese), con la quale fino ad oggi
siamo inclini per lo più a identificare la letteratura nel suo complesso. Si può allora affermare che
l’evoluzione letteraria consiste in una costante dialettica di generi, o anche, in prospettiva darwiniana, che
consiste nell’emergenza occasionale di generi nuovi e nella lotta per la sopravvivenza del più adatto
all’ambiente sociale.
Se consideriamo ora l’intera cultura come un sistema complesso, o anche come una
iperlingua (Lotman), cioè una lingua che si giova di altre lingue per funzionare, allora la sua struttura
totale sarà caratterizzata da forme/funzioni (media e linguaggi) di volta in volta dominanti nei diversi
periodi. E la sua evoluzione potrà essere concepita come un cambio di dominante da un linguaggio
all’altro, da un medium all’altro, da un genere all’altro. Questo concetto rientra nel concetto di dialettica
storica, ma esso è stato di solito inteso come il conflitto fra diversi modi di produzione e di scambio, stati e
classi sociali, o anche fra religioni e ideologie contrapposte. Non si è considerata abbastanza la
configurazione mutevole dell’apparato tecnologico-mediale, sottostante a tutte le tensioni suddette.
Chiamiamo rimediazione questo fattore decisivo della evoluzione socio culturale e individuiamo nel
medium dominante il tratto principale che caratterizza una determinata epoca: questo tratto è oggi
rappresentato dalla tecnologia digitale, la cui concretizzazione (Simondon) è lo strumento-metafora della
rete-del-mondo (World Wide Web), che soppianta quello del libro-del-mondo e apre una nuova epoca della
nostra civiltà. Tale epoca la chiamiamo del post-umanesimo o della cyber-cultura.
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