Elementi per una nuova partita dell`innovazione da giocare sul
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Elementi per una nuova partita dell`innovazione da giocare sul
Aspen Seminars for Leaders Elementi per una nuova partita dell’innovazione da giocare sul territorio Intervento di Riccardo Varaldo in occasione del Seminario Aspen “Fiducia, responsabilità, merito per un’Italia senza guelfi e ghibellini” Venezia, 23 maggio 2015 1. La grande crisi internazionale ha avuto insieme a tante colpe il merito di aver contribuito ad intensificare certi mutamenti nella società e nel funzionamento dell’economia e dei mercati che sono destinati a perdurare. In primo luogo, la crisi ha rafforzato e generalizzato la presa di coscienza dei gravi problemi di sostenibilità ambientale, sociale ed economica che gravano sull’intera umanità, facendo nascere l’esigenza di un nuovo modello di sviluppo. In secondo luogo, la crisi è stato un eccezionale fattore di spinta al cambiamento e di accelerazione del progresso scientifico e tecnologico, facendo anticipare i tempi di sviluppo, applicazione e diffusione di nuovi ritrovati tecnologici in funzione dell’imporsi di nuove esigenze e di nuovi bisogni individuali e collettivi. I due fenomeni, per molti aspetti tra di loro interrelati, si verificano in presenza di un processo di crescita dell’integrazione tra le economie che sta portando i grandi paesi emergenti a diventare protagonisti in campo economico per la loro capacità di innovazione e non solo per i bassi costi del lavoro. Il loro peso nella spesa mondiale in attività di Ricerca&Sviluppo (R&S), pari a circa 1.500 miliardi, con quasi 8 milioni di ricercatori, è già salito al 25% ed è in continua crescita. E l’Ocse prevede che nel 2030 la Cina e l’India insieme avranno il 50% dei laureati mondiali nella fascia di età dai 25 ai 34 anni. Gli sforzi per adattarsi alle trasformazioni strutturali nell’economia e nei mercati stanno progredendo velocemente a seguito della crescita di peso e di ruolo di una innovation based competition, che sta creando una sorta di spartiacque tra i territori e le imprese che competono sui costi e sul prezzo e quelli che competono con l’innovazione. Di fatto, l’innovazione tecnologica si configura come lo strumento principe per l’incremento della produttività e per la crescita sociale ed economica, quale volano di attivazione di investimenti privati e pubblici per lo sviluppo di nuovi processi, nuovi prodotti e nuovi mercati, con effetti a cascata sull’aumento del prodotto interno lordo e sull’occupazione. Oggi solamente i paesi e le imprese che sanno cavalcare la sfida dell’innovazione e della globalizzazione con competenza hanno possibilità di progredire. Oggi, più di prima, se non c’è innovazione i nuovi investimenti e la crescita latitano, come purtroppo dimostra il caso dell’Italia che soffre di un gap nella diffusione di innovazioni tecnologiche nella produzione nazionale di beni e servizi. L’attività innovativa è in Italia meno intensa che negli altri principali paesi avanzati soprattutto perché è molto inferiore, per le imprese 1 italiane, la capacità di svolgere attività di ricerca e sviluppo al loro interno e di collaborare con Università e altre Istituzioni di ricerca e alta formazione. Una crescita economica duratura e sostenibile, socialmente compatibile, richiede innovazione e l’innovazione come hanno ben chiarito Daron Acemoglu e James Robinson “non può essere disgiunta dalla distruzione creatrice, che sostituisce il vecchio con il nuovo in ambito economico e destabilizza i rapporti di potere consolidati in campo politico”. L’Italia ha difficoltà a concepire e coltivare l’innovazione come costante trasformazione dell’ economia e delle sue istituzioni. Se c’è una cosa che l’Italia non vuole è la trasformazione continua perché per la maggior parte degli italiani la tradizione significa qualcosa. Anche se l’economista Joseph Schumpeter, l’ideatore della “distruzione creativa”, è stimato e studiato gli italiani come comunità non sono in maggioranza schumpeteriani mentre la struttura industriale è molto pathdependent, cioè dipendente dall’assetto esistente , in una linea di sostanziale continuità, in presenza di politiche pubbliche fortemente orientate alla conservazione. 