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Corriere della Sera Domenica 28 Agosto 2011
Cultura 45
italia: 515249535254
Arte
Nuove indagini radar
per la «Battaglia di Anghiari»
Una nuova indagine radar, condotta da Maurizio Saracini,
confermerebbe la presenza di tracce della «Battaglia di
Anghiari» di Leonardo sotto l’affresco di Giorgio Vasari in
Palazzo Vecchio a Firenze. «Durante il mio mandato —
commenta il sindaco Renzi — chiuderemo questa partita,
altrimenti diventerà una barzelletta».
Stagioni Il sovrintendente Nicola Spinosa ricostruisce l’età che ha reso famosa la pittura partenopea
Maestri
A sinistra:
l’«Olfatto»
di Jusepe
de Ribera, chiaro
esempio
di realismo.
A destra:
«La caccia reale
di Dico e Enea»
di Francesco
Solimena;
nell’ovale una
«Maddalena»
di Mattia Preti
e «Apollo
e Marsia»
di Luca Giordano
Napoli, il barocco come un romanzo
Nei dipinti del Seicento emerge sempre una vena realistica o narrativa
di CARLO BERTELLI
L’autore
N
on c’è grande museo al mondo che non
possegga un dipinto del Seicento napoletano. A parte il nucleo che resiste nei
luoghi pubblici e nelle collezioni della
città, i quadri napoletani sparsi per il mondo richiedono soprattutto l’occhio del conoscitore
che sappia restituirli al contesto d’origine, ricostruendo scuole e maestri al di là del fascino di
una pittura di grande complessità culturale, che
tocca l’animo dell’osservatore moderno per la violenza dei suoi grandi pittori realisti, specialmente del grande Jusepe de Ribera, e per l’impeto visionario di Luca Giordano.
Eppure il biografo degli artisti napoletani, Bernardo de Dominici, nei suo tre volumi sulle vite
dei pittori scultori e architetti (1742 e 1745) era
così preso dalle idee di decoro dell’Arcadia da fare suoi eroi Mattia Preti, Paolo de Matteis e Solimena, trattenendo l’emozione di fronte agli altri
protagonisti. Così la pittura napoletana del Seicento è diventata un vero cimento per conoscitori e storici, impegnati a ricostruirne le complesse
vicende affinando il proprio occhio e la propria
sensibilità.
La pittura napoletana del secolo barocco (che
Nicola Spinosa ricostruisce nei due volumi di Pittura del Seicento a Napoli) ha caratteri talmente
inconfondibili da consentire di ravvisarvi con sicurezza la posizione centrale che occupa nella
compagine dell’arte italiana — e iberica — oltre
il velo dei fitti incontri con altre scuole e della loro variabile influenza. Direi che, volendo chiudere un’esperienza tanto complessa in una cifra, la
pittura napoletana del Seicento si distingue nel
contesto europeo per la sua urgenza narrativa.
Un quadro napoletano racconta sempre un evento, per cui un’immagine allegorica della Grammatica, di Aniello Falcone, appare come il ritratto di
una vera maestra di scuola, la figura dell’Olfatto,
in un dipinto di Jusepe de Ribera, mentre annusa
una cipolla, lacrima copiosamente, né mi fiderei
della frutta che mi offre il fruttaiolo in un quadro
di Luca Forte. Anche nel Trionfo marino di Paolo
de Matteis, a Brera, i rivoli che discendono da
uno scoglio sono descritti con tale precisione da
Nicola Spinosa,
nato a Napoli
nel 1943,
è stato
sovrintendente
per i Beni
artistici e storici
di Napoli e
sovrintendente
per il Polo
museale
napoletano.
È docente
di Museologia
e Storia del
Collezionismo
all’Istituto
universitario
Suor Orsola
Benincasa.
Ha pubblicato
«Pittura
del Seicento
a Napoli.
Da Caravaggio
a Massimo
Stanzione»
(Edizioni
Arte’m,
pp. 528, 520
illustrazioni,
2 volumi,
e 120). Il libro
è un bilancio
spettacolare
sulla «stagione
d’oro» delle arti
figurative
napoletane
svelare una vena realistica al disotto dell’apparato barocco. Questa forte individualità napoletana
— siamo nella città del Cunto delli cunti e degli
esperimenti ottici e fisiognomici di Giambattista
della Porta — ha garantito l’indipendenza dell’arte partenopea anche quando ha attinto liberamente ad altre fonti, da Roma a Venezia a Bologna.
