Make love, not war seventies

Transcript

Make love, not war seventies
Paola DE STEFANI - Aldo QUARIO
MAKE LOVE, NOT WAR
da Sixty
La voce di Percival continuava a parlare forte e chiara nella sua testa, con quel suo modo
lento, nasale e determinato. Glielo aveva sentito dire innumerevoli volte:
«Capisci subito se te la vuole dare. Se cominci a discutere, allora non te la dà. È meglio che
lasci perdere».
Rupert stentava a tener dietro ad Allison nella ricerca dei loro posti a sedere. Scavalcò
pantaloni a zampa d’elefante e stivaletti corti col tacco, schiacciato tra i giubbotti in pelle e gli
schienali delle poltrone. Il vociare di migliaia di persone gli riempiva le orecchie. Ogni tanto
partiva una scarica a volume altissimo dai tecnici che provavano le attrezzature sul palco. Era
martedì sera, e il Madison Square Garden traboccava per il concerto di Neil Young.
Fuori faceva un freddo terribile e il nevischio sporco di gennaio ricopriva le strade. Rupert
era arrivato a New York con la station wagon di sua madre, ma ormai aveva consumato quasi
tutta la benzina e in tasca non aveva più un dollaro. Aveva pensato di farsi dare dei soldi in
prestito da Allison, ma intendeva dare precedenza a un altro tipo di richiesta.
«Ehi, quanta gente in platea!» disse Allison eccitata.
Rupert sollevò gli occhi e vide che gli spalti, in alto dove erano loro, erano ancora
semivuoti.
«Questa è la galleria, Rupert», disse Allison, «la platea è giù, in basso, davanti al palco».
«Oh, sì, hai ragione».
La platea è in basso, giusto. C’era da confondersi.
Guardò sotto, come suggerito da Allison. La sala del Garden era davvero enorme e
brulicante di ragazze e ragazzi, schiere di capelli lunghi, lisci, gonfi, afro, biondo cenere o
nero inchiostro, come una morbida coperta patchwork. Quella sera il concerto attirava un bel
pubblico. Rupert adocchiò alle spalle di Allison un gruppetto di ragazzine in minigonna. Si
ripromise di starci attento quando la musica fosse partita e loro avessero preso a contorcersi
come matte. Distolse lo sguardo con misurata nonchalance.
«Cosa guardi? Hai gli occhi che ti escono dalla testa», chiese Allison. «Stai lumando le
sbarbine?»
«No, è che… » si grattò la sommità del capo in cerca delle parole giuste, ma come al solito,
quando era il momento, non le trovava mai.
«Aiutami piuttosto a cercare i nostri posti».
«Ok».
«Oh, guarda. Eccoli là».
Allison agitò i biglietti e si mosse in fretta verso il settore 417, verso l’ultima fila in alto, a
un soffio dalle travate a raggio del soffitto. Rupert li vide solo quando furono vicini, sotto le
luci che illuminavano i residui di patatine sbriciolati sui sedili. Da lassù i tecnici sul palco
sembravano granelli di riso bollito. I riflettori e i microfoni, giocattoli in miniatura.
Si sedettero. Rupert tolse le mani di tasca e si stropicciò un orecchio. Minuscole scaglie di
forfora caddero sul colletto a punta. Avvertì la corda del panico serrargli la gola. Si toccò
l’ultimo bottone, chiuso, della camicia, e sentì il pomo d’Adamo andare su e giù come un
ascensore occupato.
«Gesù», mormorò fra sé. Le mani gli si fecero fredde.
In quel momento Allison cominciò a parlare, come se la discussione che avevano sospeso
più di venti minuti prima non si fosse mai interrotta:
«Il fatto è che tu pretendi che io faccia qualcosa contro la mia volontà». Accavallò le gambe
e la sua minigonna si sollevò a scoprire una generosa porzione di coscia.
«No, io... » farfugliò Rupert.
«Vorresti che facessi violenza a me stessa? È questo che vorresti? Che passassi sopra ai
miei sentimenti?»
«No, che non vorrei che tu facessi violenza a te stessa, e i tuoi sentimenti mi stanno molto a
cuore… però potremmo almeno discuterne».
Davanti a loro si sedette un afroamericano con una capigliatura crespa grande come un
cespuglio e Rupert si rese conto di non riuscire più a vedere il palco. Si sporse da una parte poi
dall’altra, ma il tizio occupava tutta la visuale. Rimase così, leggermente piegato verso
Allison, fronte corrugata, testa bassa. Le luci dei riflettori brillarono di più e quelle della
galleria si affievolirono.
«Ne abbiamo discusso centinaia di volte. È inutile».
«Magari… parlandone ancora… »
Neil Young e gli Stray Gators entrarono in scena e la folla si sollevò in un boato. Allison si
alzò in piedi e si mise a saltellare sul posto battendo le mani. Sotto il maglioncino il suo seno
voluminoso balzellava morbido alla stesso ritmo.
«Le tette grosse rendono stupidi», aveva detto Percival.
«Non lo so… è che non sopporto i legami soffocanti», ribadì lei, «senza contare che
ultimamente tra di noi non ci sono più punti di contatto. Non sei più divertente come una volta.
Lo scrutò, investigativa.
«E poi perdi i capelli».
«Ma cosa dici, non è vero che perdo i capelli». Rupert si passò le dita nella chioma, in
quello che non poteva ancora definirsi un riporto (era solo che si faceva la riga da una parte).
Negli interstizi delle dita si trovò dei ciuffetti. Nascose la mano dietro la schiena.
«Che ti dicevo?»
Allison scosse la testa con fastidio.
«Io voglio essere libera. Voglio vedere le mie amiche, voglio partecipare alle assemblee,
voglio viaggiare, voglio andare alle feste, voglio frequentare più gente possibile. Mentre tu
vorresti sempre isolarti, io e te soli, con la fissa di farlo, farlo, farlo. Alla fine diventi
appiccicaticcio».
«Però non lo abbiamo mai fatto e io parto tra una settimana per il Vietnam. Potresti
considerarlo un regalo di buon augurio», commentò Rupert.
