Atti cisl donne interno febb 07

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Atti cisl donne interno febb 07
DOSSIER
9 TESTIMONIANZE + UNA
INDICE
Presentazione
Annamaria Parente
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Le Interviste
a cura di Daniela De Sanctis
Giornalista
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Responsabile Nazionale Coordinamento donne Cisl
Claudia, operatrice al call center
Annarita, assistente di volo
Yan Jiang, giornalista e imprenditrice
Ada, infermiera
Clara, trader sui mercati azionari esteri
Bianca, addetta alle vendite in un centro commerciale
Sofia, infermiera in pensione
Alba, operatrice ecologica
Isabel, infermiera specializzata e badante
+ 1 Josefa Idem, campionessa olimpionica
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Presentazione
di Annamaria Parente
Responsabile Nazionale Coordinamento donne Cisl
In occasione della inaugurazione dell'Anno Europeo delle Pari Opportunità della
Cisl, presentiamo 9 storie di lavoratrici italiane, immigrate, ma anche pensionate. Le abbiamo raccolte in pochi giorni grazie alle nostre delegate dei coordinamenti donne e alle strutture di appartenenza. Sono storie di vita quotidiana, nelle
quali tante di noi possono riconoscersi. Rappresentano le difficoltà del nostro
vivere soprattutto nel poter conciliare il lavoro con la cura dei figli e degli anziani o con la propria crescita professionale e culturale o con il tempo per sé.
Questo è solo un primo dossier. Intendiamo proseguire per tutto il 2007 per realizzare una sorta di racconto collettivo composto da tante esperienze, che mettano in risalto anche il nostro mestiere di sindacaliste e sindacalisti attenti all'ascolto di problematiche, richieste e bisogni per poter meglio svolgere il nostro
ruolo di rappresentanza, soprattutto nella contrattazione.
L'obiettivo del nostro percorso, che non si ferma solo alle statistiche, ma evidenzia condizioni di vite vissute, è inoltre quello di condividere con gli altri attori
coinvolti: datori di lavoro, amministrazioni locali e governo nazionale, in questo
Anno delle pari opportunità, quali sono le emergenze da affrontare e quali azioni intraprendere.
Le principali problematiche emerse da queste testimonianze provenienti da
ambiti diversi tra loro: organizzazioni del lavoro troppo rigide, soprattutto nella
definizione dei turni di lavoro, differenze salariali tra donne e uomini, sistema dei
servizi all'infanzia inadeguato anche negli orari di apertura, assenza di asili nido
aziendali, difficoltà di usufruire del part-time, carenza di servizi pubblici di assistenza agli anziani, mancanza di tutele per la non autosufficienza, condizioni
drammatiche per le badanti e scarse possibilità per le lavoratrici immigrate di
veder riconosciute le proprie qualifiche professionali.
Si evidenzia una cultura del lavoro non “accogliente” delle maternità e delle esigenze familiari e una società non attrezzata alla soluzione dei bisogni di conciliazione lavoro famiglia. Ed è proprio la conciliazione lavoro-famiglia che continua a essere affidata alla sfera privata, alla solidarietà dei colleghi e delle colleghe di lavoro o capi comprensivi.
Ma non è mai politica sistematica.
L'Assemblea delle donne della Cisl di luglio 2006 aveva già indicato delle soluzioni di carattere legislativo, contrattuale e concertativo territoriale. Andiamo
avanti su questo percorso, proponendo come una delle priorità per questo Anno
delle pari opportunità il recepimento dell'accordo europeo sulla parità di genere
e un conseguente patto tra donne e uomini per lo sviluppo. All'interno degli
accordi i contenuti richiesti dalle lavoratrici che qui rappresentiamo.
Verificheremo alla fine dell'anno i risultati, queste lavoratrici non possono più
aspettare.
Siamo ben liete inoltre di avere al nostro fianco in questo cammino una testimonial illustre come la nostra campionessa olimpionica Josefa Idem, qui intervistata, che con il suo esempio ha reso evidente al mondo che il talento sportivo è conciliabile con l'essere madre, anche se la società non è a misura dei
bambini.
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Le interviste
a cura di Daniela De Sanctis, giornalista
1 Claudia, operatrice al call center
Claudia lavora nella catena di montaggio del Duemila: un call center. Ed è contenta, perché a Palermo, dove vive, si è contenti quando si trova un lavoro fisso,
anche part time, ripetitivo, pagato poco. Anche se sei laureata, intelligente e in
grado di fare ben altro. Fa una vita di corsa, in una staffetta con marito e genitori per occuparsi di due bambine che ha voluto con tutte le sue forze. Contenta,
ma non inconsapevole. “In termini di tutela per molti versi siamo alla preistoria,
al far west”, e in particolare questo riguarda i diritti delle donne che hanno figli e
lavorano: “Ciò che per le altre mamme è un diritto ormai consolidato noi ce lo
siamo sudato”. A volte, spiega, il primo motivo è la mancanza di informazione,
sia da parte del datore di lavoro che delle lavoratrici.
“Sono stata assunta nel maggio 2001 - racconta - uno dei primi dipendenti su
quasi 1500, a tempo indeterminato; ho un part time al 50%, lavoro 5 giorni settimana con 2 giorni di riposo. Il problema è la turnistica”. L'orario, infatti, non è
fisso. Cambia ogni settimana, in fasce destinate a coprire le chiamate dalle 7 di
mattina fino alle 24. Fino a non molto tempo fa, era possibile conoscere i propri
turni con scarsissimo anticipo. In pratica, fino al venerdì nessuno sapeva i turni
della settimana successiva. Impossibile programmare una commissione, un'attività formativa.
Ogni tre settimane, a Claudia, come ai suoi colleghi, tocca il turno dalle 19 alle
23. Un orario impossibile se hai due figlie, Cristiana, di 5 anni, e Benedetta, 2
anni. Quindi ogni tre settimane ci si deve arrangiare in un modo o nell'altro. “Noi
mamme viviamo di cambi turno”, spiega. E quando non si trova il collega disposto a cambiare orario si ricorre a una cognata, una vicina, un permesso. Ma
sempre in equilibrio precario. Ambito invece il turno dalle 7 alle 11, anche se
significa alzarsi alle 5 di mattina, perché è l'unico che permette una tranquilla
gestione della famiglia. Unico aiuto strutturale è la scuola; le bambine la frequentano fin da piccolissime. Cristina ci è andata a 11 mesi, Benedetta a 9.
Una vita in continua tensione nello sforzo di riuscire a lavorare e andare a prendere i figli a scuola, nella paura che una volta o l'altra non ce la farai, nella fatica di organizzare perché qualcun altro non ha organizzato una società e una
produttività più a misura di famiglia. Una situazione comune, ma questo non
consola: “Siamo tutte stressate”. L'estate è per le mamme il periodo peggiore.
Le scuole chiudono, i bambini restano soli. Claudia ha già studiato una soluzione: “Farò richiesta di trasferimento temporaneo in una squadra che ha turni fissi
e il sabato e la domenica sempre liberi. Ora sono libera solo 2 domeniche al
mese e solo 1 fine settimana al mese”. Le squadre di cui parla Claudia lavorano solo di pomeriggio o di sera. Lei ambirebbe al turno dalle 21 in poi. I turni
pomeridiani, che a chiunque altro sembrerebbero più appetibili, per lei sono
impraticabili, non saprebbe a chi lasciare le sue bambine. Se riuscisse, invece,
a ottenere il trasferimento temporaneo, potrebbe stare con le figlie tutto il giorno
fino al ritorno del marito: “Lui rientra alle 19,45, io potrei andar via alle 20.00 e
andare a lavorare. Non è il massimo della vita, qualche volta l'ho già fatto per
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bisogno”. E non ci guadagnerebbe in tranquillità, perché nello sconosciuto
mondo dei call center le chiamate ci sono sempre, anche a mezzanotte. “Non
c'è pericolo di addormentarsi, si lavora intensamente con il peso di un'intera
giornata sulle spalle, ma con la serenità che le bambine tutto il giorno sono state
con me”. La fatica, i soldi che non scarseggiano ma nemmeno avanzano, i ritmi
incalzanti non scoraggiano questa donna determinata: “Io lo vorrei fare, il terzo
figlio, ma mi pongo il problema di come gestirlo”.
Eppure ci vorrebbe poco: basterebbe, o perlomeno aiuterebbe molto, una turnistica agevolata per le mamme. Ma i progetti di orario diversificato che ogni tanto
si sperimentano in azienda sembrano non tenere conto di un fattore elementare: chi ha bambini piccoli non può prendere impegni lavorativi nel pomeriggio.
Quando si può, allora, è meglio usare i fine settimana. “Non è bello andare a
lavorare il sabato e la domenica. Però in funzione gestione bambini è un paradiso”.
Nel paradiso di Claudia, oltre al lavoro stressante ma monotono, c'è una sveglia
che tutte le mattine suona alle cinque quando il turno di lavoro inizia alle 7. Alle
6.30 è in strada, ma anche se non ha il turno di mattina è comunque in strada
alle 7.00 anche negli altri giorni, perché la bimba più piccola va accompagnata
al nido alle 7,30 e manca un pulmino che venga a prenderla. La lotta contro il
tempo inizia dalla prima mattina, il traffico di Palermo è micidiale è può costare
caro anche da un punto di vista economico. Ci sono, infatti, 20 minuti di ritardo
consentito ogni mese, poi scattano le decurtazioni dalla busta paga.
Al call center lo stress è forte, anche alle 7 di mattina, e i ritmi sono pressanti. Il
tempo ideale di chiamata di ogni cliente non dovrebbe superare i tre minuti, a
meno che non si tratti di un reclamo o di un caso complesso, la pausa tra una
telefonata e l'altra è praticamente nulla e mentre si parla con la cuffia all'orecchio in stanzoni immensi che contengono 200 persone che parlano tutte insieme con clienti invisibili, i capigruppo passano tra le file di postazioni urlando per
ricordare i tempi ideali di produzione. “Se una chiamata supera i 5 minuti arriva
subito il caposquadra alle spalle chiedendo se c'è qualcosa che non va. E' normale ma aggiunto a tanti altri elementi fa sentire molto stress. Dopo 2 ore abbiamo 15 minuti di pausa, in virtù della 626, poi si ricomincia senza interruzione. Il
logoramento è forte, soprattutto per le orecchie, ringrazio di essere a 4 ore, non
sono passata a 6 perché non saprei come gestire la famiglia, anche se un po' di
soldi in più farebbero comodo, e perché le corde vocali non reggono. A volte
quando esco mi fa male la gola, la faringite qui è ormai una malattia professionale”.
