POSTFAZIONE La letteratura degli svedesi di Finlandia

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POSTFAZIONE La letteratura degli svedesi di Finlandia
POSTFAZIONE
La letteratura degli svedesi di Finlandia, una minoranza linguistica che oggi corrisponde a circa il sei per cento della
popolazione del paese, è una variante originale e preziosa
della letteratura di lingua svedese. Nata da circostanze storiche particolari, essa ha fatto di necessità virtù sviluppandosi
alle non facili condizioni sociolinguistiche imposte dalla progressiva e inevitabile emancipazione del finlandese, lingua
nettamente maggioritaria che solo a partire dal romanticismo si è evoluta culturalmente, per poi diventare egemone
nel corso del Novecento.
Della odierna letteratura svedese di Finlandia Bo Carpelan, nato a Helsinki nel 1926, è una delle voci più rappresentative. Carpelan debuttò come poeta nell’immediato
dopoguerra e nella sua lunga attività letteraria è la poesia,
con diciassette raccolte dal 1946 a oggi, a occupare la posizione preminente. Nel corso degli anni lo scrittore ha tuttavia ampliato e diversificato la sua produzione fino a includere prosa lirica, romanzi, libri per ragazzi, drammi, radiodrammi, critica letteraria e traduzioni. Il libro di Benjamin,
del 1997, è il suo più recente romanzo.
Proprio al fine di inquadrare temi e aspetti formali di
questo libro vale la pena di indugiare sul rapporto tra il contesto sociolinguistico e l’evoluzione dei generi nella moderna
letteratura degli svedesi di Finlandia, vedendo in particolare
come le categorie di “lirico” ed “epico” si siano sviluppate a
partire dalle concrete condizioni di vita di questa lingua
minoritaria.
Gli svedesi di Finlandia abitano da sempre le coste del
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paese e sono oggi presenti in alcune aree geografiche distinte:
nella fascia costiera meridionale che va all’incirca da Porvoo
a Turku passando per Helsinki (rispettivamente Borgå, Åbo
e Helsingfors in svedese); nell’arcipelago che dalla costa sudoccidentale si estende fino al gruppo delle isole di Åland; e
nella regione costiera settentrionale dell’Österbotten, o Botnia orientale, attorno alla città di Vaasa/Vasa. Con l’eccezione di Åland, che è tutta svedese e a statuto speciale, queste
regioni non sono più linguisticamente omogenee, poiché l’industrializzazione e la modernità hanno spinto molti abitanti
di lingua finlandese verso le città della costa. Se così nell’Österbotten, ancora prevalentemente agricolo, la percentuale
della popolazione di lingua svedese può ancora oscillare tra
il 30 e il 50 per cento, le città di Helsinki e Turku presentano al visitatore odierno una realtà dominata dal finlandese
scritto e parlato, dove lo svedese si vede e si sente a malapena.
In quello che un critico, Merete Mazzarella, ha definito
lo “spazio stretto” concesso agli svedesi di Finlandia, l’attività letteraria ha rappresentato un fattore forte di coscienza
e identità, la conferma stessa della propria esistenza. E il
genere che qui si è sviluppato con particolare ricchezza è
stata la poesia. Sia prima che dopo la rivoluzione modernista dei procedimenti poetici – che ebbe luogo tra il 1916 e
gli anni Trenta per merito di un gruppo di scrittori (la capostipite Edith Södergran è nominata in due occasioni ne Il
libro di Benjamin) – la lirica ha offerto agli svedesi di Finlandia la possibilità di una lingua interiore. Si tratta spesso
di una poesia nitida ed essenziale, dove il soggetto è incline
a una riflessione sui grandi temi della vita, e dove la natura
e il paesaggio nel mutare delle stagioni rappresentano un
sorta di correlativo oggettivo, lo specchio privilegiato del
paesaggio dell’anima. In questo spazio intimo lo svedese è
potuto sopravvivere bene e, anzi, tale tradizione lirica novecentesca nata e cresciuta in terra di Finlandia è risultata
fondamentale per l’evoluzione di tutta la poesia svedese: lo
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“scarto dalla norma”, che secondo i formalisti russi è l’essenza stessa dell’attività poetica, è stata qui anche una distanza
geografica oggettiva; e la “deterritorializzazione” – come
Deleuze e Guattari definiscono la situazione di Kafka,
ebreo tedesco a Praga – ha potuto, anche qui, da privazione
linguistica tramutarsi in innovativa “letteratura minore”.