«Oddìo, no!» Allison lo guardò sorpresa e allarmata. «Dimmi che non è vero!»
Rupert cercò di riprodurre l’espressione di Steve McQueen in The Getaway mentre guarda
Ali MacGraw.
«Oh merda, non posso crederci», gemette lei, «non pretenderai che io forzi i miei tempi per
le tue esigenze?»
Rupert tenne la bocca chiusa.
«Ti rendi conto di quanto sei brutale?»
«Non ce n’è», la voce di Percival rimbombò molto più forte delle note di On the way home.
Si concentrò sul concerto e fu anche peggio. Adesso Neil Young cantava Soldier e questo lo
riportò a cosa lo aspettava. Un mese prima gli era stato revocato il rinvio per la leva. Di lì a
una settimana da quella stessa sera, 23 gennaio 1973, sarebbe partito per un posto esotico, e
non per andarci in vacanza. Anche se il disarmo, in Vietnam, andava avanti dalla metà del
1971, e i soldati americani laggiù stavano tornando a casa, la guerra non era ancora conclusa e
poteva sempre essere che anzi, avrebbe ripreso. Non capiva niente di politica, lui, ma questo
era un conflitto che durava da così tanto tempo che sembrava non dovesse finire mai. E la
sfiga era che stava per andarci di mezzo lui. Sentì la paura scavargli un tunnel nella
pancia.
Cercò di controllarsi. Non è così che va affrontata la situazione, avrebbe detto Percival.
Bella roba. Tanto lui non sarebbe partito, sarebbe rimasto all’università. E i suoi consigli a
cosa sarebbero serviti?
Guardò Neil Young, sul palco, e fu folgorato dalla consapevolezza che era l’ultima volta
che lo sentiva, perché in Vietnam sarebbe andato perduto il supporto indispensabile a cui
stanno attaccate le orecchie.
L’anno prima aveva tentato la carta del certificato di inabilità fisica o psichica. Gli sarebbe
bastato un medico compiacente per farsi esonerare dalla leva, così aveva sentito dire.
Rupert abitava a Brattleboro, Vermont, nella fattoria dei suoi genitori, e aveva sempre
allevato bestiame. L’unico medico che conosceva era il vecchio dottor Miller, che stando alla
teoria non avrebbe dovuto fargli troppe difficoltà. Dopo averlo fatto venire al mondo,
estraendo a forza di forcipe la sua piccola, recalcitrante zucca pelata dal ventre di sua madre;
non avrebbe certo contribuito a togliercelo. Almeno in linea di massima. La sala d’aspetto del
dottore traboccava di gente. Cinque o sei anziani, un paio di mamme, e tre giovanotti della sua
stessa età che a lui erano parsi incredibilmente sani.
L’infermiera lo aveva introdotto nello studio subito dopo aver fatto uscire piuttosto
frettolosamente l’ultimo dei tre ragazzi. Il dottor Miller era apparso stanco e accigliato. Due
rughe profonde gli disegnavano un solco ferroviario nel centro della fronte.
«Spero che non sia venuto anche tu con le stesse pretese degli altri tre», era sbottato Miller
da dietro le lenti rotonde a pince-nez.
Rupert lo aveva guardato allibito.
«No, certo che no. Tu sei un bravo ragazzo, si vede subito. Un bravo, sano ragazzo
americano».
Rupert aveva tolto con il dito un immaginario granello di polvere dai propri pantaloni.
«Come stanno i tuoi?» lo aveva incalzato il medico.
Lui aveva risposto con un grugnito che significava «non c’è male».
«Allora», aveva detto il dottore guardandolo in faccia, «cosa posso fare per te?»
Rupert aveva aperto la bocca. Non sapeva ancora cosa avrebbe detto, ma intendeva
prenderla alla larga, tastare il terreno prima di esporsi eccessivamente. Dopotutto stava
chiedendo qualcosa che non era propriamente legale, o per lo meno non al cento per cento e
non conosceva il dottor Miller abbastanza bene per poterne prevedere le reazioni.
«Levati la camicia», era stato il dottore a toglierlo d’impaccio.
Gli aveva appoggiato lo stetoscopio ghiacciato sui bronchi e lo aveva invitato a tossire. Una,
due, tre volte.
«Polmoni d’acciaio, direi», aveva preso a battere con i polpastrelli sulla schiena come se
bussasse a una porta chiusa, «come gli altri tre, d’altronde». Il medico si era lasciato scappare
un sibilo d’indignazione: «È incredibile sai?». Si era raddrizzato e lo aveva fatto ruotare su se
stesso. «Meno male che almeno tu sei un ragazzo come si deve».
Gli aveva infilato un abbassalingua in bocca che gli aveva provocato un conato di vomito.
«Quei giovanotti, prima di te», aveva premuto la lingua a destra e a sinistra dolorosamente,
«tutti e tre, eh, bada bene», il dottore aveva indagato le sue fauci con una pila accesa, «erano
venuti per farsi esonerare dalla leva». Miller aveva poggiato l’abbassalingua e gli aveva
ficcato un otoscopio nelle orecchie.
«Volevano un 4-F, capisci? E stanno benissimo», prima l’orecchio destro poi il sinistro,
«non hanno assolutamente niente!»
Le dita del dottor Miller erano passate a tastargli le ghiandole del collo.
«Roba da pazzi. Che razza di pretese! I giovani d’oggi non hanno più le palle, ecco cos’è.
Naturalmente li ho spediti fuori a calci. Era quello che si meritavano, non credi?»
Rupert aveva fatto un gesto vago, con la testa, ma le mani del dottore avevano chiuso le sue
mascelle in una morsa.
«Devi partire anche tu?» gli aveva chiesto.
Aveva provato ad assentire, cautamente.
«Beh, non hai proprio niente che non va, figliolo, almeno fisicamente».
Il dottor Miller gli aveva rifilato una potente pacca su una spalla.
«Ora vediamo cosa ci dice l’indagine psicologica. Ti lascio questi moduli da compilare.
Tornerò tra una mezz’ora. Sii onesto, mi raccomando».
