I principi del dialogo,Chiara Lubich alle Nazioni

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I principi del dialogo,Chiara Lubich alle Nazioni
I principi del dialogo
Articolo apparso sulla rivista Città Nuova n. 4/aprile 2016
I princìpi del dialogo
Jesús Morán è copresidente del Movimento dei Focolari.
Laureato in Filosofia,
è specializzato in antropologia teologica e teologia morale.
Se vogliamo che il dialogo non resti una tragica ingenuità,
sogno e traguardo irraggiungibile, ci vuole – vedi il mio
articolo di marzo – un’adeguata antropologia e un’efficace
pedagogia che lo sostenga. Proporrò quindi alcuni princìpi
basilari.
Primo. Il dialogo è sempre incontro personale. Non si tratta
di parole o pensieri, ma di donare il nostro essere. Non è
semplice conversazione ma qualcosa
che tocca gli interlocutori nel profondo. Diceva Rosenzweig:
«Nell’autentico dialogo qualcosa accade sul serio». In altre
parole: non si esce indenni da un vero dialogo, qualcosa
cambia in noi.
Secondo. Il dialogo richiede silenzio e ascolto. Il silenzio è
fondamentale per
un retto pensare e parlare. Un silenzio profondo, coltivato
con pazienza in solitudine e messo in pratica di fronte
all’altro, al suo pensare, al suo parlare. Ecco un bel
proverbio indù: «Quando parli fa in modo che le tue parole
siano migliori del tuo silenzio». Oggi è più che mai
necessario – affermava Benedetto XVI – «un ecosistema che
sappia equilibrare silenzio, parola, immagini e suoni».
Nell’esercizio del dialogo abbiamo bisogno del silenzio per
non logorare le parole stesse.
Terzo. Nel dialogo rischiamo noi stessi, la nostra visione
delle cose, la nostra identità, anche culturale. Dobbiamo
conquistare una «identità aperta», matura, e allo stesso tempo
allenata su un assioma antropologico fondamentale: «Quando ci
capiamo con qualcuno, so meglio anche chi sono io».
Parafrasando una idea di K. Hemmerle: se mi insegni il tuo
pensare, io potrò imparare di nuovo il mio annunciare.
Quarto. Il dialogo autentico ha a che fare con la verità. Ma
attenzione: la verità è una realtà relazionale (non relativa,
che è diverso). Significa che la verità è la stessa per tutti,
ma ognuno mette in comune con gli altri la sua personale
partecipazione e comprensione della verità. Quindi la
differenza è un dono, non un pericolo. «Il dono della
differenza» è un altro pilastro della cultura del dialogo.
Quinto. Il dialogo richiede volontà. L’amore alla verità mi
porta a cercarla, a volerla, e per questo mi metto in dialogo.
Spesso si pensa che dialogare sia cosa da deboli.
In realtà è il contrario: solo chi ha una grande forza di
volontà rischia se stesso nel dialogo. Ogni atteggiamento
dogmatico o fondamentalista nasconde paura e fragilità.
Bisogna diffidare di chi normalmente ricorre alle grida, usa
parole altisonanti o frasi squalificanti per imporre le sue
convinzioni. La forza bruta, anche dialettica, potrà vincere
ma mai convincere.
Sesto. Il dialogo è possibile solo tra persone vere. L’amore,
l’altruismo e la solidarietà preparano le persone al dialogo
facendole vere. Gandhi e Tagore avevano un’idea molto diversa
del sistema educativo da impiantare nell’India indipendente,
ma questo non ha ostacolato la loro amicizia. Papa Wojtyla e
il presidente Pertini ebbero, durante un lungo periodo,
un’intesa profonda sul destino dell’umanità, eppure
viaggiavano su categorie quasi opposte.
Settimo. La cultura del dialogo conosce solo una legge, quella
della reciprocità. Solo in essa il dialogo trova senso e
legittimità.
Se le nazioni ricorressero al dialogo prima che al tacere
omicida della vendetta o della ricchezza o dell’affermazione
personale, nuoteremmo nella felicità di cui oggi ci priviamo.
Se le religioni dialogassero per onorare Dio; se le nazioni si
rispettassero e capissero che la propria ricchezza è fare
ricca l’altra; se ognuno percorresse un “piccolo sentiero
personale” di novità, ci potremmo lasciare alle spalle la
notte di terrore nella quale annaspiamo. Quali gli ostacoli
sul piccolo sentiero? Il giudizio, la condanna, la superbia
intellettuale.
