Kenya e Brasile 2010 - Diocesi di Concordia

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Kenya e Brasile 2010 - Diocesi di Concordia
DIARIO DEI VIAGGI DI CONOSCENZA E SOLIDARIETA’
IN KENYA E BRASILE (anno 2010)
Dall’8 al 20 gennaio con un gruppo di parrocchiani di Bibione - tra i quali parte del gruppo
missionario - siamo andati a visitare le missioni diocesane in Kenya. Obiettivo del viaggio è stato
quello di vedere la realtà della missione e portare quindi i contributi raccolti durante le giornate di
solidarietà missionarie estive: abbiamo portato 30mila euro, oltre le offerte che ogni singolo ha
liberamente lasciato. Un viaggio accompagnato dalla benedizione del nostro Vescovo il quale, il 4
gennaio, ci ha ricevuti per spiegarci il significato, la peculiarità e il valore delle missioni diocesane
in Kenya e in Equador. Da questa esperienza saranno ora predisposti dei pannelli fotografici da
presentare alla Comunità residente e ai turisti, in occasione delle giornate missionarie.
A questo punto non resta che mettersi in viaggio...
Venerdì 8 gennaio. Siamo giunti all’aeroporto di Nairobi sabato 9 alle 7.30 (5.30 in Italia).
Ad accoglierci abbiamo trovato don Romano (sacerdote della nostra diocesi) e don Simone, il quale
ha studiato a Venezia per 3 anni, svolgendo servizio festivo ed estivo a Bibione. Purtroppo siamo
partiti dall’aereoporto senza valige: arriveranno la sera del giorno dopo! Alle 14 (ora locale) siamo
arrivati alla base, al Naro Moru River Lodge, un hotel immerso nel verde, lungo le rive di un
torrente.
Dopo il pranzo, siamo andati a visitare la parrocchia di Naro Moru. La parrocchia, ora
gestita da preti locali, è stata il primo centro avviato dalla nostra diocesi in Kenya. Inserita nella
parrocchia, si trova il centro residenziali per bambini disabili. Il progetto è stato avviato dai nostri
preti nel 1982, dopo essersi resi conto di quanti bambini disabili vivevano rinchiusi in casa, un po’
per mancanza di sensibilità e un po’ per lontananza da centri abitati. Ancora oggi alcuni medici di
Genova scendono in Africa una volta all’anno per interventi chirurgici, lasciando poi il compito
della riabilitazione ai medici locali e alle suore elisabettiane, che gestiscono ancora oggi la
struttura. Compito delle suore oggi è quello di seguire il Centro e formare i genitori affinché
sappiano chiedere al Governo i contributi previsti per legge per aiutare i propri figli. Inoltre, alcuni
maestri calzolai italiani hanno insegnato il mestiere ai giovani del villaggio: questo permette di
costruire e riparare le protesi necessarie ai bambini.
Terminata la visita al Centro, ci siamo spostati in casa delle Suore, dove ci siamo trattenuti con
loro e con d. Romano per capire il perché della missione e della scelta della diocesi.
Domenica 10 gennaio. Dopo colazione siamo partiti per Sirima, la nuova parrocchia
seguita dai preti della nostra Diocesi. Nella cappella del villaggio di Tharwea, costruita da d.
Renzo De Ros e d. Luigi Zadro, abbiamo celebrato messa con d. Elvino, attuale parroco. Da qui, ci
siamo poi trasferiti in parrocchia, a Sirima. Anche qui, al termine del pranzo, ci siamo trattenuti
con d. Elvino per capire la missione in Africa. Ci ha così raccontato che “per capire l’Africa bisogna
vivere in Africa: è un altro mondo ma è pur sempre mondo!”. “In Kenya, ci ha raccontato d. Elvino, la
gente è più libera, meno ossessiva. Basti pensare che un bambino a 2 anni è già libero; a 3 anni va a pascolare
le pecore! Certo che ci sono i problemi, ma è il modo con il quale si affrontano che è diverso. La maturità si
misura in base alla capacità di saper affrontare e gestire il dolore, e in questo l’africano è più maturo di noi
italiani. Noi - aggiunge d. Elvino - crediamo di fare grandi cose solo perché diamo qualcosa, ma l’aiuto più
grande è far crescere, è far maturare, è educare. Ecco perché la Diocesi ha scelto di venire in Kenya: per
condividere la gioia della fede.
Qui io, d. Romano e prima ancora d. Dante, d. Renzo, d. Mario, d. Giacomo, d. Luigi...siamo venuti a nome
della Diocesi. A nome di ciascuno di voi. Siamo qui anche per voi. Ma torniamo all’africano. Mentre in Italia
siamo trincerati in casa, qui la gente è in strada, cammina, saluta, sorride. Qui sei di tutti: qui sei
consapevole che da solo non puoi vivere. Qui sai che la tua vita appartiene anche agli altri e viceversa. Non
esistono gli eroi solitari in una Comunità: cresci insieme agli altri e aiutando gli altri.
Ciascuno è invitato a dare quanto ha e quanto può, in base alle sue possibilità: c’è chi fa catechesi, chi lavora
il campo, chi lava i piatti...nessuno vive di rendita. Ecco perché bisogna stare attenti nell’aiutare gli altri: e
un nostro errore è proprio quello di creare dipendenza anziché aiutare a crescere. Anche le adozioni a
distanza sono “pericolose”, perché da una parte creano dipendenza (un bambino sa che può vivere di
rendita), dall’altra parte mostrano un nostro desiderio di protagonismo. Noi qui in Kenya siamo perplessi
sulle adozioni: è meglio sostenere una Comunità affinché questa dia poi i soldi dove realmente servono, senza
creare dipendenza o disuguaglianze: un bambino viene sostenuto e un altro no! Non possiamo permettercelo.
Riguardo la fede - dice sempre d. Elvino - l’africano è più ricco! Pensate alle nostre feste di prima
comunione: ci sono i vestiti, i regali, le foto...e Gesù? E’ ormai un fantasma!”.
Al termine della chiacchierata, siamo andati a visitare il Dispensario, curato dalle suore del
Caburlotto di Venezia (sono le stesse di Porcia, con la Casa Famiglia Arcobaleno). Visitato il centro,
ci siamo spostati presso la Scuola superiore, finanziata anche con i contributi delle giornate
missionarie bibionesi 2009. La scuola è pubblica, ma la parrocchia è sponsor e quindi ha diritto di
scegliere alcuni insegnanti; inoltre i genitori hanno diritto di scegliere il Direttore, nel rispetto dei
loro valori: su questo c’è più libertà che in Italia! La scuola è frequentata da 356 alunni: gli studenti
vengono aiutati a pagare la retta per metà dalla parrocchia, mentre l’altra metà dalla famiglia e dai
vicini. Questo obbliga lo studente a rendere conto non solo alla famiglia, ma anche alla parrocchia
e al vicinato. Per entrare in questa scuola è necessario raggiungere un determinato punteggio:
questo ha fatto sì che pur di entrare in questa scuola gli studenti hanno preteso maggiore impegno
dagli insegnanti!
Lunedì 11 gennaio. Giorno di safari presso il Samburu National Park. Lungo il viaggio
abbiamo attraversato l’Equatore. 3 ore di viaggio che ci hanno permesso di osservare alcuni volti
del Kenya: zone secche e deserte, zone coltivate e floride. Ad un certo punto una distesa di
frumento, chiamato appunto “il granaio del Kenya” (Timau, 2700 mt). Tanta gente che cammina
lungo le strade, con asini, buoi, pecore, sacchi in testa e...il cellulare! Potrà sembrare un paradosso,
ma ormai la tecnologia sta invadendo anche i villaggi. Non c’è ancora l’elettricità - che stanno
portando in questi mesi - ma la gente va al bar o in parrocchia per ricaricare il telefono.
All’interno del Safari di Samburu, tanti gli animali avvistati e fotografati: elefanti, scimmie, giraffe,
zebre, babuini, zebre grevi (con strisce nere più sottili e più fitte), coccordrilli, Kudus, impala, orix,
bufali, gazzelle, domsons, dick dick, faraone, scoiattoli, ghini, jeriglass, aquile, aironi, quiva. A
proposito del quiva, viene chiamato il tessitore perchè il maschio fa 2/4 nidi e la femmina sceglie
dove far nascere i piccoli. Ancora.
In molti animali, nel branco è la femmina che comanda; inoltre, il maschio si riconosce perché ha le
corna, mentre la femmina perché ha la cresta.
Martedì 12, ore 6.00. Partenza per un nuovo giro nel parco. Nell’arco di pochi secondi
abbiamo assistito all’alba: il sole sorge con una velocità sorprendente, tanto che nell’arco di pochi
istanti si passa dalla notte al giorno. Alle 7.02 avvistiamo il leopardo (cosa molto rara), poi i leoni,
elefanti… Tarda mattinata siamo andati a visitare un villaggio dei Turkana, tribù che fa parte del
gruppo dei Ka-ma-tu-sa, ossia di quattro tribù che si rispettano tra loro (Ka= kalengin; Ma= masai;
Tu=turkana; Sa=Samburi). Vivono in capanne di frasche e terra; sono posizionati in un’altura, in
modo che le pioggie non distruggono le capanne e dall’alto possono avvistare l’eventuale arrivo di
nemici.
