Testo La Signora delle Lucciole 25 agosto 2003

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Testo La Signora delle Lucciole 25 agosto 2003
LA SIGNORA DELLE LUCCIOLE
PRIMO CAPITOLO
“ La casa di via Meravigli”
A Milano, in via Meravigli, a un numero che tanta gente conosce, ma non è
assolutamente il caso di precisare, c’è la casa della grande Pamela. Un’abile
maitresse che accontenta una clientela di alto livello, senza troppo sfruttare, ma
sempre oltre il limite del lecito, per via della controversa legge Merlin, le sue
giovanissime e stupende collaboratrici. Giovanissime, ma per il codice penale
hanno almeno diciott’anni, anche se li compiono qualche anno prima di averli e
li mantengono per un pezzo. Bellissime senza limiti di avvenenza e
disponibilità erotica: con mirabile varietà di origine e di inclinazioni.
Grazie a loro e con soddisfazione di tutti, compresa la Buoncostume, nello
spazioso appartamento di Pamela, cinquecento metri quadrati, genialmente
suddivisi da un architetto che conosce il suo mestiere, si producono accoppiate
straordinarie. Per il cliente, è ovvio, perché per le ragazze…ma le ragazze cosa
contano?
I soldi? Tantissimi, su questo non transigono: una parte ragionevole tocca a
Pamela che ci mette la casa, e quindi il rischio di andare in galera anche se lei
spera sia soltanto teorico; le sue relazioni ( si può dire che non le sfugga alcun
galletto metropolitano che abbia soldi da spendere, tempo da perdere e qualche
propensione a illudersi ); il suo savoir faire; la sua vasta esperienza del mondo,
degli uomini e delle donne; la conoscenza delle esigenze di repertorio, delle
lingue straniere, delle varie evenienze e rimedi. Tutte cose che aveva imparato a
proprie
spese
quando,
giovanissima
e
inesperta,
era
incappata
in
un’organizzazione dedita alla tratta delle bianche. E, infine, le sue alte e segrete
protezioni in Questura.
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Segrete?, andiamo: attraverso i suoi influentissimi clienti, Pamela, le autorità
cittadine le aveva tutte in tasca dalla prima all’ultima, meno qualche magistrato,
qualche militare, qualche politico omosessuale.
A tutti però risultava evidente che il buon funzionamento della casa di Pamela,
così esclusiva, così signorile, soprattutto così discreta, rappresentava un forte e
personalissimo contributo al mantenimento dell’ordine pubblico a Milano.
La mobilità sociale, importantissima in un paese incancrenito nei privilegi, mai
seriamente toccato da rivoluzioni anche arcaiche, veniva sensibilmente
incrementata dai numerosi matrimoni dell’alta società, sbocciati proprio lì, in
seguito a sbrigativi fidanzamenti propiziati da ingenti cheque a sei zeri. A volte
quei matrimoni evolvevano in costosi e clamorosi divorzi: più sovente
diventavano giudiziosi e duraturi legami.
Quel giorno d’aprile, già troppo caldo, Pamela dovette risolvere su due piedi un
increscioso problema.
In una delle sue lussuose suite, era spirato in piena euforia su una scatenata
Culculine d’Ancone, il famoso stilista Ermengardo, Cav. del Lavoro, GranGriff,
orgoglio del made in Italy e non trascurabile cariatide della nostra pericolante
bilancia commerciale.
Ma come?, se tutti sanno che il gran sarto, il gran modista, il gran mondano
Ermengardo era una “checca”? Se tutti lo ricordano ancheggiante, con il polso
sciolto e lo smoking di raso, in compagnia dei peggiori ragazzotti, ai quali
regalava squallidi chiodi borchiati in vero cuoio e potenti moto giapponesi, a
detrimento, con una mano, di quella bilancia che sosteneva egregiamente con
l’altra? Non si deve peccare d’ingenuità ignorando come tutti, ma non certo
Pamela, che a Ermengardo la posa da gay era suggerita da un cosiddetto
specialista dell’immagine, di quelli che contraffanno i politici da votare. In
realtà gli piacevano le donne. Poveraccio! Avrebbe potuto chiedere lo
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straordinario alle sue stupende indossatrici, e invece no!, doveva andare di
nascosto da Pamela in via Meravigli! E tirare fuori un’altra barca di soldi per
schiattare, a soli cinquant’anni, su insaziabile mitragliatrice orgasmica,
ribattezzata Culculine d’Ancone, in onore di Apolinnaire ( “Le undicimila
verghe”) dalla colta Pamela.