Il lavoro da fare è artigianale per l’impegno che richiede,
senza distrazioni o compromessi, ma è pregno di cultura, più
di una professione. È un’attività faticosa e impietosa. Ma ci
salva la Misericordia.
La regola d’oro
http://www.focolaritalia.it/wp-content/uploads/2016/09/La-“
regola-d’oro”-come-via-per-la-costruzione-dellafratellanza-e-della-pace-it-SD.mp4
Chiara Lubich alle Nazioni
Unite 1997
http://www.focolaritalia.it/wp-content/uploads/2016/09/Chia
ra-Lubich-nella-Sede-delle-Nazioni-Unite-28-maggio-1997alcuni-stralci-it-SD.mp4
Papa Francesco: dialogo tra
le religioni
“Confido in voi perché il dialogo sincero fra uomini e donne
di religioni differenti porti frutti di pace e di giustizia.
Molti pensano in modo diverso, sentono in modo diverso.
Cercano Dio o trovano Dio in diversi modi. Alcuni si dicono
agnostici, non sanno se Dio esiste o no. Altri si dichiarano
atei. In questa moltitudine in questa ampia gamma di religioni
e assenza di religioni, vi è una sola certezza: siamo tutti
figli di Dio”.
“Solo attraverso il dialogo – prosegue – potremo eliminare
l’intolleranza e la discriminazione”.
https://youtu.be/l6nW-pE6hTY
Le potenzialità del dialogo
CONVEGNO INTERNAZIONALE
OnCity: reti di luci per abitare il pianeta
Laboratorio internazionale di cittadinanza per il bene comune
Atti del Convegno Internazionale Oncity-reti di luci per
abitare il pianeta, che dal 1° al 3 Aprile 2016 ha riunito al
Centro Congressi di Castel Gandolfo (Rm) 900 partecipanti
provenienti da tutto il mondo: tre giorni di lavori,
riflessione e confronto su alcuni grandi temi d’attualità
legati alla vita nelle città.
Il convegno, organizzato dal Movimento Umanità Nuova, AMU e
Movimento Giovani per un Mondo Unito, è un’iniziativa che si
colloca nel quadro dello United World Project (UWP).
Le potenzialità del dialogo nelle situazioni di conflitto:
processi globali e personali
La relazione educativa come “luogo” di dialogo tra generazioni
per affrontare, trasformare e superare il conflitto – Annelisa
Vecchione, Formatrice, Potenza (Italia)
“Il rapporto educativo è puramente dialogico” (Martin Buber)
LA STORIA – L’idea: Sogno e Realtà –
La mia esperienza di educatore comincia nel 1999, con
l’ideazione, insieme ad alcuni miei colleghi, di un
laboratorio di narrazione per lo sviluppo di un progetto
inserito nell’ambito della realizzazione di centri ludici per
l’infanzia e l’adolescenza sul territorio della Basilicata
(Italia).
I centri ludici furono realizzati nel 2001 ed io, insieme al
mio gruppo di lavoro, cominciai a costruire un laboratorio
della fiaba per i bambini del mio territorio. Laboratorio che
è diventato poi, nel tempo, una metodologia educativa che
definisco “Educazione Socio – Emotiva Integrata”, che ha preso
forma in maniera più chiara nel 2005, quando abbiamo proposto
questa esperienza ad un istituto comprensivo di un comune
lucano (Viggiano), nel quale ho lavorato per sei anni come
esperta nella conduzione di laboratori socio – emotivi in
classe, durante le ore curriculari come supporto ai docenti,
nella scuola dell’Infanzia e Primaria.
I laboratori di educazione socio emotiva integrata si
costituiscono come piccole comunità educanti, alle quali
partecipano i bambini, gli insegnanti, i genitori, che a
turno, vengono ospitati in classe per condividere le attività
di laboratorio, cercando di costruire relazioni in cui ci si
impegna a generare un’accoglienza incondizionata, non
giudicante dell’altro, nello sforzo costante di valorizzare il
positivo di ciascuno,
reciprocità.
per
realizzare
una
consapevole
Il processo di insegnamento/apprendimento nei laboratori socio
emotivi integrati, è finalizzato all’acquisizione di
comportamenti che tentano di genera il “Ben–stare” insieme.