Le 4 ore finiscono e Claudia va a prendere le bambine. Il nido è comunale, si
paga secondo il reddito quindi non vanno via più di 50 euro al mese ma una
chiusura improvvisa o un'assemblea delle maestre bastano a scatenare un
dramma: “per me è un danno enorme, il permesso di uscire te lo danno se ci
sono poche chiamate in coda e se la percentuale di assenze giornaliere non è
stata raggiunta; altrimenti rischi di non poter uscire mentre tua figlia ti aspetta
davanti alla scuola”. E anche in questo caso basterebbe così poco: “sarebbe
spettacolare aver il nido in azienda, siamo molte donne e sarebbe un grande
aiuto per tutte”.
Tutto questo per uno stipendio che non arriva nemmeno a 500 euro al mese. Per
un terzo livello che dovrebbe essere un quarto, con stipendio e versamenti pen-
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sionistici inferiori. Con diritti spesso sconosciuti: “Ho scoperto da poco che possiamo prendere permessi per esami pre-natali. Ora molte cose le so grazie al
Coordinamento Donne, che fa molta informazione, per esempio sulla legge 53
del 2000”. Informazioni che riguardano da vicino anche gli uomini: i padri soli
sono tanti, anche se pochi ne parlano, e il gruppo delle sindacaliste lavora anche
per loro. Claudia entra in contatto con il sindacato perché ha un problema sul
lavoro e decide di non subirlo: “Mi volevano penalizzare: ero in allattamento,
avevo deciso di entrare la mattina un'ora dopo e, nel caso dei turni serali, di uscire un'ora prima. Da noi a volte c'è l'occasione di fare del lavoro straordinario, che
tecnicamente si chiama supplementare. È raro che capiti ma aiuta, e in alcuni
giorni avevo la possibilità di aderire. Non me lo hanno fatto fare perché ero in
allattamento”. Claudia si rivolge al direttore del personale ma non ottiene che
altra tensione; il suo è l'unico contratto stabile della famiglia, la responsabilità le
pesa ma non molla. “Sono andata a parlare con un sindacalista e ho scoperto
che altre mamme nel frattempo avevano subito lo stesso trattamento, senza
muoversi. Ma io no. Se ho un diritto nessuno mi deve fermare”. Vivere e avere
un lavoro a Palermo vuol dire, a volte, anche scoraggiarsi per la paura di avere
problemi su un lavoro che è una benedizione, ma Claudia va avanti e incoraggia anche le altre: “Io ho fatto presente che voler tutelare il diritto non fa perdere il posto di lavoro. Siamo noi ad aiutarci, prima di tutto”.
E' laureata, Claudia. Economia e commercio, ha fatto anche i 3 anni di praticantato per diventare dottore commercialista, ha lavorato per anni con una busta
paga finta. “La Sicilia è questa”. E appena si presenta l'opportunità di fare una
famiglia scegliendo un lavoro fisso anche se in un call center lei sceglie la famiglia. Quando viene assunta la sua gravidanza non è evidente, mentre su 900
assunzioni, indicate da una società di selezione esterna, nessuna delle candidate visibilmente in stato interessante viene presa. Un caso? Comunque la scelta è fatta. Con serenità ma qualche peso c'è: “Parliamoci chiaro: il call center ti
avvilisce. Tu sei una voce, hai la cuffia nelle orecchie, siamo spersonalizzati”. Lei
reagisce, una volta a settimana segue un corso di teologia di base, un modo per
dire “io esisto, non sono solo una madre, una moglie e una voce con una cuffia”.
E ha scoperto il sindacato, ha coinvolto e informato altre donne. Magari potrebbe impegnarsi di più nella rappresentanza, ma anche in questo caso ha problemi di tempo. Le riunioni, come i turni aziendali, si tengono in orari non adatti a
chi segue una famiglia. E non c'è un angolo dove i bambini di chi fa sindacato
possano essere tenuti insieme durante gli incontri. Non c'è un mini asilo nido sindacale. Come non c'è quello aziendale.
2 Annarita, assistente di volo
Lavoratrice senza tensioni per due mesi l'anno. Il resto è arte della lotta contro
il tempo. Annarita vive a Roma, è assistente di volo. Ha un figlio di 11 anni, che
nei mesi estivi parte per il Sudamerica per andare a trovare il padre. In quei mesi
lei vive sensazioni contrastanti: da una parte, mancanza e nostalgia. Dall'altra,
sollievo, leggerezza o quantomeno assenza di tensione. Perché fare l'assistente di volo con un figlio o senza è molto, molto diverso. Lei lo sa, ha iniziato a
lavorare ben prima della maternità e in quel periodo estivo recupera una normalità dimenticata: “Due mesi l'anno torno ad essere quella di prima”. Essere
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quella di prima vuol dire, semplicemente, non avere problemi se accadono cose
nel suo lavoro normalissime, come il ritardo di un volo o l'impossibilità a rientrare per le condizioni atmosferiche.
La maternità di per sé non le ha dato problemi. Il contratto di categoria prevede,
dato il tipo di lavoro, una buona copertura: si va immediatamente in aspettativa
e si rientra quando il bambino compie un anno. “Le nostre forme di tutela sono
migliori di quelle di altri Paesi europei. Per non parlare degli Stati Uniti. Ho visto
colleghe volare col pancione”. Inoltre, in Italia le assistenti di volo mamme hanno
la possibilità di effettuare orario ridotto finché il bambino compie tre anni. Ma è
soprattutto teoria. Nella pratica, “è difficile fare orario ridotto con questo tipo di
lavoro”. L'alternativa è optare per i cosiddetti voli in giornata, per turni di lavoro
che vanno dalle 6 alle 24 con rientro in sede. Ma i voli di questo genere non sono
molti, se si parte da Roma. Quindi si vola poco. Quindi si guadagna meno. Lo
stipendio, infatti, è composto da una parte fissa e da una variabile, in funzione
delle ore di volo effettuate. Se si sceglie una frequenza, come quella giornaliera, che fa volare poco alla fine del mese la busta paga è molto più bassa rispetto a quella di chi vola normalmente. E c'è anche un danno per l'azienda, che
comunque sostiene i costi fissi di personale che non utilizza a pieno.
Lei ha scelto un'altra opzione. Come madre separata con un figlio minore di 12
anni ha diritto ai cosiddetti turni brevi: comportano un'assenza da casa che non
supera i due-tre giorni. Se si ha un figlio anche una notte fuori casa ha il suo
peso: “I bambini più crescono e più sentono il bisogno della vicinanza del padre
e della madre. E si lamentano”. E' l'unica alternativa proponibile tra quella che
comporta lo stipendio ridotto e quella dei turni ancora più lunghi, che durano ben
5 giorni. Annarita ha comunque dovuto assumere una donna fissa da quando è
nato suo figlio. I costi sono alti, ma il vero problema nasce quando la sua collaboratrice si ammala o ha, come è normale, un problema di qualunque tipo. O
ancora, quando la sua presenza di madre è necessaria e non ci sono santi. Ma
talvolta le organizzazioni aziendali dimenticano di inserire le malattie nel prontuario di quel che può succedere: “Mio figlio si è dovuto operare e io mi sono
dovuta ricoverare con lui, dormendo cinque notti in ospedale. Avrei dovuto volare, e non ho potuto dare un preavviso consistente perché dagli ospedali chiamano non più di 24 ore prima del ricovero. Non mi hanno dato i permessi, hanno
considerato quelle assenze come giorni di ferie”.
Ma accanto all'evento straordinario, che se sei fortunato può anche non capitare, c'è la normalità di tutti i giorni, fatta di ritardi, cancellazioni, maltempo, nebbia, scioperi. Basta un po' di nebbia per rientrare a casa con un giorno di ritardo. Lei ha risolto con una persona fissa, ha anche una casa che le consente di
ospitarla, ma molte colleghe ricorrono alle baby sitter a singhiozzo. Appena rientrano stanno loro con i figli. “Vita per se stesse non ne hanno. Sento gente che
non va al cinema da tre anni”. Il vero problema è però la continua incertezza su
quando si potrà essere a casa. “Pur avendo una persona fidata che bada a mio
figlio, noto la diversità di stato d'animo con cui vado a lavorare nei periodi in cui
lui è con suo padre. Esco di casa con una leggerezza che in altri periodi dell'anno non ho”. In altri periodi dell'anno, basta una nevicata a gettare nell'angoscia.
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A breve, questa tensione potrebbe aumentare a dismisura. Perché con il compimento del dodicesimo anno di suo figlio, Annarita. può essere destinata ai turni
di 5 giorni. “Per chi deve lasciare famiglia 5 giorni sono troppi. E i cambi di turno
sono possibili solo in teoria, perché ci sono orari minimi di riposo tra un turno e
l'altro ed è difficilissimo far combaciare tutto”.
Eppure non sarebbe difficile rendere la vita più semplice a molti dipendenti.
Basterebbe organizzare un maggior numero di voli in giornata. “Sarebbe come
andare in ufficio: ti consente ogni sera di tornare a casa e riprendere in mano la
situazione. Altre compagnie hanno basi a Firenze e Verona dove fanno solo voli
in giornata. L'ideale sarebbe fare un settore di voli in giornata, dedicato a chi lo
richiede, perché i figli comunque vanno seguiti, anche se hanno più di tre anni.
E poi le persone verrebbero utilizzate di più e si risparmierebbero i costi d'albergo”. Guarda anche al vantaggio aziendale, Annarita. E conti alla mano non si
riesce a darle torto. La sua compagnia ha una base a Venezia da dove si effettuano solo voli in giornata. E fare questo tipo di turni non vuol dire lavorare di
meno. Vuol dire alzarsi presto, salire anche su 4-5 aerei ma, la sera, atterrare
nella propria città e andare a dormire a casa. Se si lavora a Milano è possibile.