2. L’Italia è un paese non orientato al futuro che ha difficoltà a fronteggiare e a misurarsi con i cambiamenti e le discontinuità create dalla grande crisi nell’assetto dell’economia e dei mercati, per cui stenta a rinnovarsi per essere in sintonia con i tempi. L’incapacità di elaborare piattaforme di politica industriale efficaci, il venir meno della voglia di investire, il prevalere di una cerca stanchezza delle classi imprenditoriali, sono tutti fattori destinati a diventare veri e propri handicap se non si interviene nel rimuoverne le cause. Per recuperare il gap di cui soffriamo e portare il paese a un livello di capacità di innovazione paragonabile a quello degli altri Stati dell’Europa Occidentale occorre promuovere un progetto di largo respiro per lo sviluppo di un ecosistema dell’innovazione ben dotato in fatto di: - capacità di iniziativa e innovazione delle imprese esistenti; - infrastrutture di ricerca e di alta formazione; - opportunità di lavoro per le risorse umane più qualificate; - forme di incentivazione e sostegno dei nuovi investimenti in settori innovativi; - istituzioni finanziarie specializzate nell’offerta di finanziamenti e capitali di rischio a sostegno dell’innovazione; - capacità di generazione di nuove imprese innovative sotto forma di spin-off e start-up In secondo luogo, occorre rendersi bene conto che inventare una tecnologia e imparare a utilizzarla sono due cose diverse, ed inoltre occorre considerare che per l’Italia è più importante recuperare sul secondo fronte piuttosto che coltivare ambizioni inventive, fuori dal contesto italiano. Pertanto occorre investire nella formazione di una forza lavoro capace di affrontare la nuova epoca delle tecnologie digitali e per farla diventare un driver per l’innovazione nelle imprese. Il vero trasferimento tecnologico si fa con l’impiego di risorse umane preparate e capaci. E’ in genere motivo di compiacimento e vanto il fatto di aver saputo mantenere in vita la manifattura tradizionale, fondata su un saper fare di tipo artigianale, tanto da consentire all’Italia di essere il secondo paese industriale a livello europeo, subito dopo la Germania e prima della Francia. 2 Tuttavia un rapido confronto Italia-Germania dal lato della filiera ricerca-invenzione-innovazione mette in chiara evidenza tipo e dimensioni del divario di cui soffriamo. In pratica, il divario cresce a mano a mano che si passa dalla spesa totale in R&S alla spesa privata dell’industria e si va verso indicatori della capacità di invenzione e di innovazione. La Germania investe in R&S complessivamente ogni anno circa 80 miliardi di euro mentre l’Italia ne investe 20, cioè un quarto. Nel caso della spesa privata dell’industria il rapporto è di 1 a 4.5 e sale per la richiesta di brevetti europei (1 a 6.8) e di brevetti internazionali (1 a 6.2). E nella graduatoria dei paesi europei più innovativi l’Italia è al 16° posto mentre la Germania al 3°. L’unico parametro meno penalizzante è il numero delle pubblicazioni scientifiche che vede l’Italia in 8° posizione in campo mondiale nella banca dati Scopus al 2013. Ed è un dato in crescita. Tutto ciò sta a confermare che l’Italia soffre in fatto di ricerca più dal lato delle imprese che non delle università, per cui ci difendiamo come produttività scientifica ma non come produttività economica degli investimenti in R&S. Accusiamo una chiara incapacità nella valorizzazione del potenziale di produttività e creatività dei nostri migliori ricercatori che anziché essere messo a frutto in Italia finisce per alimentare l’esportazione di conoscenze, a beneficio dei paesi più pronti e capaci a farle trasformare in innovazione, avvantaggiandosi del fatto che le conoscenze, in quanto beni pubblici, sono liberamente appropriabili. Occorre prendere atto con realismo che investire in ricerca di base non è sufficiente ad assicurare che una nuova tecnologia attraversi il ponte tra l’invenzione, lo sviluppo del prodotto e la prototipazione del processo fino alla scala industriale. L’attività di ricerca e sviluppo finanziata dallo Stato deve essere indirizzata a una continua interazione con le imprese private soprattutto considerando le ridotte capacità di investimento nel campo di cui soffre l’industria italiana. La possibilità di un paese di competere con successo nel mondo globale facendo leva sull’innovazione sta