Con un’abilità maturata in decenni di combattiva direzione della Soprintendenza napoletana, Nicola Spinosa ci conduce per i sentieri della pittura da lui molto amata. In due volumi è concentrata la summa di una sua prolungata esperienza,
fatta di giudizi critici, di gestione di un territorio
e di grandi musei, di mostre e di viaggi e, che
non è poco, di una invidiabile conoscenza diretta
delle collezioni private. Sono due volumi, all’incirca di 1000 pagine in tutto, con 832 schede di
dipinti esaminati, descritti, attribuiti, molte volte
raggiunti in musei lontani o in collezioni private.
Era questa la nuova narrazione che da tempo si
aspettava, specialmente dagli anni Ottanta, quando due mostre, «Civiltà del Seicento a Napoli»,
tenuta nella stessa città nel 1984-85 e «Painting
in Naples from Caravaggio to Giordano», al Metropolitan Museum di New York nel 1982-83 rilanciarono la pittura del Seicento napoletano in un
giro ampio d’interessi, dopo anni d’incubazione
che avevano coinvolto studiosi di mezzo mondo.
Il merito delle buone mostre è sempre di presentare un abbozzo di sintesi e di stimolare contemporaneamente nuove ricerche, che a loro volta si
estrinsecano, spesso, in altre mirabili mostre, come furono quelle di Battistello Caracciolo, del
1991, di Jusepe de Ribera del 1992, di Mattia Preti
del 1999, di Domenico Gargiulo del 2002 sino a
quella dedicata all’ultimo Caravaggio, del 2004-5.
E non le ho citate tutte.
Mito
Nei primi
decenni del
Seicento,
Caravaggio
lasciò a
Napoli tre
dipinti: la
«Crocifissione», «Le
opere di
misericordia» e, da
ultimo, il
«Martirio di
sant’Orsola» (qui
sopra)
Il termine «età barocca» fu creato, se non sbaglio, da Benedetto Croce. Eppure non si applica
perfettamente alla pittura di tutto il Seicento napoletano. Nei primi decenni del secolo, i due dipinti che Caravaggio lasciò a Napoli (la Crocifissione e Le opere di misericordia, cui da poco si
aggiunge il Martirio di sant’Orsola) furono così
sconvolgenti, per i pittori e il pubblico, da togliere qualunque curiosità per il barocco che a Roma
inauguravano Gian Lorenzo Bernini, Pietro da
Cortona, Giovanni Lanfranco. La conversione dei
pittori napoletani al barocco avvenne così solo
nel 1653, con l’arrivo di Mattia Preti, reduce da
Roma, ossia vent’anni dopo che Lanfranco aveva
affrescato l’Assunzione di Maria nella cupola del
Tesoro di San Gennaro con la vertiginosa folla di
santi gesticolanti tra angeli e nubi in una visione
pienamente barocca. I pittori napoletani affascinati da Caravaggio non dipinsero però, come il
maestro, quadri da stanza o pale d’altare. Domenico Gargiulo, per esempio, eseguì affreschi, mentre s’incuriosiva per le stampe di Callot e si entusiasmava delle architetture classiche di Claude
Lorrain. Tuttavia neanche di fronte a compiti di
forte impegno decorativo, mai i pittori di tendenza naturalistica avrebbero distrutto l’integrità dei
corpi, rinunciato alla sconvolgente presenza di
carni scoperte, alla denuncia della verità messa
in evidenza dalla luce radente. Tanto più poiché,
dal 1616 risiedeva a Napoli Jusepe de Ribera, colui
che approfondì e talvolta esasperò la lezione di
Caravaggio e cui furono debitori un po’ tutti, dal
Maestro dell’Annuncio ai pastori, sulla cui identità Spinosa discute (era Juan Do, un pittore di Valencia?) sino a Francesco Fracanzano ed Aniello
Falcone. Ribera aveva insegnato la povertà come
nudità psicologica e incoraggiato la tendenza napoletana alla pittura del vero e al racconto.
Il secondo volume raccoglie i fasti del vero
trionfo barocco: da Francesco Solimena a Francesco De Mura, da Domenico Antonio Vaccaro ai
forse meno noti, ma preziosi, Nicola Malinconico, Paolo De Matteis, Paolo Porpora, sino al grandissimo Luca Giordano. Pieno di novità il capitolo conclusivo sulla natura morta napoletana, dove primeggiano Giuseppe Recco e Andrea Belvedere, che pure fu però un genere tanto stimato
da invogliare anche maestri come Ribera e Solimena. Sulla copertina di questo secondo volume,
un dipinto emblematico di Luca Giordano ritrae
Rubens intento a dipingere l’allegoria della pace.
