di scuola meridionale in un esemplare del

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di scuola meridionale in un esemplare del
Rassegne, recensioni, schede
na, compresi i (non numerosi) consilia pervenutici, confermando l’interpretazione già data dal Bellomo, restituisce l’immagine di un giurista «dal
metodo rigoroso, con una spiccata
predilezione per astratte categorie logiche» (p. 115), prevalentemente dedito all’attività didattica, assorbito certo meno di altri «dalla lucrosa attività
consiliare» (p. 117), che comunque,
seppur sporadica, anche a lui assicurava lauti guadagni.
Il volume è corredato da una corposa Appendice documentaria (pp.
167-349) che accoglie la trascrizione
delle Lecturae Codicis, individuate nel
ms. Vaticano, Palat. lat. 759, ascrivibili al giurista bolognese.
maestri meridionali conferma i risultati cui sono pervenuti il Meijers, la
D’Amelio e più recentemente E. Cortese nei loro studi sull’insegnamento
partenopeo: i doctores, nel corso delle
loro lezioni, per gli esempi che utilizzano e gli episodi che ricordano,
esprimono una «spiccata attenzione
per le problematiche scaturenti dalla
vita pratica del diritto e per le istituzioni del Regnum» (p. 289), a testimonianza di come gli istituti e gli schemi
concettuali della normativa romanistica fossero utilizzati in ambiente meridionale (così come in altri contesti
istituzionali) per la soluzione di problemi di ius proprium.
M. A. C.
M. A. C.
GIACOMO PACE, ‘Lecturae’ di scuola
meridionale in un esemplare del
‘Digestum vetus’. Il ms. München,
Bayerische Staatsbibliothek, Clm
6201, «Rivista Internazionale di
Diritto Comune», 6 (1995), p. 281293.
Lo studio di un manoscritto monacense consente all’A. di trarre utili indicazioni e testimonianze sull’insegnamento del diritto nelle scuole dell’Italia meridionale. Il manoscritto preso in esame – un codice miniato di fabbricazione italiana, che contiene il Digestum
vetus corredato dalla Glossa – presenta numerose additiones apposte da mani diverse. Almeno cinque dei sette (o
più) ‘reticoli grafici’ individuati dal Pace tramandano, insieme a note di giuristi bolognesi, tracce di lezioni e annotazioni di doctores meridionali: dai
più noti, come ad esempio Bartolomeo
da Capua, Andrea d’Isernia, Andrea
Bonello, Roffredo Beneventano, ad altri meno conosciuti, come Tadeus
May. Parrebbe da ciò ipotizzabile che
si tratti di un codice utilizzato all’interno di scuole meridionali, con molta
probabilità nello Studium di Napoli. O,
comunque, di un codice che riporta testimonianza di quell’insegnamento.
Il dato più interessante che emerge dall’esame delle annotationes dei
LUIGI PEPE, Torquato Tasso e la lettura di matematica nell’Università
di Ferrara, in Torquato Tasso e
l’Università, a cura di WALTER MORETTI e LUIGI PEPE, Firenze, Olschki, 1997, p. 75-97.
La lettura di matematica che Torquato Tasso tenne nell’Università di Ferrara è, per Luigi Pepe, il punto di partenza per delineare il variegato panorama dell’insegnamento scientifico
impartito negli atenei del nord della
penisola. Il personaggio scelto è certamente affascinante. Vittima dell’incomprensione dei suoi contemporanei, Tasso non fu apprezzato da Galileo Galilei che, disdegnando una cultura accademica impregnata di aristotelismo, fu altresì insensibile verso la
qualità letteraria tassiana, giungendo
a non dare importanza agli eccezionali interessi di questi verso le scienze
esatte: l’astronomia, la geografia e le
scienze naturali, come testimoniano
le centinaia di citazioni dalla Gerusalemme liberata, dalla Conquistata, dal
Mondo Creato, dai Dialoghi ecc. La
cultura scientifica del Tasso non si
formò solo attraverso una formazione
eclettica, le numerose letture di testi,
ma fu il frutto di una lunga permanenza nelle università di Padova, Bologna
e poi Ferrara, dove, dal 1573-75, ottenne la lettura di matematica, confer-
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mata da vari documenti contabili.