Usciti dal parco-safari, siamo andati nella missione ad Alcer’post, dove abbiamo incontrato una
volontaria di Bolzano, Rita: ha fatto più di trent’anni d’Africa. E’ stata molto dura e schietta nel
parlarci dell’Africa e dell’africano. Secondo lei stiamo rovinando gli africani: non li stiamo
aiutando a crescere, ma creiamo in loro dipendenza. Loro ormai sanno che il bianco li aiuta, da
loro soldi e sicurezza, e questo porta l’africano a non rimboccarsi le maniche, a non assumersi
responsabilità. Da qui la loro arroganza: chiedono, chiedono e chiedono, ma non sono capaci di
dare. “Se sono ancora qui - dice Rita - è perché sono stati abituati a sopravvivere, e pur di vivere han fatto
di tutto. Ma dobbiamo riconoscere che abbiamo dato loro di tutto e di più, ma loro non riusciranno a
raggiungere i nostri livelli. Cosa resterà quindi dopo di noi?”. Rita ci ha lasciato con questa domanda e
questa riflessione.
Abbiamo così proseguito il viaggio verso il nostro villaggio. Don Romano, che ci ha fatto da guida,
ci ha spiegato che “Rita ha ragione in quello che ha detto, ma che è altrettanto vero che non possiamo
aspettarci che l’africano faccia tale e quale a noi. Come in una famiglia, un figlio non è detto che faccia quello
che un genitore si aspetta: quante volte un genitore avvia un’attività e poi il figlio fa un’altra cosa! Questo
provoca delusione in un genitore ma è giusto che un figlio prenda la sua strada. E così sarà per noi europei
ogni qual volta restituiamo all’africano una parrocchia: lui la gestirà all’africana, tutto qui! Questo però non
deve distoglierci dal dare all’africano l’essenziale: sì, l’africano ha una sua dignità e non merita gli avanzi
Questa è carità”.
Mercoledì 13. E’ la giornata di d. Simone! Siamo andati al suo paese natale, NdaragwaKanyagia .
Il paesaggio è splendido, straordinario. Foreste, verde, acqua...una zona meravigliosa. La
parrocchia faceva parte di Gatarakwa, dove d. Romano era parroco. Dal 2000 la parrocchia è
passata agli africani ed è tenuta benissimo. La scuola, gestita dalle piccole figlie di S. Giuseppe di
Verona, con oltre 120 bambini, è un gioiello. Accoglie bambini senza dimora: le sale tenute in
ordine, un ricchissimo orto e una curata fattoria… Dal 1999 è stato dato inizio alla costruzione
della nuova chiesa: è un progetto lento, ma va avanti. Terminata la visita alla parrocchia, ci siamo
trasferiti a casa di d. Simone, a 4 km dal centro. Siamo in piena foresta: i genitori abitano in una
casa di terra e legno, ormai segnata dal tempo. Il papà di d. Simone (85 anni) ci ha attesi
all’ingresso della sua proprietà, per darci il benvenuto. Era vestito a festa. Nei volti di mamma e
papà c’era emozione, commozione e gratitudine per aver “custodito” d. Simone in Italia. I genitori
vivono ancora in una capanna di legno e terra, con qualche lamiera di protezione: cucinano in una
seconda capanna accendendo il fuoco per terra. Noi abbiamo mangiato nella nuova casa che d.
Simone ha fatto costruireo per i suoi genitori, mettendo da parte i soldi che riceveva a Bibione: una
casetta di due stanze, in tavolato di legno. E’ stato un pranzo da grandi feste: d. Simone ci ha
raccontato che il giorno prima sono stati ammazzati un agnello e un capretto per il pranzo. La
mamma ha guidato la preghiera prima del pranzo. Abbiamo mangiato la carne, cucinata in tre
modi: alla griglia, in umido e bollita; poi la tipica pietanza, il mokimo (un impasto di patate,
fagioli, mais, verdura...tutto macinato insieme); poi sono arrivate le patate fritte, la verdura cotta, e
poi banane, arance, dolci e caffè! Un’accoglienza incredibile! Bello anche l’incontro con gli studenti
della vicina scuola: quasi 300 bambini hanno visto per la prima volta tanti “bianchi” nella loro
scuola!
Rientrando, ci siamo fermati nell’attuale parrocchia di d. Romano, Mogonda. Qui d. Romano ci ha
intrattenuti con una chiacchierata e con una visita alle strutture. Ci ha raccontato che la Scuola ha
250 studenti. La parrocchia è sponsor e quindi può influire sull’indirizzo educativo e sulla scelta
del personale. Questo permette ai genitori di dare un’impronta precisa alla scuola. Vicina alla
scuola secondaria c’è poi la scuola professionale: muratore, elettricista, meccanico, cuoco,
parrucchiera, idraulico, taglio e cucito, elettricista, computer.
Giovedì 14, visita all’Aberdare National park. Con d. Elvino e d. Simone visitiamo un
secondo safari o, meglio, una grande foresta protetta, piena di bambù: la pinata vive 48 anni e poi
muore. Il viaggio ci è utile per raccogliere nuove notizie sull’Africa, utili per capire questa realtà.
D. Elvino, attingendo dalla storia dei missionari della Consolata giunti in Kenya nel 1910, ci
racconta che “per capire l’africano è necessario capire il contesto. Quando giunsero in Kenya in primi
missionari (1902), non c’era nulla. Gli inglesi si erano insediati sulla costa, a Mombasa, e solo poi
cominciarono ad entrare nel territorio, portando la linea ferroviaria. Così, quando nel 1902 arrivarono i
missionari in mezzo alla foresta, trovarono uomini e donne che vivevano in capanne e si nutrivano di quanto
la natura offriva loro: tanta e tanta frutta e poi carne. Non avevano ancora la ruota e non usavano i chiodi.
Questi pochi cenni fanno già intuire la condizioni in cui vivevano. Per loro non esisteva il lavoro e neppure
la moneta: facevano ancora il baratto: io do una cosa a te e tu in cambio una cosa a me. Tutto scorreva uguale
per loro: circa 12 ore di sole e 12 ore di buio, tutto l’anno. Non sapevano cosa fosse la fatica del lavoro, poiché
non c’era l’esigenza dato che tutto era dato da madre natura. Ciò che il Kenya è oggi è frutto di un cammino
di poco più di cent’anni! Solo così si può intuire la fatica che oggi stanno affrontando”.
Venerdì 15, parrocchia di Gatarakwa, 2700 metri. Ci dirigiamo verso la parrocchia di
Gatarakwa, dalla quale sono nate altre tre parrocchie. Colpisce notare le strade asfaltate (novità di
questi ultimi cinque anni) e la linea elettrica che sta giungendo in tutti i villaggi. L’asfaltatura la
stanno facendo i cinesi: a tale riguardo è da notare che in questo momento la Cina sta facendo la
parte del leone. La Cina eroga soldi ma, a differenza dell’Europa, della Chiesa cattolica, degli Stati
Uniti...non chiede il rendiconto e questo porta il Kenya a privilegiare la Cina. Il dramma - secondo
un servizio di una rivista missionaria - è che la Cina sta portando in Kenya i suoi carcerati!
Nel mese di marzo anche le nostre missioni hanno ricevuto l’elettricità: certo, non è in tutte
le capanne, ma c’è la linea principale dalla quale ciascuno può agganciarsi, pagando. E con
l’elettricità arrivano naturalmente cellulari e tv, così scatta il consumo! Dal 12 dicembre 1999 la
parrocchia è stata data in gestione ai sacerdoti africani. Ci sono circa 20 mila cristiani. Il parroco, d.
Carlo anni 43, ha ringraziato gli italiani e i bibionesi per il contributo offerto negli anni per la
parrocchia.
Qui c’è una scuola elementare, dove dormono 110 bambini. La chiesa è stata consacrata dal
Vescovo Abramo Freschi il 2 marzo 1980.
Terminata la visita, siamo andati a Karemeno, presso la sede della scuola di agricoltura.
Purtroppo la scuola oggi è chiusa e in attesa di nuova destinazione. Per chi ha visto la scuola
funzionante alcuni anni fa è stata una stretta al cuore vedere lo stato di abbandono in cui si trova
ora il territorio. Confidiamo che la Diocesi di Nyeri si decida presto sul da farsi. Ci siamo quindi
portati in parrocchia, dove la gente sta pian piano costruendo la chiesa. La zona è particolarmente
arida e la terra da poco. Come la terra, anche la gente - ci spiega il parroco - da poco ma da con
costanza quello che può. Rientriamo in parrocchia a Mogonda, dove don Romano ci offre una
pasta. L’occasione è propizia per raccogliere ancora qualche testimonianza: “io sono qui al vostro
posto, ci dice d. Romano. Per questo avete il diritto e il dovere di sapere. Non sono qui, prosegue d.