Era uscito dallo studio chiudendosi con leggerezza la porta alle spalle. Forse c’era ancora un
barlume di speranza. Rupert aveva raccolto i fogli dal tavolo e aveva cominciato a leggerli.
Si trattava di una lista di quattrocento domande, del tipo:
Qualcuno ti sta osservando?
Hai paura dei ragni?
Un’entità superiore controlla le tue azioni?
I tuoi genitori ti odiano?
Dio esiste?
alle quali rispondere sì o no.
Rupert aveva incominciato con il selezionare le sentenze più paranoiche, e a quelle aveva
risposto sì; presto però si era stufato e si era messo a crociare caso, confidando nella fortuna
dei disertori.
Il questionario continuava chiedendo se il soggetto soffriva di disturbi quali anoressia,
claustrofobia, incubi notturni, sonnambulismo, incontinenza, abuso di droghe, mal d’aria,
tendenze suicide e via discorrendo. Rupert aveva pensato di non esagerare e aveva vistato solo
quattro tra le voci proposte: amnesia, depressione, narcolessia e mal di mare gli erano
sembrate le più adatte.
Aveva rimirato soddisfatto il modulo, lo aveva posato sul tavolo e aveva atteso il rientro del
dottor Miller.
Non aveva dovuto aspettare molto. Il vecchio medico si era seduto, aveva sistemato gli
occhiali sul naso, aveva letto con attenzione, aveva abbassato i fogli e aveva guardato Rupert.
Lui aveva ricambiato lo sguardo speranzoso.
«Direi che è tutto a posto anche qui, figliolo. Vedrai che alla visita di leva al MEPS ti danno
un bell’1-A».
Rupert aveva allora insistito per iscriversi all’università, nonostante non fosse mai stato uno
studente modello.
Aveva lasciato la fattoria e si era trasferito a New York.
I suoi si erano rifiutati di pagargli la retta della New York University, non avevano certo
soldi da buttare. Così aveva dovuto appoggiarsi a un prestito del National Defense Education
Act e a un’attività di impilaggio piatti alla mensa universitaria. Lavorare non gli dispiaceva,
era l’apprendimento che comportava problemi, soprattutto perché per conservare la borsa di
studio bisognava mantenere una media del 2.5, e per Rupert era come tentare di mungere un
toro.
Si era iscritto a lettere, perché gli avevano detto che era la facoltà più facile e anche perché
nelle discipline scientifiche era sempre stato più che una schiappa. Le lezioni di letteratura
inglese si svolgevano in un palazzo fatiscente di periferia, nel quale già alla fine di settembre
faceva un freddo polare. Nei corridoi fuori dalle aule c’erano ritratti di Robert Frost, T. S.
Eliot, Emily Dickinson e di altri grandi scrittori e poeti. Gente della quale non aveva mai
sentito parlare nemmeno quando frequentava il liceo a Brattleboro. Le aule avevano tutte lo
stesso aspetto squallido, con i pavimenti di linoleum verde screziato che odorava di
disinfettante, vecchie plafoniere di plastica crepate e piene di polvere che mandavano una luce
vacua e triste, una grande lavagna nera al centro di pareti color vaniglia vecchia. Sui banchi
antichi, generazioni di studenti avevano lasciato incisi o scritti a penna i loro graffiti osceni e
cuori infranti.
In letteratura Rupert si era dimostrato un disastro. Come d’altro canto in antropologia,
geologia, sociologia e francese. Riusciva a capire con grande fatica qualche verso delle poesie
di Whitman, mentre quelle di Eliot gli risultavano completamente oscure. Non riusciva ad
apprezzare niente che fosse più complicato di:
country girl, I think you’re pretty
gotta make you understand
there’s no lover in the city
let me be your country man
e continuava a considerare Neil Young il maggiore poeta vivente.
L’unica cosa positiva del corso era stata che lì aveva conosciuto Percival Thompson.
Percival era magro, bruttino, molleggiato e coperto di brufoli. La sua faccia era sempre
immersa in qualche tomo di poesia, il suo collo sempre dentro maglioni dolcevita dai quali
usciva un miscuglio aromatico di funghi e jungla. Raramente si rasava e quando lo faceva la
sua faccia sembrava essere stata arata. Ma era il ragazzo più intelligente che Rupert avesse mai
conosciuto, e capiva tutte le poesie che leggeva. Era davvero bravo al college, decisamente al
di sopra degli altri, anche se non sembrava studiare tanto, sempre in compagnia di qualche
bella ragazza. Come faceva, si chiedeva Rupert, mentre si arrovellava sui libri senza ricavarne
alcun costrutto, vedendo passare Percival al fianco di Carol Hawkins, miss maglietta bagnata
1972.
Un giorno, mentre Rupert stava ruminando su di un piatto di piselli alla mensa universitaria,
Percival Thompson gli si era seduto accanto.
«Tra poco ci sarà la prima sessione preliminare del semestre», aveva detto.
«Sono in un gran casino», aveva risposto Rupert.
«Soldi ne hai?»
«Beh, non molti, ma qualcosa posso rimediare». Il lavoro al reparto impilaggio piatti della
mensa aveva fruttato fino ad allora circa trenta dollari, dei quali Rupert non aveva speso nulla.
«Io faccio le tue tesine e ti aiuto con i quiz. Sono dieci dollari a prestazione. Te li farò in
modo che rientri nella media della borsa di studio. Basta che stai attento a non farti beccare».
In effetti c’erano punizioni severe per chi veniva sorpreso a copiare o a farsi fare da altri le
prove scritte. Se ti beccavano una volta ti davano la cosiddetta condizionale, una punizione
appena sotto l’espulsione, che era quello che ti toccava se eri recidivo.
Rupert si era tastato le tasche alla ricerca del portafoglio, poi aveva scosso la testa:
«Può andar bene per lo scritto, ma quando dovrò sostenere gli orali?»
«Ci penseremo a suo tempo. Una cosa per volta», aveva detto Percival, e aveva raggiunto
Angie Capriati, la capitana delle cheerleaders, che lo aspettava docile qualche sedia più in là.
E così avevano fatto.
