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IMP Il re e la regina 14x21.ps, page 61 @ Preflight ( 1IMPr )
Ramón J. Sender
Il re e la regina
Introduzione di
Donatella Pini
Traduzione di
Graziella Fantini
Le Lettere
I
Ai piedi delle scale, da entrambi i lati, vi era una portantina
del Cinquecento di legno argentato e di seta azzurra con rilievi rinascimentali sulle porticine. Ricamato sulla tappezzeria interna si vedeva lo scudo – tre teste di cinghiale in
campo rosso – con la divisa, che diceva in minute lettere gotiche: «Più per l’impresa che per la presa». Questi ed altri simili particolari conferivano ad una parte del palazzo un certo aspetto da museo che la duchessa trovava ostentato.
Il palazzo aveva tre piani e una torre monastica che si alzava di altri due nell’ala nord. Lo cingeva su tre delle sue facciate un parco con degli alberi che in cima alle mura facevano capolino su una stradina silenziosa. Negli anni 1928 e ’29
i duchi avevano dato in quella casa le feste più sontuose della corte. I reali vi avevano preso parte. In quelle serate di gala l’edificio e il parco erano illuminati con discrezione. Dei riflettori nascosti tra le modanature emettevano una luce diffusa sulle aiuole e dai cespugli di bosso partivano vaghi bagliori che avvolgevano il palazzo in un’aura irreale. Rómulo,
il portiere che era pure a capo del parco, guardava con orgoglio il gran tappeto azzurro che copriva le scale esterne e
si stendeva sulla sabbia gialla, sotto la pensilina. E ancora sopra il tappeto, dalla porta fino al punto dove sostava la vettura reale, vi era un cordolo di felpato bianco largo quanto la
porta stessa. Rómulo aveva visto diverse volte il re, della cui
presenza fisica non aveva alcun rispetto. Gli sembrava un
manichino, un pupazzo meccanico con delle lunghe gambe
di legno e con ai piedi le più belle scarpe del mondo. Le feste si prolungavano quasi per tutta la notte, ma le loro maestà si ritiravano presto e quando se n’erano andati, Rómulo
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il giardiniere andava a chiedere al maggiordomo il permesso di spegnere le luci del parco perché «quelle luci di notte
davano fastidio agli alberi, alle piante e soprattutto ai fiori».
La famiglia degli Arlanza era la famiglia della duchessa. Il
marito era il duca d’Alcanadre, ma poiché abitavano il palazzo degli Arlanza tutti seguitavano a chiamarli con questo
nome, cosa che alla duchessa piaceva, essendo un riconoscimento di maggior solidità sociale alla propria famiglia, e
al marito era indifferente. Il vecchio duca proprietario del titolo aveva regalato la casa alla figlia e al genero e questo
comportava una cessione di parecchi milioni. Non che il duca fosse un uomo generoso, ma a mano a mano che invecchiava gli si faceva sempre più gravoso viverci. Aveva paura,
per ragioni lunghe da spiegare, delle stanze dove era morta
la moglie. D’altro canto pensava di non aver alcun diritto di
vendere la casa di famiglia appartenuta ai nonni.
La sala d’armi si trovava nello scantinato e in questa c’era
una piscina coperta. Quella piscina rappresentava – al pari
dell’ascensore istallato ai piedi della torre – una riforma audace nella tradizione del palazzo e qui la duchessa si recava
quasi tutti i giorni a nuotare per mezz’ora, completamente
nuda. Una delle porte della sala d’armi dava sul parco e l’altra su un porticato che circondava una specie di chiostro interno. Sull’acqua calda della piscina le alte finestre proiettavano nelle mattine soleggiate dei dischi gialli e ombre di rami verdi. La duchessa si divertiva come una bambina nella
piscina. Le sue grida risuonavano sotto la volta tra le pietre
grigie che modellavano l’eco dandole una sonorità da castello o da monastero. Qualche volta, dopo essersi spogliata
diceva: «Strana la facilità con cui ci si denuda». Era solita
dirlo guardando un manichino usato per le lezioni di fioretto e che sembrava montare di guardia a fianco delle rastrelliere per le armi. Non era insolito che la duchessa domandasse alla cameriera d’alzare per un lembo il vessillo che
copriva parte del muro. La cameriera eseguiva e di solito ne
usciva volando una minuscola farfalla bianca. La duchessa
si rincuorava vedendo che tra il vessillo e il muro non vi era
nessuno.