Romano, perché ho voluto io o perché mi piace. Sono qui perché il Vescovo mi ha proposto di venire a nome
della Diocesi. Mi ha mandato il Vescovo e io sono venuto. Dovete sapere che quando sono arrivato qui la
gente non sapeva neanche tagliare l’erba! Quando dissi a un operaio di tagliare l’erba mi ha guardato storto,
ma l’ha tagliata; poi gli ho chiesto di girarla, così si sarebbe seccata meglio, e ancora non capiva; poi gli ho
chiesto di prenderla e portarla alle mucche, ma lui si è rifiutato. Quando è terminato il turno di lavoro e i
suoi compagni se ne sono tornati a casa, lui di nascosto ha preso il fieno e l’ha portato alle mucche. Poi è
corso in canonica è mi ha detto: padre Romano, le mucche mangiano l’erba!. Questo esempio fa capire a quale
livello culturale siamo. Ma non è colpa loro. La natura ha sempre provveduto in tutto, e solo in questi ultimi
anni, con la siccità, hanno cominciato a preoccuparsi e a dover reagire pur di vivere (non dimentichiamo che
oggi piove, ma per tre anni non si è visto acqua: il 70% degli animali è morto). Le autorità governative
hanno ringraziato noi missionari per il semplice fatto che abbiamo aiutato la gente a coltivare un orto, a
tagliare l’erba…
Sono arrivato qui nel 1994: non c’era acqua. Mi son detto: devo farmi un pozzo, ma non posso farlo solo per
me perché altrimenti la gente mi domanderà perché io si e loro no. Stavo riflettendo con calma quando ci ha
colti un’epidemia di tifo e alcuni parrocchiani cominciavano a morire. Mi son detto: non c’è più tempo da
perdere! Quindi sono andato alla ricerca di un buon bacino. L’abbiamo trovato a 14 km dalla parrocchia, sul
monte, in mezzo alla foresta. Ho fatto una riunione con le famiglie e abbiamo deciso.
Sono così venuto in Italia a cercare soldi: “Date un tubo al prete del tubo”, intitolarono i giornali locali!
Bene, ho raccolto 1.200.000 euro, 300.000 sono arrivate dall’Europa e il resto lo hanno messo le famiglie
della parrocchia. Abbiamo creato 350 km di acquedotto. Il Governo è stato coinvolto per la pianificazione e
per i permessi. In questo progetto ho avuto anche qualche mia soddisfazione! I ricchi non hanno mai voluto
lavorare, ma con la siccità si sono ritrovati anch’essi senz’acqua! Sono venuti a chiedermi aiuto, ma io ho
ricordato loro che potevano ottenere l’acqua solo coloro che avessero donato 100 giorni lavorativi e loro non li
avevano. Così ho proposto di andare a “comprare giorni” dai poveri...e sono andati e i poveri hanno venduto
loro giornate di lavoro. Questo ha permesso ai ricchi di avere l’acqua, ma altresì ha garantito ai poveri di
avere lavoro e soldi! Oggi la gente con 2 euro al mese può permettersi di coltivare l’orto, vendere i prodotti in
più e naturalmente mangiare dignitosamente. E se la gente non lavora? Semplice, dico loro: “se non volete
lavorare morite in pace. E morite presto per non disturbarmi con le vostre malattie!”. Quando uno ha tutto il
necessario per vivere, deve rimboccarsi le maniche. E loro ormai hanno tutto ciò che serve.
Vedete, spiega sempre d. Romano, le difficoltà della vita aiutano a crescere; le cose facili, invece, gioiscono
ma non fanno crescere. Perciò le difficoltà di questi anni hanno aiutato l’africano a crescere, a maturare.
Certo che poi ci sono i problemi, ma sono i problemi di tutti. Dio ha fatto il cuore uguale per tutti, così la
testa...invidie, gelosie, arrabbiature...sono uguali per tutti gli uomini e le donne di questo mondo. Non
dobbiamo meravigliarci: siamo tutti uguali, né più né meno”.
Dopo il pranzo, siamo andati a vedere la sorgente dell’acquedotto. Partiti con le jeep, dopo 14 km
immersi in una spettacolare foresta siamo arrivati al bacino. Un lavoro incredibile! Oggi ci sono
1364 contatori privati, 50 contatori istituzionali (scuole, chiesa…) e 94 punti pubblici. L’acqua
scende a valle a caduta, non ci sono pompe. Ci sono filtri per purificare l’acqua e ogni cisterna ha
altri filtri interni. L’acquedotto ad oggi serve 1300 famiglie, 20 mila persone. La fonte si trova a
2870 metri sul livello del mare.
Sabato 16. In questo giorno ci siamo divisi in due gruppi: uno è stato a Dol Dol (qui ci sono
i masai) e un altro è tornato a Sirima per stare con le suore del Caburlotto. Dol Dol è una zona
arida, qui il deserto si fa sentire sia come paesaggio che come colture. Lo scorso anno il 70% del
bestiame è morto e in questa zona ci sono stati molti suicidi.
Nella Comunità di Dol Dol prestano servizio un parroco e quattro suore (1 eritrea, 1 ecuadoriana, 1
portoghese e 1 una italiana, Sr. Gina). Salutandoci Sr. Gina ci ha detto: “chi è capace ad accogliere è
capace di dare!”.
A Sirima siamo stati in compagnia di Sr. Irma e Sr. Stella (originaria di Palse di Porcia): le suore
seguono il dispensario. “I malati - ci siega Sr. Irma - sono tanti: chi malato di Aids e chi, sempre di più,
malati mentali. Questo è dovuto da vari fattori: la povertà e l’igiene, poi la donna che non accetta le
condizioni di vita che subisce dagli uomini, poi l’erba che fumano. Raccolgono erba e fumano: ma è droga!
Fa saltare la testa. Ora il problema sarà gestire la loro povertà e condizione di vita con quanto vedranno
sempre più per televisione. E’ arrivata a marzo la corrente, e cominciano ad arrivare le prime televisioni: la
gente si raduna nei bar (capanne) e vedono un mondo diverso. E’ difficile spiegare loro come stanno in realtà
le cose, e questo li spinge ad abbandonare i villaggi per andare a Nairobi: ecco le baraccopoli. Il passaggio è
delicatissimo: è una seria questione educativa”.
Domenica 17, stupenda la partecipazione alla s. messa con la Comunità di Mogonda, dove
erano presenti anche alcuni amici di Concordia. Un’onda di gioia e di festa iniziata alle 10.15 e
terminata alle 12.50! Dopo il pranzo, siamo andati a visitare velocemente Nyeri e qui ci siamo
fermati alla tomba di Baden Powell, fondatore degli scout, e al sacrario Duca D’Aosta: due fermate
per far memoria e per pregare.
Lunedì 18. Lasciato il campo base, ci siamo diretti verso Nairobi. Lungo il percorso ci siamo
fermati a Nyahururu per dare un colpo d’occhio alla cascata. Siamo poi arrivati al parco di Nakuru
con il lago pieno di fenicotteri e il parco con rinoceronti, bufali, giraffe… Ripreso il viaggio, siamo
arrivati a Nairobi alle 17.40, ma in casa siamo arrivati alle 19.00, causa il traffico: una confusione
incredibile! Martedì 19. La mattinata l’abbiamo dedicata alla visita della città. Non ci sono grandi
cose da visitare: è una città che non ha neppure cent’anni. Impressiona la baraccopoli di Nairobi,
Karogocho, significa “confusione” in Kikuyo. Oltre 150 mila persone popolano un’area di un solo
chilometro quadrato. Il 35% della popolazione ha l’AIDS, il 70% è sotto i trent’anni e il 60% delle
donne sono bambine-madri. Manca acqua corrente, elettricità e igiene. Sembra che il Governo
abbia iniziato la costruzione di case popolari per accogliere il milione di persone che vivono nelle
baracche.
Che dire ora? Dico che è stato un viaggio bello e importante. Certo, l’africano ha ancora molto
bisogno di crescere e di maturare, ma questo è un percorso che coinvolge tutti noi. In fondo siamo
tutti uguali: si tratta d’imparare a conoscerci e comprenderci. Noi possiamo aiutare loroma anche
loro possono aiutarci. Noi ci perdiamo in cose secondarie, alimentiamo la cultura del piagnisteo espressione di d. Elvino -, mentre loro sanno ancora individuare le cose essenziali che noi spesso
perdiamo di vista e, in secondo luogo, sono più forti di noi. E’ vero, non hanno niente, eppure
hanno tutto: sono felici della vita e lo sanno mostrare con i loro sorrisi e la loro accoglienza. Il
Kenya ha toccato il cuore, ma ora spetta a ciascuno di noi lasciarci rinnovare il cuore; ha toccato la
mente, ma ora spetta a ciascuno di noi accettare di cambiare modo di pensare; ha toccato la vita,
ma ora spetta a ciascuno di noi cambiare stile di vita per intraprendere nuovi stili di vita. In fondo
è quanto stanno chiedendo il Papa e il nostro Vescovo. L’esperienza del Kenya non ci lasci
indifferenti, anzi, ci aiuti a fare la differenza dentro la vita quotidiana. E dopo quello che abbiamo
visto, impariamo almeno ad avere il coraggio di non lamentarci, che non significa lasciare tutto
come sta, ma saper prendere le cose con più serenità e pazienza. E’ la vita!
d. Andrea
Viaggio di conoscenza e solidarietà in Brasile,
presso la Comunità della bibionese Sr. Emidia,
missionaria delle Suore della Divina Volontà della G. Sterni
Sono sei anni di presenza a Bibione. Sono sei anni che ce lo chiedeva. Sono sei anni che
glielo promettavamo. Quest’anno abbiamo deciso! Il 10 marzo, Paolo ed Ivano, a nome del gruppo
missionario, ed io siamo andati in Brasile - nello Stato di Bahia - ad incontrare la bibionese Sr.