Carpelan si è innestato su questa tradizione poetica, attualizzandola: i suoi esordi negli anni Quaranta e Cinquanta
coincidono con l’opera della maturità di Gunnar Björling e
Rabbe Enckell, anch’essi esponenti del primo nucleo
modernista, e allo studio della poesia di Björling egli ha
dedicato la sua tesi di dottorato del 1960.
Così come la lirica, anche il racconto per l’infanzia ha
avuto sviluppi originali. In questo ambito la lingua svedese
ha potuto trovare un rifugio materno e familiare che preserva
dal contatto e dalla contaminazione con il finlandese. I racconti per bambini hanno luogo il più delle volte in un
tempo mitico, dove è sempre estate, si gioca e la grande natura nordica è un’avventura tutta da scoprire. La straordinaria
serie di libri illustrati sui troll Mumin, che ha reso Tove
Jansson famosa nel mondo (in Italia sono pubblicati da
Salani), è stata anche letta come una metafora del piccolo,
protetto mondo familiare dei finlandssvenskar. Naturalmente questo mondo mitico è destinato a complicarsi, anche
in Tove Jansson: esso conosce l’inverno, il tempo lineare, l’uscita dallo steccato, l’esperienza del lutto e del dolore. Il
libro dell’estate della Jansson (pubblicato da Iperborea, che
invece si è dedicata alla produzione “per adulti” della scrittrice) è il capolavoro di questa evoluzione, in cui l’infanzia è
magia ma non solo, e l’adulto non si abbassa bensì matura
alla percezione del mondo che è dei bambini. Questo tipo di
complicazione si incontra anche nei libri per ragazzi di Carpelan, anche perché egli si sofferma sulla realtà di adolescenti che cominciano a uscire dal guscio protettivo della famiglia per entrare nel mondo.
Se la lirica e i racconti per ragazzi sono i generi forti della
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letteratura degli svedesi di Finlandia, il romanzo ha avuto
invece vita più difficile. E a questo punto è possibile anche
intuire la sua menomazione: quella di non potere – se non
tramite strategie di aggiramento o a costo di infrangere l’unità
linguistica del testo – entrare nella realtà sociale finlandese e
rappresentarla in modo vasto ed epico, né orientare il proprio
linguaggio in senso “dialogico” e “pluridiscorsivo”, secondo
le note indicazioni di Michail Bachtin sul genere romanzesco. Certo, i romanzi di Kafka dimostrano che tutto è possibile; eppure il genio kafkiano rimane un caso a sé nella letteratura mondiale. Lo “spazio stretto” degli svedesi di Finlandia ha di fatto limitato gli scenari della rappresentazione: a
Helsinki, dove si svolge molta produzione romanzesca, non
esiste più alcun luogo al di fuori della famiglia dove si parli
solo svedese. E ormai neanche la famiglia è al sicuro, considerando i sempre più frequenti matrimoni misti. Lo “spazio
stretto” coinvolge altresì le scelte di registro: manca, ad esempio, uno slang svedese locale; la lingua colloquiale di Stoccolma sarebbe improponibile e i linguaggi dei mass-media,
delle mode giovanili, della musica e dello sport sono – per
tutti – in finlandese. Poiché il romanzo è comunque fiction
gli scrittori di talento possono trovare, come detto, modi per
aggirare il problema; ma la sempre viva esigenza di mimesi
ha anche portato alcuni tra i più giovani narratori a infrangere il tabù del romanzo bilingue, per altro con una lingua così
diversa come il finlandese, che è di ceppo ugrofinnico, non
germanica come lo svedese e neanche indoeuropea.
Nei suoi romanzi Carpelan ha scelto una strada diversa,
che trae vantaggio dall’esperienza di poeta. Il dialogo tra soggetto e mondo viene interiorizzato e liricizzato, spesso tramite
la prospettiva di un narratore in prima persona. Il senso musicale e formale di cui Carpelan poeta è maestro si riflette nella
qualità lirica della prosa e nello svolgimento contrappuntistico dei temi, che ritornano, si intrecciano e si rincorrono. E
tuttavia i suoi romanzi, pur lirici, non sono mai escapisti o
calligrafici ma sono sempre sostenuti – come del resto tutta la
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sua scrittura – da una forte tensione etica ed esistenziale.
