DOPO AL QAEDA - Armando Editore

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DOPO AL QAEDA - Armando Editore
François Heisbourg
DOPO AL QAEDA
La nuova generazione del terrorismo
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione: Al Qaeda è mortale
I. Anatomia di un ostacolo strategico
Il decennio di Al Qaeda
Verso il declino
Contraddizioni e limiti
Il ruolo dell’antiterrorismo
II. Le armi del terrore
Il “principio di aggravamento” in avaria?
N come nucleare
R come radioattività
B come biologico
C come chimico
Nuove tecnologie, nuovi modi di operare
III. I nuovi volti del terrorismo
Qualche incognita
Al Qaeda dopo Al Qaeda: nebulosa e “franchigia”
La forza del nichilismo
Il ritorno del terrorismo di Stato
IV. Il mutamento della lotta al terrorismo
Non abbassare la guardia: quello che non bisogna fare
Prevedere l’imprevisto, “organizzare il caos”
Conclusione
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Introduzione
Al Qaeda è mortale
Gli atti di violenza non convenzionale destinati a colpire le popolazioni e la classe dirigente sono una costante nella storia delle
società umane. Il ricorso alla violenza armata per scopi politici
o ideologici, al di fuori delle regole stabilite dal vivere civile o,
persino, dal diritto di guerra, è ormai diventato molto frequente.
Ad esempio, se prendiamo una parte del mondo particolarmente
minata dal terrorismo nel corso degli anni, il Medio Oriente, si
ricorderà il ruolo avuto dai sicari e dagli zeloti già circa due millenni fa.
Al pari di tutte le altre attività umane, anche il terrorismo possiede una storia, che è il riflesso più o meno deformato delle grandi evoluzioni dell’umanità, e questo a tutti i livelli: ideologico
e politico, tecnico e organizzativo, concettuale e semantico. Lo
stesso termine “terrorismo” fa la sua comparsa con la Rivoluzione
francese, associato al periodo del Terrore, durante il quale i giacobini esercitarono una violenza estrema di Stato contro i nemici
interni ed esterni della repubblica. Bisognerà attendere decenni
affinché il termine “terrorismo” acquisisca un senso più generale,
perdendo la connotazione di violenza di Stato. Gli obiettivi e gli
strumenti di questa violenza evolvono a ritmo dei progressi della
scienza e delle tecniche. Così il terrorismo internazionale diventa una realtà con l’avvento della Rivoluzione industriale, anche
se l’espressione viene utilizzata oggi per descrivere gli atti di Al
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Qaeda e di quei gruppi che si ispirano agli stessi fondamenti religiosi. Nel corso dell’Ottocento, il secolo “lungo” (1789-1914),
mentre con la Rivoluzione industriale si sviluppavano i trasporti e miglioravano le comunicazioni su scala mondiale, venivano
alla luce diversi movimenti terroristici internazionali. I carbonari
nell’Europa latina della prima metà del XIX secolo, la violenza
dei ribelli irlandesi in America del Nord nella seconda metà del
secolo, e soprattutto l’ondata mondiale degli attentati anarchici
tra il 1880 e il 1910 sono emblematici di questo processo. La tecnica si evolve secondo la stessa linea: alle lame impiegate nell’età
del bronzo si aggiungono, a partire dal Rinascimento, le armi da
fuoco e gli esplosivi e, nel periodo più recente, il dirottamento, in
tutti i sensi del termine, dei progressi della tecnica – macchine,
aerei, Internet – per fini violenti. Il contenuto ideologico, politico
e religioso della violenza terroristica non può essere dissociato
dalla trasformazione generale della società. Si fa terrorismo in
nome della vera fede durante la guerra dei Trent’Anni, si uccide
per idee nazionaliste nel XIX secolo, per le ideologie totalitarie
per tutto il XX secolo e così via. Rischiando di cadere nell’eccesso, si potrebbe anche parlare di mode terroristiche: la simbologia
della bomba a miccia dell’epoca anarchica, i loghi del terrorismo
rosso degli anni ’70 e ’80, l’icona della giacca bardata di esplosivo delle organizzazioni terroristiche del mondo arabo e islamico
dell’ultimo ventennio.