Emidia Codognotto e a visitare la missione dove ora si trova, in Brasile: Ithabuna (600 Km da
Salvador), cittadina di 200 mila abitanti.
Dopo 45 anni di presenza in Brasile, nessuno ancora oggi era stata a trovarla.
Sr. Emidia, entrata in convento nel 1953, era stata a Spilimbergo, poi a Bassano e, finalmente, in
Brasile: prima a Gramash, poi a Ghirattin, come ostetrica in un ospedale. Al momento del cambio,
il Vescovo chiese alla Provinciale di lasciarla in parrocchia per continuare a garantire una presenza
religiosa all’interno dell’ospedale.
10 marzo. Il tempo non era dei migliori: improvvisa e intensa nevicata aveva imbiancato Bibione: alle
8, grazie al servizio transfer di Claudio P. - oltretutto gentilmente offerto - , siamo partiti per Venezia. Preso
atto che il volo era confermato e siamo partiti alle 12.50 e arrivati a Lisbona alle 14.50 locali (quindi in Italia
erano le 15.50). Alle 16.24 partiti da Lisbona verso Salvador (capitale di Bahia), dove siamo arrivati alle 21.29
(in Italia erano le 01.29 del giorno dopo). Velocemente trasferiti in un piccolo hotel per la notte, al mattino
siamo ripartiti con un aereo di linea con direzione Ilehus, 30 minuti da Ithabuna, la parrocchia dove risiede
Sr. Emidia. L’arrivo in aereoporto è stato incredibile! Scesi e diretti verso il ritiro bagagli, ad un certo punto
sentiamo un rimbombo: era sr. Emidia che con le due mani batteva il vetro e salutava… lei stessa ci dirà che
le pareva che le venisse un infarto da quanto il cuore le batteva per la gioia! Insieme a Sr. Emidia c’era un
suo collaboratore, in qualità di autista.
Siamo così partiti verso Itabuna, ma non senza fermarsi in una churrascaria (tipico locale dove si
mangia carne finché sei sazio. E che carne!). Sr. Emidia abita in periferia, una piccola parrocchia così dice lei - di 50 mila abitanti. L’impatto è stato duro fin dall’inizio: già la strada che ci aveva
condotti la sera prima all’albergo era segnata da una fitta presenza di vigilantes e di sbarre di
controllo.
Ora, qui da Sr. Emidia, troviamo: grate all’esterno di ogni finestra e di ogni porta; poi i balconi e
poi...ancora grate all’interno. Lungo il perimetro della casa filo elettrico. Questo in tutte le case!
Pazzesco!
Sr. Emidia ci racconta che le morti sono oggi superiori alle nascite: la gente muore non tanto
per l’età avanzata, ma per la violenza a causa del traffico della droga e per le malattie, soprattutto aids . Sr.
Emidia ci parla del suo parroco, nei confronti del quale nutre grande affetto e stima. Ci racconta che è
importante volergli bene e che lei stessa invita la gente a voler bene al sacerdote, perché qui la situazione non
è né semplice né gratificante: è facile smarrirsi. Qui ti attaccano, ti criticano, ti ignorano...e questo fa sentire
ancor più la fatica di una scelta controcorrente. In questa zona i cattolici stanno drasticamente calando:
inseguono qualunque tipo di setta, e qui ce ne sono tante. Nascono e muoiono come niente. La tecnica delle
sette non è solo culturale, anzi, ma è soprattutto di immagine, di facciata. Costruiscono palazzi
avventuristici, poi ti fanno intuire che puoi diventare ricco, puoi fare carriera...e in un Paese come il nostro dice Sr. Emidia - queste sono parole magiche. Solo dopo la gente si accorge dei tranelli: sono costretti a
donare tutto alla setta e questo li porta sul lastrico. Eppure non lo capiscono! Uno dei motivi, ci dice, è
dovuto anche all’ignoranza culturale e religiosa, e questo spiega perché i Vescovi del Brasile in questi anni
stanno cercando di puntare sulla formazione. In Brasile, ci racconta Sr. Emidia, c’è di tutto ma non per tutti.
Oggi Sr. Emidia sta continuando il suo servizio in ospedale, poi in parrocchia e, all’interno della
parrocchia, opera nell’Associazione fondata insieme ad alcune volontarie. Opera per garantire
sostegno, accompagnamento e formazione alle ragazze. “Ogni martedì—ci dice - distribuiamo minestra di
verdure, che raccogliamo o compriamo al mercato: una distribuzione che non facciamo a caso, ma conoscendo già le
situazioni familiari. Ho la fortuna di visitare le famiglie e, inoltre, lavorando in ospedale vengo a contatto con molte
situazioni di disagio. Ciascuna famiglia ha così una tessera con la quale venire a ritirare la minestra. Le famiglie
arrivano con i loro contenitori, che spesso sono barattoli del colore di 5 o 10 Kg: usano il colore oppure trovano il
barattolo sulle immondizie; lo lavano e con questo vengono a prendere la minestra e il pane. Ciò che più ci sta a cuore è
la formazione della donna, a cominciare non solo a insegnarle le cose essenziali, ma altresì a insegnarle quali sono i suoi
diritti. Spesso non conoscono neppure i loro diritti sulla salute, per l’ospedale, per un dovuto rimborso…”
Passato il caldo (ci sono mediamente 33 gradi e 90% di umidità), siamo andati a visitare il
centro: è inevitabile che lo scenario tra
periferia e centro città cambi, anche se, con i nostri parametri, non di molto! Intanto sr. Emidia
continua a raccontare: ci spiega che “la scuola è per tutti, anche perché il Presidente Lula incoraggia le famiglie
con bonus economici pur di mandare i figli a scuola e toglierli così dalla strada. Purtroppo, però, manca la voglia di
studiare, perché le famiglie stesse ricevono più soldi se permettono ai figli di andare a lavorare”!
Ad un certo punto entriamo in un ospedale, ma non in quello in cui lavora Sr. Emidia. Lungo uno
dei corridoi un sacerdote missionario italiano sta celebrano messa: cantano, pregano… passano
medici, infermieri, pazienti e in quel passaggio si uniscono nel canto, nella danza, nella
preghiera...come niente fosse.
Inoltre, un’altra cosa che ha colpito, è il fatto che molti di coloro che passavano - siano stati essi
medici o pazienti - si fermavano e salutavano Sr. Emidia. Un “rito”, se vogliamo chiamarlo così,
che abbiamo rivisto alla sera, in cattedrale, dove il Vescovo presiedeva la messa di apertura per la
novena di S. Giuseppe. La gente, con spontaneità, si avvicinava a Sr. Emidia per salutarla,
sorriderle, parlarle… pochi gesti che lasciavano intuire vincoli di amicizia e stima. La messa, alla
quale ci siamo fermati solo qualche istante, portava naturalmente con sé l’impronta brasiliana:
canti, gesta, movimento...senza parlare poi dei fuochi d’artificio con i quali è stato accompagnato il
Vescovo entrando in cattedrale: Per loro è normale così!
12 marzo, partiamo con Sr. Emidia alla volta di Porto Seguro, dove un gruppo di bibionesi ha
realizzato un villaggio turistico: un villaggio del quale aveva sentito parlare anche Sr. Emidia, ma non era
mai riuscita ad andare a visitare (km 300: ci avevan detto 3 ore di viaggio, ma alla fine sono state 5!). Siamo
arrivati per pranzo: ad accoglierci, con cordialità e gioia, il bibionese Mario Fava, il quale non solo ci ha
invitati a pranzo, ma pure a trascorrere la notte da lui, per evitare di ripartire subito, date le distanze.
Occasione per passeggiare lungo le rive dell’oceano. Durante il pranzo, Mario ci ha presentato il villaggio e
la cittadina. “Certo, dice, qui c’è ogni comodità che inevitabilmente fa contrasto con la miseria esterna. Eppure,
continua, noi diamo da lavorare a 70 persone; inoltre, le Autorità ci interpellano quando hanno bisogno di aiuto per la
cittadinanza: io stesso sono stato invitato a finanziare un campo sportivo per i ragazzi, ad esempio. Non dimentichiamo,
inoltre che qui non siamo in Italia e le esigenze sono diverse: quando fa freddo siamo a 20° e quindi non serve il
riscaldamento né abbigliamento pesante; c’è abbondanza di frutta, e qui è molto nutriente perché è autentica. Questo
non significa chiudere gli occhi, ci dice Mario, ma di saper lavorare sapendo che il nostro lavoro è un contributo anche
per l’economia locale”.