La ricerca e gli insegnamenti dell’astronomia e della matematica nelle
università del Cinquecento vertevano
essenzialmente sui primi tre libri degli Elementi di Euclide, sulla Sfera di
Giovanni Sacrobosco, sulla lettura
delle tavole astronomiche e dei trattati sul quadrante astronomico e sull’astrolabio. La lettura di astronomia e
di matematica nel Quattrocento era
una delle principali nell’università delle arti e medicina. Il suo status epistemologico era simile a quello della medicina con insegnamenti incardinati,
seppur con una loro indipendenza,
nella tradizione aristotelica. Nella prima metà del Cinquecento detta lettura subì una crisi d’identità, seguente
alla crisi dell’astrologia nell’età della
Controriforma. L’astrologia, pur continuando a godere di un generale consenso nei secoli successivi, ma chiamata ormai solo matematica, perse
gradualmente la dignità di disciplina,
determinando il problema di come
collegarla al corpo aristotelico. A Ferrara il controllo del Duca nelle questioni cittadine era totale e si estendeva anche allo Studio. La lettura di
astronomia e matematica, negli anni
dell’insegnamento del Tasso, restava
una disciplina di prestigio e di media
retribuzione. Il rapporto tra lo Studio
e le dieci accademie, germogliate nella Ferrara del Cinquecento, fu comunque fecondo: tecnici e professori
trovavano nelle accademie lo spazio
informale per comunicare i risultati
dei propri studi, in lingua italiana, nel
tentativo di offrire un’iniziale divulgazione letteraria, giuridica e finalmente anche scientifica.
S. N.
FULVIO PEZZAROSSA, “Vita mihi ducitur inter paginas”. La biblioteca
di Filippo Beroaldo il Vecchio,
«Schede umanistiche», 1997 / 1,
p. 109-130.
L’inter vento di Fulvio Pezzarossa,
presentato alla travola rotonda italofrancese di Roma del 7-8 marzo 1997
Rassegne, recensioni, schede
“Libri, lettori e biblioteche dell’Italia
medievale (secoli IX-XV). Fonti, testi,
utilizzazione del libro”, si pone come
un contributo allo studio della civiltà
libraria a Bologna tra Medioevo e Rinascimento. Sulla storia del libro bolognese e sulle antiche tipografie si è
sviluppata da alcuni anni a Bologna
l’attività di ricerca del Laboratorio bibliologico dell’Archivio Umanistico e
Rinascimentale Bolognese, struttura
interna al Dipartimento di Italianistica. Al supporto del Laboratorio bibliologico, dove operano studiosi come
Luigi Balsamo, Luisa Avellini, Leonardo Quaquarelli, si deve la realizzazione di questa ricerca, come l’autore ricorda. F. Pezzarossa parte da una ricognizione nell’Archivio di Stato di
Bologna e dall’analisi di alcuni regesti
a schede dal 1273 al 1505 per porre in
modo problematico le presenze librarie a Bologna centrate sulla sovrapposizione Studio-città per almeno quattro secoli. Il periodo storico preso in
esame è caratterizzato da fenomeni di
dispersioni librarie che coinvolgono i
patrimoni di grandi famiglie bolognesi (Bentivoglio, Malvezzi, Marescotti,
Ranuzzi) e dalla presenza di un immenso patrimonio librario ecclesiastico che emerge attraverso le descrizioni dell’umanista Fabio Vigili nel famoso studio di Laurent. Spazi solo apparentemente separati quelli del potere, della sacralità e della cultura interagiscono tra di loro per opera di forti
personalità come dimostra l’azione
del cardinale Bessarione a metà del
Quattrocento. Nel tardo Medioevo si
formano alcune importanti biblioteche di grandi docenti, come la libreria del canonista bibliofilo Giovanni
Calderini, morto nel 1365, dell’umanista padovano Giovanni Marcanova,
medico lettore di filosofia dal 1452,
morto a Bologna nel 1467, del medico e umanista Giovanni Garzoni
(1419-1505). Il mondo universitario
viene intanto investito dalla rivoluzione tipografica e dalla operosità delle
figure dei tipografi quali Sigismondo
dei Libri e Francesco de’ Benedetti
detto Platone, col privilegio delle forniture ufficiali dei corsi. Nell’Archivio
di Stato di Bologna, proveniente dalla
cattedrale di S. Pietro, è conservato
un documento che aiuta a far luce su
un altro importante nucleo librario
appartenuto a un docente dell’Università di Bologna. Si tratta di un fascicolo di 10 cc. scritto il 4 agosto 1505 dal
notaio Giacomo Beroaldo, che elenca
i beni lasciati dall’umanista Filippo
Beroaldo il Vecchio al figlio Vincenzo;
alle cc. 6v-10r è l’inventario della biblioteca costituita da 190 volumi “che
disegnano il quadro larghissimo degli
interessi del letterato attento al canone dei classici specialmente latini”. A
conferma che si tratta di una biblioteca a uso universitario vi si trovano gli
argomenti dei corsi accademici, la
prevalenza di libri a stampa sui manoscritti, la presenza di edizioni commentate dei classici curate dal grande
umanista bolognese, concretamente
impegnato a promuovere le proprie
edizioni in associazione col Benedetti
e il Faelli. Non manca tuttavia la presenza di altre discipline, la giuridica,
la medica o dell’area scientifica, che
rispecchiano l’unitarietà culturale della raccolta. F. Pezzarossa prevede a
conclusione dell’indagine l’uscita dell’edizione critica del documento e la
possibile localizzazione dei libri sopravvissuti appartenuti al Beroaldo.