Il terrorismo è sicuramente una manifestazione estrema e inaccettabile del ricorso alla forza nelle società umane, ma questa trasgressione non è solo un’aberrazione che appare per brevi periodi.
Come altre trasgressioni etiche o criminali, il terrorismo fa parte
del nostro universo. Ma, sulla scia di altre attività umane, le sue
manifestazioni specifiche sono di durata limitata, con un inizio,
un apogeo e un declino.
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Così come c’è stata un’età del carbone, c’è stata – osiamo un
brutto gioco di parole (ma i due fenomeni sono stati quasi concomitanti) – l’epoca della carboneria. Allo stesso modo, gli storici
del futuro constateranno immancabilmente che c’è stata, per un
determinato periodo di tempo, un’“età di Al Qaeda” o, per allargare il discorso anche ai movimenti di ispirazione simile, un’“età
dello jihadismo”.
Vale a dire che si potrà scrivere un giorno la parola “fine” sulla
storia di Al Qaeda, così come è successo per i carbonari o per i
terroristi irlandesi, anche se il terrorismo come manifestazione di
violenza estrema continuerà a esistere.
Ogni trattazione sul carattere transitorio delle organizzazioni,
che siano terroristiche o no, può sembrare banale. Dopo tutto,
come contestare sul piano empirico, come su quello filosofico,
l’idea della mortalità degli uomini e delle loro azioni? In un’analisi delle cause, che interesse pratico ci sarebbe nel ricordare una
tale evidenza?
Peraltro, l’evidenza della finitezza delle attività umane è incontrastabile nell’astratto più che nella pratica: l’essere vivente, e
non solo nella sua accezione umana, lotta permanentemente contro l’accettazione della sua mortalità; gli uomini, generalmente,
non agiscono considerando che potrebbero morire in quello stesso momento. Un principio simile vale per il terrorismo, anche per
quello suicida: il kamikaze mette fine alla sua vita e a quella altrui
partendo dal principio che la “Causa” (utilizzando una formulazione cara ai terroristi dell’epoca anarchica) è immortale. Il movimento terroristico attuale si crede assolutamente eterno e senza
fine e, senza alcun dubbio, ciò vale di più per coloro per i quali la
causa è trascendente o messianica che per le organizzazioni che
hanno fini meramente politici.
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D’altra parte, neanche l’azione antiterroristica sfugge a questo
fenomeno. Di certo gli analisti, gli agenti di intelligence, i poliziotti, i magistrati che si consacrano a questo compito considerano limitate nel tempo le organizzazioni terroristiche che cercano
di distruggere. Tuttavia, nella pratica, è probabile che non partano
dal principio che la minaccia a cui mirano possa essere realmente
sradicata; ragionano cioè allo stesso modo dei responsabili della
lotta contro la criminalità che cercano di prevenirla o di reprimerla sapendo che il crimine non può essere eliminato: dopo tutto, il
terrorismo non è forse anch’esso un’attività ricorrente delle società umane? Ciò che si constata molto spesso è una tendenza a
confondere la manifestazione caratteristica del fenomeno terroristico di un determinato periodo con l’esistenza tout court del terrorismo. E il fenomeno di quest’ultimo deve essere chiaramente
distinto dallo sradicamento di un’organizzazione e dell’ideologia
che la sottintende. Questa difficoltà nel distinguere il temporaneo
dal permanente non appartiene soltanto al campo della sicurezza,
si tratta semplicemente di una tendenza naturale degli uomini e
delle loro organizzazioni di partire dal principio che più un fenomeno dura, più ci sono possibilità che continui nel tempo. Questo
vale ancor di più per le organizzazioni che per gli individui, essendo la memoria istituzionale generalmente, e paradossalmente,
più debole – a causa del gioco naturale dei cambiamenti di assegnazione e della durata limitata delle carriere – di quella degli
esseri umani, con la loro lunga aspettativa di vita.