Queste qualità si trovano già nel suo primo romanzo del
1971 Rösterna i den sena timmen (Le voci a tarda ora),
in cui otto membri di una famiglia si riuniscono nella casa
estiva nell’arcipelago per una sorta di ultima cena, un tentativo di devozione comune e di riflessione sul senso della vita
all’ombra della grande, definitiva guerra atomica che è appena scoppiata. Il filo narrativo, forse un po’ esile, si sviluppa
attraverso paragrafi staccati che illuminano di volta in volta
pensieri, stati d’animo e ricordi di uno dei personaggi; gli
avvenimenti esterni costituiscono lo sfondo sul quale la voce
di ognuno interroga e scandaglia il proprio io. Nell’ora tarda
in cui l’umanità esprime il suo lato più distruttivo, gli otto
sono artefici di un miracolo di cui solo l’umanità è per altro
capace. La paura li avvicina e li apre alla comunicazione.
Confessando i propri timori ognuno esprime al tempo stesso
l’insopprimibile istinto a vivere e ad “amare la vita più del
suo significato”. Come dice la nonna, non siamo noi a essere
nelle mani di Dio, ma è lui a essere nelle nostre.
Il maggiore romanzo di Carpelan è Axel del 1986, storia
del singolare Axel Carpelan, vissuto tra il 1858 e il 1919,
fratello del nonno dello scrittore, personaggio umbratile e
malato, un “inetto” radiato dalla memoria familiare che Bo
Carpelan riabilita. Axel, musicista fallito, fu infatti amico,
consigliere e benefattore di Jean Sibelius, il più grande compositore finlandese. Il romanzo inventa, sulla base documentaria disponibile (soprattutto il carteggio tra Axel e Jean), il
diario di Axel, che è sì intimo e, naturalmente, musicale ma
che comprende anche un cinquantennio fondamentale nella
costruzione dell’identità nazionale finlandese e dialoga con
gli eventi storici tanto da diventare, per via introspettiva, un
vasto epos finlandese, quel Grande Romanzo che gli svedesi
di Finlandia sognavano e non riuscivano a produrre. Con
Axel, Carpelan riesce nell’impresa di scrivere 400 pagine di
prosa lirica senza per questo intaccare la tenuta narrativa.
Sul piano personale Axel, i cui progetti falliscono uno a
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uno, si porta dentro una bruciante consapevolezza di vita
non vissuta e umanità inespressa. Ma da questa dolorosa
marginalità egli riesce a osservare la vita attorno a sé con sensibilità e spirito critico. Vede la tranquilla infelicità borghese
della sua famiglia e l’inquietudine che si cela dietro l’euforia
per le magnifiche sorti e progressive di fine Ottocento.
Soprattutto sa leggere nelle piccole-grandi cose della vita –
tutto quanto sfugge ai più che sbadatamente vivono. “La
malattia,” osserva Axel, “ci dice molte cose sull’essere sani.”
Le riflessioni di Axel riguardano anche il problema
nazionale. Nonostante la sua scarsa mobilità fisica, vive in
lui uno spirito cosmopolita, aperto e tollerante. Per lui la
grandezza di Sibelius consiste non tanto nelle suggestioni
nazional-romantiche quanto più nel loro attraversamento
verso un linguaggio universale. Tramite il Kalevala e la
natura finlandese Sibelius non segna confini bensì li oltrepassa per parlare al mondo. In questo senso è attribuito alla sua
musica un significato nobilmente patriottico: la speranza di
riscatto per la nazione e il fattore che dovrebbe unire attorno
a sé tutti i finlandesi. Axel muore nel 1919, cioè nello stesso
anno in cui la Finlandia fondò, dopo una lacerante guerra
civile tra bianchi e rossi, la sua repubblica.
La musica di Sibelius, la progressione e i successi delle
sue diverse sinfonie e composizioni infondono in Axel una
gioia infinita, la consapevolezza di essere partecipe di un progetto collettivo, e finalmente anche di un progetto personale:
l’amicizia. Dal momento in cui si lega a Sibelius e sua
moglie Aino, Axel non prova più il senso di pessimismo
cosmico, inettitudine e amara protesta contro la vita. Intanto
egli assolve a un compito importante per il geniale ma anche
instabile Sibelius, il quale scriverà dopo la morte di Axel:
“per chi comporrò adesso?”
Il motivo conduttore de Il libro di Benjamin, settimo romanzo di Carpelan e primo tradotto in italiano, si trova
nella necessità da parte del protagonista di confrontarsi con
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alcune parole pronunciate in finlandese: ritroviamo dunque,
e con un ruolo fondamentale, il contesto del bilinguismo.