Di fronte al piccolo trampolino da dove la duchessa saltava, c’era dall’altra parte della piscina uno specchio che la ri26
fletteva per intero e, contemplandosi con quegli occhi diffidenti con cui si osservano le donne, ricordava: «Da bambina
mi dicevano che se mi fossi guardata nuda allo specchio
avrei visto il diavolo». Da allora si era rimirata molte volte
senza mai vederlo ed era giunta alla conclusione che il diavolo potesse insidiarsi nel compiacimento con cui lei stessa
si guardava. Ma il diavolo non le aveva mai fatto paura –
«forse, si diceva, perché è un maschio» –. Neppure negli anni della sua infanzia aveva smesso di credere che il diavolo
fosse una specie di bell’uomo dongiovannesco della Chiesa.
Al suo confessore aveva detto un giorno, ai tempi in cui leggeva molto e aveva «la mania interpretativa»:
– Il diavolo io me lo immagino come un giovane pretendente saggio e bello. Per me è qualcosa di simile a ciò che doveva essere Apollo per i gentili.
Il suo confessore rideva e la rimproverava.
La duchessa era una giovane dama dai costumi morigerati. A dispetto della sua bellezza, non aveva mai dato adito a
chiacchiere – cosa strana – né da nubile né da sposata.
Questo non significava che conducesse una vita monastica.
Poiché era orfana di madre e suo padre si perdeva dietro alle amanti e ai cavalli, disponeva d’una deliziosa libertà di cui
approfittava per viaggiare e coltivare qualche sport. Poco a
poco lasciò perdere gli sport perché le facevano venire «troppi muscoli» – questa era perlomeno la scusa ufficiale che
dava a se stessa –, ma in realtà era perché, fuori dalla Spagna,
la «libertà sportiva» veniva intesa nella pratica in modo ambiguo e la duchessa odiava gli equivoci. Di norma si faceva
accompagnare da sua zia la baronessa d’Alcor, che aveva la
mania dei viaggi. Fu in uno di questi – in Svizzera – che conobbe Esteban R., marchese di R. Egli aveva a Madrid una
terribile fama di donnaiolo ed assomigliava all’immagine
che da bambina la duchessa s’era fatta del diavolo. Per entrambe le ragioni lo reputò interessante e per un po’ di tempo andarono in giro insieme dappertutto. Ma Esteban – diceva a se stessa – non era tanto terribile come sembrava.
Quando si rese conto che lui la trattava «in un altro modo»
perché si era messo in testa l’idea di sposarla, subì una gran
delusione senza saperne la ragione, tornò a Madrid e in poche settimane sposò il duca d’Alcanadre, un uomo gentile, se27
rio e attento alle convenzioni sociali. La duchessa lo dominava a tal punto che ingannarlo le sarebbe sembrato un inutile abuso d’autorità. La duchessa non era, d’altro canto, una
donna dal temperamento forte.
Il duca trovava nel carattere di sua moglie un’armonia non
permanente, ma mutante e piena di piccole o grandi sorprese. Quando queste arrivavano dolcemente, come quelle dei
colori e delle forme alla luce naturale, sempre uguale eppure sempre diversa, lo ammaliavano. Ma a volte la duchessa
aveva stravaganze sconcertanti e quei cambiamenti repentini allarmavano il marito, che era innamorato di lei fin dove
può esserlo un uomo incapace di provare passioni. Un giorno lui le aveva detto che era un mostro, ma che le voleva bene così com’era.
La duchessa divenne molto seria:
– Un mostro che possiamo amare non è più un mostro ma
un prodigio.
Andavano d’accordo perché mai nessuno dei due cercava di
calarsi nel fondo dei sentimenti dell’altro.
La duchessa era solita dire: «Siamo una coppia ideale perché non siamo innamorati».