L’osservazione sopra riportata non è semplicemente accademica, astratta. Se interrogate i responsabili a diversi livelli della
gerarchia della lotta al terrorismo, li sentirete il più delle volte
mettere l’accento sulla severità e sulla durata della minaccia del
terrorismo detto jihadista. La gravità della minaccia è davvero
evidente. A partire dai primi attentati realizzati direttamente da Al
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Qaeda nel 1997, decine di migliaia di persone1 sono state uccise
da gruppi che sostenevano di condurre la guerra santa su scala
mondiale; a questi bisogna aggiungere poi gli attentati, che hanno causato una mortalità leggermente minore a causa di gruppi
terroristici che rivendicano la propria appartenenza all’Islam, ma
in un ambito nazionale o regionale (come la palestinese Hamas,
gli Hezbollah libano-iraniani o il GIA e il GSPC algerini) più che
mondiale. È evidente che sarebbe increscioso se i responsabili
dell’azione antiterroristica sottovalutassero una sfida così pericolosa.
È nei termini della durata che va analizzato il problema. Anche
se lo jihadismo è considerato come se fosse un dato quasi permanente del nostro scenario politico, la parola stessa è datata nel
vocabolario dei terroristi proprio come in quello dei protagonisti
dell’antiterrorismo. Se nel passato la parola jihad è stata impiegata da gruppi terroristici per identificarsi – è il caso dell’appellativo
“jihad islamico” impiegato dagli Hezbollah fin dalle sue origini,
durante gli attentati antioccidentali a Beirut nel 1983 –, il termine “jihadismo”, usato per caratterizzare l’insieme dei movimenti
armati islamici, compare solo nell’attuale decennio. Sono stati gli
attivisti islamici ad attribuirsi questa denominazione. E questo
perché è un dovere di ogni musulmano fare la jihad; trasferendo
abusivamente il termine in un campo molto vasto a vantaggio di
un’interpretazione che glorifica la violenza, le organizzazioni terroristiche sperano di vedere ricadere su loro stesse la dignità propria di un obbligo sacro. Le indagini dell’antiterrorismo adottano
la parola di riflesso e tutto sommato molto imprudentemente perché è sempre pericoloso cedere l’iniziativa del gioco semantico al
proprio nemico in un campo come quello del terrorismo dove le
parole e i simboli sono assolutamente essenziali.
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Le cifre corrispondenti sono riportate in dettaglio nel primo capitolo.
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A questo si potrebbe obiettare che la realizzazione della jihad
terroristica ha preceduto l’uso della parola. E ciò lo si potrebbe
dimostrare, anche se solo relativamente. È con l’inizio della fitna2, della guerra civile algerina nel 1992, che si apre una lotta
ideologica tra i terroristi che vogliono stabilire il potere islamico
in Algeria in un quadro nazionale e coloro che collocano la lotta
armata nel quadro più vasto della radicalizzazione della Umma, la
comunità mondiale dei credenti. I primi, detti djezaïristes, avranno il sopravvento sui loro rivali internazionalisti durante la guerra civile, che causerà centomila morti durante gli anni ’90. Nel
2007, i gruppi terroristici algerini, generati a partire dal Gruppo
Islamico Armato (GIA) e dal Gruppo Salafita per la Predicazione
e il Combattimento (GSPC), faranno giuramento di fedeltà ad Al
Qaeda, stabilendo una “franchigia” maghrebina, l’AQMI (“Al
Qaeda nel Maghreb islamico”), segnando la vittoria ideologica
degli jihadisti negli Stati vicini insieme ai loro partner, tra cui
il Gruppo Islamico Combattente Marocchino (GICM), attivo
nell’attentato di Madrid dell’11 marzo 2004.