Gli strumenti utilizzati sono i contenuti disciplinari e
l’educazione al riconoscimento e alla gestione delle emozioni
primarie, attraverso la decodifica dei comportamenti, spesso
conflittuali tra pari, ma anche tra genitori e insegnanti e
tra questi e i bambini o i ragazzi. L’esperienza è stata poi
replicata in diverse scuole della Basilicata, circa una
decina, fino a trasformarsi nel 2014 in un Progetto di
Comunità, finanziato dai fondi europei, per la valorizzazione
del territorio e della memoria, realizzato nel comune di
Sarconi, in provincia di Potenza in Basilicata.
IL METODO – Leggere e decodificare la realtà
COME costruire relazioni che si trasformano in “luogo di
dialogo”, che possano consentire di affrontare la
conflittualità, trasformandola in incontro?
Lavorando per diversi anni con i bambini ho imparato,
ascoltando le loro narrazioni con attenzione, molte cose che
mi hanno aiutata a mettere insieme lo studio, la conoscenza,
con la realtà dei rapporti umani, la teoria con la pratica.
Senza questo connubio, il processo educativo non può
realizzarsi e i bambini con i loro bisogni, spesso
inascoltati, mi hanno “suggerito” la necessità di coinvolgere,
nonostante le difficoltà organizzative, burocratiche, gli
adulti nelle attività laboratoriali.
Coloro che sono stati coinvolti nelle attività, non potevano
essere destinatari di questo processo, ma partecipanti,
costruttori del dialogo.
I laboratori sono strutturati in modo da dare valore alle
persone, capovolgendo le logiche diffuse in una società
competitiva, edonistica, consumistica. Lo spazio laboratoriale
diventa luogo per acquisire e sviluppare competenze che si
realizzano in un clima altruistico di collaborazione, che
richiede il sacrificio del “mi piace”, oggi molto usato nelle
chat, intervallandolo con altri atteggiamenti, come ad
esempio: “provo ad ascoltarti”,“provo a mettermi in gioco”,
“mi fido di te”, “ti chiedo aiuto”, “ti racconto una storia
…”.
In classe si lavora quasi sempre in coppia, in gruppo,
mettendo in comune lo spazio, gli strumenti, le conoscenze, la
pazienza, il fastidio, a volta il disordine, l’inevitabile
scontro, con lo scopo di mediare, di “ascoltare” il disagio
provocato dalla frustrazione del limite che l’altro mi pone
con la sua presenza. L’educatore educa attraverso la sua carne
e il suo sangue, non solo attraverso le parole e le
spiegazioni. Spesso, incorriamo nel verbalismo, rischio che
tutti gli educatori, oggi corrono, focalizzando il proprio
impegno educativo in una serie di spiegazioni teoriche; ma non
posso educare all’altruismo e alla collaborazione, al rispetto
e all’ascolto, se non predispongo i banchi in un certo modo,
se non favorisco l’utilizzo comune degli strumenti e dei
materiali, e così via.
Nei laboratori di educazione socio emotiva integrata rivolti
agli adulti (realizzati nelle biblioteche comunali, nei centri
per le famiglie, nelle scuole ecc), non si ascolta una lezione
in modo distaccato, ma si sta in cerchio, si partecipa ai
giochi di pedagogia creativa, si sente il fastidio o
l’imbarazzo del decostruire per ricostruire, dando un senso
condiviso alle parole “RELAZIONE”, “DIALOGO”, “CAMBIAMENTO”,
“DARE VALORE”, “EDUCATIVO”.
LE ESPERIENZE – tendere verso la realizzazione di un FINE
indefinitamente perfettibile, ma concretamente realizzabile –
“I luoghi dei legami e della memoria”) – 2014 –
Partecipanti:


gruppo studio e ricerca (15 – 25 anni);
4^ e 5^ primaria e 1^, 2^, e 3^ secondaria di primo
grado;
 adulti, famiglie, anziani in pensione;

Enti e associazioni del territorio (Comune,
Parrocchia,
Ass.
culturali,
turistiche
e
divolontariato).
Il progetto sviluppato a Sarconi, dall’associazione Ca.Tali.Te
e dalla Pro Loco, relativo ai Luoghi della Memoria, è stato un
viaggio emotivo – sensoriale nell’immaginario collettivo, di
quanti, hanno voluto partecipare alle attività proposte.