Percival scriveva le tesine per Rupert e quando c’erano i quiz si sedeva vicino a lui per
permettergli di copiare. Avevano architettato un buon piano. Rupert sedeva davanti a Percival
e quando lui aveva finito di fare il suo compito dava un paio di colpi di tosse e Rupert
ciondolava all’indietro quel tanto che bastava per farsi infilare nel colletto della camicia il
foglio delle risposte. Percival era veloce e scaltro. Le sue dita erano più rapide di quelle di
Houdini nel far sparire tutto all’approssimarsi del professore. Rupert non aveva mai avuto
un’insufficienza e aveva superato la prima sessione in modo brillante. La sua media gravitava
intorno a un perfetto 2.5, anche se non aveva la più pallida idea di come facesse Percival a
reggere per tutti e due.
«Siamo degli assi», diceva Rupert.
«Quaranta dollari», rispondeva Percival.
Per sostenere le spese aveva dovuto farsi raddoppiare i turni alla mensa. Così, mentre i suoi
compagni passavano le serate al cinema, o a fumare erba e bruciare bastoncini d’incenso
ascoltando i Led Zeppelin o i Jefferson Airplane, i Grateful Dead o Santana, lui lavava e
impilava piatti fino a mezzanotte.
Intanto in Vietnam la guerra aveva preso una piega sempre più preoccupante per l’esercito
americano. L’aumento delle forze vietcong nel Sud del paese aveva spinto il presidente Nixon
a ridurre le truppe di terra per incrementare quelle aeree e marine. Dal maggio del ‘72 c’erano
stati degli sforzi nel tentativo di mediare la pace, ma nonostante tutti ne parlassero, ancora non
si era giunti a nessuna conclusione.
La voce della coscienza e soprattutto quella della radio che, nonostante il costante ritiro di
uomini, continuava a parlare di reclutamento, suggeriva a Rupert di spendere più
proficuamente le sue giornate. Aveva da leggere un numero crescente di capitoli di
antropologia, decine di pagine di storia e da rispondere a raffiche di domande di calcolo
avanzato. Ma, tutto sommato, si poteva sempre foraggiare Percival. Bellissimo trucco, ma alla
fine era saltato.
Era stato alla terza sessione preliminare, subito prima della festa del Ringraziamento. Mr.
Carter, il suo insegnante di letteratura americana, doveva aver cominciato a nutrire dei
sospetti, a giudicare dalla pena che si era dato per beccarlo in flagrante. Non ci era riuscito, ma
gli aveva tenuto gli occhi addosso per tutta la durata della prova cosicché Percival non aveva
potuto fare il suo numero. Rupert aveva preso scarso. Ed era stato lo stesso per francese,
geologia e antropologia. Non seppe mai se fosse stato Carter a far girare la voce, ma a Rupert
era sembrato che tutti i professori del suo corso si fossero messi d’accordo al solo scopo di non
lasciarlo copiare. Sulla bacheca dei risultati, a fianco del suo nome, alla fine degli esami,
c’erano ben quattro giudizi negativi. Percival li aveva letti a voce alta, nei corridoi che
sapevano di disinfettante:
«Scarso su tutta la linea».
«Come?»
«Dice: scarso, scarso, scarso, scarso», aveva ripetuto Percival a beneficio di Cathy Podolski,
la bionda di origine polacca che frequentava in quel periodo.
«Ok, ok. Non urlare, ho capito».
A Rupert si era inabissato il cuore. Aveva sentito le lacrime premere dentro i fornici. Aveva
diciotto anni, ma in quel momento gli era venuto da piangere come se ne avesse avuti quattro.
Il suo rinvio alla leva sarebbe stato revocato. Lo avrebbero mandato in Vietnam.
A complicare tutto quanto c’era il fatto che in quel periodo aveva conosciuto Allison a una
riunione del collettivo studentesco, e per la prima volta nella sua vita Rupert aveva sentito
qualcosa al centro del cuore, qualcosa di strano che non poteva essere nient’altro che amore,
oppure una malformazione a una valvola mitralica, ma in questo caso, si era detto, sarebbe
morto da un pezzo.
Il fatto era che, per lui, le donne erano sempre state un rebus senza soluzione.
Per esempio, prima di Allison c’era stata Patricia che per un certo periodo gli era ronzata
intorno. Ma Rupert aveva il sospetto che fosse solo perché lui era l’unico che la stava a sentire
quando cominciava a raccontare del suo ex che l’aveva lasciata dopo nove anni:
«Dico, nove anni, ti rendi conto?» e giù lacrime rabbiose. Rupert si era in qualche modo
proposto di sostituirlo, una terapia tipo chiodo scaccia chiodo, ma lei non era minimamente
interessata. Voleva solo:
«Oh, mi stai a sentire? O non te ne frega un cazzo?»
«Certo che ti sto a sentire».
«Tu assecondi le stronze», aveva sentenziato Percival, «non è mai una cosa buona».
Con l’aiuto del suo amico, Rupert si era liberato di Patricia. Ma quanto ad Allison, era stata
necessaria una consulenza specifica: Percival aveva dispensato consigli che avevano
marchiato a fuoco l’impressionabile cervello di Rupert.
La questione principale era: come convincerla a fare l’amore?
I tempi erano favorevoli: amore libero, liberazione sessuale, sesso droga e rock’n roll.
Purtroppo, però, Allison, che proveniva da una famiglia borghese con solide tradizioni
cattoliche, coltivava nella sua testa un groviglio sconsiderato di idee femministe e
psicanalitiche, politicamente impegnate e libertarie, rivoluzionarie, sessuofile e pacifiste,
innaffiate di abbondante patchouli, incenso, menta piperita e cannabis, che lei usava come
armi biochimiche per tenere le avances di Rupert a debita distanza.
Percival gli aveva detto: te la devi sbattere. Sennò a cosa serve una ragazza?
«Allora? Mi stai a sentire?»
Old man era appena terminata e Allison accese una delle sigarette che si era rollata.
«Vedi come sei? Non sei divertente, non riesci nemmeno a goderti il concerto. Ti estranei».