nella sua capacità di creare un substrato infrastrutturale e culturale adatto a far nascere collegamenti organici tra ricerca e industria basati su team composti di personalità proveniente dal mondo dell’industria e da quello della ricerca, capaci di lavorare insieme nel concepire e realizzare rapidamente l’innovazione. Queste combinazioni virtuose di diverse culture compatibili consentono di realizzare due fondamentali serie di sinergie. Da un lato, la messa in comune di esperienze maturate in campo internazionale per garantire la fattibilità di certe soluzioni tecnologiche sulla base di quanto già realizzato all’estero. Da un altro, di rendere massimamente produttiva la collaborazione unendo gli investimenti nelle applicazioni di ciò che è disponibile alla capacità di seguire e utilizzare tra i primi ciò che l’attività di ricerca di avanguardia rende disponibile. Questo implica che il paese si ponga come obiettivo di partecipare come attore al processo evolutivo della scienza e della tecnologia attraverso un investimento continuo in formazione, ricerca, sviluppo e capacità relazionali, che permetta di collaborare con gli hub mondiali della creatività, dove tendono ad aggregarsi università, centri di ricerca e imprese leader. Sul divario di innovazione tecnologica pesa in modo determinante il fatto che l’Italia ha conservato una struttura dimensionale dell’industria in cui le imprese con meno di 50 addetti pesano, in termini di occupati, per il 58.4%, mentre in Germania per il 21.7%. Per altro verso, le imprese con 250 e più occupati in Italia pesano solo per il 23% ed in Germania per il 55%. La conseguenza è che 3 nell’industria italiana il capitalismo privato e pubblico delle grandi imprese, con più di 3 miliardi di fatturato, pesa in termini di valore aggiuntivo della manifattura per il 6,6%, mentre il capitalismo delle piccole imprese con meno di 50 addetti conta per ben il 52.3%. 3. I tempi sono maturi per mettersi in grado di giocare la nuova partita dell’innovazione allo scopo di acquisire una rinnovata, più solida capacità di competizione e di crescita. La novità che conta è che, a differenza del passato, oggi stanno aprendosi spazi per recuperare, da parte dei paesi che sanno interpretare e sfruttare le nuove forme organizzative delle filiere produttive, della catena ricerca-innovazione e il potenziale della nuova imprenditorialità innovativa, con elevate e sistematiche capacità di policy sul territorio. Ci sono almeno quattro linee di riflessione da proporre per il caso Italia. 3.1 La prima sfida per l’Italia è mettersi in grado di giocare la nuova partita dell’innovazione, che sta caratterizzando la fase di cambiamento della società e dell’economia, cercando di valorizzare la peculiare conformazione della sua industria manifatturiera, in cui prevalgono imprese di piccole e medie dimensioni, anziché recriminare per questo apparentemente irriducibile handicap. Il programma di Innovation manufacturing, in fase di lancio negli Stati Uniti, tramite un network nazionale con 15 nodi tra di loro collegati, indica che la sfida globale va giocata dai paesi avanzati sul territorio, puntando ad una “politica di rinascimento industriale” con cui guardare al futuro ma anche alle eccellenze manifatturiere esistenti o da recuperare dall’estero tramite policy di re-shoring. Le nuove tecnologie digitali sono destinate ad accorciare e velocizzare i tempi dei processi produttivi e logistici, ed a facilitare il coinvolgimento e la collaborazione dei vari attori delle filiere, contribuendo a far ridurre in modo significativo i costi ed a far ritornare dall’estero lavorazioni, anche per consentire l’assunzione della qualità come tratto identitario della nostra produzione manifatturiera. Siamo in presenza di una nuova rivoluzione industriale nel manufacturing che l’Italia deve sapere sfruttare per recuperare produttività e competitività in campo internazionale. Il recupero di produttività a livello di sistema paese non può che partire dall’industria manifatturiere. Grazie alla smart revolution, in futuro costituirà fonte di vantaggio competitivo l’adozione di sistemi di personalized production di prodotti destinabili ad un ampio spettro di clienti, sempre più sofisticati ed esigenti, a condizione di saper produrre a bassi costi, anche per piccoli lotti