Quella mattina di luglio del 1936 la duchessa continuava a
nuotare nella piscina e a pensare che l’indugio nel lasciare
Madrid quell’estate cominciava ad attirare l’attenzione di parenti e amici. Nuotava completamente nuda e tra i lastroni di
marmo della piscina il suo corpo scivolava con movimenti
armoniosi. Galleggiava immobile sulla superficie quando
Rómulo bussò alla porta che dava sul giardino. Era un uomo
di mezz’età. Aveva una testa romana, da contadino di
Cordova. Parlava poco e le sue idee sulle cose e sulle persone erano molto solide. Come tutti i contadini s’era costruito
la sua filosofia e gli piaceva generalizzare. Della vita diceva
che era «un groviglio di contrari» e Rómulo cercava di mettere in ordine quel groviglio diventando uno dei migliori
giardinieri di tutta la corte. Bussò una seconda volta e la cameriera andò ad aprire. Poiché la porta era discosta dalla piscina – la sala d’armi era enorme e formava un angolo –, la
cameriera aprì. La duchessa li sentì discutere. La voce acuta della domestica e quella bassa del giardiniere davano vita
ad un curioso contrasto. Rómulo insisteva nel dire che la du28
chessa gli aveva dato ordini speciali. La duchessa intervenne
all’improvviso dicendo:
– Rómulo, entra.
La cameriera si affrettò a dire:
– Signora, è un uomo.
La duchessa inarcò le sopracciglia:
– Rómulo un uomo?
E si mise a ridere con un breve gorgheggio da uccello.
Rómulo era lì e lei rideva ancora. La cameriera cercava di
piegare un asciugamano, ma le tremavano le mani. Anche la
voce di Rómulo nel dare il buongiorno tremava. La duchessa continuava a galleggiare stesa sul dorso, muovendo leggermente le mani e i piedi. Rómulo, che aveva sentito la frase della duchessa e il gorgheggio col quale consacrava e suggellava il suo sdegno – «Rómulo un uomo?» –, pensava che
se avesse sviato lo sguardo dal corpo della signora avrebbe
reso evidente l’imbarazzo della situazione e continuava a
guardare senza batter ciglio e pure – c’è da dirlo – senza vedere. Per il fatto di aver dinnanzi la duchessa nuda si sentiva un altro e la necessità di capire «quell’altro» – che rappresentava una brutale sorpresa – gli impediva di prendere
coscienza di ciò che stava vedendo. La duchessa prese la busta che Rómulo le porgeva, la aprì, lesse qualcosa su un foglio, rimise il foglio nella busta, la diede alla cameriera e si
fermò a guardare Rómulo:
– Chi ha portato la lettera era un autista dei signori di M.?
– Sì, signora.
– Sta aspettando?
– Sì, signora.
– Digli che chiamerò io verso mezzogiorno.
Rómulo non poteva muoversi. Fortunatamente la cameriera intervenne e stendendo degli asciugamani sul bordo
della piscina, rompendo la rigidità dell’aria in quello spazio
dove la luce sembrava essersi cristallizzata, fece sì che il giardiniere muovesse un primo passo, cercasse d’andarsene e, finalmente, riuscisse ad allontanarsi. Quando uscì nel parco
gli girava la testa. Tornò adagio in portineria, guardando i
propri piedi, ai quali era legata l’ombra del suo corpo. Non
ci capiva niente. Né l’ombra, né i suoi piedi, né gli stessi occhi abbagliati. Quando giunse alla portineria s’era ormai di29
menticato di quelli che avevano portato la lettera e nel vedere l’autovettura dinnanzi al cancello sembrò risvegliarsi.
Intanto la cameriera, impaurita, mostrava il suo spavento
ad ogni gesto, in ogni sguardo, in ogni silenzio. E pensava:
«Accanto alla signora succedono cose come nei sogni!». La
duchessa se ne rese conto e disse:
– Un giardiniere non è un uomo!
Si girò su un fianco e cominciò a nuotare a grandi bracciate. Uscì dall’acqua, riprese la busta, estrasse dal suo interno il telegramma, lo lesse di nuovo e poi lo bruciò su un
fornello elettrico che c’era nella toletta. Non parlava. Il silenzio aveva tra quei muri di marmo e pietra castigliana,
una sorta d’aura dorata. Nel parco si sentì frenare una macchina e poco dopo la voce del duca risuonava dall’altro lato
della porta chiedendo d’entrare.
– Aspetta – rispose la duchessa, esigendo l’accappatoio con
cui s’avvolse.