L’iniziativa progettuale, ha dato vita ad una rete culturale
che ha messo in relazione persone, enti, istituzioni e
infrastrutture, favorendo una circolarità di iniziative che ha
spinto la comunità a prendere coscienza del patrimonio
esistente e a condividerlo come bene comune, vivendo
l’appartenenza ad un territorio non come semplice fatto
geografico, ma nel senso di avere intessuto con esso un
“legame emotivo”, costruito attraverso le persone, il contatto
di mani e di piedi che hanno toccato, camminato, accarezzato
volti, strade, muri e pietre.
“Abitare il Sogno” (Potenza) – 2014/2016 – Partecipanti:
 i giovani allievi di diverse scuole secondarie di
secondo grado (15 -18 anni) del capoluogo potentino
impegnati in 7 laboratori creativi ( pittura, scrittura,
graffiti, teatro, musica ecc.);
 di cui uno dedicato ai ragazzi del Carcere minorile
di Potenza;

un laboratorio dedicato agli adulti educatori
(genitori, insegnanti, allenatori, catechistiecc.).Il
Progetto, di cui è promotore il Rotary Club di Potenza
in collaborazione con la Regione Basilicata, si è posto
l’obiettivo di costruire con consapevolezza una comunità
educante; una comunità di persone disponibili ad
allearsi per formarsi e confrontarsi. La comunità
educante è un modo di essere e di vivere, in cui non ci
si limita ad affermare l’importanza della collaborazione
e della condivisione in linea di principio, ma si tenta
di creare occasioni di scambio e di comunicazione, spazi
per il sostegno e la formazione dei diversi soggetti
coinvolti, attraverso il quale generare il bene comune,
un sistema che garantisce le condizioni per cui ciascuno
può impegnarsi per realizzare i propri sogni,
specialmente le giovani generazioni alle quali, spesso,
il mondo adulto nega il futuro non svolgendo
adeguatamente nel presente la propria funzione
educativa.
Alcune affermazioni conclusive degli adulti che hanno
partecipato al percorso, parole incarnate, frutto dei mesi
trascorsi insieme:
“si insegna soltanto se si impara”;
“educare è amare: la parola che nasce dal cuore arriva
al cuore”;
“Educare è cambiare se stessi”;
“Educare è comunicare il messaggio abbi fiducia in te”;
“ho acquisito una maggiore consapevolezza dell’atto
educativo e ciò mi stainducendo ad una riflessione prima
dell’azione che mi conferisce serenità e capacità di
autocontrollo”;CONCLUSIONI COME INIZIOAffermava Chiara
Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, a
Washington, durante la Lectio Magistralis tenuta in
occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa in
Pedagogia:
“Ogni pedagogia autentica è portatrice di una tensione
utopica, da intendersi come idea regolativa a costituire
tra noi, quel paese che ancora non c’è, ma che dovrebbe
esserci. L’educazione, in tale prospettiva è vista come
mezzo per avvicinarsi al fine utopico[…]. L’utopia non è
un sogno, né illusione, né una meta inavvicinabile, essa
è tra noi[…]”.
Allora potremmo dire che il fine utopico dell’educazione
socio – emotiva è costruire una comunità educante, in
cui è la memoria la mappa di una comunità, espressa
attraverso il dialogo nei legami tra generazioni, per
insegnare e imparare a progettare e realizzare, con
impegno, il cammino per abitare il proprio sogno,
educando al difficile, all’incarnazione della parola,
con il contributo di tutti coloro che partecipano.
Affermava Monsignor Romero in una sua riflessione, di
cui vi lascio solo alcune righe stralciate:
“[…]Non possiamo fare tutto, però dà un senso di
liberazione l’iniziarlo. Ci dà la forza di fare qualcosa
e di farla bene. Può rimanere incompleta, però è un
inizio, il passo di un cammino […]”.
E’ il nostro inizio quotidiano che costruisce la via per
raggiungere la meta prefissata, e il cammino è la parte reale
e concreta del nostro fine utopico.
Annelisa Vecchione
Fonte: dal sito ufficiale del unitedworldproject
Chiara
come?
Lubich:
dialogare,
Rieti, 4 giugno 1996
L’esperienza del Movimento dei Focolari nel campo del dialogo
interreligioso. Tratto dall’intervento di Chiara Lubich in
occasione della consegna del premio “Civiltà dell’Amore”.