Verso sera, siamo usciti a visitare il centro del paese: vicino ai villaggi sorge infatti un bel e
caratteristico centro turistico che qualcuno paragona alla Bibione Pineda degli anni d’oro; fuori dal
circuito turistico però, si sprofonda nella miseria. Il contrasto è così forte, che il degrado lo riesci
quasi a palpare: sono le favelas. Ne parleremo più avanti.
13 marzo. Ripartiamo alle 5. Lungo la strada Sr. Emidia continua a parlarci di sé e di quanto
cerca di fare. “In ospedale, ci dice, faccio l’ostetrica e questo lavoro mi permette il contatto e la conoscenza delle
famiglie, riuscendo così ad avere il polso della situazione”.
Il paesaggio che ci accompagna è ricco di vegetazione: distese di caffè, di cacao, di canne da
zucchero. E poi foresta, varietà di fiori e di colori. Senza parlare, poi, dei colori del tramonto che
abbiamo contemplato riflessi sull’oceano. Ogni tanto, lungo la strada, s’incontrano nuclei di
persone denominati i “senza terra”: si accampano in capanne di terra e nylon in attesa che gli
venga dato un pezzo di terra. Ce ne sono vari lungo il tragitto. Eunapolis, una cittadina a metà strada,
un tempo era una grande favelas, poi Governo e privati, anche per gestire la situazione, hanno scelto di
investire nella costruzione di una città: lo hanno fatto con loro e per loro. E ha funzionato.
Ci fermiamo a fare benzina. Ci colpisce notare che al distributore ci sono molte possibilità: benzina,
gasolio, alcool, punto elettrico. C’informiamo da Sr. Emidia e ci spiega che “in Brasile c’è sì benzina e
gasolio, ma da circa trent’anni le auto vanno anche ad alcool (derivato dal mais) e sono già funzionanti i punti per la
ricarica elettrica per le auto”! E come se non bastasse, l’auto può ricevere sullo stesso serbatoio sia benzina che
alcool e, grazie ad alcune centraline interne, l’auto è in grado di passare da benzina ad alcool senza problemi.
Un unico particolare che fa sorridere, per non arrabbiarsi: le auto sono Fiat! Insomma, con tranquillità da
anni realizzano ciò che in Italia da anni invochiamo! Bisogna dire, inoltre, che non abbiamo mai visto tante
Fiat come durante la nostra permanenza in Bahia! Alle 9 arriviamo a casa e naturalmente...caffè! Ci diamo
una rinfrescata e ripartiamo per una visita del centro di Ithabuna.
Rientriamo e, dopo pranzo, visitiamo il centro dell’Associazione fondata da Sr. Emidia e
alcune signore del paese. “Il nuovo centro - ci dice Sr. Emidia – è stato inaugurato il 26 novembre 2007, grazie ai
contributi della parrocchia di Bibione e dei suoi turisti. L’Associazione s’impegna nel promuovere la donna, i bambini, i
vecchi...insomma, le persone più deboli e talvolta più emarginate.
La struttura è composta da un grande salone al piano terra, con cucina; al primo piano, invece, le stanze lavoro. In una
viene insegnato a cucire, in un'altra a pitturare, in un'altra a ricamare, in una a fare i capelli e manicure, ceramica a
freddo...insomma, mestieri grazie ai quali le ragazze possono imparare un mestiere e trovare così un posto di lavoro. La
scuola rilascia un diploma riconosciuto e le Ditte privilegiano proprio le ragazze che escono da questa scuola,
riconoscendone la serietà e la preparazione. Le maestre che si dedicano a questo lavoro accettano di devolvere il 5%
all’associazione: sì, perché non facciamo gratis. Ogni ragazza deve un minimo di contributo - in alcuni casi
provvediamo noi stesse - ma dare il contributo aiuta a responsabilizzarsi”. Da qui, ci trasferiamo nella prima sede,
inaugurata il 2 aprile 2005: era una casa di un parrocchiano, poi lasciata in eredità. Qui troviamo locali,
strutture e materiali per tutto quello che serve nel servizio alla mensa del martedì, giorno del “Pan di
Sant’Antonio”: la minestra e il pane! Un bimbo, Riccardo, ci consegna un mazzo di fiori e una lettera, quale
segno di gratitudine per quanto stiamo facendo per loro. Nella lettera c’è scritto: “com’è bello e gioioso che i
fratelli vivano uniti. Salutiamo la Comunità di Bibione e il padre Andrea Vena. Da tempo vi siamo grati della
solidarietà per la nostra Associazione”. La Presidente poi aggiunge: “vi ringraziamo della vostra presenza: se non ci
aveste aiutato qui non ci sarebbe nulla”. A nome della Comunità ho risposto: “siamo felici di essere qui e di quanto
abbiamo fatto per voi, per questa Comunità e per la nostra Sr. Emidia”. Abbiamo concluso l’incontro con un buon
gelato!
Da qui, siamo partiti per andare a far visita al Vescovo della Diocesi, col quale Sr. Emidia
aveva preso appuntamento. Ci ha accolti nella sua “casa”, in piena zona residenziale: ha fatto un
certo impatto, non c’è che dire, la sontuosità della struttura della casa anche se, a onor del vero,
l’interno era molto sobrio. La chiacchierata è stata prolungata e amichevole. Il Vescovo è
Presidente della Conferenza Episcopale della regione e ci offre così alcune istantanee alla luce della
riunione con gli altri Vescovi. “Ci sono scelte, dice, che manifestano mancanza di fiducia e di speranza: aborto,
eutanasia...solo per richiamare le ultime sfide che la politica e la società pongono. E’ difficile, dice. Materialmente non è
male, ma c’è tanta corruzione. Una situazione che è ormai strutturale, non solo dentro le Istituzioni, ma anche dentro i
cuori e le intelligenze della gente. Come Vescovi stiamo preparando un documento sulla crisi della gestione politica dei
Paesi del mondo: la crisi economica è prima di tutto crisi etica. Oggi, inoltre, si tenta di togliere la libertà: c’è crisi di
democrazia. Inoltre la classe politica facilita uno stile di vita slegato da ogni valore: sostiene matrimoni tra omosessuali
con adozioni di figli e c’è un dilagare di prostituzione e di erotismo. Anche i giovani che entrano in Seminario risentono
di questo clima: sono inquinati. Il lavoro dei Seminari è spesso un cammino di purificazione.
Una purificazione che necessita la Chiesa stessa, attraverso una intensa nuova evangelizzazione. Anche i continui
abbandoni dalla Chiesa cattolica alle sette religiose manifesta una fragilità e debolezza culturale e religiosa che
c’interpella molto. Ogni anno in Diocesi riusciamo a ordinare una decina di giovani sacerdoti: non sono molti, ma non
possiamo lamentarci. Certo è che bisogna stare attenti: oggi come oggi uno studente costa 300 dollari al mese. A volte
abbiamo giovani che studiano fino all’ultimo anno, e poi - ben preparati - abbandonano il Seminario sapendo di trovare
una buona posizione di lavoro, dato il titolo di studio. Purtroppo dobbiamo stare attenti anche in questo. In Brasile ci
sono ancora tanti Vescovi Italiani. Come vi dicevo qui da noi non c’è il problema della fame, ma ci sono tante necessità,
tra le quali una seria e solida formazione ed educazione: aspetti, questi, che il Governo non considera fino in fondo. Basti
pensare al Carnevale: a quanto investono, a quanto martellano e...a quante cose fanno mentre la gente è distratta col
divertirsi! Qui tutto si ferma per una settimana, senza calcolare che ci sono feste prima e dopo il Carnevale. Ma non è
distraendo la gente che si risolvono i problemi! Ci sono alcune tensioni tra Chiesa e Governo anche sulla Scuola: non si
vuole che s’insegni cultura religiosa e c’è il tentativo sempre più forte di marginalizzare il cristianesimo, di indebolirlo.
Le sette sono ben viste sotto questo punto di vista, perché minano l’unità della Chiesa”. Il Vescovo conclude
l’incontro invitandoci in cucina a bere qualcosa di fresco. E con questo gesto di cortesia e familiarità, ci
saluta. Partiamo e scendiamo nuovamente in città, dove andiamo a visitare un centro commerciale: è
incredibile come si passi da un estremo all’altro! Dalla miseria all’abbondanza; dal caldo umido a locali
climatizzati… Alla sera usciamo a cena con Sr. Emidia e alcuni suoi collaboratori: un modo per stare insieme
e continuare la nostra conversazione.
Domenica 14. Partecipiamo alla s. messa delle ore 7: è l’unica nella cappella del paese, poi il parroco
celebrerà nelle altre cappelle. Alle 6.30 c’è la recita del rosario. Pian piano inizia ad arrivare la gente: tutti ben
vestiti, curati. Dal vestito si coglie che è un giorno diverso. Poi, nonostante l’orario mattutino, arrivano i
giovani: chitarre, microfoni… la chiesa si riempie e sono molti i giovani presenti. La messa è animata dalla
Comunità: canti, letture, preghiere, guida. All’offertorio la gente porta offerte di denaro o cibo per i poveri.