Al Qaeda e lo jihadismo internazionale sono organizzazioni ormai datate e che, rispetto all’inizio, hanno subìto numerosi
cambiamenti. In teoria, è possibile che abbiano ragione coloro che
sostengono che lo jihadismo sia chiamato a far durare la minaccia terroristica primordiale ancora per numerose decine di anni:
dopo tutto, il futuro non è scritto e alcune organizzazioni terroristiche sono riuscite a imperversare per trent’anni e anche più,
come l’ETA in Spagna dal 1968 e l’IRA moderna nell’Irlanda del
Nord dal 1968 al 1998. Tuttavia, la storia antica e recente del terrorismo la maggior parte delle volte è caratterizzata da evoluzioni
più rapide. Molto dipende inoltre dalla data a partire dalla quale si
fissa il momemto di inizio. Ma anche nei casi che sono stati citati,
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fitna designa il disordine violento in seno alla comunità dei credenti.
la durata non è illimitata. Per le ragioni ricordate prima, c’è da
scommettere che tra venti o trent’anni utilizzeremo altre parole
per designare ciò che allora sarà diventata la minaccia terroristica,
che questa abbia o no un’ascendenza jihadista.
La lotta antiterroristica non deve solamente adempiere alla
sua missione attuale, cosa che è stata fatta con grande efficacia
nel caso della Francia. Deve anche preparare il prossimo round,
anticipando l’evoluzione ideologica, tecnica e organizzativa dei
terroristi futuri. Altrimenti rischiamo di subire le stesse delusioni
che hanno colpito gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o la Spagna
nel corso dei primi anni del nostro secolo. La mancanza d’immaginazione degli Stati Uniti ha giocato un ruolo fondamentale nel
successo letale degli autori dell’attentato dell’11 settembre 2001.
Ad eccezione di qualcuno, l’intelligence americana pensava che
Al Qaeda non mirasse seriamente al territorio americano, ma che
si trattasse principalmente di una sfida per i suoi interessi esterni,
come testimoniavano gli attacchi contro le ambasciate americane
a Nairobi e a Dar es Salaam o l’operazione con l’USS Cole ad
Aden. Il focalizzarsi contro la minaccia maggiormente incombente che era l’ETA per gli spagnoli o l’IRA per i britannici ha contribuito alla realizzazione e al successo dell’operazione dei gruppi
che hanno guidato gli attacchi dell’11 marzo 2004 a Madrid e del
7 luglio 2005 a Londra.
Conviene preparare la guerra successiva mentre l’attuale non è
ancora finita. Non è mai facile fronteggiare l’urgenza del presente
preparando un avvenire necessariamente incerto. Eppure, è proprio questo che bisogna fare.
Anche se l’autore non può svelare il segreto delle discussioni che concernono la minaccia terroristica in seno alle differenti
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istanze alle quali ha avuto il privilegio di partecipare, specialmente nell’elaborazione dei Libri bianchi La France face au terrorisme (2006) e Défense et Sécurité nationale nel 2008, non gli
è però vietato ricordare lo stato d’animo che prevaleva in quel
periodo. E se questo stato d’animo era preoccupante, trattandosi
della riflessione sulla minaccia attuale e sulla gestione della lotta
al terrorismo, si deve essere preoccupati per un futuro a lungo
termine.