diversi. E’ un tipo di modello della produzione che sembra perfettamente allineato alle esigenze di una industria manifatturiera, quella del made in Italy, che ha il suo punto di forza nel fatto di essere orientata decisamente ad un mercato di nicchie ad alto livello di personalizzazione dei beni e dei servizi offerti alla clientela Le nuove tecnologie digitali spostano anche il potere decisionale verso mercati e consumatori a valle delle filiere produttive creando spazi per una customer based innovation. Le piattaforme distributive on line e una serie di novità nell’organizzazione dei servizi, nella comunicazione e nella logistica sono destinate a loro volta a far sviluppare una distribution innovation di particolare importanza ai fini dell’efficientamento del sistema economico e delle imprese. 4 L’idea che l’Italia sia competitivamente forte nel manufacturing deve essere riconsiderata alla luce dei nuovi modi e delle nuove competenze con cui vanno oggi affrontati il mercato e la competizione. Le nostre imprese tendono ad avere una struttura fortemente centrata a monte sulla filiera produttiva, frutto di una spiccata cultura del saper fare, mentre oggi per essere competitivi e capaci di creare e incorporare valore occorre sviluppare una verticalizzazione a valle della produzione, inclusiva del marketing, dei canali distributivi e dell’assistenza clienti, oltre che concepire prodotti con cicli di vita brevi per essere sempre competitivi in un contesto tecnologico e di mercato in rapidissima evoluzione. 3.2 La seconda sfida per l’Italia è adattarsi al fatto che oggi la conoscenza è molto più aperta e distribuita di prima, si sono ridotte le economie di scala nell’attività di R&S e le innovazioni importanti non sono più prodotte in isolamento dalle grandi imprese, in vasti laboratori di ricerca verticalmente integrati, organizzati secondo il modello della invention factory di Thomas Edison. A differenza del passato il nuovo modello di business dell’innovazione è organizzato a filiera con l’inclusione di un ampio network di organizzazioni, tra cui PMI, università e organismi pubblici e privati che concorrono a dare forza alla capacità delle imprese di essere innovative, creando filiere di shared value, nel senso di Porter e Kramer. Nel contempo le imprese, pressate dal mercato ed dalle istanze della finanza, sono riluttanti ad investire in sforzi di sviluppo tecnologico che vanno oltre miglioramenti incrementali nei prodotti e processi esistenti. E di conseguenza riducono gli investimenti a lungo termine nella ricerca più di base, che di fatto lasciano in esclusiva, come campo specifico di specializzazione, alle università e alle istituzioni di ricerca pubblica. Sempre più frequentemente le novità tecnologiche di rilievo scaturiscono da convergenze e organiche collaborazioni tra la ricerca pubblica e le imprese, con le spin-off e le start-up che giocano di frequente ruoli chiave nel trasferimento di conoscenze e tecnologie al mondo produttivo, tra cui alle stesse grandi imprese. Nel passaggio da un modello di closed innovation ad uno di open innovation per le Università di eccellenza, strutturate secondo il modello della Research University, si apre la possibilità di assumere il ruolo di Knowledge sourcing a beneficio di grandi e medie imprese che vedono nella ricerca di base la fonte del loro progresso tecnologico e la leva per creare valore. In questo quadro, l’elevato livello di internazionalizzazione proprio di alcune nostre università è un fattore premiante. Da un lato, per consentire all’Italia di inserirsi in network di ricerca in campi scientifici e tecnologici di avanguardia. Da un altro, per essere attrattivi nei confronti delle grandi multinazionali che hanno come mercato il mondo e devono essere all’avanguardia tecnologica nei propri settori di specializzazione. Non deve quindi sorprendere il fatto che sta crescendo il numero delle grandi multinazionali straniere che, essendo impegnate in una spinta competizione innovation based, diventano partner delle migliori università in quanto sono portate a rifornirsi di conoscenze scientifiche e di competenze avanzate laddove ci sono laboratori di eccellenza e su queste basi accumulare knowhow per aprire unità produttive ed anche per far nascere spin-off. Si tratta di un’evoluzione nei