Ma se si è dipendenti della base di Roma i voli a giornata assegnati sono al massimo 5 al mese. Eppure il mercato c'è, tanto è vero che vengono assunti molti
stagionali proprio a questo scopo. E c'è anche la richiesta, nonché la necessità,
da parte dei dipendenti: “Ho almeno 400 tra colleghe e colleghi, perché ci sono
anche dei padri soli, che hanno problemi di cura e quindi richiedono i voli in giornata; ma si devono spartire una torta piccola. Quando si costruiscono i turni se
ne costruiscono pochi di questo tipo Perché non lo so. Potrebbero costruire
quello che vogliono ma non lo fanno”. E i conti non tornano. Se tutti i dipendenti che sono impossibilitati a fare i turni di più giorni venissero fatti volare a pieno
regime con i turni a giornata potrebbero effettuare anche 70 ore di volo invece
delle 20 che riescono a fare. Non ci sarebbe quasi più bisogno di assumere stagionali. Si ridurrebbe anche il carico degli over time, che finiscono per fare anche
85 ore tra le nuvole, il che significa essere in servizio per 170 ore.
Perché l'azienda insista è un mistero. “La spiegazione ufficiale è che i turni di 5
giorni sono più vantaggiosi, più i dipendenti stanno fuori e più a loro conviene.
Ma questo è vero solo sulla carta. In realtà stanno constatando che di fatto la
gente si sottrae e che ogni volta hanno bisogno di otto assistenti (4 titolari e 4
riserve), così hanno deciso di ridurli. E prima o poi andranno affrontate le assurdità organizzative del lungo raggio, che comporta il passaggio obbligato per
Malpensa: un assistente di volo che vive a Roma deve alzarsi alle 4.30 del mattino per prendere servizio alle 10.30 a Milano sul volo per Miami. Al ritorno è lo
stesso. Ed è lo stesso anche per i passeggeri.
Annarita è alla vigilia della partenza per uno dei suoi turni di due giorni. “Domani
parto da Roma per Londra, poi da Londra a Milano e da Milano a Londra. Dormo
a Londra, e il giorno dopo faccio la tratta Londra-Roma”. Tra poco le sue giornate avranno altri ritmi: ha chiesto il part time. Una riduzione di orario e dello stipendio del 25%: un cosiddetto part time verticale, starà a casa una settimana al
mese, sempre la stessa settimana. “La cosa bella è che non solo starò di più a
casa ma potrò fare per me e la mia famiglia un po' di programmazione a lungo
termine”. Oggi, infatti, lei viene a conoscenza dei suoi turni solo il 25 del mese
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per il mese immediatamente successivo. Non può nemmeno prenotare una visita specialistica, se non a rischio di doverla disdire. Poter avere la libertà di gestire una settimana al mese del proprio tempo è un miraggio cui aspirano in molti:
per questo l'attesa è durata ben un anno e cinque mesi, roba che se si fosse trattato non di una scelta ma di un'urgenza… In caso di necessità c'è solo la legge
104, che prevede 3 permessi al mese. Ma anche quelli non vengono rilasciati
pronta consegna, ossia appena servono. E riguardano solo i voli in giornata.
Anna quindi guadagnerà di meno. Come molti colleghi, e soprattutto colleghe,
per un semplice motivo: se hai un figlio e vuoi continuare a lavorare non esistono alternative. “Probabilmente se i voli giornalieri fossero pianificati meglio avrei
potuto scegliere”. Lei ha comunque avuto almeno l'opportunità di optare per il
turno di 2-3 giorni. Ma è la classica scelta obbligata: “non ho scelto i voli in giornata per ragioni puramente economiche”. Anni fa era peggio, “i voli in giornata
non esistevano, non esistevano nemmeno i congedi parentali”. E lei ha fatto
quello che ha dovuto e potuto, si è organizzata. Ma tutto questo comporta un
maggior costo e anche un minor guadagno. “Noi donne guadagniamo meno
degli uomini perché gli stipendi sono formati di parti variabili e noi non possiamo
essere pienamente disponibili. Rispetto a un collega che vola normalmente,
sempre nel settore a medio raggio, prendo circa il 25% in meno”.
3 Yan Jiang, giornalista e imprenditrice
E' arrivata in Italia per caso e ci è rimasta per caso. Con impegno, passione, successo. Si chiama Yan Jiang, viene da Shanghai, dove è cresciuta e dove si è
laureata in letteratura antica.
Per prima cosa inizia a studiare il nostro Paese. E' venuta per conoscerlo, ma
ha anche altri obiettivi. “Il mio primo periodo in Italia è passato tra studio, lavoro
e volontariato alla Caritas. Il lavoro mi permetteva di mantenermi, lo studio di
conoscere questo nuovo posto e facendo volontariato realizzo qualcosa in cui
credo”. E' ancora per caso che entra in contatto con l'Anolf, l'Associazione nazionale oltre le frontiere, che segue per la Cisl le questioni legate all'immigrazione.
“Facevo l'interprete, insegnavo cinese ma ho iniziato anche a fare la sindacalista, ho frequentato subito un corso di formazione specializzato. L'Anolf mi ha
aperto un altro mondo, io ero un'immigrata ma è così che ho conosciuto davvero il mondo dell'immigrazione”. Quello che man mano scopre la fa riflettere, capisce che tra le straniere c'è un'alta percentuale di donne preparate, qualificate,
che hanno studiato. “Ho pensato che se vogliamo cambiare la situazione bisogna cominciare un po' da noi. Ci ho creduto molto e per questo ho continuato a
lavorare alla Caritas e, dove c'è una vastissima comunità cinese. “Non lavoravo
solo per i cinesi ma per tutti gli immigrati, ma lì gli orientali sono la maggioranza”.
Per la terza volta, il caso e il suo spirito di iniziativa aprono una nuova strada a
Yan: sfruttando la preparazione acquisita in patria realizza un tg in lingua cinese per gli immigrati, in collaborazione con l'Anolf, per una televisione locale. E'
dopo questa esperienza che si aprono le porte della Rai: viene contattata da
RaiDue, per il programma “Un mondo a colori”, dedicato proprio ai tanti aspetti
dell'immigrazione in Italia. Lavora per due-tre anni, e intanto continua la colla-
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borazione con l'Associazione legata alla Cisl. “All'inizio tornavo sempre a Prato
a continuare il lavoro, anche se in Rai i ritmi erano faticosissimi, 5 puntate a settimana, sempre in giro, poi a fare telegiornale in Toscana”. Quando l'esperienza
in Rai si conclude, viene chiamata dalla sua comunità per dirigere giornale cinese con diffusione in Europa, per 3 anni.
Non le manca mai la voglia di contatto. “Una straniera che sta in un posto non
suo deve avere la buona volontà di inserirsi e farsi conoscere”. Come a dire che
non si emigra solo per motivi economici, per lavorare e spedire soldi a casa, ma
se si cerca di integrarsi, di fare davvero uno scambio, qualcosa viene fuori.
Forse è da questa voglia di scambio reciproco che matura in lei un'idea nuova.
“In tutti questi anni ho scoperto che l'immagine del mio Paese è rappresentata
veramente male. Allora mi è venuto in mente di fare un centro sulla cultura e
gastronomia cinese, che sono le due cose più importanti”. Non fa solo il progetto, lo realizza. Due anni fa apre un locale nel pieno centro di Roma, uno spazio
che nel giro di poco tempo ha funzionato davvero bene. Casa da tè, luogo di
incontri culturali e mostre, tutto a scopo non commerciale. Lo anima lei. “Ho
sempre seguito l'idea che chi arriva e chi sta qui si devono incontrare, conoscere reciprocamente. È un lavoro di comunicazione”. In poco tempo il suo centro
diventa un punto di riferimento, viene citato su tutte le guide nazionali e internazionali, risulta tra i collaboratori della prestigiosa mostra sulla Cina alle scuderie
del Quirinale. Ma lei pensa già alla prossima battaglia da vincere, che riguarda
le donne immigrate: “E' un mondo ancora poco conosciuto poco, in realtà molto
qualificato: rispetto all'immigrazione generale in Italia la percentuale delle donne
che hanno studiato è molto alta. È vero che ognuno deve trovare uno spazio per
entrare nel mondo del lavoro, così si cerca quello più facile e il sistema italiano
non favorisce molto l'immigrazione di alto livello, si tende a guardare a chi arriva dall'estero come a qualcuno che può fare solo manodopera, non danno molta
importanza alla professione delle donne. Invece questa è una risorsa che questo Paese deve usare senza paura”.
Quando si arriva in un Paese straniero è determinante il sostegno iniziale, che
è quello che Yan ha ricevuto e di cui è grata: “Ho avuto prima di tutto di fiducia,
informazioni per piccole cose. Alla fine ho fatto questo percorso perché c'è stato
chi all'inizio mi ha aperto una porta. Ma in generale le strutture sociali sono
anche un po' deboli, non molte danno una mano per ricollocarsi nel mondo del
lavoro, c'è un po' di pregiudizio sulle donne, è una società un pochettino maschilista”.
Mettere sotto pressione un immigrato è facile, basta far leva sulla scarsa conoscenza linguistica. “A me non è successo.sono piccolina ma ho un carattere
molto forte. Ma a molte altre persone sì. Quando non si parla bene italiano si
viene trattati male”. Quello che invece sarebbe utile per tutti fare è valorizzare al
massimo la presenza e la forza delle donne immigrate. “Le donne straniere,
soprattutto dalle nostre parti, sono molto forti mentalmente, resistono. In Italia si
deve riuscire a vedere questa risorsa in modo positivo, può essere importante”.
Qualcosa sta già cambiando, perché non tutte le straniere si dedicano a mansioni di tipo domestico. E' una realtà in espansione si cui Yan invita a soffermarsi: “Molte sono inserite bene anche nel mondo della professione, molte sono
avvocati, medici, insegnano. Sono diventate giornaliste, imprenditrici. Fa comodo pensare alle straniere come solo a colf o badanti ma non è così, anche perché spesso hanno acquisito la cittadinanza. In quel caso sono abbastanza inse-
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rite, riescono a usufruire degli stessi servizi sociali scarsi e le loro difficoltà sono
le stesse delle donne italiane".