Per questo ci sono due tipi di spiegazioni. La prima, già
menzionata, rientra prima di tutto nel campo della natura umana e dell’inoperosità organizzativa: c’è una tendenza naturale a
pensare il futuro come un’estrapolazione lineare del presente,
e a considerare che più le cose durano più restano. Siccome la
principale minaccia terroristica in Francia è jihadista, continuerà a essere così. I fattori burocratici possono aggravare queste
tendenze, bloccando le strutture derivate da queste analisi, le cui
conseguenze sono perciò imprevedibili: i nostri amici britannici
impiegheranno moltissimi anni per passare da una organizzazione
e da politiche del personale ottimizzate per contrastare il terrorismo nell’Irlanda del Nord a dei reclutamenti e alla costruzione di
organizzazioni che mettano la lotta contro lo jihadismo al centro
del meccanismo. È questo tipo di attitudine che si riflette nelle
difficoltà incontrate in Francia e altrove in materia di rinforzo delle misure di preparazione contro gli attentati nucleari, biologici,
radioattivi e chimici (NRBC); dopo tutto, fino a oggi, nessun attentato NRBC è stato tentato con successo in Europa. In assenza
di un trauma brutale, non è facile arrendersi a una rifusione sempre faticosa delle strutture burocratiche e delle priorità finanziarie. Aggiungiamo che l’inoperosità è più politica ed economica
che di analisi, poiché generalmente gli esperti dell’antiterrorismo
non sottovalutano il rischio NRBC.
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L’altra spiegazione è più complessa e concerne il grado di influenza che possono avere le migliori organizzazioni antiterroristiche sul divenire dei gruppi terroristici. I buoni analisti e i responsabili dell’antiterrorismo, e non ne mancano, lo sanno. È una
delle ragioni per cui essi partono dal principio che la minaccia del
momento rischia davvero di essere anche quella di dopodomani: siccome la minaccia è seria ed è straordinariamente difficile
da individuare e contrastare, non riusciremo di certo a eliminarla
domani. Inoltre, la fine delle “ondate” terroristiche è solo parzialmente legata all’azione antiterroristica. Il terrorismo anarchico ha
smesso di essere una grande minaccia indipendentemente dalla repressione poliziesca internazionale: l’avvento della Prima Guerra
mondiale e l’ascesa del bolscevismo, come modalità di organizzazione privilegiata per i sostenitori della “Grand Soir”, hanno
rappresentato per molti la fine della centralità di quello che è stato
un episodio importante della storia del terrorismo per una trentina
d’anni. La fine del “terrorismo rosso” negli Stati occidentali è
stata certamente affrettata dall’azione antiterroristica, come può
felicemente testimoniare l’autore che è comparso sulle “liste” di
esecuzione franco-tedesche Action directe-Rote Armee Fraktion:
una polizia ben organizzata rende servizi inestimabili… Eppure
è stata fondamentalmente la caduta del Muro di Berlino nel 1989
che ha permesso di chiudere il capitolo del terrorismo “rosso”:
il fallimento ideologico del marxismo-leninismo è passato da lì.
Questo non significa, tutto sommato, che un terrorismo di estrema
sinistra non possa rinascere – ma sarà in tutt’altro contesto e su
altre basi ideologiche, specialmente quelle che caratterizzano le
influenze più dure dell’altromondismo3.
3 Sistema
di idee degli avversari della globalizzazione economica, di un mondo
dominato dalla finanza e dall’economia [N.d.T.].
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Così, nel caso delle Brigate Rosse italiane, che sono state l’organizzazione terroristica “rossa” che ha causato più morti, sono
stati in gran parte dei fattori interni che hanno favorito, combinandosi con una lotta antiterroristica intelligente, il rallentamento
progressivo delle operazioni criminali: vi hanno contribuito stanchezza, rigetto popolare, impasse politica congiunta alla possibilità di negoziare la resa. “I bastardi sono stanchi”, si sarebbe
tentati di scrivere… Gli attori dell’antiterrorismo avranno spontaneamente e legittimamente la tendenza a basare analisi e politica
su ciò che è alla loro portata: sospetti a cui dare la caccia, cellule
a cui risalire, persone e luoghi da proteggere, ecc. D’altronde,
questi sono tempi in cui tutto può cambiare. L’antiterrorismo più
efficace sarà quello che saprà cogliere questi cambiamenti – cosa
che i responsabili italiani dell’epoca hanno fatto con una grande
intelligenza.