Al termine della messa, grazie alla traduzione di Sr. Emidia, mi sono rivolto alla Comunità con parole simili:
“innanzitutto buona domenica e grazie di questa gioiosa e bella messa, complimenti anche ai giovani del coro! Come
sapete, quando uno possiede una perla la custodisce con cura, con amore...diciamo che è quasi geloso di questo tesoro.
Ebbene, anche la Comunità cristiana di Bibione ha una sua perla che custodisce con amore e quasi con gelosia (e avendo
capito dove volevo arrivare, qui è partito l’applauso). Questa perla per noi è Sr. Emidia. Custoditela e vogliatele bene”
Insieme al parroco, p. Roberto, siamo tornati in casa da Sr. Emidia e qui abbiamo fatto colazione.
Vedremo se p. Roberto - come si augura Sr. Emidia - verrà a Bibione. Bevuto il caffè, siamo così
partiti per l’aereoporto. Dopo le procedure d’imbarco, per non trattenere Sr. Emidia per due ore, ci
siamo salutati ma, al momento della partenza, attraversando i pochi metri di pista per giungere
all’aereo, ci accorgiamo che dalla vetrata Sr. Emidia è lì, col suo collaboratore, per darci il suo
ultimo saluto. E’ rimasta in aereoporto fino all’ultimo!
Siamo così arrivati a Salvador, una nuova tappa del nostro viaggio. Ci sorprende la puntualità dei
voli: da Lisbona gli aerei hanno spaccato il minuto! Una cosa incredibile. D’altronde...siamo in un altro
mondo!! 27 km ci distanziano dal centro di Salvador. Lungo il tragitto, su strade a tre corsie, incrociamo
grattacieli a sinistra e baraccopoli a destra. Col taxi, saliamo verso il centro: un paesaggio spaventoso!
Negozi chiusi, case diroccate, nessuno per strada… ci siamo domandati dov’eravamo finiti! Ma al di là della
strada, forse scorciatoia, siamo arrivati nella piccola piazza storica di Salvador, dove abbiamo preso alloggio
e, nel pomeriggio, siamo andati a fare un giro della città. Abbiamo scoperto che di domenica tutto è chiuso:
negozi, servizi pubblici… chiuso. Tutti in spiaggia e in acqua.
Bahia: è uno degli Stati federali del Brasile con “capitale” Salvador. La costa di Bahia è lunga 325
Km, con una superficie di 1100 kmq. Calcoliamo che è due volte l’Italia e vi vivono 15 milioni di
abitanti (contro i 60 milioni in Italia!).
Lunedì 15. Ci attende una guida di origine italiana, Alfredo Periolo: con lui visitiamo la città. Ci
racconta: “Bahia è stato il primo approdo dei portoghesi, quando giunsero in Brasile. Una terra dunque
invasa, saccheggiata, sfruttata. Il Portogallo ha utilizzato Salvador come zona di sfruttamento: spesso vi
giungevano coloro che magari fallivano in Portogallo e tentavano così di rifarsi una nuova vita. Nei primi
anni dall’invasione, i grandi difensori degli indigeni furono i gesuiti, i quali pagarono con la loro stessa vita
la difesa degli abitanti di Bahia”.
Entriamo, a due passi dall’albergo, nella chiesa di S. Francesco: incredibile! Bellissima! Ci spiega la
guida: “la chiesa fu costruita nell’arco di trecento anni. Di stile barocco, ogni angolo - per non dire ogni centimetro - è
decorato con intarsi dorati. I frati francescani, nel realizzare questa chiesa, volevano, attraverso il linguaggio dell’arte,
far intuire agli abitanti quanto fosse bello e prezioso il Paradiso: meta possibile vivendo bene il Vangelo (siamo nel
1745). Dalle analisi compiute, si parla che lungo i 300 anni siano serviti circa 800 kg di oro per rivestire tutte le
decorazioni. E’ di una ricchezza ornamentale che però non disturba. L’obiettivo didattico era molto chiaro: se all’esterno
della chiesa c’era “miseria nera”, in chiesa - pre annuncio del paradiso—la gente poteva intuire la bellezza della Meta.
Così, incoraggiati da tale traguardo, la gente avrebbe trovato motivo di speranza nel continuare a vivere con fiducia.
L’ingresso della chiesa ha due porte poste una di fronte all’altra, a mo’ di bussola. Quella esterna, sulla strada, aperta,
mentre quella interna chiusa, obbligando i fedeli ad entrare lateralmente. Perché. Questa seconda porta faceva sì che gli
schiavi, mentre aiutavano i padroni bianchi a scendere dalle carrozze, non vedessero l’interno della chiesa, perché non
ritenuti degni del Paradiso. Ahimè, c’è stato anche questo! Un’amara constatazione per fortuna non
generalizzata: basti ricordare quanto i primi gesuiti hanno fatto per gli indigeni e quanto Daniele Comboni
ha fatto per l’Africa a fine ottocento.
Ma torniamo alla chiesa e alla guida: “ai lati della navata una serie di cappelle con ciascuno un altare, come
previsto d’altronde dal Concilio di Trento. Davanti ad ogni cappella balaustre in ebano, tutte decorate dagli artigiani.
Chi erano. Erano proprio gli indigeni e ancor di più gli africani, portati in Bahia perché ad un certo punto gli indigeni
cominciarono a ribellarsi. Infatti loro non sapevano cosa fosse la schiavitù, mentre l’africano - viste le tribù e le battaglie
tribali - conoscevano già la schiavitù. Ed ecco che i portoghesi cominciarono a portare gli africani per lavorare. Ma dato
che l’africano desiderava comunque pregare il suo dio, sulle balaustre ha lasciato la sua firma: animali, frutti,
erbe...tipicamente africane. Ma tra tutte ce n’è una che merita attenzione. Il portoghese sfruttava le donne senza ritegno.
Così gli artisti han posto davanti ad ogni balaustra due donne a seno scoperto, col volto sfigurato e, giusto sotto la
donna, una maschera. Bene: visto che solo il sacerdote entrava nella cappella e il fedele - che magari aveva finanziato
quella cappella - restava all’esterno, dalla sua posizione avrebbe visto bene le scene descritte sulla balaustra. Insomma,
un modo chiaro per dire: “getta la maschera: cosa vuoi avvicinarti a Dio se continui a violentare le donne!”. Una
denuncia finalizzata al pentimento. Inoltre, ai lati, lungo le colonne, ritroviamo delle statue di angeli: ci si accorge
subito che la carnagione non è perfettamente chiara e gli occhi, solitamente rivolti al cielo, sono qui rivolti verso il fedele
che segue la messa. Due le possibili spiegazioni: la prima, un modo per far riflettere il fedele di quanta tristezza sta
colmando i bambini a causa dei loro maltrattamenti; una possibile seconda spiegazione, quasi una sfida verso coloro che
pensavano che l’africano non sarebbe salito al cielo. Quasi che questi angeli dicano a chi li sta osservando dal banco: voi
ci trattate male, ma ricordatevi che noi siamo già in cielo, voi non si sa!”. Usciti di chiesa, siamo andati a visitare il
chiostro: realizzato su due piani, arricchiti lungo le pareti da decorazioni in ceramica con descritte le virtù.
Dato che il chiostro serviva per la passeggiata e la preghiera dei frati, era un evidente modo per far riflettere
i frati sul valore delle virtù, unica via per giungere al Paradiso.
Usciamo di chiesa e proseguiamo a piedi il nostro itinerario. La guida ci spiega le favelas. Ci
dice che “si tratta di una pianta che cresce prosperosa: molto grande, riesce a creare una copertura d’ombra dove molte
persone riescono a trovare rifugio.
Ebbene, rifugiati ed ex soldati reduci della sanguinosa guerra di Canudos (1895-96), nello stato di Bahia, occuparono
un terreno collinare libero presso Rio de Janeiro, poiché il governo alla fine della guerra aveva smesso di pagarli ma non
diede loro abitazioni in cui vivere; così sotto questi alberi si ripararono e cominciarono ad “abitare”. Oggi le favelas sono
case fatte di mattoni, o di canne, o di immondizie, con copertura in eternit, e noi sappiamo quanto cancerogeno sia.
Oggi la più grande favelas la troviamo a Rio: qui sono molto organizzati e anche molto intolleranti verso gli estranei,
modo questo per tenersi nascosti e riparati. Il Governo ha costruito case popolari, ma loro non si muovono.
Di fatto le favelas sono iniziate nel 1888, anno in cui fu dichiarata la fine della schiavitù. Non per convinzione, ma
solo per le pressioni internazionali, tanto che il patto fu di abolire la schiavitù avendo come contropartita macchinari per
sostituire lo schiavo! Il problema che in Brasile ormai c’erano milioni di africani e quindi di schiavi: che fare? I padroni
bianchi, non potendo più usare gli schiavi, li abbandonarono. Questi, ritrovandosi senza casa e senza patria,
cominciarono a riversarsi verso le città. Giunti nelle periferie delle città, gli schiavi non avevano punti di appoggio e
così si riparavano sotto le favelas - queste piante di cui vi avevo già parlato prima. Ancora oggi a Salvador - la
città più antica - l’83% degli abitanti è di origine africana”.