Yan ha un bimbo molto piccolo e sta vivendo infatti quello che vivono tanti genitori italiani: lotta per inserirlo in una scuola pubblica. “Il sistema dell'asilo è assurdo, se una donna lavora non sa cosa deve fare: il pubblico non accetta i bambini, il privato costa. Se non risolvi i problemi pratici alla radice non aiuti le donne
che lavorano. Da noi in Cina tutte le donne lavorano perché i nidi hanno costo
molto basso e tutte ne possono usufruire. Questo si chiama servizio. Deve essere accessibile a tutti altrimenti che servizio è. Perché la struttura pubblica non è
per tutti? Serve alle mamme italiane ma soprattutto a quelle straniere, perché
non hanno i nonni”. Ma le straniere hanno ancora più problemi a vedere ammessi i propri figli al nido. Yan, a Prato, ha visto tante donne arrivare dallo Zhe Jiang,
una delle province meno sviluppate del suo paese di origine. “Arrivano solo per
lavorare e lavorano tanto chiedendo poco. E quando partoriscono mandano i
figli in Cina dopo sei mesi, perché negli asili non c'è posto. Una delle domande
che mi facevano più spesso era: può tornare un neonato di 4 mesi in aereo? Non
capisco. Tutti vedono questo problema tutti si lamentano e nessuno fa qualcosa”.
4 Ada, infermiera
“Oddio, come faccio?”. E' la reazione immediata alla scoperta di aspettare il
secondo figlio. Non rimane la libertà di godersi la gioia. E una vita senza pause
viene considerata “una vita normale di tutte le persone che hanno bimbi”.
La storia di Ada (non è il suo vero nome), quarant'anni, è davvero normale sotto
molto aspetti. O mostra quanto si sia esteso il concetto di normalità. Ada lavora
in una Asl di una città toscana, abita in un piccolo centro e passa molto tempo
in auto ad accompagnare i figli da un posto all'altro, quando non è al lavoro.
Quando ha avuto il primo non era occupata, aveva 23 anni e si è goduta una
maternità senza corse. O perlomeno senza corse folli. “Ho iniziato a lavorare
quando il bimbo ha iniziato ad andare alla materna, alle elementari abbiamo
scelto il tempo pieno. C'era più elasticità, non era una passeggiata ma era gestibile. Facendo i turni con mio marito ci si arrangiava”.
Il primogenito ha quasi 15 anni quando Ada scopre di essere nuovamente incinta. E la reazione immediata è appunto di disorientamento. “La prima sensazione è stata: oddio, come faccio? Pensi subito a come potrai organizzarti. Il secondo figlio ci piaceva ma sapevamo che saremmo andati incontro a gravissimi problemi”. La bambina, che oggi ha 14 mesi, è affidata, quando Ada lavora, alle
cure della suocera. “Se non hai un appoggio non ce la fai, non puoi gestirli. Io
ho la fortuna di avere un punto di riferimento ma se lei ha qualche problema
devo stare a casa. Ricominciare non è stato facile. Ci si scoraggia anche quando si è provato quanto è bello aver il primo”.
I turni normali di un ospedale vanno dalle 7 alle 14, dalle 14 alle 21. Poi ci sono
i turni di notte. Fino al primo anno di vita del bimbo si può lavorare 4 ore, ma al
tredicesimo mese si pone il problema. E inizia il tour de force. A volte, dopo aver
lavorato in notturno, Ada smonta alle 7 e corre a casa per darsi il cambio con il
marito che esce per andare in ufficio. A volte si incontrano per strada e si pas-
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sano, letteralmente, la bambina. “Agli asili non ti puoi appoggiare: se devi cominciare a lavorare alle 7 non sono ancora aperti, e non esiste nessun asilo che
copra il turno 14-21”.
Non esiste nemmeno l'asilo aziendale. Che sarebbe pienamente giustificato in
una struttura dove lavorano circa 250 persone. “Perché non si aprono? Non lo
so se è un problema organizzativo, ma so che sarebbe una svolta. Sarebbe l'ideale”.
Nemmeno il turno giornaliero, dalle 7 alle 14, che pure è una possibilità, servirebbe a qualcosa. “Ci vorrebbe un asilo che apre alle 6.30, e comunque dovresti far alzare il bimbo alle cinque e mezzo. I tempi materiali sono diversi da quelli che possono essere messi su carta. La realtà è diversa. L'ideale sarebbe un
orario di lavoro dalle otto alle dodici e dall'una alle cinque, spezzato”.
Finché c'è suocera c'è speranza, così le giornate vanno avanti tra smonti, riposi e incroci tra genitori. E ce n'è sempre qualcuna, anche senza imprevisti, perché c'è il figlio grande da accompagnare agli allenamenti, ai tornei, alla corriera
che lo porta a scuola. Senza mai fermarsi, nemmeno se si è lavorato la notte.
“Ci sono abituata. Viene a casa, studia, alle 17.30 lo poto all'allenamento, poi
torno a casa preparo la cena poi ricarico sulla macchina la bimba, il seggiolino
e tutto e lo vado a riprendere. Non puoi nemmeno penalizzarlo perché sei stanca o perché non ci sono i mezzi. Quindi non ti fermi mai. Vedo solo il telegiornale, perché è alle otto ma già alle nove non ce la faccio. E anche il sabato e la
domenica non esistono, sono più quelli che passo al lavoro che quelli che passo
a casa”. È la spietata legge del turno che non puoi cambiare. “Non c'è flessibilità nei turni. Al più trovi la collega clemente che fa il cambio ma è una cosa tua.
A meno che non si prenda un part time allora la flessibilità c'è. Ma non tutti possono. Una famiglia che ha un mutuo, due figli, due macchine non può. Il part
time ti dimezza lo stipendio. Se per flessibilità si intende questo…”
5 Clara, trader sui mercati azionari esteri
C'era una volta, a Milano, una professionista dipendente di un importante gruppo bancario-assicurativo. Il suo lavoro inizia nel 2000 con grande successo e
grandi guadagni. Poi nasce il primo figlio, poi il secondo, poi le cose in famiglia
vanno male e cambia tutto. La laureata con alta specializzazione finisce in una
specie di call center aziendale e tuttora non si libera delle tensioni interne al
luogo di lavoro.
Il nome che le daremo è Clara. Inizia a lavorare nel 2000, arriva alla grande
azienda con le sue forze, con un curriculum di tutto rispetto. L'incarico è di rilievo: trader sui mercati azionari esteri. Poi si evolve rapidamente. Si occupa di
negoziazioni azionarie per ordini di gestioni patrimoniali e fondi comuni. Le passano per le mani importi altissimi. La sua giornata è fatta di contrattazioni dirette su quasi tutte le borse del mondo. Per i più, difficile persino da immaginare.
“Un lavoro molto bello, interessante, stressante. Richiede un aggiornamento
continuo, tanta competenza e un altissimo grado di responsabilità. Nei nostri uffici si maneggiavano anche 30 milioni di euro al giorno”. Lei va come un treno, è
apprezzatissima, riceve elogi e premi di produzione. Mai una nota negativa.
Tutto cambia quando Clara, verso la fine del 2001, rimane incinta. Si tratta di
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una gravidanza difficile, lei va comunque a lavorare ma ha serie minacce di
aborto e deve arrendersi quando il suo ginecologo la guarda negli occhi e le
chiede se questo figlio davvero lo vuole o no. “Non ce la facevo. I nostri ritmi di
lavoro sono intensissimi e anche il tragitto casa-ufficio è lunghissimo. Io abito in
periferia e la sede è in pieno centro. Ho fatto domanda di assenza per gravidanza a rischio e appena una settimana dopo ho subito un ricovero ospedaliero. Il mio era un bisogno concreto, ne avrei fatto volentieri a meno”.
Le conseguenze non tardano a farsi sentire. “Nel mio ufficio gli stipendi, mediamente, non sono molto alti né vengono pagati gli straordinari ma c'è un bonus
abbastanza consistente, variabile, non legato a parametri predefiniti. E' una specie di via non ufficiale per riconoscere sforzi, produttività, ore di over time e risultati aziendali. Nel 2001, nonostante l'11 settembre, l'azienda ha avuto un vero e
proprio exploit. Io avevo lavorato 11 mesi su 12, mi aspettavo un bonus notevole invece mi arriva appena qualcosa in più del normale stipendio. L'anno precedente i risultati aziendali erano stati decisamente inferiori eppure il bonus era
stato tre volte più alto. Non avevo mai avuto un richiamo, nemmeno un rimprovero”. L'unica risposta: sei in maternità, se ti va bene è così, altrimenti è lo stesso. Allora Clara inizia a intuire che non l'aspettano giorni facili e che quello che
ha dimostrato professionalmente fino a quel momento non serve a niente. “È
stata la prima mazzata. Avevo cercato di dare comunque tutto ed ero tornata al
lavoro nonostante i problemi della gravidanza. Ho vissuto davvero male questa
cosa, ho capito come funziona, finché gli servi e ci sei va bene, altrimenti arriva
subito un calcio. Questo mi ha fatto riflettere: avevo messo a rischio mio figlio
per questo”.
Per il momento finisce lì. Clara partorisce, e quando il bimbo ha 6 mesi rientra
al lavoro, lasciando il figlio a una baby sitter. Chiede la riduzione di 2 ore al giorno per allattamento, come previsto dalla legge. E' una fase di stasi per l'economia, adesso l'11 settembre si fa davvero sentire e nel suo ufficio l'attività è ridotta. “Le mie due ore in meno, oggettivamente, non mettevano in crisi nessuno”.
Oppure mettono, invisibilmente, in crisi un codice di priorità. Fatto è che l'atteggiamento nei suoi confronti cambia: “E' da lì che sono iniziate le ritorsioni, dal
togliere il saluto al non coinvolgermi nelle riunioni al non riconoscimento della
professionalità. Addirittura mi hanno tolto alcuni programmi dal computer, così
non potevo lavorare come gli altri”.
Niente male per un gruppo di livello internazionale, che vanta anche un bilancio
sociale. Il messaggio che arriva a quella che un tempo, poco tempo prima, era
una dipendente modello non è esplicitato in parole ma è forte e chiaro: “Dovevo
far il mio lavoro semplice e basta. Mi è costato. Se sei una persona abituata a
lavorare bene, hai avuto ottimi voti all'università, hai studiato con l'obiettivo di
lavorare a un certo livello fare dei passi indietro ti pesa molto”. Lei stringe i denti
e fa quello che deve fare. Raggiungendo sempre, come prima della gravidanza,
gli obiettivi prefissati. Un giorno la richiesta di un permesso le vale una pubblica
scenata da parte del capo (donna). “Mi ha ripreso davanti a tutto lo staff, ha detto
che ero diventata un'impiegata postale, che non mi impegnavo più, che dovevo
avere delle priorità, scegliere tra casa e lavoro, che non tollerava il part time (era
allattamento) e che sarei stata chiamata dal direttore del personale”. Clara prende comunque i permessi cui ha diritto, ingoia ancora il rospo e va avanti. “Avevo
in mente una querela, era stata davvero una scena infame, e per di più davanti
a tutti”. Ma spera che un atteggiamento conciliante alla fine venga apprezzato.