Quando il duca poté entrare, la cameriera se ne andò con
discrezione. Il duca, con un’espressione cupa, passeggiava
nervosamente tra la toletta e la piscina:
– Non ho trovato nessuno a casa. Credo che siano già partiti tutti e giunti a destinazione:
La duchessa lo ascoltava volta di spalle, attenta allo specchio. Si guardava con lo sguardo acuto e sagace con cui si
guarda una rivale:
– Ti avevo detto di non scomodarti – disse –, perché le notizie ci avrebbero raggiunti qui.
Indicò il pezzo di carta bruciato sul marmo e disse:
– Domani alle sette.
Il duca giocava una carta pericolosa ed era la prima volta
da secoli che gli Arlanza e gli Alcanadre rischiavano tanto.
La duchessa guardava suo marito con una curiosità discreta e vedeva nel suo portamento alle volte una decisione ferma e altre un’ombra di abbattimento. Il suo nervosismo la
irritava benché sapesse che era «il nervosismo della vigilia». Non appena l’avvenimento – propizio oppure avverso –
si fosse compiuto, il duca avrebbe riacquistato la sua solita
calma.
– Cosa succederà? – le chiese.
– Hai sempre creduto che la vittoria fosse sicura e facile.
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– Man mano che si avvicina il momento si vedono meglio
le difficoltà. Tu che ne pensi?
– Che vi è sempre un modo di vincere.
– Come?
– Basta saper perdere.
Il duca ribadiva che non poteva continuare a stare a
Madrid e che il giorno gli sembrava disperatamente lungo.
Non trovando un’alternativa decisero di andare a Segovia,
dove il padre della duchessa trascorreva l’estate. Avrebbero
pranzato con lui e sarebbero tornati nel tardo pomeriggio.
Lei voleva assicurarsi prima che suo padre non fosse con “la
strega”. La duchessa avrebbe tollerato quella donna, che non
conosceva, se si fosse trattato solo di una vecchia amica di
suo padre. Ma molti anni addietro – quando lei era appena
nata – quella donna era sembrata immischiata nello scandalo della morte della duchessa madre (una velenosa sfilza di
dicerie) e il nome del duca era stato tirato in ballo a volte con
troppa leggerezza. Si era parlato di suicidio e ufficialmente
così si era liquidato il fatto, ma la gente continuava a parlarne e nella coscienza della duchessa era rimasta un’ombra
di dubbio, quanto bastava perché non potesse oramai evitare di pensare a quella donna senza ripugnanza. Invece non
incolpava suo padre, e quando analizzava l’indulgenza del
proprio verdetto in quella difficile faccenda si diceva: «Non
lo accuso forse perché mi fa comodo».
Quando la duchessa fu pronta partirono per Segovia. Il
palazzo rimase con le porte serrate e con Rómulo seduto
sull’uscio della casa dai mattoni rossi che era in parte coperta
dagli alberi a un lato del cancello. Abitava lì da quindici anni. Guardava oltre la pagina del giornale sua moglie Balbina,
che andava avanti e indietro affaccendata. Nella sua immaginazione nasceva, dava frutti, voleva crescere ed estendersi
quel Rómulo che aveva intravisto in piscina e che continuava a non capire. Non gli era del tutto nuovo. L’aveva conosciuto, quel Rómulo, quando aveva diciannove o vent’anni.
Ma poco tempo dopo l’immagine andò perdendo gagliardia
e finì per perdere pure linee e forme. Poco prima che Rómulo
compisse trent’anni svanì. Era quello un Rómulo più sicuro
della vita, di se stesso, ma all’improvviso ricordava le parole
della duchessa – «Rómulo un uomo?» – e si sentiva barcol31
lare. Ricordava la risata che aveva fatto seguito a queste parole e si sentiva messo in ridicolo. Chiese a sua moglie:
– Che diresti tu, Balbina, se io ti chiedessi che cos’è un uomo?
La donna lo guardò cercando di capire che cosa passasse
per quella testa. Alla fine disse:
– Non lo sai tu meglio di me cos’è un uomo?
Ma Rómulo stava preparando un’altra domanda più difficile. Così difficile da non osare farla. Alla fine disse:
–Tu ti lasceresti vedere nuda dal signor duca?
Sentendosi lusingata, Balbina rispose:
– Ma cosa dici! Per nulla al mondo!
– Perché?
– Il signor duca è un uomo.