Risulta chiaro da questi esempi che non si tratta di dedurre
l’inutilità delle misure antiterroristiche, ma di integrare nell’equazione gli altri dati, esogeni o endogeni, suscettibili di pesare sullo
sviluppo di un’organizzazione terroristica. È ciò che si tenterà di
fare in questo saggio. Come si vedrà questi elementi giocheranno,
sfortunatamente, molto spesso a favore di un aggravamento della
minaccia terroristica più che di una sua attenuazione. In ogni caso
comunque, ciò che emerge è una “scena terroristica” differente
da quella di una decina di anni fa, e che imporrà un orientamento
sostanziale degli sforzi in materia di antiterrorismo. Non bisogna
restare sorpresi da una tale conclusione. Dopo tutto, il terrorismo
nella Francia degli inizi degli anni ’80 era straordinariamente differente da quello che si era sviluppato a partire dalla metà degli
anni ’90. All’epoca, lo scenario era dominato dall’ASALA (gruppo terroristico armeno), dall’Azione diretta, dal Consiglio rivoluzionario di Fatah (Abu Nidal), dagli Hezbollah e da altri gruppi
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libanesi che agivano con i Guardiani della rivoluzione del governo iraniano… Dieci anni più tardi questi personaggi erano spariti,
definitivamente o temporaneamente, dalla scena francese. In quel
periodo non così lontano, l’attentato-suicidio non era ancora diventato un prodotto d’esportazione verso l’Europa e l’America
del Nord.
Non ci sarebbe niente di cui meravigliarsi se i protagonisti e i
mezzi del terrorismo nel 2020 o nel 2025 fossero così differenti
da quelli del decennio in corso come lo sono questi ultimi in confronto a quelli degli anni ’80.
Al fine di evitare di dare un’immagine troppo contrastante di
questa realtà del cambiamento delle facce del terrorismo, si rinvierà di nuovo al carattere permanente del terrorismo in quanto
attività umana. Nello stesso modo in cui la fine dell’età della pietra non ha significato la fine dell’utilizzo delle pietre, la fine di
un episodio che marca il terrorismo – per esempio quello degli
anarchici a cavallo tra il XIX e il XX secolo – non significa la
sparizione di tutto il terrorismo anarchico, né a fortiori la fine
delle idee anarchiche. Questa osservazione è valida in generale,
ma in Francia forse ancora più che altrove, al punto che si trova in certi periodi una sovrapposizione delle sfide terroristiche,
specialmente durante gli anni ’70 e ’80. Semplicemente, con il
tempo, la minaccia principale, quella che deve ridimensionare gli
sforzi dottrinali, organizzativi ed economici dell’antiterrorismo,
cambia, senza per forza far sparire gli altri rischi. È d’altronde
questa contrapposizione tra sfide antiche e nuove minacce che
ha causato tanti problemi al Regno Unito e alla Spagna all’inizio del nostro decennio. Da qui, la preoccupazione di tentare di
distinguere in tempo utile tra ciò che ci minaccia oggi e ciò che
dovremo fronteggiare nel futuro.
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D’altronde, non si perderà di vista la continuità del terrorismo.
Esso non è soltanto un crimine, in termini giuridici ed etici; tuttavia come per il crimine, non c’è una prospettiva di abolizione,
soltanto quella di una lotta permanente per tenerlo sotto controllo
e limitarne gli effetti. Non è guerra, perché non si deve conferire ai terroristi la dignità che resta quella del combattente, anche
quando la sua causa è cattiva; ed è per questa ragione che è pericoloso nel dibattito politico riconoscere agli assassini di Al Qaeda
la qualità dei jihadisti che essi rivendicano. E non è guerra anche
perché, a differenza della guerra, non c’è né inizio né fine di questo fenomeno criminale tanto vecchio quanto l’umanità.
Se il terrorismo è permanente, le sue manifestazioni sono in
trasformazione così rapida quanto lo è la società umana nel suo
insieme nell’era della globalizzazione. Sono questi i cambiamenti che verranno qui analizzati, con le misure oppositive che essi
richiedono.
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