processi di internazionalizzazione, propri dell’era della conoscenza, che vanno assecondati e 5 sostenuti da parte dell’Italia, tenuto conto del nostro basso rapporto tra investimenti stranieri e prodotto interno lordo che si attesta (dati ICE al 2013) al 19.5%, meno della metà del 49.4% della media dell’Unione Europea; ed inoltre considerando l’inopportunità di far incrementare tale rapporto solo con la cessione di pezzi pregiati della nostra industria manifatturiera di qualità, anziché con l’attrazione di capitali stranieri usando come leva la disponibilità di risorse umane e competenze di valore, tra l’altro ad un costo competitivo, nell’ambito dei paesi avanzati. Oggi è su questi indicatori che i Paesi sono soppesati nell’economia globale più che in fatto di dotazioni di infrastrutture materiali (autostrade, porti, aeroporti etc.) e di bassi costi del lavoro in se’. D’altro lato, è sempre più importante avere sistemi di relazioni industriali orientati all’innovazione e alla partecipazione dei lavoratori, capaci di offrire condizioni di elevata produttività e la possibilità di mantenerle e farle progredire nel tempo. 3.3 C’è un terzo campo di sfida a cui l’Italia può guardare con interesse: quello delle nuove imprese innovative a base tecnologica. Molti osservatori sono dell’idea che ci troviamo in presenza di una golden age per le nuove ventures e le start-up a rapida crescita. C’è infatti un revival di imprenditorialità di tipo nuovo, proprio dell’era della conoscenza, che trova nella società e nei territori nuove energie per esprimersi se la politica industriale crea condizioni favorevoli offrendo incentivi per chi fa nascere una nuova impresa innovativa e per chi assume rischi imprenditoriali ed investe per l’aumento del capitale dell’impresa. Si diffondono così i casi di Regioni, anche in paesi poco sviluppati, ma con punti di eccellenza nell’attività di R&S e nella formazione di capitale umano, che si dimostrano capaci di attivare e sostenere con investimenti mirati, dal proprio interno, la generazione di conoscenze, idee, esperienze di frontiera e competenze distintive che tendono a costituire risorse pregiate per dar vita a nuove imprese innovative, a crescita rapida. Sono piccole imprese che di frequente emergono in contesti urbani aperti, dinamici, internazionalizzati e dotati di infrastrutture materiali e immateriali che alimentano processi di contaminazione e di cross-fertilizzation che facilitano lo scambio di conoscenze e di esperienze. E’ sempre più frequente il caso di giovani laureati e dottori di ricerca, dotati di intelligenza creativa ed emozionale, con motivazioni su obiettivi ambiziosi, che dimostrano di saper sviluppare e sperimentare nuovi ritrovati tecnologici fino a farne la base per creare spin-off/start-up. Si tratta di giovani talenti, con spirito libero ed indipendente, per i quali le grandi imprese non riescono ad offrire condizioni di ambiente di lavoro e prospettive di carriera in linea con le loro motivazioni e aspettative. Per questo le grandi imprese più avanzate, nel tentativo di riprodurre in campo organizzativo quel clima di cultura informale, innovativa e creativa proprio delle start-up tecnologiche, possono creare un sentiero imprenditoriale al loro interno, protetto dalle interferenze della struttura gerarchica. Si stanno diffondendo anche i casi di istituti di corporate venture capital di grandi imprese per investire in nuove imprese innovative promettenti, sostenendole in particolare nella fase dello sviluppo early-stage che è la più costosa e rischiosa, ma anche quella più promettente in fatto di ritorni economici. 6 Il ruolo delle istituzioni del venture capital è fondamentale per lo sviluppo delle start-up promettenti, con un buon potenziale di crescita, e quindi capaci di creare nuovi posti di lavoro di alta qualità. Si stima che negli Stati Uniti più di 12 milioni di jobs sono di imprese partecipate dal venture capital. Nel caso dell’Italia, per mantenere vitali e rafforzare le sue basi produttive, occorre guardare a un modello di capitalismo che combini, con opportuni meccanismi, il capitalismo delle grandi e medie imprese con quello imprenditoriale delle nuove imprese innovative. Si tratta di una via da sperimentare con metodo e determinazione, avendo l’Italia un’economia matura e