L’evento che fa inaspettata irruzione nella vita dell’io narrante, il diligente traduttore in pensione Benjamin Trogen, è
l’affiorare alla sua coscienza di un episodio rimosso accaduto
cinquantacinque anni prima, durante l’estate alla vigilia
della guerra, quando Benjamin aveva solo sette anni. A
Benjamin ritorna in mente l’imprecazione che egli formulò
in un finlandese approssimativo contro il compagno di giochi e rivale Olli: “prenditi un lungo viaggio”, ossia “va’ a quel
paese”. Ora queste parole gli tolgono la tranquillità, agendo
da fattore di disturbo nella sua vita apparentemente pacificata e contemplativa. Come Benjamin scoprirà progressivamente attraverso fulminei ricordi e sogni, è legato alla frase
di per sé innocua un pesante senso di colpa. Poco dopo quel
litigio in riva al lago avvenne infatti la disgrazia che procurò
a Olli un danno psichico irreversibile, decidendo il corso
della sua vita. La maledizione di Benjamin si è dunque tristemente avverata: Olli ha davvero intrapreso un lungo viaggio, senza ritorno, nella demenza.
Il libro di Benjamin – che è il suo diario scandito in 164
brani “statici” più un centrale resoconto di viaggio – è il racconto di come il personaggio riesce a compiere, in età di pensione, un percorso di maturazione attraverso un non facile
recupero di quel passato, che in fondo egli teme e dal quale è
tentato più di una volta di fuggire. Finché non parte per
affrontare il fatto scomodo, Benjamin trova più che altro un
alibi nelle sue pur condivisibili meditazioni sull’esistenza. In
fondo egli capisce che si sta nascondendo, e che il timore di
uscire dal nascondiglio è legato al sentore che un trauma per
lui decisivo sta tornando alla luce. Di fronte al ritorno del
rimosso Benjamin decide infine, anche grazie all’incoraggiamento di sua moglie Lena, di non scappare più ma di affrontare la paura in un processo di conoscenza, che è anche cambiamento e uscita dalla propria routine. Va finalmente a trovare Olli, compiendo quel “lungo viaggio” che ora è diven-
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tato il suo.
Partendo per il viaggio estivo, e allontanandosi dai sobborghi di Helsinki dove vive, Benjamin riallaccia significativi rapporti umani risalenti all’infanzia e ai giochi estivi, che
in qualche modo avevano subito un taglio a causa sia della vicenda di Olli sia della guerra. Benjamin ritrova così
Mirjam e Harald, Kaisa e Matti. Soprattutto però ritrova
Olli. Entrare in contatto con lui significa colmare lunghissime distanze, e la distanza tra il finlandese di Olli e lo svedese
di Benjamin è a questo punto la minore. C’è la distanza che
poniamo tra “sano” e “malato”, “normale” e “anormale”,
“uguale” e “diverso”. Polarizzare serve a rassicurarci; dopotutto possiamo però anche tentare, come fa Benjamin, di
ridurre la differenza cercando un comune terreno di umanità. Benjamin, che può usare il linguaggio razionale, deve
spiegarsi con Olli, deve confessargli il proprio rimorso. Non
sa se Olli lo abbia riconosciuto e quanto egli potrà capire,
eppure si accorge che una sorta di comunicazione, solo minimamente verbale, si è instaurata tra loro. Nonostante un
incancellabile senso di colpa Benjamin non cerca di compatire Olli ma di avvicinarsi con rispetto e attenzione alla sua
percezione del mondo. La parola finlandese kaunista, che
vuol dire “bello” e che Olli ripete a Benjamin quando insieme camminano nella natura, li pone in sintonia, in una condivisa devozione verso la vita. Similmente, la sauna che i
due fanno assieme a Matti è – come solo in Finlandia può
essere – un rito laico della comunione, una vicinanza dei
corpi che per un attimo privilegiato elimina molti steccati e
molti distinguo.
In fondo poco importa se, durante la ricostruzione dei
fatti, Kaisa scagiona completamente Benjamin, il quale si
era assentato da un pezzo quando avvenne il fatale tuffo di
Olli dal pontile. Il viaggio più lungo e difficile che Benjamin
comunque deve compiere è riconoscere che Olli è il suo fratello sfortunato, e che un puro caso avrebbe potuto decidere
l’inversione delle parti.