Ah, Rómulo non lo era! – la duchessa l’aveva detto –. La duchessa si era messa a ridere – «Rómulo un uomo?» – perché
la sola idea la faceva ridere. Rómulo si passava la mano sulla fronte senza capire. A mezzogiorno, Rómulo, non potendone più, andò in cerca della cameriera della duchessa e la
trovò seduta a tavola nella sala da pranzo dei domestici.
Rómulo le disse sottovoce:
– Hai visto cos’è successo stamani?
– Che hai consegnato una lettera alla signora?
– Sì, ma c’è stato qualcosa di straordinario e fuori dal normale.
– Cosa?
– Qualcosa d’incredibile.
La domestica gli fece cenno d’accomodarsi su una sedia:
– È vero, secondo il protocollo doveva essere un domestico personale a consegnare la lettera e non tu.
– Non è questo, su dai. Tu mi capisci.
La domestica sorrideva:
– Rómulo, dopo che ti sei fatto la barba ti rimane un’ombra bluastra sulla faccia che ti sta molto bene.
– Lascia perdere queste stupidaggini. Tu l’hai sentito?
– Che cosa?
– Quello che ha detto la signora.
Lei lo guardava sbigottita:
– La signora ha detto che sarebbe andata a Segovia.
Rómulo cominciava a rendersi conto che anche quella sua
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insistenza nei confronti della cameriera indifferente era ridicola.
– Va bene, va bene – disse.
E uscì. Tornò a casa sua con un incedere lento. Considerava l’incidente più umiliante dopo essersi recato invano
dalla domestica in cerca d’una spiegazione.
A metà pomeriggio, mentre Rómulo si trovava nella stanza con una finestra che dava sulla strada, sentì bussare con
un bastone sul vetro. Rómulo si avvicinò e non vide nessuno:
«Perché non suonano il campanello?» Balbina, sua moglie,
disse: «Deve essere Elena». Rómulo uscì di malumore nel
parco.
Accanto all’entrata per le macchine c’era un’altra porta
molto più piccola. Dall’altra parte dell’uscio c’era Elena. A dispetto del suo nome non era una donna ma un uomo sulla
quarantina, così piccolo che arrivava appena alle ginocchia
di Rómulo. Per contrazione di el enano, il nano, la gente lo
chiamava Elena. Si vestiva accuratamente e aveva in quell’enorme faccia un’espressione molto dura. Era solito dire di sé
con orgoglio: «Piccolo, ma fino». Lavorava in una cereria
del quartiere, ed aveva provato invano, anni addietro, ad andare a servire a palazzo. Nel vedere Rómulo in maniche di
camicia, disse:
– Non vi sono le loro eccellenze.
– No.
– Mi dispiace. Venivo a comunicare qualcosa di sensazionale. Può riferirglielo Lei, signor Rómulo.
– Io? Cosa?
– Hanno assassinato Calvo Sotelo.
A Rómulo quel nome non diceva proprio nulla. Elena aggiunse, facendo una leggera flessione con le gambe:
– Ma Lei in che mondo vive?
Dopo, come se non valesse la pena iniziare Rómulo alle
questioni politiche:
– Lo dica ai suoi signori.
Si rese conto che Rómulo non avrebbe detto niente e aggiunse, per far vedere che il protocollo di servizio non gli era
estraneo:
– Lo dica al maggiordomo, lui lo dirà all’amministratore e
quest’ultimo al segretario di sua eccellenza.
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Poi se ne andò sulle sue gambe corte, ancheggiando.
Rómulo lo vide avvicinarsi ad un portone, dall’altra parte
della strada, guardare con attenzione in su e in giù e, vedendo che non vi era nessuno, disegnare con un gessetto una
svastica sulla porta. Rómulo tornò in portineria e disse a
sua moglie: «Non sopporto quel tipo. Mi rivolta lo stomaco».