Con la guida parliamo anche della situazione locale. Ci spiega che “l’istruzione e la sanità pubblica sono
molto scadenti, soprattutto se confrontate con il servizio privato gestito sia dalla Chiesa che da altri Enti. Cosa succede.
Che coloro che studiano nelle scuole private hanno la garanzia di vincere i concorsi per entrare all’università, mentre
chi studia nelle scuole pubbliche rischia per la gran parte di venire escluso. Questo è dovuto al fatto che chi accede al
lavoro pubblico ha il posto garantito a vita e non deve rispondere delle sue responsabilità. E’ però necessario garantire e questo Governo l’ha fatto - che una percentuale degli ingressi sia dato agli studenti del pubblico: poi spetterà agli
studenti dimostrare impegno. Ma almeno riesce ad entrare!”.
Il quartiere in cui ci troviamo è zona storica, il Pelourinho: c’è una piazza religiosa, quella adiacente alla
chiesa di S. Francesco, e poi una piazza dedicata al mercato: qui venivano smerciati gli schiavi dopo la
quarantena. E sempre in questa piazza c’era un palo dove venivano frustrati gli schiavi che tentavano la
fuga. Ma nonostante il tentativo di dissuadere le fughe attraverso le frustate, molti tentarono di fuggire. La
guida ci spiega un’altra caratteristica legata agli africani: “non potendo venerare i loro idoli perché, se colti in
fragrante, sarebbero stati frustati, l’africano fece coincidere ad ogni Santo cattolico un loro spirito buono: così, se
arrivavano le guardie, loro potevano sempre dire che stavano pregando il Santo!”. Oggi, in questa piazza del
mercato, c’è una chiesa utilizzata dall’africano dove la liturgia segue i loro riti e colori.
“Ma a Bahia non ci sono solo africani - ci spiega la guida - ci sono dunque portoghesi e poi, dalla fine dell’800 anche
europei. Questi sono giunti perché il Governo del tempo, pur di “sbiancare” il popolo, ha incentivato gli europei ad
andare a lavorare a Bahia, confidando che gli abitanti di pelle nera calassero. Nello stesso tempo ha proposto il rimpatrio
degli africani: il problema è che gli ultimi arrivati dall’Africa sapevano dove andare e avevano ancora contatti con le loro
famiglie, ma la maggior parte non aveva né contatti né sapeva qual’era ormai il suo Paese d’origine, e quindi, in
proporzione, partirono pochissimi”.
Continuiamo il nostro giro informandoci della situazione sociale e culturale. La guida ci
spiega che “la droga-il crack è uno dei problemi più grossi del Brasile, sia per il basso prezzo, sia perché crea
velocemente dipendenza. Molti pannelli pubblicitari - creati e affissi dal Governo - denunciano che l’80% degli omicidi è
dovuto alla gestione del traffico di droga. E purtroppo questo è facilitato dal grande contrasto tra la ricchezza di pochi e
la miseria di molti. Bisogna non lasciarsi ingannare dal gran numero di auto nuove: qui tutto viene venduto a rate e il
Governo incoraggia il cambio auto per motivi anche ecologici.
A un primo impatto potrebbe sembrare una città segnata da degrado e abbandono, ma se si osservano i
palazzi si riesce ad intuire la grandezza che la città aveva raggiunto nell’800 con i portoghesi: basterebbe
poco per ridarle tutto il suo splendore artistico. E in questo il Governo ha avviato una politica di recupero e
restauro degli edifici. Confidiamo molto anche su mondiali e olimpiadi! E nonostante tutto, è da segnalare
che la città del Salvador si è posizionata 17° nella graduatoria delle città più visitate nel 2009! E nonostante
questo, basti pensare che solo per carnevale sono giunti 2 milioni di turisti in 7 giorni! E quando si parla di
carnevale significa milioni di persone per le strade dalla mattina alle 9 alla notte del giorno dopo verso le 6. Nelle tre ore
di mezzo ci sono le pulizie. Ma per sette giorni questo è il ritmo: fabbriche, scuole, uffici...tutto chiude. Inoltre, chi lungo
le vie possiede negozi di abbigliamento o elettrodomestici… chiude, svuota il negozio e lo da in affitto per farne un bar
per una settimana!”.
Nel pomeriggio scendiamo verso la città bassa, rione ribeira. E’ lunedì, e la gente che ha lavorato sabato
e domenica oggi fa festa. La spiaggia è piena: è una terrazza bar invasa da tavolini e sedie, dove si ascolta
musica, si mangia carne, si beve birra… festa...una vivacità e allegria piacevole capace di contagiarti. Ci
fermiamo anche noi una decina di minuti per bere qualcosa di fresco: la musica e la tranquilla allegria del
momento, accarezzati dal vento del mare rendono veramente piacevole questa sosta. Siamo saliti poi alla
chiesa di Nostro Signor de Bonfin, espressione della devozione popolare: una sorta di santuario affacciato
sulla costa.
Martedì 16. Al mattino la chiesa di S. Francesco è aperta e lo resterà per tutto il giorno.
Avevamo già visto da Sr. Emidia la distribuzione della minestra ogni martedì. Bene, qui la chiesa rimane
aperta tutto il giorno (quindi non si paga per entrare) e i poveri giungono alle porte della chiesa per ricevere
il “pane di S. Antonio” che la gente porta lungo tutta la giornata. I poveri sanno di poter trovare il pane, e la
gente sa di poterlo portare. E’ il pane dei poveri, tradizione che ha trovato radici nel momento in cui i signori
abbandonarono gli schiavi e gli africani non sapevano di che mangiare per nutrirsi. Ogni martedì c’è questa
processione per tutto il giorno.
La guida ci racconta che nonostante la cultura africana abbia dato l’impronta al Brasile, l’africano
continua ad essere considerato di categoria inferiore. Basti pensare, ci dice, “che il samba è una danza
che arriva dall’Africa e che qui si è sviluppata. I bambini, fin da piccoli, vengono educati alla danza per superare
vergogna e timidezza e questo permette che il corpo sia libero nei suoi movimenti, come ben fanno vedere i brasiliani.
Ma la danza è arrivata con la religione africana”. Lungo il tragitto “tanti lavori in corso, tutti alla luce del sole. Non
perché le operazioni avvengano in trasparenza, ci dice la guida, ma perché in questo modo tutti li vedono e alla fin fine
votano! E’ meglio fare una strada alta dove anche non serve, piuttosto che le fognature che nessuno vedrebbe sotto
terra!”. La vista di baraccopoli o dei “senza terra” ci permette di ritornare a parlare della schiavitù: “lo schiavo
sapeva fare un solo mestiere e soprattutto una sola cosa. Ogni schiavo sapeva fare una sola cosa, e questo assicurava al
padrone bianco di tenere lo schiavo sotto pressione: uno sapeva solo piantare patate, uno solo spelarle, uno solo
tagliarle… e questo ha portato alla totale incapacità di gestirsi dopo la schiavitù. La stessa cosa che in fondo ha fatto il
regime comunista con la sua gente.
La terra in Brasile produce tutto l’anno e questo spiega perché l’uomo non ha bisogno di accumulare. Ma c’è
un fatto. Quando arrivarono i portoghesi con le famiglie nobili, hanno iniziato a far lavorare gli indigeni.
Loro non capivano perché produrre tanto e mettere da parte, visto che la terra dava tutto l’anno. Ma quando
han capito che i frutti della terra venivano caricati sulle navi e loro non vedevano nulla, han cominciato a
ribellarsi. Per questo, come dicevo prima, il portoghese ha deciso di portare l’africano, già abituato alla
schiavitù! Ancora oggi ci sono i proprietari di grandi distese di terra, i latifondisti, e il più grande in Bahia è un
italiano, Benetton. Basti pensare che alcuni proprietari devono controllare la loro terra in aereo, da quanto grande è! Il
timore è che i senza terra entrino e si accampino: dopo 5 anni diventa terra propria. C’è attesa per la riforma agraria,
con l’obiettivo di dividere la terra con chi non ce l’ha: da una parte il Governo tenta di comprarla a basso prezzo dai
latifondisti, dall’altra parte tenta di ricercare i documenti d’acquisto per trovare inganni nell’operazione e così sottrarla:
ma si può intuire quanto sia faticoso e lungo questo processo e i poveri non hanno tempo.
Capite bene che in questo contesto di vita tentare di dimenticare è facile. Ecco il gran uso di alcool. La
cashassa è un alcool tratto dalla canna di zucchero e venduto a basso prezzo: questo fa si che la gente beva molto e
questo però porta alla violenza. E pensare che sull’alcool ci sono le tasse governative, e poi il Governo fa pubblicità per
non bere!”. Chiaccherando siamo intanto giunti a Santo Amaro (Sant’Amar) della Purificazione,
cittadina con oltre il 90% di abitanti di origine africana. 15.000 mila abitanti, in piena campagna. Località
abitata da una classe medio bassa, perché la borghesia si è trasferita in città dopo la chiusura delle principali
fabbriche di canna da zucchero.