Dialogare, come?
dal sito del Centro Chiara Lubich
Osare una nuova era. L’amore
reciproco tra i popoli
http://www.focolaritalia.it/wp-content/uploads/2016/09/Chia
ra-Lubich_-Osare-una-nuova-era.-L’amore-reciproco-tra-ipopoli.mp4
Relazione e relazionalità
«In principio è la relazione», scriveva nella prima metà del
secolo scorso il grande Martin Buber, esponente del pensiero
ebraico. Da allora, e grazie agli sviluppi compiuti dalla
scuola dialogica, questa categoria è entrata con autorevolezza
nella scena filosofica contemporanea, con conseguenze per la
vita sociale e l’orizzonte di senso dell’esistenza.
Le scienze umane, in particolare, ne hanno fatto un uso
proficuo e fecondo. Sempre più tendiamo a pensare che la
relazione sia quella dimensione della persona che in qualche
modo la definisce. La capacità di relazione è perciò diventata
importante in tutti gli ambiti dell’agire umano. Il fallimento
di tante nobili imprese, per esempio, può essere fatto
risalire a problemi di relazione. Avere una buona relazione
risulta, per lo più, un positivo punto di partenza e una
garanzia di continuità. La relazione è davvero essenziale.
Eppure, dal mio punto di vista, mi permetterei di modificare
la frase del grande filosofo austriaco-israeliano con
quest’altra: «In principio è la relazionalità». Con questo
intendo dire che la relazione è sempre seconda, perché c’è
qualcosa di più radicale: la relazionalità. È la struttura
relazionale della persona che permette di entrare in
relazione, ma non esige necessariamente un rapporto con
l’altro per esserci. La relazionalità implica l’essere, la
relazione, il fare. Relazionalità e relazione non si
oppongono, ma vanno distinte perché toccano due dimensioni
diverse della persona.
La conclusione sembra paradossale: ci sono persone povere di
relazioni ma ricche di relazionalità, e viceversa. Avere tanti
rapporti, infatti, non è necessariamente indice di
relazionalità. Pongo un caso estremo: una suora di clausura
può essere più ricca di relazionalità di una star
cinematografica, anche se infinitamente più povera di
relazioni. Si può essere aperti all’infinito senza valicare il
perimetro della propria stanza, così come chiusi in sé stessi
mentre si gira il mondo. È una questione di quantità e
qualità, allora? Sì e no.
Decisiva – come criterio di qualità delle relazioni – è la
misura con cui esse partono o meno dalla struttura relazionale
della persona. Non è, quindi, questione di quantità o qualità,
ma di profondità e reciprocità. La relazionalità proviene dal
fondo dell’essere umano ed è sempre aperta. Aperta alla
reciprocità, mentre non sempre le relazioni schivano la
tentazione individuo-centrica. Partire dalla struttura
relazionale della persona vuol dire allora essere coscienti
che nelle nostre relazioni c’è sempre qualcosa che le precede
e qualcosa che le eccede. Significa rinunciare a dominare le
relazioni, addirittura a costruirle come se dipendessero da
noi.
Le relazioni non si costruiscono, si cercano. Questo vuol dire
che nei nostri rapporti dobbiamo essere attenti soprattutto a
ciò che ci sorprende, all’imprevisto. La “volontà di potenza”
che caratterizza spesso l’uomo moderno tende non di rado a
imporre le relazioni, anche per buoni fini. Può succedere, per
esempio, nel rapporto padre-figli o nei rapporti di coppia. Se
vogliamo rapporti carichi di relazionalità dobbiamo invece
curare l’atteggiamento di attesa, di ascolto, di pazienza,
anche di assenza. La relazionalità richiede amore insieme a
una sorta di passività che, ben vissuta, è l’unica veramente
aperta al nuovo.
Le conseguenze etiche di questa distinzione, che può apparire
solo accademica, sono in certi casi decisive. Un esempio: se
la persona fosse primariamente relazione, intendendo con
questo la capacità di costruire rapporti, l’aborto sarebbe
legittimo perché l’embrione non è in grado di costruirli.
Anche la persona in coma non avrebbe diritto di vivere, perché
incapace di avere rapporti con gli altri. Se invece ciò che
definisce alla radice la persona è la relazionalità, che per
esserci non ha bisogno di rapporti perché viene prima di essi,
allora le cose cambiano sostanzialmente.
Jesús Morán
Copresidente del Movimento dei Focolari. Laureato in
Filosofia,
è specializzato in antropologia teologica e teologia morale.
Fonte: Città Nuova (gennaio 2016, pag. 67)