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E scopre di essere di nuovo incinta.
E' il 2003. Un anno caldissimo. Andare a lavorare è pesante ma lei non vuole
creare disagi: “Ho scelto di non dare problemi all'azienda, ho cercato di essere
serena”. Ma anche stavolta la gravidanza è a rischio. E' anche peggio della
prima, perché al feto viene diagnosticata una malformazione cardiaca. Quando
nasce, il bimbo trascorre una settimana in terapia intensiva. E non finisce lì:
“Fino a quando non ha compiuto un anno non sapevamo se sarebbe stato come
tutti gli altri”. Clara fa altre assenze per malattia bambino: tutto secondo quanto
previsto dalle leggi, senza nessun abuso. Semmai con molti scrupoli: “Avevo
problemi, non potevo fare diversamente”.
Quando rientra scopre di non esistere.
“Nessuno mi ha sostituita, nella sala di lavoro, ma mi hanno detto che il mio
posto non c'era più”. Allora capisce che è inutile sperare in un recupero del suo
ruolo, chiede il part time e affronta le conseguenze: “Sono finita al call center a
inserire fax dei promotori per ordini che non ritenevano utile inserire personalmente”. Dai milioni di euro si tratta di documenti che riguardano operazioni di
400 euro. “Cose che poteva fare anche uno stagista”. Ma lei lavora, si trova bene
con i nuovi colleghi e ha un rapporto positivo con il capo. Non è il sogno della
sua vita, non ha più il bonus economico. Pazienza. “Ho scelto la via della
responsabilità”, sintetizza, ovvero, traducendo: perché non posso avere figli e
fare, magari ridimensionato, il lavoro di prima?
E' una domanda non formulata, che comunque non ha una risposta e che nel
giro di altri mesi viene superata dagli eventi. Uno dei suoi genitori si ammala gravemente e va continuamente assistito. L'altro, nel giro di pochi mesi, è colpito da
un ictus. Due figli e due genitori sulle spalle. Il piccolo va tenuto costantemente
sotto controllo. Clara deve chiedere l'aspettativa. Ancora una volta, una richiesta
legittimata dalle norme di legge e da un evidente e documentato stato di necessità. Ma questo non serve a creare un'atmosfera non solidale ma quantomeno
senza tensioni. “Eppure purtroppo queste situazioni prima o poi ce le hanno
tutti”.
Quando il periodo sta per finire, Clara prende un'altra decisione difficile: chiede
un prolungamento. Ricorre alla legge 53 per gravi motivi familiari. Non dovrebbe essere un problema, la sua assenza: l'azienda non ha costi da sostenere che
la riguardino e per di più ha avviato procedure di esubero. Ma la nuova richiesta
le frutta una convocazione da parte del direttore del personale, “Mi dice che non
vede futuro per me in azienda e che devo valutare l'opportunità di un part time
di 3 ore giornaliere o accettare un incentivo all'esodo”. Anche in questo caso, l'incentivo offerto, che per tutti gli altri è pari a due anni di retribuzione, è sensibilmente inferiore. “Non era solo un danno economico. E' stato come darmi della
persona poco responsabile. Eppure ho optato per l'aspettativa proprio per non
fare assenze a singhiozzo mettendo a disagio l'organizzazione aziendale. Pago
in prima persona il fatto di non venire al lavoro”. Clara è sotto pressione, messa
alle strette per indurla a licenziarsi. Non è esattamente quello che ci vuole quando si hanno gravi problemi familiari. “Non riuscivo a credere che un'azienda con
tanto di bilancio sociale, che vanta di fare uso di carta riciclata per non abbattere gli alberi, che spende tante parole sulla tutela del lavoro femminile trattasse
poi in questo modo i suoi dipendenti”. Eppure è costretta a rivolgersi ai sindacati perché, a 24 ore dalla scadenza della prima aspettativa, ancora non sa quale
è il suo destino. E un motivo non c'è. “La legge prevede questa richiesta solo per
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motivi gravissimi. Se sei in quella determinata categoria di eventi vuol dire che
sei proprio nei guai fino al collo”. Non vale nemmeno l'ipotesi, sempre prevista
dalla legge, di un no dell'azienda per provate esigenze organizzative: lei non è
in servizio da 8 mesi.
La storia non è ancora finita. L'anno di aspettativa è appena iniziato, poi se la
situazione non migliora lei dovrà scegliere. Come dice, appunto, la legge, che
prevede tutele ma le limita anche. “Lo so che una donna quando è a casa per
maternità è un problema per azienda, ma non c'è rimedio a questo”. Un commento che la dice lunga su quanto vorrebbe trovarsi in una situazione diversa,
su quanto ancora fatichi a trovare una spiegazione al comportamento usato nei
suoi confronti. Lei è cosciente di essere sempre stata una lavoratrice responsabile: “Andavo sempre via quando avevo finito, non prima, senza guardare l'orario. Il problema è che negli uffici italiani è diffusa la consuetudine che il tuo lavoro deve venire prima della famiglia. Ma se sai quali sono le priorità della vita è
una cosa che a livello aziendale dovrebbe avere un valore, perché non fai bene
il tuo lavoro se non dai il giusto peso alle cose”.
Non c'è nemmeno una spiegazione di convenienza. La sua riflessione è matematica, non fa una piega: “Mi chiedo chi ci guadagna da questa cosa: se una
donna non va a lavorare non paga le strutture e una serie di persone. Una donna
che lavora fa girare l'economia”. In questo anno che ha davanti, Clara si farà
sempre la stessa domanda: “che futuro ho in un'azienda che mi ha messo i
bastoni tra le ruote in una situazione così grave? E' peggio di un maltrattamento fisico, ti lascia i segni nell'anima. Cosa mi posso aspettare da un'azienda
così?”.
6 Bianca, addetta alle vendite in un centro commerciale
Il nome che abbiamo scelto per lei è Bianca. Vive a Napoli, ha un figlio di due
anni e mezzo, lavora in un ipermercato. In questo grande centro commerciale ci
sono 400 dipendenti, tantissime donne, tantissime (il 70%9) sposate e con minimo due figli. Ma nessun asilo. E se restare incinta e assentarsi anche nove mesi
per una gravidanza a rischio non è un problema, “alle casse si sopperisce con
qualsiasi persona, c'è sempre una stagionale che ti sostituisce”, lo è la gestione
delle giornate quando l'aspettativa per maternità finisce. Lei ha risolto, ma non è
facile. “Ho scelto di cambiare reparto. Fino al mese di giugno lavoravo alle
casse. Significa fare turni sballati ogni giorno, una volta mattina, una volta dalle
16 alle 21, portavo mio figlio da mia madre o da mia suocera senza riuscire a
organizzarmi e a dargli dei ritmi stabili. Asili nido in zona non ce ne sono. Alla
fine ho deciso di spostarmi nel reparto abbigliamento. Ho il turno fisso di mattina, riesco a gestire meglio la situazione. Anche e soprattutto perché ho mia
madre, che lo tiene la mattina. Io sto con lui il pomeriggio”. Una madre, giovane,
che abita nello stesso stabile. Una fortuna, riconosce, ma quante ce l'hanno?
Le sue colleghe delle casse hanno ancora lo stesso problema. Spesso si tratta
di madri sole, non possono gestire la situazione con i loro bambini ma non sono
propense al trasferimento di reparto. “E' che si cambia lo stile di vita. Facendo
la cassiera passi i prodotti e hai un contatto con cliente e soldi. Nei reparti devi
anche caricare le scaffalature, è una fatica fisica”. Per alcune, avanti con gli
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anni, non è affrontabile. Per altre, più giovani, c'è l'orario a impedirlo: “Inizi la
mattina presto, alle 7, molte ragazze non possono perché a quell'ora non riescono a portare i figli al nido”. Esterno, perché nonostante le dimensioni dell'azienda e nonostante le richieste dei dipendenti nell'ipermercato l'asilo non c'è. “Se ci
fosse avremmo davvero meno problemi. Portarsi il bambino al lavoro consente
di non correre, di organizzarsi, di non aver angosce. Così invece se devi fare
un'ora in più non puoi perché sei vincolata”.
E non c'è nemmeno una convenzione, che invece sarebbe utilissima a persone
che lavorano da un minimo di 4 a un massimo di 6 ore al giorno, con un guadagno non certo elevato. “Siamo tutti part time, da noi non si parla d'altro. Non
vogliono aumentare le ore i contratti sono tutti uguali, abbiamo tutti la stessa
qualifica. Siamo tutti identici dall'addetto alla cassiera alla macellaia alla pasticcera, siamo tutti uguali”. I contratti sono a ore, lei ne fa 22 settimanali, altri 20 o
24. I turni vengono fissati solo una settimana prima; c'è un preavviso massimo
di 15 giorni per quelli alle casse. Difficile organizzarsi la vita, soprattutto se i capi
reparto non hanno vissuto i problemi dei loro collaboratori: “Prima la situazione
era peggiore. Ora ci sono nuovi capi reparto che in pratica sono, lavorativamente, cresciuti con noi, ci conoscono, si rendono conto dei nostri problemi e
trovano soluzioni diverse, ci danno una mano”.
E' serena, Bianca, ha trovato un compromesso accettabile. Ma da come pensa
al futuro si vede che la gestione quotidiana lascia sempre col fiato sospeso: “Un
secondo bimbo? Ci sto pensando. Ma aspetterei di mandare il primo a scuola e
poi vedere di lasciarne un altro alla nonna. Alla fine sembrano pacchi regalo che
lasci ogni mattina”.
7 Sofia, infermiera in pensione
La storia di Sofia è una storia di difficoltà senza aiuti. Uno dei tanti casi in cui il
lavoro di cura, l'assistenza a tempo pieno a qualcuno che non è più in grado di
occuparsi di se stesso, è un problema solo tuo.