Rupert si girò verso di lei e le urlò nelle orecchie.
«Vorrei vedere te se dovessi partire per il Vietnam tra sette giorni».
Allison rise.
«Perché ridi?»
«Mi fai ridere».
«Perché?»
«Perché cerchi di manipolarmi. Di’ che non è vero».
Rupert corrugò le sopracciglia. Cercava di manipolarla? Sì, si rispose.
«È solo perché poi magari non ci vediamo più… » ‒ preferì non dire "perché magari io
posso morire", gli sembrò troppo definitivo ‒ «così invece potrebbe restarti un buon… »
«Te l’ho già detto. Non posso subordinare le mie tempistiche alle tue… cose», lo interruppe
lei degradando il conflitto in Vietnam a un affare da nulla.
«Va bene. Non ti arrabbiare. Vorrà dire che aspetterò… Sperando di tornare».
Il tentativo di impietosirla non sortì alcun effetto. Allison continuò imperterrita a fumare
quello che dall’odore non sembrava affatto tabacco. Rupert poteva vedere le labbra contrarsi,
la brace farsi incandescente, le narici fremere al di sotto dei lunghi capelli biondi. Abbassò la
testa, poi la risollevò.
«Quanto pensi che dovrò aspettare?» azzardò.
Lei lo guardò come si guarda il poliziotto che irrompe al sit-in.
«Vedi? Vedi come sei?»
«Come sono?»
«Mi hai appena detto che avresti aspettato e poi sei lì subito a mettermi fretta».
Il fumo gli arrivò direttamente in faccia.
Rupert rinculò nel colletto della sua camicia a fiori:
«Era solo per avere un’idea di massima».
«Non sono pronta».
«Ok. Ok», disse lui alzando le mani in segno di resa.
«Quando sarò pronta sarai il primo a saperlo».
Rupert assentì con un gesto deciso mentre le note di Heart of Gold prendevano quota nella
sala.
«Voglio che sia il momento giusto. Ok?»
«Ok», confermò lui.
«Devo sentire che è giunto l’attimo».
«Sono d’accordo».
Allison parve soddisfatta e riprese a fumare.
«Allison?»
«Sì?»
«Con Andy il momento giusto è arrivato subito?» dovette urlare per farsi sentire.
Lei lo osservò come se avesse fatto una domanda pertinente. Ci rifletté su, poi rispose:
«Sì, adesso che mi ci fai pensare, in effetti con lui ho sentito subito che le condizioni
c’erano».
«Ah».
«L’attimo era propizio», sentenziò soddisfatta e raggiante.
«L’attimo era propizio».
«Già».
«Però eri venuta alla festa con me, Allison».
«Che c’entra questo adesso?»
«Beh, per c’entrare c’entra… »
«Vorresti insinuare che sono una puttana», gridò, più forte di Neil.
«Ma no. Cosa dici!»
«Dai! Dillo! Avanti, dillo! So che lo pensi!» strillò.
«No, non sei una… solo che… eri con me… e pensavo che… »
«Ecco, vedi. Sei il solito maschilista egocentrico. Non c’è niente da fare. Siete tutti uguali.
Solo perché vai a una festa con una ragazza poi pensi che lei debba stare con te per tutto il
tempo».
«Ma, Allison, tu sei la mia ragazza!»
«Vorresti tenermi chiusa in casa a cucinare? Eh? È questo che vorresti?»
«Allison, io… »
«Ma non capisci che le donne di oggi non sono più come le nostre madri? Noi ci stiamo
liberando».
«Sì, lo capisco».
«La gestione del corpo deve essere improntata alla libertà».
«Ok».
Tirò rabbiosamente dalla canna. Rupert sentì la faccia diventargli bollente.
«Allison?»
«Oh, piantala, lasciami sentire la musica. Cosa c’è ancora?» sbraitò.
«Anche con Marvin l’istante è stato propizio?»
«Sì, sì, anche con lui, va bene?»
Rupert deglutì. L’odore del fumo gli dava alla testa.
Allison gli gettò un’occhiata di sbieco:
«Beh, non mi guardare così, sai, Rupert».
«Così come?»
Lei inalò un altra boccata, meditabonda.
«Però, se non dovessi partire… », ipotizzò lui.
«Dillo ancora una volta e mi metto a vomitare», berciò lei.
Tra una settimana si sarebbe trovato con il culo nella jungla e la testa nel Mekong, con la
foto di Allison in tasca, e a lei non gliene fregava un cazzo. Era tornato a casa dalla sua
disastrosa avventura universitaria il mercoledì prima del Ringraziamento. Brattleboro,
Vermont lo aveva accolto con la sua aria fredda di novembre e la neve sui tetti di legno delle
case, lungo le sponde del West river. Sua madre Mary lo aveva stretto tra le braccia e aveva
versato qualche lacrima di benvenuto. Suo padre Jim gli aveva stritolato una spalla con una
mano e non aveva detto una sola parola. Persino i tacchini erano venuti a salutarlo. E lui si era
sentito di nuovo bene. Dio, quanto gli era mancata casa sua.
Quella notte non era riuscito a dormire. Avvolto in una coperta aveva sceso le scale ed era
uscito. Una raffica ghiacciata di vento e nevischio lo aveva fatto rabbrividire e una goccia di
muco gli era rimasta pendula sulla punta del naso. Se l’era asciugata con il dorso della mano.
Era rimasto ad ammirare la striscia perfetta di luce che usciva da sotto la porta chiusa e che
disegnava un ventaglio di oro sul legno della veranda e sulla neve. In quel momento gli era
sembrato che Dio avesse creato il più meraviglioso dei mondi possibili. Che ogni cosa attorno
a lui fosse assolutamente perfetta. E che fosse un suo preciso dovere onorare tutto questo.
Doveva trovare il modo per non partire.
Percival aveva detto di provare con un prete, visto che la famiglia di Rupert era cattolica. Lo
zio Sam consentiva di essere riformati se il tuo sacerdote scriveva una lettera che sosteneva
che le tue convinzioni religiose andavano contro la guerra. E, per Dio, Rupert non si era mai
sentito così religiosamente convinto come ora.