È il sigillo di un secolo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Contemporaneo Alla Galleria Agnellini di Brescia, i lavori dell’ultimo decennio dell’americano, che faceva gli happening con John Cage
Jim Dine, l’artista che ha moltiplicato Pinocchio all’infinito
di SEBASTIANO GRASSO
L’
opera, intitolata John Cage, è
del 1961. Jim Dine (Ohio, Cincinnati, 1935) la dipinge nel periodo in cui, assieme al musicista americano, dà vita agli happening: una sorta di mélange teatrale di musica, poesia, arti visive in cui vengono coinvolti
gli spettatori. Con Dine ci sono anche
Oldenburg e Kaprow. Lo «spettacolo»
si svolge all’interno di installazioni
supportate da luci, suoni, proiezioni,
recital.
Punto di partenza, però, per Jim resta sempre il disegno. John Cage è
l’unico lavoro degli anni Sessanta presente alla rassegna, curata da Dominique Stella, che Brescia dedica all’artista Usa. La maggior parte sono degli ultimi otto anni, anche se, spesso, si tratta di motivi ripresi dai decenni precedenti. La serie delle Vestaglie, per
esempio: che, per Dine, dovevano rappresentare una specie di «autoritratto» affidato ad un elemento familiare,
prima di quelli veri e propri. O i Cuori,
uno dei temi preferiti dall’artista: lo inserisce in alcuni quadri (come aveva visto in una mostra degli anni Cinquanta), lo usa come fondo per dipingersi
dei ritratti, lo rende in sculture gigantesche, caricandolo di colori e inserendo martelli, pennelli, caffettiere, stura-lavandini di legno e gomma, statuette acefale, posate in legno da insalata ed altre diavolerie. O, ancora, Pinocchio, «un pezzo di legno che rideva
Biografia
Jim Dine
(Cincinnati, 1935),
ha esposto
alla Biennale
e a Kassel
e schiamazzava come un bambino»,
che Dine traduce in tutte le salse: dipinti, sculture, disegni, incisioni.
La scoperta avviene al cinema con
Walt Disney. Poi, in un mercatino, ne
vede uno in cartapesta e lo compra. E
così via sino a quando un collezionista
di Hollywood non gli commissiona un
quadro col soggetto di Collodi. Da allora i Pinocchio si sono moltiplicati come pane e pesci alla nozze di Cana. Addirittura a Boräs, in Svezia, nel 2008,
Jim Dine inaugura una statua di bronzo, alta nove metri (preceduta, naturalmente, da dipinti e bozzetti scultorei)
e, nel gennaio scorso, a Parigi, all’uscita di un libro di stampe, associa uno
spettacolo poemi-performance.
Precisa, Dine: «L’idea di un pezzo di
legno che parla e che diventa un ragazzo in carne e ossa è una metafora dell’arte, è l’estrema trasformazione alchemica». Pinocchio, ma anche Geppetto,
pappagalli, Veneri (di Milo) — dipinti
e sculture, preceduti da una bellissima
Jessie e la conchiglia — cravatte.
Ripetizione di temi, sia pure con variazioni continue? «Creazione permanente», la definisce Claude Lorent. Un
po’ come faceva con la musica il suo
amico Cage. Inventare, manipolare,
reinventare. Cage eredita tutto ciò dal
padre, inventore di un sottomarino a
benzina, di un sistema di proiezione tv
e di un farmaco per la tosse. Dine, invece, si lascia trascinare dalle letture («I
libri mi hanno commosso quanto i quadri»), dal fermento della propria generazione e da una lucida analisi del mondo che lo circonda. La sua opera, scrive
la Stella, «nasce da questo radicamento (…). Il mondo scopriva allora il consumo, la pubblicità, la frenesia dell’acquisto degli oggetti più diversi». «Sono un romantico e un espressionista,
al tempo stesso», si definisce Dine.
Che rifiuta categoricamente la definizione di artista pop. «Non lo sono mai
stato — spiega —: Sono arrivato in un
momento in cui né io, né i miei contemporanei trovavamo strano utilizzare oggetti quotidiani nel quadro anziché dipingerli».
In realtà, l’oggetto reale dà più l’idea
della scena. Aiuta, insomma. Si consideri anche che la poetica di Dine si è
materializzata sulla scena teatrale, a cominciare dagli happening degli anni
Sessanta, per proseguire anche con l’allestimento di scene e costumi per Sogno di una notte di mezza estate di
Shakespeare (1965) all’Actor’s
Workshop di San Francisco e per la Salomè di Richard Strauss (1986).
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Un «Pinocchio» di Jim Dine esposto a
Brescia. A Boräs, in Svezia, nel 2008,
ne ha inaugurato uno alto nove metri
R Jim Dine, Agnellini arte moderna,
Brescia, sino al 24 settembre,
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