Sofia è un'infermiera in pensione. Ha una figlia, avuta ormai parecchio tempo fa.
Pubblica dipendente, ha vissuto la maternità e il lavoro con quello che le leggi
del momento permettevano di fare. Tra la baby sitter e i turni alternati con quelli del marito, anche lui infermiere, hanno tirato su una figlia che oggi è madre a
sua volta. Con varie difficoltà: “Mia figlia ha ridotto l'orario di lavoro ed è stata
solo fortunata ad averlo potuto fare. Vedo il futuro della donna che lavora possibile solo con la riduzione d'orario. E' una delle poche soluzioni possibili ma non
c'è cultura né molte possibilità su questo; in Italia se ne parla tanto ma è estremamente difficile avere il part time, e te lo fanno pesare rendendoti la vita quasi
impossibile”.
Da madre, Sofia era impegnata in ospedale 40 ore a settimana, inclusi i turni di
notte: “Sotto alcuni aspetti davano la possibilità di una maggiore presenza
durante il giorno, ma vivendo pesantemente. Se lavori di notte, di giorno non sei
certo al meglio”.
E' un lavoro a flessibilità zero. Si può chiedere un cambio ferie o un cambio turno
ma in casi eccezionali. La regola di base, ferrea, era attenersi ai turni. Anche se
organizzare le cose diversamente è possibile e Sofia lo sa per esperienza personale: “Ho avuto un ruolo di coordinamento, facevo la caposala. Uno dei pro-
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blemi più urgenti era gestire il personale femminile sposato con figli. Avevamo
avviato una struttura nuova nel territorio, dovevamo stabilire i turni per un arco
di tempo dalle 7.30 alle 18.30 e le lavoratrici madri erano nel panico per il timore di avere orari che non permettessero più di portare il bambino a scuola. Ho
dovuto fare un'operazione di convincimento nei confronti dei colleghi uomini, che
sono stati disponibili, e un bel lavoro di organizzazione per favorire le donne al
mattino in modo che potessero portare i bimbi a scuola senza problemi. C'ero
passata prima quindi ho cercato di risolvere, ma in genere è molto difficile trovare la disponibilità da parte dei responsabili a capire le problematiche dei lavoratori. Io sono stata fortunata, col mio primario ho lavorato benissimo ma dipende dalla sensibilità delle singole persone, non dal sistema. Se si è disponibili ad
affrontare il problema non si risolve tutto ma qualcosa si può fare. Secondo me,
rispetto a ieri, oggi non è cambiato molto. È questione di possibilità ma anche di
volontà”.
La vita, a volte, sembra davvero fare i capricci. Sofia e suo marito sono da poco
in pensione quando lui inizia a manifestare i primi sintomi di una malattia degenerativa che lo porterà rapidamente alla non autosufficienza. Lei ha una sola
certezza: “Era fuori discussione che stesse fuori casa nostra. Mi sono organizzata la vita a casa. Facevo l'infermiera prima e ho continuato a farlo dopo, mi
sono trovata in un doppio ruolo: familiare, ma con l'esperienza professionale.
Questa esperienza verrà usata ore e ore al giorno, ogni giorno, per sei anni.
Anche volendo, non ci sarebbero alternative alla domiciliarizzazione perché non
avendo ancora 65 anni suo marito non ha diritto a ricoveri di lungodegenza.
L'unica possibilità è quella a tariffa piena, che non si possono permettere.
Il sostegno arriva dal medico di famiglia e da un infermiere che Sofia assume per
farsi sostituire ogni tanto. Ma dalle strutture pubbliche l'aiuto è pochissimo. “Mi
hanno dato il fisioterapista e basta, per di più con una presenza molto limitata,
appena 20 trattamenti l'anno, che successivamente sono stati anche ridotti a 10.
Gli altri me li pagavo io. Addirittura mi hanno inviato a imparare a farli da sola”.
Una lontananza che non si spiega, che non sembra avere motivi e radici se non
in se stessa: “Uno dei problemi più grossi è che le istituzioni non sanno chi c'è
da altra parte, chi è il malato. Sanno di cosa parliamo ma non vedono le persone e quindi non riescono a valutare la necessità. Forse mancano risorse”. Negli
anni subentra una sorta di rassegnazione, le energie servono per affrontare la
malattia e non possono essere spese per lottare con la burocrazia. “Un infermiere mi sostituiva quando non c'ero perché la vita continuava. Mi sono tenuta
spazi di igiene mentale, così li chiamavo. Mi sono stati quasi imposti sia da una
dottoressa che curava mio marito che dal mio medico, impossibile stare sempre
a fianco di una situazione così. Andavo alla Fnp Cisl, il sindacato pensionati, 2
volte a settimana per quattro ore, questo era il mio spazio”. A ogni ritorno a casa,
l'attende una realtà che peggiora a poco a poco, che la rimette di fronte a tanti
drammi che ha vissuto in corsia. Però allora tornava a casa e poteva non pensarci. “È come se non avessi smesso di lavorare. In un corpo devastato rimane
la mente lucida, la cosa molto importante e molto difficile da gestire è questa. E
abbiamo cercato di gestirla con la maggiore dignità possibile. Allora ti viene in
mente che bisognerebbe programmare prima, quando è possibile, il proprio futuro da malati”. E mentre loro vivono questo sforzo di dignità minuto per minuto,
la burocrazia riesce a far arrivare troppo tardi persino i farmaci per la terapia del
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dolore. “E' difficilissimo averla. Abbiamo fatto una battaglia di 15 giorni, ma quando sono arrivati mio marito era morto da due ore”.
Una donna che avesse fatto un altro lavoro, o lei stessa se non fosse già stata
già in pensione, si sarebbe trovata di fronte allo stesso deserto e per di più al
problema della sussistenza economica. “Probabilmente avrei dovuto lasciare il
lavoro, ma non avrei avuto né stipendio, né pensione, non mi sarebbe stato riconosciuto nulla. Sono situazioni che hanno un costo molto rilevante, ci sono esenzioni ma molte cose non vengono riconosciute. In media presentavo nella
denuncia dei redditi un totale di spese extra sanitarie di due milioni e mezzo di
lire. Non so proprio come avrei fatto se non fossi stata in pensione, un conto è
gestirsi da pensionata un conto è dover fare turni, quando hai un lavoro non ti
puoi assentare sempre”.
Non solo maternità difficile. Anche per il lavoro di cura non c'è praticamente nessun sostegno, né c'è un riconoscimento anche minimo per chi ha gestito per sei
anni una persona non autosufficiente senza gravare sulle strutture pubbliche.
Non potendoci contare nemmeno per poco. “I servizi sociali, sanitari, assistenziali non danno copertura. Non pretendevo che mi sostenessero 24 ore al giorno ma due mezze giornata a settimana sì. Perché la struttura pubblica non poteva darmi un sostengo di quel tipo?”.
Una delle risposte che Sofia si è data a questa domanda è che nel caso di suo
marito non c'era la prospettiva della guarigione. “Ma allora cosa facciamo, non li
curiamo, non li facciamo stare meglio?”. Manca del tutto anche la possibilità del
ricovero in un istituto. “Non ho voluto per scelta personale, ma sarebbe necessario se i familiari non sono in grado di prestare al malato l'assistenza necessaria. Aiuterebbe molto anche la possibilità di ricoveri di sollievo per qualche giorno”. Ma tutto quello che è previsto a sostegno di chi da solo non ce la fa è legato al vincolo anagrafico dei 65 anni. Per questo Sofia sposa in pieno la proposta
di legge del sindacato Pensionati, che chiede sostegno per tutte le persone in
condizioni di non autosufficienza. “Sono tante, più di quante non si immagina. E
poi, anche se fossero solo lo 0,6 per mille, come dicono alcuni, sono sempre tragedie”.
8 Alba, operatrice ecologica
Ha trent'anni e un figlio di sette. Fa l'operatrice ecologica in una grande città e
ringrazia la fortuna di avere una suocera che “segue il bambino in tutto e per
tutto”. Ha solo lui “perché noi al lavoro abbiamo i turni, a volte la mattina a volte
il pomeriggio. Io sono privilegiata perché ho qualcuno che mi aiuta ma nei turni
di mattina iniziamo a lavorare alle sei e anche se si trovasse posto per un bimbo
più piccolo all'asilo nido gli orari non coincidono, perché apre alle 7. Fare il turno
di pomeriggio pone comunque dei problemi, perché inizi alle 13.45 e finisci alle
19.45. Mio figlio esce di scuola alle 16, se non ci fosse mia suocera non saprei
come fare”.
Gli orari di lavoro sono inconciliabili con strutture di sostegno. Esiste, in verità,
un'opzione che consente di chiedere il turno fisso, solo la mattina o solo il pomeriggio, consentendo di organizzarsi meglio. Ma c'è un prezzo da pagare: “Se uno
fa il turno che richiede un orario come questo non può fare gli straordinari”. I turni
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di lavoro sono di 6 ore al giorno consecutive per 6 giorni a settimana. “Le
mamme possono chiedere variazione di orario per quando i figli vanno a scuola
ma poi devono essere solo quelli. In pratica, niente extra. Ci sono tante ragazze madri che se non fanno gli straordinari con lo stipendio base normale non
riescono a fare tutto”. Alba (è il nome che abbiamo scelto per lei) prende 900
euro al mese ma ci sono anche livelli inferiori. “La maggior parte delle mie colleghe guadagnano sui 650 euro”. Fare un po' di straordinario, con una busta
paga così, è fondamentale. E sarebbe possibile. Ma qualcuno lo rende impossibile: “Le lavoratrici che hanno chiesto i turni fissi staccano alle 14; se vogliono
fare un prolungamento 2 ore perché il bambino esce alle quattro e mezza non
possono perché hanno richiesto la variazione di turno. E' contraddittorio, non
possono fare il prolungamento del turno ma possono fare la domenica. Eppure
è evidente che se sei sola e non puoi durante la settimana gestirti la domenica
è ancora peggio”. Normalmente, bisogna lavorare una domenica al mese. E'
pagata di più ed è l'unico straordinario consentito a queste mamme. “Non si può
fare niente al di fuori di questa organizzazione di orario”.