statica che richiede di essere resa più dinamica con una fase di transizione verso un modello di sviluppo a crescita più accelerata. Come è stato affermato in modo autorevole, “uno dei modi più promettenti di promuovere la crescita di una economia caratterizzata da una forma di capitalismo che evolve lentamente è adottare delle riforme che la spostano verso un tipo di capitalismo dotato di un motore per la crescita più potente” [Baumol, Litan e Schramm 2009,78]. Tentare di creare questo motore, attraverso la sperimentazione di combinazioni virtuose tra nuove imprese innovative e grandi e medie imprese consolidate, è la sfida che attente l’Italia per uscire da una fase declinante della sua economia. 3.4 Una quarta linea di azione è ispirata dal fatto che il carattere collaborativo dei processi innovativi, che esalta il ruolo della prossimità istituzionale, geografica e culturale, spiega anche la nuova importanza assunta dai cosiddetti ecosistemi locali dell’innovazione, grazie a politiche di rafforzamento e sviluppo per farli diventare un tassello nell’economia globale, dotati di propri vantaggi comparati sostenibili. Diversi studi recenti e importanti esperienze di successo confermano che i processi con cui le conoscenze e le nuove idee innovative prendono corpo e si traducono in nuovi prodotti, nuovi servizi e nuovi processi hanno un elevato grado di concentrazione territoriale, nel senso che sono processi geograficamente localizzati, sostenuti da appropriate esternalità aggregative. A misura che la competizione globale innovation based cresce di peso, le capacità e le performance degli ecosistemi dell’innovazione devono essere migliorate. Prima della grande crisi internazionale il fattore della territorialità era visto in senso negativo, come un elemento di debolezza più che di forza, e viceversa si dava preminenza alla globalizzazione rispetto al locale. Oggi è in atto un ripensamento che porta ad una rivalutazione del territorio, con un ritorno al locale però in un contesto globale che porta a far emergere e a dar peso alle diversità e specificità di eccellenza dei territori, in fatto di capitale umano e di altri asset strategici, per creare una catena del valore, a livello di territorio, che sia sostenibile nel tempo. Il nuovo approccio ad una gestione strategica del territorio si basa su una risorsa il cui valore sta crescendo nell’economia globale: la conoscenza e le nuove idee. Dato rilevante è che le industrie basate sulla conoscenza sono anche meno mobili e meno facilmente delocalizzabili di quelle più tradizionali, dato che contano non tanto i differenziali di costo del lavoro quanto i differenziali di conoscenza, alimentabili e rinnovabili con mirate attività di R&S 7 La sfida per l’Italia è di operare in modo organico e con decisione per per una nuova stagione di sviluppo economico e sociale sostenibile di tipo bottom-up, improntata ai paradigmi dell’era della conoscenza e dell’innovazione, idealmente riconducibile, a certe condizioni e solo per taluni aspetti, alla trama del miracolo economico delle piccole imprese degli anni 1950-60. Il nuovo ciclo di programmazione comunitaria, dotato di una parte consistente delle risorse disponibili, ha come focus strategie regionali dell’innovazione, ispirate al principio della smart specialization, che pongono particolare enfasi sulla capacità di costruire una visione di sviluppo condivisa e sul ruolo dei policy maker. E’ un’opportunità da non sciupare per l’Italia. Nel momento attuale, in cui è il territorio attorno a cui prendono piede i processi di costruzione identitaria, alle aspettative dell’innovazione si può far riferimento per aggregare un nuovo baricentro sociale, una ritessitura dei legami sociali quale condizione stessa della crescita economica. E’ questa la condizione per trasformare i frutti dell’innovazione in un beneficio sociale diffuso. NOTE BIBLIOGRAFICHE D. Acemoglu, T.A. Robinson, Perché le nazioni falliscono, Milano, Il Saggiatore, 2013 W.T.Baumol, R. Litan, C.T. Schramm, Capitalismo buono, Capitalismo cattivo. L’imprenditorialità e i suoi nemici, Milano, Università Bocconi, 2009 M.E. Porter, M.R. Kramer, Creating shared value, in Harward Business Review, 2011 R. Varaldo, La nuova partita dell’innovazione. Il futuro dell’industria in Italia, Bologna, Il Mulino, 2014 8