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Il narratore riferisce il proprio nome al racconto che conclude la Genesi, quello di Giuseppe e i suoi fratelli. Si può
dire che la storia di Olli e Benjamin proponga l’attualizzazione ma anche il capovolgimento del racconto biblico.
Giuseppe ritrova suo fratello Beniamino e lo scagiona dalla
colpa del furto della coppa d’argento. La salvezza di Beniamino (come degli altri fratelli e di tutto Israele) è stata ritrovare Giuseppe. Ma dove Giuseppe è il primo e il più bravo
– e proprio l’essere capo è segno della sua elezione divina –
la salvezza di Benjamin è nelle mani di Olli, l’ultimo, il
demente e l’handicappato. Solo dopo il contatto con Olli,
dove il più rimane comunque non detto e indicibile, l’uccello del malaugurio Otaoli, materializzazione del senso di
colpa di Benjamin, può forse smettere di essere incubo persecutorio e il “lungo viaggio” trasformarsi in possibilità, in scoperta di sé nella relazione con l’altro.
Benjamin è un uomo baciato dalla fortuna; non così
Olli, che muore dopo un’accelerazione del suo malessere psichico. In effetti Il libro di Benjamin tende a diventare, nelle
pagine conclusive, il libro di Olli. Con empatia poetica il
narratore cerca di immaginare la condizione di totale solitudine in cui Olli deve concludere il suo lungo e sfortunato
viaggio nella vita. Certamente anche per Olli l’incontro con
l’amico, rivale e fratello Benjamin ha avuto delle conseguenze, forse più gravi e sconvolgenti di quanto Benjamin, nonostante tutto, riesca a immaginare o sopportare. Nella sua
malattia Olli segnala una richiesta di vicinanza che per
Benjamin è di fatto impraticabile. La nuova consapevolezza
del legame con Olli dà sì a Benjamin la salvezza, ma infine
nulla può fare per Olli, il quale morirà solo ai piedi dell’albero dove i due sedettero insieme, lanciando così un ultimo
messaggio di nostalgia e affetto verso l’amico.
Se il lungo viaggio verso Olli è il filo conduttore del
romanzo, altri, numerosi fili secondari si intrecciano a questo, creando un gioco di corrispondenze, rimandi e contrasti
che donano al libro la sua peculiare struttura, a metà tra il
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racconto e la suite poetica. Si affianca al viaggio a ritroso di
Benjamin il motivo della memoria familiare. L’episodio di
Olli è come l’occhio del ciclone che suscita un vortice di
ricordi della propria infanzia, soprattutto in relazione ai propri cari ora scomparsi. Questo insieme di esperienze interiori
rafforzano in Benjamin la percezione del bambino che ancora vive nell’uomo maturo, e diventano riflessione esistenziale
su durata e fugacità, memoria che riporta in vita; ma anche
sgomento di fronte al mistero della morte, una sottile inquietudine che si percepisce sotto la strenua ricerca di Benjamin
di senso, equilibrio e armonia.
La scrittura del diario, poi, coincide con la decisione di
cercare una volta tanto le proprie parole, dopo quarant’anni
di professionale trasposizione di testi altrui. Il progetto di
Benjamin è poetico nel senso etimologico del termine; si
tratta per lui di ascoltare il silenzio e dargli voce, tradurre la
propria quotidianità, come afferma, per condurla a un senso,
a un valore comprensibile. Anche grazie a questo lavoro
creativo sulla lingua, che è scavo e ricerca, egli arriva a una
migliore conoscenza di sé e della propria storia. Le parole,
come afferma Benjamin nel quattordicesimo brano, sono un
dono degli dei.