Impedire di fare lo straordinario in queste condizioni è solo una delle cose inspiegabili. L'altra è quella degli orari. I turni normali vanno dalle 6 alle 12 oppure dalle
13.45 alle 19.45. Esistono anche i cosiddetti turni intermedi, dalle 8 alle 14, perfetti o quasi per accompagnare i figli al nido o a scuola. Ma sembra esistere una
legge non scritta che impone pedaggi privi di senso. “E' difficilissimo che li diano:
chiedono sempre certificati, o garanzie che non hai nessun sostegno. Una mia
collega ha dovuto portare certificati attestanti che sua madre lavora, che turno
fa e quante ore lavora”. Ci sarà qualche motivo che impedisce di organizzare più
turni di questo tipo. “No. Non è difficile, è questione di cattiva organizzazione”.
L'unico fattore critico è quello dei veicoli per la rimozione dei rifiuti. Ma per tutte
gli altri aspetti della prestazione lavorativa iniziare alle 6 o alle 8 non cambia
nulla. “Ci sono tantissimi altri servizi che vanno garantiti e non c'è danno al servizio o all'azienda se vengono effettuati con un orario diverso da quello fissato
adesso”. L'asilo nido in azienda non c'è. Eppure nella sua struttura ci sono 65
dipendenti di cui 25 mamme.
Sono piccole cose di questo genere che impediscono ad Alba di fare progetti di
allargamento della famiglia: “Non penso a un secondo bimbo proprio per il lavoro; se non ci fosse la mamma di mio marito non potrei gestirne nemmeno uno e
nei primi due anni vita del bambino lei non poteva. Risultato: ero sempre in
malattia. Al nido non lo avevano preso perché lavoriamo tutti e due e hanno la
priorità le persone che non lavorano o hanno problemi di altro tipo”.
Di positivo c'è che all'interno dell'organizzazione aziendale si incontrano persone partecipi dei problemi altrui: “La zona di lavoro dove mi trovo è gestita solo
da donne. Caposquadra e capozona ci aiutano molto, con permessi stabiliti da
leggi che noi non conosciamo. Loro hanno figli grandi ma si ricordano i problemi che hanno vissuto quindi fanno di tutto per venire incontro alle mamme giovani. Trovano loro le soluzioni. Questo conferma che uno spazio per una diversa organizzazione del lavoro c'è. Ci hanno fatto mettere le firme per il progetto
nido; ce n'è uno in tutta la città, ed è difficile che i bimbi siano ammessi. E si tratta di una città grande, anche se si ha la fortuna di vedere ammesso il proprio
figlio all'asilo aziendale bisognerebbe avere la fortuna di abitare almeno nello
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stesso quadrante. Qualche dirigente dovrebbe accorgersi che in un'azienda di
3.000 dipendenti ci vorrebbe qualcosa di più di un asilo solo.
La giornata di Alba è piena, tra lavoro, incombenze di casa e bambino non c'è
un'ora per un corso di inglese. E' contenta quando fa il turno di mattina, perché
riesce a stare con suo figlio tutto il pomeriggio. Altrimenti lo vede 2-3 ore. Il lavoro è duro: “Abbiamo servizi diversi settimana per settimana; la maggior parte
sono attività pesanti, l'unica cosa leggera è la spazzatura manuale. Poi c'è quella meccanizzata ed è più lunga, gli itinerari protetti per il lavaggio strade sono i
più impegnativi. Poi i cassonetti manuali, a tirarli pesano, poi la spezzatura meccanizzata: vai con i furgoni e carichi tutto ciò che è fuori dai cassonetti. E c'è davvero di tutto: mobili, tavoli, anche quello è pesante”. Ma le piace: “C'è soddisfazione quando hai finito una via è un po' come una casa. Vedi che è tutto in ordine e la tua zona di appartenenza la senti tua. E tanti cittadini ti elogiano e ti ringraziano dopo che sei passato. Fa piacere”.
9 Isabel, infermiera specializzata e badante
Viene da lontano. Il suo paese, e quello di suo marito, è il Perù. Lo hanno lasciato 15 anni fa, e lì hanno lasciato due bambine che allora avevano 5 e 6 anni.
L'idea era di stare via qualche anno, l'obiettivo era far vivere meglio la famiglia,
il sogno nel cassetto comprare una casa. Ma per Isabel (il nome è inventato ma
è purtroppo l'unico particolare non vero di questa storia) le cose sono andate
diversamente. Lei e suo marito sono ancora in Italia, fanno gli assistenti domiciliari in due famiglie diverse, in una grande città. Entrambi hanno un titolo qualificato, infermieri professionali, e lei anche una specializzazione in assistenza
psichiatrica che, però, praticamente non usa. Un capitale professionale sprecato, rinchiuso in una casa per mille euro al mese, con un buco nel cuore che col
tempo è diventato più grande: “Volevo tornare, ma non è stato possibile se volevo farle crescere bene”. Finché non nasce, in Italia, anche il terzo bimbo.
Quando rimane incinta la famiglia presso cui lavora la invita gentilmente ad
andarsene. Contro un datore di lavoro privato, individuale, le armi sono poche,
nemmeno la legge ci arriva. La tutela prevista dal contratto nazionale di categoria è limitata. Praticamente lasciata alla coscienza del singolo. Quando c'è.
La gravidanza arriva al termine, Isabel partorisce ma quando prova a tornare a
lavorare si trova di fronte a una commedia dell'assurdo: non le prendono il bambino all'asilo nido perché non ha un lavoro e quindi può badarci lei. Ma senza
una struttura che si prenda cura del bambino lei non può rimettersi sul mercato.
Ci prova ma non ci riesce. E nel frattempo, in Italia e in Perù, le spese corrono.
Alla fine non resta che un'altra lacerazione: mandare anche il bimbo, di un anno
e due mesi, in Sudamerica, dalla sorella che già sta facendo crescere le due
figlie maggiori.
E' misurabile la tristezza? Certamente non con mille euro al mese per 24 ore su
24 dal lunedì al sabato e mezza giornata la domenica. Con tre figli che vedi un
mese - un mese e mezzo l'anno quando va bene, “non è mai abbastanza per
sostituire il tempo perso”, e sempre con il rischio che il datore di lavoro non sia
d'accordo sul periodo chiesto per le ferie. Natale è vietato, c'è sempre più bisogno di assistenza. Ovvero: per le altre famiglie è un diritto, ma non dovrebbe
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esserlo per tutte? Nel frattempo, con i soldi che arrivano dall'Italia le due figlie
stanno frequentando l'università. Privata, perché quelle pubbliche in Perù danno
poche certezze sulla durata del percorso di studio. Il loro futuro si sta costruendo,
quello dei loro genitori molto meno perché le loro 24 ore su 24 non risultano in
busta paga, quindi non sono tradotte in contributi. “Ufficialmente sono pagata per
25 ore settimanali”. A poco, almeno per ora, sono valsi allarmi come quello lanciato
dalla Caritas, che invita a guardare ai lavoratori immigrati di oggi come ai poveri di
domani, che avranno pensioni bassissime perché hanno stipendi in grigio. La
prassi diffusa è che viene dichiarato la metà di quello che fanno. Per motivi inspiegabili, dichiarare 25 ore settimanali conviene, il datore di lavoro paga meno contributi. E il sindacato può poco, perché sono pochi i lavoratori che lo consultano
quando firmano il contratto. Ci arrivano dopo, a rapporto finito. Ed è difficile portare la tutela dei diritti sindacali in una singola casa.
Ma i ricongiungimenti? Ancora una volta, la legge dà questa possibilità, la vita
reale no. “Ci abbiamo pensato, ci abbiamo provato”. Ma anche in questo caso, e
dopo essersi posti i mille scrupoli del caso - ovvero: cosa è meglio per i miei figli?
- si scontrano con i parametri irreali della burocrazia. Per il ricongiungimento di una
famiglia di 5 persone occorre, dice la legge, un'abitazione di 150 metri quadri, per
rispettare i dettami dell'edilizia residenziale pubblica, e un reddito in proporzione.
Suona come una beffa, ma è vero. Il bimbo più piccolo, che ora ha 4 anni, andrebbe comunque assistito da qualcuno ma i nonni non sono previsti, a meno che non
siano gravemente ammalati o non autosufficienti. E' per questo che in Italia ci sono
tanti bimbi nati da stranieri nelle scuole elementari ma non ce ne sono negli asili.
Devono vivere lontano i primi anni, perché le strutture non bastano, le politiche per
il sostegno non garantiscono l'unità familiare. E i bambini quando tornano non
sanno parlare italiano.
Anche per il riconoscimento del titolo professionale vale un meccanismo analogo.
Teoricamente la possibilità c'è, ma in pratica occorre una trafila tale, incluso un
fermo lavorativo di 6 mesi a scopo di studio, che farebbe praticamente decadere
il permesso di soggiorno. Per una porta che si apre, ce n'è un'altra che si chiude.
Anche in questo caso, un soluzione semplice potrebbe risolvere molti problemi:
“Bisognerebbe tutelare la professionalità della badante con un albo, che potrebbe
essere consultato dalle strutture pubbliche, territoriali, comunali, per reclutare il
personale”. Fermarsi per studiare non è possibile anche perché il flusso economico che dall'Italia parte ogni mese verso il Perù non si può interrompere. E comunque ottenere un impiego in una struttura privata del settore non è facile. Nella maggior parte dei casi si ha a che fare con i meccanismi cooperativi, bisogna diventare socio lavoratore, e non c'è la sicurezza economica che è, invece, l'unica molla
che spinge Alba e suo marito a fare tutto questo per il domani dei figli. Però la vita
normale è un miraggio. Persino il sogno è una parola difficile da usare, si scontra
con una vita fatta di realtà minuto per minuto. Tornare in Perù? E' difficile quando
si manca da tanti anni e si è fuori dal mercato, dai giri di conoscenze. Si deve ricominciare e quando si ricomincia si guadagna poco, e l'università costa tanto. Alla
fine si rimane. “Lo facciamo per loro”. Ma far tornare in Italia almeno il bimbo più
piccolo, che a 6 anni potrebbe frequentare le elementari dalle 8 alle 16?
Inconciliabile, con un 24 ore su 24. E cambiare posto è difficile: “Sei dici che hai
famiglia fai scalpore. Non sei una garanzia per un datore di lavoro”.