Il paese si presenta bello e pulito: è giorno di mercato. Una varietà di frutta, colori, pesce e carne
abbondano le bancherelle. Proseguiamo poi il nostro viaggio e ad un certo punto ci fermiamo in un
gruppo dei “senza terra”, quantificati in circa 300 mila famiglie in tutto il Brasile. In questo gruppo
il Governo ha dato loro 50 case e si sono organizzati in gruppo. Si intuisce chiaramente che non
basta la casa per sentirsi cittadini: la sporcizia, la miseria, la trascuratezza manifestano che non c’è
ancora volontà di rimboccarsi le maniche per curarsi e tenersi in ordine. Sembra quasi che si tratti di
una scelta di vita.
Continuiamo. La guida ci spiega che “oggi come oggi le tasse le pagano pressoché tutti, visto che il Governo ha
creato dei controlli incrociati dove è difficile non pagarle. Negli anni ‘60, a causa della paura del comunismo, ci fu un
colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti: salì al Governo l’esercito, e dal 1960 al 1982 ci fu una dittatura militare per
garantire il non influsso del comunismo. Questo ha salvato il Brasile dal comunismo, ma ha creato un grande debito
pubblico. Oggi come oggi il Governo sostiene le piccole imprese attraverso tassi in banca molto bassi. A scuola gli
studenti vanno in divisa: questione di identità, di ordine e, perché no, di controllo: uno studente sarebbe subito
individuato se non va a scuola, e questo è un danno per la famiglia perché lo Stato dopo 15 giorni di assenza sospende il
buono economico”.
Giungiamo a Cachoeria, una piccola località lungo le rive di un fiume. La zona è tranquilla, siamo a 120 km
da Salvador, 2,5 ore di macchina. Qui una volta c’erano le fabbriche di canna da zucchero da trasformare in
melasso. Chiuse anche qui le fabbriche, la gente nobile ha lasciato e sono rimasti gli africani. Per rilanciare la
città, si sono creati campus universitari, preferiti anche dai genitori perché lontani dalla città e dai pericoli.
E’una città che, pur nella decadenza, mostra tutta la sua bellezza e il suo prestigio. Il problema è che
l’africano-lo schiavo è ancora oggi segnato dal fatto che la proprietà è del padrone, non è sua e quindi non si
prende cura degli spazi. E’ un fattore culturale che chiederà anni prima di essere superato.
Rientriamo a Salvador, è ancora martedì, giorno dedicato al “pan di S. Antonio”. Giorno quindi di
solidarietà, di fraternità, di festa. Se il sabato e la domenica si fa festa perché è fine settimana; il
lunedì si fa festa per chi ha lavorato nei fine settimana; il martedì si fa festa perché... è il martedì di
S. Antonio! Una cosa incredibile! Gente, musica, complessi, chioschi… impressionante! Nell’arco di
800 metri ci saranno stati almeno 8 concerti dal vivo. La gente passeggia, balla, danza… è un
movimento che ti coinvolge e dove ti senti spinto nel lasciarti andare alla danza brasiliana. Sotto il
profilo umano, un clima di festa bello e coinvolgente, caldo e appassionato. Un particolare chiede però di
essere evidenziato: lungo tutta la presenza in Salvador abbiamo incontrato e visto bambini – e non solo andare nei cestini delle immondizie a cercare barattoli di latta e di plastica, fonte di guadagno per la raccolta
differenziata. Figuriamoci perciò il martedì sera, dove la birra faceva da padrona. Una sera, mentre
cenavamo, un ragazzo ha chiesto l’elemosina ma non glie l’ho data: mi son fatto dare un piatto di alluminio e
ho messo del riso e della carne sul piatto e glie l’ho portata: beh, dopo neanche 10 secondi è arrivato un
ragazzo più grande che ha tentato di pretendere quel piatto dal bambino più piccolo...è intervenuta la
polizia. Non dovevo darglielo? Ma come facevo a continuare a mangiare seduto al ristorante con quel bimbo
che invocava cibo? Come potevo permettimi di rifiutare un piatto perché non mi piaceva quando quel bimbo
non aveva neppure la possibilità di scegliere?
E intanto fan festa. E tanta festa. Sr. Emidia ci diceva che “il clima di festa per il brasiliano è motivo anche
per dimenticare e quasi superare la paura e la condizione di vita”.
Mercoledì 17, giorno di partenza. Ci trasferiamo presso la Comunità dei comboniani presente in
periferia di Salvador. Ci accoglie un giovane ragazzo che al primo impatto sembra un volontario: si tratta
invece di p. Arturo Bonandi, comboniano originario di Brescia. E’ qui da sei mesi, ma da sei anni vive in
Brasile. L’occasione è propizia per ascoltare anche la sua testimonianza e, nel pomeriggio, per visitare la
zona. Ci racconta che “gli abitanti della zona non sono poveri, ma esclusi. Il 95% di coloro che vivono in periferia
sono africani: esclusi dal mantenimento sociale ed educativo. Ed ecco allora il riciclaggio delle lattine per un minimo di
rendiconto economico. Non c’è il senso del pubblico: uno getta e l’altro raccoglie! In realtà i bambini non dovrebbero
lavorare, ma quando non hanno possibilità non vedono altra via che questa. Non c’è educazione, in compenso c’è tanta
droga e tanto alcool. La periferia è un dormitorio: la gente che ha la possibilità di lavorare lascia le case al mattino presto
e torna alla sera. La Comunità è composta da 130 mila abitanti, tra cattolici, evangelici e Candomblè, un culto
africano.
Grazie a questo culto l’africano è riuscito a custodire e tramandare le sue credenze. Oggi questo culto convive con chi è
cattolico o evangelico: insomma, frequentano la chiesa e poi il Candomblè! Noi comboniani qui portiamo avanti una
pastorale afro-brasiliana. Cerchiamo di capirci. Nel 1900 si è sviluppata l’idea che il nero non serviva più ed è stato
mandato via dalle aziende, favorendo l’arrivo dei bianchi (ce ne aveva parlato anche la guida). Nel 1930 il nero ha
cominciato a riflettere: il samba, il calcio, la musica...han radici africane perché questo trattamento? Ed ecco i primi
gruppi afrobrasiliani iniziano a rivendicare i loro diritti e nel 1998 la Chiesa sceglie di avviare una pastorale afrobrasiliana. Ma guardiamo un po’ la realtà: le statistiche ci dicono che in carcere 4 persone su 5 sono afro; i morti in
periferia sono afro; Salvador ha l’85% di afro; l’Università ha il 60% di…. bianchi! Ma qui c’è qualcosa che non va! Ma
non è solo colpa loro. Guardiamo la TV: se ci sono incidenti o guerriglie mostrano solo i neri. Ecco perché noi siamo
impegnati soprattutto nell’aspetto culturale: abbiamo avviato un centro studi per aiutare gli studenti ad entrare, non
dico frequentare, ma almeno entrare all’università. E lo facciamo non distruggendo la loro cultura, ma insegnando loro
ad andar fieri di quanto il Brasile è debitore verso l’Africa. Nella nostra parrocchia frequentano circa 1000 persone su
50 mila cattolici: ci sono poi i pentecostali e tante altre sette, le quali confondono e ingannano la gente. Ecco perché
attraverso il forum e le comunità di base aiutiamo anche a capire gli inganni di certe religioni, le quali pongono la loro
proposta su facili successi, garanzia di soldi e apparenza. L’esatto contrario di quanto fa la Chiesa cattolica, la quale
parla di essenzialità, condivisione, solidarietà: insomma, partiamo sconfitti. Apparentemente!”. Siamo poi stati a
visitare uno splendido e moderno centro commerciale, posto esattamente al centro di due realtà: entrando a
destra, come abbiamo fatto, si vedono e si ammirano splendidi grattacieli. Uscendo dall’altra parte, invece, la
baraccopoli: è un pugno sullo stomaco! Eppure c’è. I prezzi sono più alti dei nostri, anche su auto e
tecnologia (TV, cellulari, computer). E per giunta non scendono con gli anni, ma loro non capiscono. La
benzina costa più che da noi e pensare che il Brasile è autosufficiente!
Tenendo presente il viaggio in Kenya fatto due mesi fa, il confronto viene spontaneo e
naturale: è meglio la vita in Kenya, anche come missionario! E p. Arturo lo conferma: “l’Africano in
Africa ha una chiara identità, qui non sa chi è. E così vale per il missionario”. E’ vero, è un discorso duro, ma, come
ci ha detto p. Arturo riportando la frase di un suo ex parrocchiano: “tu non ci hai detto quello che volevamo
sentire. Tu ci ha detto quello che dovevamo sentire”. D’altronde, scriveva Daniele Comboni, “la mia causa è la
causa del povero”.
Ma il Brasile è tutto così? Beh, se teniamo presenti le dimensioni e che noi abbiamo visitato solo due
cittadine, si può intuire che non sarà tutto così. Il fatto è che noi abbiamo fatto una scelta chiara e precisa:
siamo andati a visitare Sr. Emidia e i padri comboniani.
E la cosa più bella che abbiamo visto splendere in questi giorni è stata la vita di uomini e di donne che, con
Cristo e per Cristo, stanno liberamente e gratuitamente donando la vita per i poveri più poveri. E noi
sappiamo che non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici: grazie a voi, Sr. Emidia, p. Arturo
e ai tanti altri missionari sparsi nel mondo. Grazie!