A proposito di traduzione, va detto che se Benjamin
tende a vedere il lavoro creativo del diario (trovare le proprie parole) in contrapposizione alla sua routine professionale (trasporre quelle altrui), Bo Carpelan ha prodotto, con la
ricca antologia di lirica finlandese moderna tradotta in svedese, Modern finsk lyrik (1984), un’opera che completa e
precisa il suo profilo di poeta, un importante ponte tra le due
lingue e le due tradizioni poetiche del paese. Durante un
incontro con un gruppo di traduttori europei, tenuto nei
pressi di Helsinki nel 1998 e a cui Carmen Giorgetti Cima
e io avemmo la fortuna di partecipare, Carpelan affermò di
sentirsi poeta finlandese, legato cioè alla poesia della propria terra, in entrambe le lingue, molto più che non a quella
scritta in Svezia. Tale punto di vista sull’identità nazionale
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emerge anche da Il libro di Benjamin, ad esempio negli
appunti del 3 e del 4 luglio, quando il protagonista si trova
in una località dell’interno del paese, dunque di lingua quasi
esclusivamente finlandese. Qui la collaborazione, l’ascolto
reciproco e il reciproco bilinguismo fanno sentire i personaggi parte di un’unica comunità. La coesione è simbolicamente suggellata da Pauli, il quale recita in finlandese il poema
epico nazionale dello scrittore romantico Runeberg, che fu
scritto in svedese. E forse non è neppure un caso che il cognome della famiglia della madre di Benjamin, Randmark,
significhi terra al margine, e che i luoghi dell’infanzia che
ora Benjamin sta rivisitando nel suo intenso viaggio estivo
siano legati a quel ramo della famiglia.
Osservare la quotidianità per tradurla in parola, cercando di carpire segni di vita autentica in ciò che è apparentemente insignificante, sviluppa nel narratore, oltre che una
facoltà poetica, anche una vena ironica e polemica con due
principali bersagli: il conformismo veicolato dai mass-media
e l’astratto razionalismo cartesiano dei “filosofi”, di coloro
che si affidano totalmente al pensiero teorico senza tenere
conto della concretezza delle cose. Per Benjamin, e per Carpelan, l’essere non può esaurirsi nel solo pensiero e la conoscenza è veicolata non solo e non principalmente dalla parola dell’intelletto ma da quella emotiva e dei sensi, ovvero
dalla parola poetica che cerca, nella vita di tutti i giorni, il
lato nascosto e non ovvio, se non addirittura il mistero e l’inesprimibile. Eppure – e questa è un’altra delle tensioni che
si muovono sotto la superficie pacata del testo – vive in
Benjamin anche un costante sforzo di chiarificazione etica,
che è per forza di cose riflessione razionale: come affermare
un umanesimo che faccia del dubbio e dell’incertezza un
valore ma che al contempo non declini ogni assunzione di
responsabilità in nome di un relativismo generalizzato?
Come arrivare, nonostante tutto, a un senso di permanenza e
fiducia, a un idealismo non retorico capace di sollevarsi
anche solo di qualche centimetro dal pessimismo diffuso?
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Accompagnano il tutto, infine, brani nei quali l’intensa
descrizione poetica non impedisce un acuto e critico sguardo sulla realtà sociale, specialmente sulla propria città: la
Helsinki adagiata sul mare; la Helsinki dell’emarginazione e
dei tristi sobborghi, dove un uomo in crisi epilettica può
morire perché tutti diffidano del comportamento strano e
nessuno gli presta aiuto; la Helsinki che gode all’aperto dell’ultima propaggine di tepore estivo, prima del grande freddo.
Tra meditazione esistenziale e filosofica, ricordo, squarci
poetici, osservazione sociale, discussione di idee, gioco intertestuale e citazioni che definiscono il quadro di riferimento,
anche etico-politico, dello scrittore, molti sono nel libro i
brani memorabili ai quali potere tornare singolarmente e sui
quali meditare, assaporandoli proprio come si fa con le poesie di una raccolta, legate tra loro eppure indipendenti.
Il racconto inizia e finisce con l’episodio dello smarrimento
e quindi del ritrovamento da parte di Benjamin del suo vecchio orologio da tasca. La circostanza sembra indicare che per
il tempo del racconto Benjamin è sia privo del suo amuleto, in
una situazione non protetta che però si rivelerà necessaria, sia in
qualche modo fuori della durata normale e lineare, impegnato
com’è a rivisitare una scena del passato in cui il suo tempo interiore si è bloccato. Nell’ultimo brano, non più numerato,
Benjamin rivela di avere accettato un nuovo lavoro di traduzione. Riguardando le pagine del suo diario egli afferma, parafrasando Cartesio, “ho scritto, dunque sono esistito”.
Una volta ritrovata, grazie a Olli e al suo sacrificio, una
dimensione più autentica del proprio essere, Benjamin ritorna al tempo lineare della realtà concreta, alla sua vita
calma, in fondo agiata, e ai suoi affetti. Ritrova giustamente
l’orologio, poiché non si può vivere fuori del tempo. Eppure,
come afferma in conclusione il poeta ceco Holan, la vita
non è mai una linea retta.
Massimo Ciaravolo
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