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+1 Josefa Idem, campionessa olimpionica
“Non ho osato provare gli effetti della gravidanza sulla mia carriera”. Devono fare
davvero paura, questi effetti, se ad esprimersi così è una donna che, in tutta evidenza, è molto difficile spaventare, scoraggiare, tantomeno indurre alla resa. Lei
infatti non ha rinunciato a nulla, ha portato avanti tutto. Ha vinto, con le sue forze
e quelle della sua famiglia. Delle sue vittorie altri hanno condiviso gli onori ma
non gli oneri.
La storia difficile di maternità e lavoro si ripete persino quando la lavoratrice
porta al datore di lavoro 6 ori, 9 argenti e 9 bronzi mondiali, più 8 ori 2 argenti e
1 bronzo a livello europeo. Non fa sconti nemmeno se hai vinto le Olimpiadi. E'
di questo che si parla, di Josefa Idem, campionessa di canoa da primato storico, una professionista di livello talmente alto da risultare la numero uno nella
competizione più difficile, quella che ti dà l'occasione solamente una volta ogni
quattro anni, e se non sei al massimo e non dai tutto ti giochi una vita di preparazione in pochi minuti.
Lei, in realtà, di occasioni a cinque cerchi se ne è prese più di una. E ben più di
una medaglia. Ha iniziato nel 1984, a Los Angeles, con un bronzo; allora gareggiava per la Germania. Dal 1990 gareggia per l'Italia e porta alla Federazione un
bronzo nel 1996, Olimpiadi di Atlanta, un oro nel 2000, Giochi di Sidney, e un
argento nel 2004, da Atene. Un qualsiasi imprenditore farebbe ponti d'oro per
tenersi un elemento così. Ma il mondo dello sport è una strana impresa, dove
persino quest'atleta che detiene un palmares praticamente irripetibile, e che con
la progettata presenza a Pechino sarà probabilmente l'unica nella storia ad aver
preso parte a 7 edizioni dei Giochi per un arco complessivo di ben 28 anni, è
considerata ufficialmente una “dilettante”: etimologicamente, una persona che
pratica sport per puro divertimento.
Lo sport, a certi livelli, invece è un vero e proprio lavoro. Fatto di competenza, di
regolarità e di regole, di 6-7 ore di allenamento al giorno. Ma per la legge italiana non lo è, soprattutto se sei una donna.
Se non sei riconosciuto come un lavoratore tantomeno puoi pensare di avere
diritto a quelle tutele che già ai lavoratori con contratto collettivo nazionale di
lavoro vengono, a volte, faticosamente concesse. Trattamento infortunistico,
cassa malattia, previdenza. A trent'anni smetti di gareggiare e devi ricominciare
da capo, inventarti un lavoro. Così quando Josefa rimane incinta ha intorno a sé
il vuoto “normativo”. Non ci sono tutele, punti di riferimento, è tutto lasciato alla
discrezionalità del singolo. E lei non scommette su un fattore così labile. “Non
ho mai rischiato di fidarmi del buon senso e della benevolenza di qualcuno.
Poiché non esistono regole né tutele per le atlete quando rimangono incinte, ho
disputato un mondiale al terzo mese di gravidanza”. E' il 1994. L'anno dopo, nel
1995, disputa un altro Mondiale; stavolta è in allattamento, ha partorito da poco
più di tre mesi. Eppure il piazzamento che ottiene le consente di qualificarsi per
le Olimpiadi di Atlanta, dove vincerà un bronzo. I meccanismi sono drastici: se ti
fermi, per qualunque motivo, sei fuori. Scivoli indietro nelle classifiche, perdi il
diritto a disputare le competizioni internazionali. “In un anno le cose possono
complicarsi e diventare incontrollabili. Io e mio marito abbiamo deciso, insieme,
di non provare quali conseguenze una gravidanza dichiarata avrebbe avuto sulla
mia carriera”. Nel 2000 c'è l'oro australiano. E poi la storia si ripete sostanzialmente analoga pochi anni dopo. Non gareggia per le selezioni ma disputa i
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Mondiali 2002 mentre è in attesa del secondo bimbo e in quelli del 2003 è nuovamente in allattamento. Si guadagna anche stavolta il biglietto per Atene, la sua
sesta Olimpiade, anno 2004. E torna con un argento. Tutto il globo, via satellite,
la guarda camminare dopo la gara su un pontile di legno dove le corrono incontro due bambini biondi. L'immagine di quell'abbraccio invia in mondovisione un
messaggio chiaro: si può essere mamme e continuare a vincere.
Sulle regole dello sport e del lavoro, però, questo non c'è scritto. E per questo
lei non si è sentita di affrontare quella che sarebbe stata, con tutta probabilità,
una battaglia persa in partenza. “Non ho sperimentato cosa può produrre il vuoto
di regole e tutele. In definitiva, mi sono comportata come se non fossi incinta”.
Né con il primo né con il secondo figlio cambia qualcosa, a livello di sostegno
della Federazione. Nessuna attenzione particolare, che peraltro lei non richiede.
Ma in alcuni casi c'è qualche mancanza di sensibilità. Lei si porta il figlio ai
Mondiali, ma c'è il timore che la presenza di un bambino possa in qualche modo
disturbare gli altri atleti. Così le loro stanze sono lontane da quelle della squadra, e fin qui nessun problema se il loro alloggio non si trovasse a un quarto
piano senza ascensore, con passeggino da caricare e tutti gli altri accessori
necessari quando si porta un piccolo in giro. Va bene, anzi benissimo, non disturbare gli altri ma esistono forme più delicate per farlo. Con il tempo, i suoi figli
sono diventati le mascotte della squadra. Ma è evidente che dietro certe mancanze di attenzione c'è un problema più ampio: “Penso che ormai la società non
sia più a misura di bambino. Ci sono contesti lavorativi che inducono i genitori
ad assentarsi per 10-12 ore. In quegli ambienti i figli non c'entrano, è questo l'andazzo delle cose. Non teniamo molto conto dei bambini”.
Senza fare polemiche, Josefa Idem imposta in modo diverso non solo la sua vita
di atleta ma anche la sua vita di assessore allo Sport del Comune di Ravenna,
carica che ricopre dal 2001. Sostanzialmente, rifiuta di assumere atteggiamenti
non suoi: “Tante volte il fatto di aver figli vuol dire che pensiamo di doverci mettere su ritmi degli uomini ed escludere i figli dalla nostra quotidianità”. Lei invece si presenta alle riunioni serali dichiarando apertamente che a un certo punto
la riunione finisce e comincia il suo tempo con la famiglia. Porta i bambini ai convegni, agli eventi. Non li nasconde. Non li lascia a casa come fanno i colleghi
maschi della squadra. Perché è convinta di una cosa, in fondo, normalissima
(ma quante e quanti hanno il coraggio di viverla con questa apertura?): “Avere
figli non è una nostra macchia nera, un marchio. E' una bellissima cosa”.
Questa bellissima cosa è però un affare di famiglia. Vale per la campionessa
come per qualsiasi altra donna che lavora. La storia è sempre la stessa: “Se non
avessi avuto i familiari non avrei potuto farcela. Non c'è nessun supporto da
parte del datore di lavoro, come non c'è per tutte le mamme che lavorano”. Ma
si può essere madri e continuare a lavorare, fare figli e continuare a vincere.
“Queste cose sono possibili grazie alla forza delle donne di stare su più di un
campo, su più di un problema, grazie alla forza mentale”. Il suo esempio lancia
un messaggio incisivo, determinato: “Siamo molto più forti di quello che pensiamo”. E' un messaggio alle donne ed è un messaggio agli uomini. Soprattutto a
quelli che continuano a pensare che una donna che fa un figlio non può avere
altre chance. Un presupposto aprioristico di cui probabilmente ha fatto le spese
Daniela Ceccarelli, esclusa dagli ultimi Mondiali di sci pur avendo ottenuto tempi
e piazzamenti degni della qualificazione. Tornata alle gare subito dopo il parto,
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l'atleta non è stata inclusa nella squadra ma ha reagito: discriminata perché
mamma, è stata la sua denuncia su un noto quotidiano, che l'ha resa un po' il
simbolo della difficile conciliazione tra maternità e lavoro. Un problema che la
Idem sposa in pieno: “Se hai partorito e manifesti la voglia di rientrare ti devono
dare una possibilità. Non mandare ai Mondiali un'atleta che ha ottenuto un 17mo
piazzamento in una gara internazionale, ovvero la terza prestazione di squadra,
vuol dire che la vuoi comunque ostacolare”. Il caso della campionessa olimpica
di Salt Lake City, a parere di Josefa Idem, dimostra che è tutto da risolvere un
altro fattore, anche questo comune a tante situazioni di lavoro, ed è quello della
discrezionalità. “In Italia le Federazioni hanno precisi criteri per le qualificazioni
alle gare ma alla fine la scelta rimane a discrezione del responsabile tecnico.
Bisogna essere più minuziosi nel delineare i criteri per le qualificazioni. Altrimenti
si rischia di mettere nelle mani di un allenatore le storie, i destini personali degli
atleti. Basta un infortunio, un calo di forma e allora o hai buoni rapporti con l'allenatore e il tuo caso rientra nella sua categoria mentale o puoi essere fuori.
Daniela Ceccarelli ha messo impegno, passione, amore per lo sport e su questo bisognerebbe essere molto meno discrezionali. E' evidente che non le hanno
voluto dare un'opportunità”. Anche in questo caso, l'assenza di regole certe si
paga, e a pagare sono gli atleti. Da quelli che vincono, e che si vedono in televisione, come da quelli bravi ma che non salgono sul podio, capaci di restare per
anni tra i primi dieci-venti del mondo. Tanto, ma non abbastanza per ottenere
uno sponsor. Finché si gareggia si vive di rimborsi spese, borse di studio. Poi c'è
il vuoto. E' urgente modificare una legge che non riconosce alla maggioranza
degli atleti il giusto status di professionisti e le tutele che tutti i lavoratori hanno,
persino gli atipici. Una battaglia che Josefa Idem combatte da sempre: “Mi rendo
conto che la situazione è complicata. Ma bisogna cominciare a chiamare le cose
con il loro nome. E riconoscere che chi si applica a qualcosa sei-sette ore al giorno è un lavoratore. Come tutti gli altri”.
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Note
Immagine e coordinamento grafico di Adriana Moltedo
Finito di stampare
nel mese di febbraio 2006
Torre d’Orfeo Editrice srl - Roma