I. V. F.
ANTONIO IVAN PINI, Federico II, lo
Studio di Bologna e il “falso Teodosiano”, in Federico II e Bologna,
Bologna, 1996, p. 27-60 (Deputazione di storia patria per le province di Romagna. Documenti e studi, 27); ried. in Il pragmatismo degli intellettuali. Origini e primi sviluppi dell’istituzione universitaria,
a cura di R. GRECI, Torino, Scriptorium, 1996, p. 67-89.
Fu probabilmente mons. Alessandro
Formagliari (1696-1769), arcidiacono
della cattedrale, lettore di diritto civile nello Studio bolognese, l’ultimo a
sostenere pubblicamente l’autenticità
del cosiddetto privilegio Teodosiano:
FILOSTENE ORESTEO p.(astore) a.(arcade), (pseudonimo del Formagliari),
Riflessioni sopra la storia della basili-
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ca di S. Stefano di Bologna ultimamente data in luce in essa città dal p.
don Celestino Petracchi, Venezia 1747.
Era, quella del Formagliari, una risposta alle contestazioni che erano
state mosse a tale privilegio e, in particolare, all’ultima in ordine di tempo:
una contestazione più decisa e grave
poiché nata nell’ambito dello stesso
Studio, dovuta appunto al p. Celestino
Petracchi, lettore di filosofia morale
(ID., Della insigne abbaziale basilica
di S. Stefano in Bologna, libri due, Bologna 1747, pp. 28-42). Fortunatamente l’opinione espressa dal Petracchi,
che vantava illustri precedenti, fin da
Carlo Sigonio, e altrettanto illustri sostenitori contemporanei, tra i quali lo
stesso Muratori, non venne più posta
seriamente in dubbio. Il privilegio
Teodosiano è incontestabilmente un
falso.
È tuttavia difficile sbarazzarsi di tale documento con un frettoloso, per
quanto giustificato, rigetto nell’oblio,
meritata condanna di tutti i falsi e relativi falsari. Difficile perché esso tocca temi tanto rilevanti per la storia
della città di Bologna da provocare
una più che legittima curiosità circa
l’autore e i motivi che lo hanno indotto a redigerlo. Il privilegio Teodosiano concerne infatti anzitutto lo Studio
bolognese, la cui fondazione è attribuita alla volontà dell’imperatore romano Teodosio (II), con l’avallo di un
concilio generale convocato dal papa
Celestino (I). Si addentra quindi a definire il corso legale degli studi (cinque anni), il necessario conferimento
delle insegne di dottorato da parte
dell’arcidiacono della cattedrale e i
termini dell’immunità concessa a tutti
coloro che si recheranno a Bologna
per motivi di studio. Ricorda quindi
l’opera di ricostruzione della città, di
cui dà merito allo stesso Teodosio, in
attuazione del suo disegno di istituzione dello Studio. Definisce inoltre i
confini del distretto di Bologna verso
il monte e la pianura, verso Modena e
la Romagna e risolve d’acchito la lunga e spinosa questione con Ferrara.
Alla città vicina viene fatto assoluto
divieto di imporre qualsiasi ostacolo
alla libera navigazione sul Po e sugli
altri corsi d’acqua e altresì l’obbligo a
trasferirsi, tempo due anni, al di là del