Padre Hoppenstand lo aveva fatto attendere in chiesa per quattro o cinque ore. Prima si era
presentata un’estrema unzione, poi era stata la volta delle confessioni, poi c’era stata la
funzione. Solo verso l’una del pomeriggio il reverendo aveva trovato un ritaglio di tempo per
riceverlo.
«Non ti ho mai visto a messa, figliolo», aveva esordito il sant’uomo.
«Sono stato all’università, padre».
«Ma guarda».
«Sono sempre andato alle funzioni quando ero a New York».
«Ora che ci penso non mi ricordo che venissi mai in chiesa, nemmeno quando frequentavi il
liceo».
«Sì che ci venivo».
«Io non mi ricordo».
«Beh, forse sono una pecorella smarrita, padre Hoppenstand».
Il reverendo sospirò e si diresse alla canonica, con Rupert alle calcagna. Lì scartabellò in un
cassetto e tirò fuori una pila di quaderni consunti ordinati per anno.
«Vediamo un po’: Rupert Barker. Cinque stelline d’oro per il corso di catechismo».
Rupert sorrise. Che tenero vecchietto. Teneva ancora i quaderni di dottrina di bambini che
ormai erano uomini fatti e finiti.
Cinque stelline d’oro dovevano pur significare qualcosa, pensò.
«Cinque stelline d’oro sono uno schifo», commentò padre Hoppenstand, «vuol dire che in
tre anni sei venuto solo a cinque lezioni. Mi spiace dirtelo, ma sei un pessimo esempio di
cristiano, figliolo. Non posso accontentare la tua richiesta. Se tu fossi venuto di più al
catechismo, allora, forse… ma con cinque stelline d’oro… » Scosse la testa tristemente, come
a dire che era impensabile.
L’aviazione americana, intanto, festeggiava il Santo Natale del 1972 in Vietnam del nord
con il Christmas Bombing, il bombardamento più massiccio mai condotto dalla seconda guerra
mondiale: dal 18 dicembre, per undici giorni consecutivi. Le parti in causa non riuscivano a
trovare un accordo. Sembrava che la guerra dovesse andare avanti per sempre.
Come ultima opzione Percival aveva parlato di omosessualità:
«Certo è rischioso», aveva detto. «Se ti dichiari apertamente gay la cosa è fatta, hai un 4-F
garantito. Però poi sei marchiato come checca. Ma se serve a salvarti il culo… » aveva sorriso.
Rupert aveva ignorato l’ironia.
Ci aveva pensato su a lungo e un’altra nottata insonne lo aveva portato, al mattino dopo,
oltre che ad essere uno straccio, ad aver preso la decisione più drastica: sì, si sarebbe
dichiarato gay. La cosa lo metteva a disagio, ma al diavolo tutto: avrebbe recitato la parte fino
in fondo.
Si era sentito rinfrancato dalla colazione di uova e pancetta e dalla sua nuova risoluzione.
Nella stalla, suo padre spalava letame dagli scolatoi delle vacche in una carriola per poi
rovesciarlo all’esterno in una montagna fumante. La porta del locale era aperta e quando
Rupert era entrato Jim aveva smesso il lavoro e si era asciugato il sudore della fronte con la
manica della camicia.
«Era ora che ti alzassi», gli aveva detto. Gli aveva messo in mano una pala ed era tornato
alla sua carriola.
«Merda! Una montagna di merda», era sbottato, «è l’unica cosa che questa
vacche sanno fare».
Rupert aveva guardato le mucche, poi aveva guardato la quantità industriale delle loro
deiezioni.
«L’unico che fa ancora il suo dovere qui dentro è Hammer», suo padre aveva indicato con
un cenno della testa il recinto in fondo alla stalla, «quello si ingroppa anche il tubo di
scappamento della station wagon di tua madre se lo lasci fare, basta che sia caldo».
Dal recinto in fondo era arrivato un muggito potente e un paio di colpi contro la parete
divisoria l’avevano fatta tremare:
«Senti che roba? Gli viene duro solo a parlarne», si era avvicinato e aveva gettato uno
sguardo nel recinto, «c’ha un cazzo che gli arriva per terra».
Il viso gli si era intenerito, a vedere il toro da monta.
«L’anno scorso alla fattoria dei Dayton ti sei chiavato due volte tutte le loro vacche da
ingravidare, eh? Tutte due volte, persino tua madre», aveva detto, rivolgendo a Hammer un
gesto di bonaria minaccia, «martello pneumatico che non sei altro».
Rupert aveva cominciato a spalare tenendosi a distanza dall’ultimo box.
«Non come quell’uccello moscio del loro toro».
Jim si era tolto dalla tasca un pacchetto tutto schiacciato di Pall Mall e si era messo in bocca
una sigaretta. Poi si era frugato dappertutto in cerca dell’accendino.
«Il toro dei Dayton… », il padre di Rupert si era dovuto interrompere, perché dal recinto
Hammer aveva rumorosamente colpito la paratia. Jim aveva assentito.
«Hai ragione, non è il caso di chiamarlo toro, quella checca». Poi, rivolto a Rupert: «Era più
attratto da Hammer che dalle fiche delle vacche».
Jim aveva trovato quello che cercava e si era acceso la sigaretta. Aveva aspirato una bella
boccata soddisfatto.
«Al nostro Hammer gli viene duro come una gamba di sedia se c’è una vacca nel raggio di
cento metri. Quel loro "toro"», aveva fatto le virgolette, «invece stava lì come una margherita
nel prato con tutte quelle mucche in calore».
Rupert aveva tentato di spezzare una lancia:
«Magari è ancora troppo giovane. Il fatto che non reagisca davanti a una femmina non vuol
dire… »
«Ah ah ah», aveva riso suo padre, «lo senti, Hammer?» Il toro aveva muggito, a Rupert era
sembrato che sghignazzasse anche lui: troppo giovane! Se non gli tira adesso, quando cazzo
gli deve tirare?
Si era pulito il naso contro la manica.
«Dai retta a me, figliolo, quando si tratta di vacche in calore, un toro ha il cazzo al posto del
cervello. Se una mucca è pronta, il toro se la ingroppa, punto e basta».