Balbina esclamò: «Ma se è un povero disgraziato». Rómulo
protestò: «Non capisco perché lo compatisci. È la creatura
più tronfia che io abbia mai visto in vita mia». Ma Rómulo
si sentiva ancora inquieto ricordando l’incidente della piscina. Non poteva andare a letto fino a quando non fossero tornati i signori ed era già molto tardi quando sentì la macchina. Aprì il portone abbagliato dai fari. Quella luce sembrava
provenire dalla duchessa, dalla stessa duchessa che immaginava, senza poterlo evitare, nuda nella macchina come nella piscina. Non poté vedere chi altro vi fosse all’interno dell’abitacolo, anche se riconobbe l’autista, che rispose alla sua
buonanotte. Rómulo, dopo aver chiuso, si coricò; e quando
era a letto da un’ora squillò di fianco a lui il telefono. Era la
voce del maggiordomo che gli comunicava che il signore sarebbe uscito di nuovo. Rómulo si vestì in tutta fretta e uscì
ad aprire e a chiudere il cancello. Mentre rientrava vide la luce accesa nell’ala del palazzo dove si trovavano le stanze della duchessa. Era molto tardi. Udì una radio in lontananza
che trasmetteva le notizie. Rómulo, sentendo che vi erano
novità nelle abitudini della casa, tornò in camera sua.
– Sta accadendo qualcosa – disse a sua moglie.
– Sì, anch’io vedo che c’è troppo viavai, come se in casa
stesse nascendo un bambino o morendo un vecchio.
L’osservazione fece sorridere Rómulo, che cercava invano
di dormire. A palazzo continuava a regnare l’agitazione. I telefoni squillavano di frequente. Balbina gli disse che si sarebbe dovuto alzare e stare vestito in caso lo chiamassero,
ma Rómulo non le rispose. Alla fine le luci si andarono spegnendo e le voci si smorzarono. Rómulo si addormentò.
Alle otto del giorno dopo, Madrid era un campo di battaglia. Alle dieci la lotta sembrava concentrarsi nel Cuartel de
la Montaña, un agglomerato d’edifici militari che dominava
una collina isolata dalla città da parchi e viali tra la Plaza de
España e Rosales. A mezzogiorno, dopo vari assalti che fe34
cero centinaia di vittime, il popolo madrileno riuscì a conquistare la collina e a sbaragliare i ribelli. In poche ore l’aspetto della città era cambiato. Accaddero nella maniera più
naturale e semplice le cose più strane. L’aria di Madrid, che
era un’aria da un giorno di lavoro, scossa dalle cannonate
sembrava di festa. Nel cortile del Cuartel de la Montaña trovarono dopo la battaglia più di cinquanta ufficiali e comandanti morti. Nelle tasche di uno di loro furono ritrovati i documenti del duca d’Alcanadre.
A pomeriggio inoltrato si presentò dinnanzi al cancello del
palazzo l’automobile, l’Hispano, con cui il duca era uscito la
notte precedente. Aveva due colpi di proiettili sul parabrezza. Era piena di gente giovane con fucili e bracciali repubblicani. Rómulo stette a guardarli senza capire. Niente di
tutto questo gli sembrava serio. «Sembra – pensò – che stiano girando un film».
– Questa non è la macchina del signore? – chiese ingenuamente.
– Il signore non esiste – disse uno dei miliziani, mettendo
in risalto “il signore” –, e la macchina è stata requisita dalle
milizie repubblicane.
Così dicendo indicava un pezzo di carta appiccicato sul parabrezza con un timbro. Rómulo chiese loro di aspettare e si
recò all’interno del palazzo. La duchessa era nell’atrio e guardava attraverso i vetri. Rómulo continuava a ripetere per
l’intero tragitto quella parola – requisita – che sentiva per la
prima volta in vita sua. All’espressione «il signore non esiste»
non sapeva che significato dare. Dinnanzi alla duchessa, che
lo guardava in silenzio, cominciava a sentirsi di nuovo «l’altro Rómulo». Ripeté le parole dei miliziani e la duchessa, un
po’ pallida, disse:
– Non ci si può opporre. Aprigli.
Il vecchio maggiordomo intervenne:
– Prima d’aprire sarà meglio che la signora si ritiri.
Lei se ne andò senza fretta verso l’ascensore le cui porte
scorrevoli adattate tra due colonne facevano sì che non si notasse. Rómulo uscì, aprì il cancello e la macchina entrò e
frenò con violenza davanti al portone. I miliziani scesero ed
entrarono. Due di loro rimasero fuori tenendo imbracciato il
fucile. Tutti avevano gli occhi stanchi, il volto bruciato dal so35
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11. - Ramón J. Sender, Il re e la regina. Introduzione di Donatella Pini.
Traduzione di Graziella Fantini.