Aveva scambiato uno sguardo complice con Hammer.
«Quel toro dei Dayton è un maledetto finocchio. Si vede lontano un miglio».
«E se anche fosse? In fondo non fa del male a nessuno», aveva commentato Rupert.
«Se fosse mio l’avrei già macellato», era stato il commento di suo padre, «di un toro così
non te ne fai niente. Un culattone del cazzo».
Rupert aveva continuato a spalare letame.
«Mi dà il vomito», aveva continuato Jim, «al posto dei Dayton, io lo avrei scuoiato e
attaccato fuori dalla stalla per le palle».
Jim aveva sputato a terra:
«Non lo so… è che le checche mi fanno questo effetto».
Alabama, era Alabama quella che si era appena conclusa e lui non se ne era quasi nemmeno
accorto. Il fatto è che stava di nuovo pensando a Percival a quello che gli aveva detto:
«Il matrimonio ti garantisce l’esenzione per tutta la durata della guerra».
Erano state le sue ultime parole, prima di uscire dalla stanzetta del College, con Morgan
Kahane, la front woman delle Girl Power, un gruppo musicale studentesco, abbarbicata
addosso come un ficus strangolatore.
«Sposarti?»
«Sì, Ally, io... potrebbe evitarmi il Vietnam».
«Ah ah ah!», Allison spense la canna contro la suola e la gettò a terra.
«Cosa c'è da ridere?»
«Cazzo, il tuo egoismo non ha veramente confini», Allison era davvero divertita. Le sue
guance erano di un rosso euforico.
«Ma noi... stiamo insieme da mesi ormai».
L’umore di lei cambiò repentinamente.
«Vaffanculo, Rupert. A me non pensi?»
«Ally, amore, certo che ci penso. Infatti te lo sto chiedendo».
«Io dovrei sacrificare le mie lotte, il mio impegno, la mia vita! Per te? Per cosa, poi?» lo
guardò, come se avesse assunto le sembianze di un sacchetto dell'immondizia.
«Ally, io ti amo, potremmo... », la voce di Rupert si sfaldò in una sfumatura evanescente.
«Ti amo. Ti amo. Credi che basti dirlo perché sia vero?», lo fissò dritto negli occhi.
«... »
«Mi hai detto ti amo, credi che questo ti dia dei diritti su di me?»,
«... »
«Renditi conto», continuò a scrutarlo, mentre l’applauso per Dont’be denied riempiva
l’auditorium, «di quello che mi chiedi. Sposarsi non è come mangiare un pacchetto di patatine,
è una cosa importante, ti impegna per tutta la vita. Lo devi fare solo se sei davvero, davvero
convinta».
«Ma Ally, nulla è per sempre, la guerra finirà e noi potremo divorziare e... »
«Allora non te ne frega un cazzo di me, pezzo di stronzo!», urlava adesso, e agitava le
braccia quasi allo stesso ritmo di Cinnamon girl.
«Non è questo, dicevo solo che... » Rupert muoveva le mani a sua volta. Visti da lontano
sembrava che ballassero.
«Oddio, cosa devo sopportare». Le lacrime presero a scenderle copiose sulle guance
bollenti.
«Ally... » Rupert cercò di passarle una braccio attorno alla vita, ma lei lo scostò
bruscamente.
«Tu vedi in me uno strumento per i tuoi piani. Non te ne frega un cazzo. Non mi ami. Mi usi
e quando non ti servo più, mi molli».
Tirò fuori dalla borsetta un fazzoletto e si soffiò il naso.
«L'hai detto tu stesso».
«Io... »
«Non negare!»
«Mi fraintendi».
«Che cazzo c'è da fraintendere?» strillò.
«Ally!»
«Vaffanculo, Rupert!»
La spiaggia di Rockaway era lunga chilometri. Chilometri di sabbia con lo skyline di New
York sullo sfondo di un cielo albino e un sole malato emergente dalla nebbia rada. Quel
pomeriggio Rupert aveva percorso tutto il litorale, fino in fondo, fino a Breezy Point. Si era
ridotto ad avere le scarpe piene di rena gialla e i calzini umidi di salsedine gelata.
L’odore un po’ rancido della palude di Jamaica Bay gli aveva sturato le narici. Dietro di lui
il vento aveva già cancellato con la sua frusta di granelli duri la fila di formiche delle
impronte. Come la guerra avrebbe cancellato la sua vita.
Sulla battigia le onde, altissime, s’infrangevano dopo essersi arrotolate su se stesse piene di
sabbia, come cartine di sigarette gigantesche. Ne aveva sentito gli spruzzi portati dall’aria fin
sulla faccia. Faceva freddo. Un freddo inamidato che il cappotto non riusciva in alcun modo ad
arginare.
Rupert aveva sollevato la testa e un aereo era entrato nel suo raggio visivo dopo essersi
staccato dalla pista del JFK. Dio, cosa avrebbe dato per essere uno qualunque dei passeggeri
per potersene andare via, lontano.
Si era avvicinato al bagnasciuga e aveva sentito l’acqua gelata entrargli nelle scarpe. Quel
giorno l’oceano era molto agitato. Sarebbe stata una giornata perfetta per il surf se non fosse
stato gennaio. Sarebbe stata una giornata perfetta se la settimana seguente lui non avesse
dovuto partire. Aveva aperto le braccia a prendersi tutta la violenza del vento e della spuma
del mare e aveva sperato con tutte le proprie forze che arrivasse un’onda anomala a portarlo
via. Aveva atteso concentrato. Non era successo.
Allison era ormai giunta al quarto spinello, e lo stava facendo girare tra i vicini di posto.
Arrivò anche all’afroamericano con i capelli a siepe, che ne aspirò una boccata e si voltò a
passarlo a Rupert. Lui si guardò intorno. Aveva sempre la paranoia che qualche poliziotto
fosse nei paraggi e lo vedesse fumare quella roba. Poi, a sua volta, lo portò alle labbra, e tirò.
Respirò quanta più aria possibile e la trattenne più a lungo che riuscì nei polmoni.
Quando espirò, attraverso il fumo vide Allison che lo guardava sorridendo, mentre lui ancora
le tendeva la canna. Invece di afferrarla, lo prese per il polso e portò tutta la mano di lui verso
la bocca e, prima di prendere un tiro, se la premette contro la guancia. Forse addirittura la
sfiorò con le labbra,
Rupert non ne era sicuro, perché si sentiva decisamente troppo leggero per recepire senza
errori la realtà circostante.
«Va bene», disse Allison, solo quello; e le note di Last dance rimasero magicamente
sospese, nell’aria, come a voler sancire la solennità del momento. Si chinò verso Rupert e lo
baciò.
«Va bene», ripeté, «facciamo l’amore». Abbassò gli occhi. «Mi dispiace che parti. Dopo il
concerto, ok? Odio questa guerra. Facciamo l’amore, non la guerra».
Rupert rimase senza parole. Percival, nella sua testa, rimase senza parole. A Rupert sembrò
addirittura di vedere delle lacrime negli occhi di Allison. Ma con tutto quel fumo, come
esserne certi? Distolse lo sguardo perché ebbe paura di non aver sentito bene o di aver sentito
bene, non sapeva. Allora era vero. Ce l’aveva proprio fatta. Incredibile. Percival chiosò:
«È una di quelle a cui devi far capire che non te ne frega niente. Quando smetti di
chiedergliela, allora te la dà».
Rupert lo scacciò dalla mente. Si concentrò sull’attimo, sulla canzone: Are you ready for the
country? Ne ignorò i pessimi auspici. Fu a quel punto che sul palco Neil Young si fermò. Era
stato irrequieto e distratto tutta la sera, ma Rupert non ci aveva fatto caso con quello che aveva
per la testa. Lunghi assolo di chitarra, parole con il contagocce, scarsa interazione con il
pubblico.
Però adesso era impossibile non notarlo. Neil Young stava guardando alla propria sinistra.
Parlava con qualcuno, dietro le quinte, qualcuno che Rupert non riusciva a vedere, ma che
sicuramente stava dicendo qualcosa di importante perché l’attenzione del cantante ne era
completamente assorbita. Alla fine lo vide annuire e sorridere. Quando tornò a guardare il suo
pubblico Neil Young si avvicinò al microfono con il volto teso, talmente emozionato che
Rupert si accorse che stava tremando. Poggiò la chitarra per terra e muovendo le mani, con un
gesto ampio nell’aria, richiese il silenzio. La gente in platea e in galleria tacque, e si creò
un’atmosfera elettrica di attesa.
Rupert, tra i fumi che gli obnubilavano il cervello ragionava al rallentatore. Lì per lì gli
venne da pensare che forse Neil avrebbe annunciato a tutti che lui e Allison avrebbero
finalmente fatto l’amore appena finito il concerto. Ritenne che fosse carino da parte sua, anche
se forse un po’ troppo invadente.
«È finita!» disse invece il cantante. «Mi hanno detto ora che Mr Kissinger e Mr Le Duc
Tho hanno siglato un accordo per il “cessate il fuoco”. Ce ne andiamo dal Vietnam!»
Il silenzio della sala si protrasse per qualche secondo. Qualche secondo e si trasformò un urlo
collettivo, un boato di gioia, una deflagrazione liberatoria, un’esplosione di entusiasmo.
Tutto il Madison Square Garden rideva e piangeva e non riusciva a contenere l’euforia per la
notizia. La guerra era finita.
Finita.
I vicini di Rupert ed Allison si abbracciavano, si giravano gli uni verso gli altri, si
stringevano reciprocamente. Rupert tentò di divincolarsi dalle braccia di un biondo con le
basette che arrivavano al mento, cercò Allison, per condividere con lei la gioia di
rinascere.
La guerra era finita. La cosa gli sembrò stupefacente, incredibile, si sentì miracolato anche
se ancora non se ne capacitava. Però doveva essere vero, se l’aveva detto Neil.
La guerra era finita. Non sarebbe partito per il Vietnam. Sarebbe rimasto a casa. Gli venne
da ghignare, sguaiatamente, senza riuscire a trattenersi. Subito dopo gli venne la nausea.
Si girò verso Allison, e la trovò allacciata all’afroamericano con i capelli a cespuglio. Non
sembrava avere fretta di sciogliersi da lui. Anzi. A guardare bene, si stavano baciando.
Neil Young invitò di nuovo al silenzio. Chiese di rivolgere un pensiero a tutte le vittime
della guerra e a tutti coloro che avevano perso la vita nelle manifestazioni pacifiste.
Non fu difficile per la coppia mista tacere, quanto al pensiero, a Rupert sembrò che andasse
in tutt’altra direzione, la direzione che avevano preso le mani del nero.
Finalmente lei si liberò e venne verso di lui:
«Allora non partirai… » disse con tenerezza, e gli sfiorò le labbra con un bacio.
Rupert sorrise:
«Già… penso di no… forse», articolò, con le lacrime agli occhi.
«Allora per quella nostra cosa… c’è tempo. Adesso andiamo a festeggiare! Io vado con…
con… », si rivolse all’afroamericano, «come ti chiami?»
«Puoi chiamami Shaft, baby».
«Ah ah, divertente», rispose lei. Poi rivolta a Rupert: «È divertente, non trovi?»
«Beh, io… »
«Allora io vado con… Shaft». Si voltò a fargli l’occhiolino: «Non ti dispiace, vero? Ci
vediamo!»
In un attimo sparì nella fiumana che si riversava nelle strade di New York a festeggiare.
A lui era rimasta la canna in mano. Si guardò intorno. La galleria, e anche la platea, pensò,
contemplando giù, si vuotavano: chi si accalcava verso il palco e chi usciva per unirsi alla
folla. Era bello restarsene lassù, in pace, a guardare la calma che tornava a riordinare le cose.
Gli dava un senso di rassicurante ed euforizzante dolcezza.
Fece un tiro. Al diavolo Allison.
Era felice.
Era ora di tornare a casa.
Toccava trovare come fare il pieno.