Anche in morte bisognava rispettare il gay look ( se così si può dire) che il
persuasore occulto aveva affibbiato allo stilista esordiente anni prima: perché la
rivelazione della sua inopinata eterosessualità avrebbe sconvolto le masse. Ne
andava della credibilità della moda italiana nel mondo, nientemeno! Oltre alla
casa e alla libertà personale della sua tenutaria, il luttuoso episodio, se fosse mai
trapelato, avrebbe messo a repentaglio un fatturato di fantastiliardi nell’anno di
grazia 1986: come è vero che il privato è economico.
La povera Culculine singhiozzava stranita: stavolta aveva proprio esagerato.
Per Pamela, quantunque affranta, Ermergardo, uno dei suoi dodicimila amici,
costituiva un problemino da nulla, da affrontare con sangue freddo e ciglio
asciutto.
Telefonò in Questura e disse a un certo commissario “ Puoi fare un salto qui?”
Risposta “ a casa o in ufficio, amore”.
“ In ufficio, in ufficio, c’è una grana”.
Il commissario era un nobile siciliano decaduto, il dottor ( naturalmente lo era
anche lui) Rosario Ciulla dei principi Paganò d’ Alcamo, soprannominato “
conduelle” dalla mala milanese che non lo temeva affatto.
Il dottor Ciulla, nessuno lo ignorava, aveva uno zio cardinale per cui sarebbe
diventato prefetto o almeno questore in Italia senza colpo ferire, per privilegio
principesco. Nello stesso modo era diventato “dottore” a Camerino.
La natura gli aveva dato un bell’aspetto ardito, ma l’eroismo era tutto esteriore:
un cervello dei più comuni, ma una voglia di non affaticarlo veramente rara.
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L’educazione aveva completato l’opera. Pigro e assenteista nella migliore
tradizione dell’aristocrazia siciliana, però ormai privo di qualunque latifondo (
suo nonno amava i giochi d’azzardo più sconsigliati dalla Statistica) pativa la
trasferta milanese come un passo necessario per approdare a Roma, al
ministero, dove sperava di sposare una di quelle principesse papaline ancora in
possesso di forti rendite agrario-immobiliari. Ma il colpo di fulmine, che non
risparmia nessuno, l’aveva folgorato proprio insieme all’incredula Pamela
lombarda, che dopo ben due lustri consacrati alla castità e ai saggi investimenti,
a trentacinque anni si trovava nuovamente irretita da un principe siciliano, come
a quindici: solo che questo era vero e l’altro falso: questo era un poliziotto e
l’altro invece apparteneva a un grossa e famosa multinazionale del crimine che,
proprio nell’avviamento di minorenni alla perdizione, vede gli sbirri come il
fumo negli occhi.
“ Morte beata!”, disse Rosario sbalordito davanti alla nuda salma del celebre
stilista dai capelli tinti.
Pamela annuì. “ Se sei d’accordo chiamo un amico della clinica Quadronno e
facciamo risultare che è morto d’infarto lì.”
“ Come vuoi tu, Pamela.” Era il placet dell’autorità.
Poco dopo, tra Rosario e Pamela, nella suite degli specchi, ci fu un altro placet
consumato fra lucide lenzuola di seta color champagne.
------------------------------------------------Enrico Crivelli mise i piedi calzati giù dal letto e per un momento rimase seduto
con aria assente. Poi guardò la ragazza. Era bellissima. I lunghi capelli biondi,
sparsi sul cuscino, incorniciavano il piccolo viso nudo di trucco. Sembrava
ancora più giovane dei suoi diciott’anni: i seni acerbi che spuntavano dal
lenzuolo erano quelli di un’adolescente.
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Un brivido d’orgoglio lo percorse, ma non era per la giovanissima mercenaria
del sesso. Soltanto la stupenda Aladina occupava tutti i suoi pensieri, e ora più
che mai, aveva la certezza di poter soddisfare ogni sua esigenza.
Senza pensare ad altro si alzò e incominciò a vestirsi.
L’elegante tailleur d’alta moda della ragazza attirò la sua attenzione. Certo con
quelle tariffe poteva anche permetterselo. Si ricordò della busta con i cinque
milioni in contanti che aveva depositato sulla consolle di cristallo nell’ingresso
dell’appartamento. Adesso gli sembravano davvero troppi. Pazienza!
Era pronto. Il doppio petto gessato gli stava a meraviglia e la camicia azzurra
faceva risaltare l’abbronzatura dell’ultimo week end a Gstaad. I capelli grigi
tagliati molto corti contrastavano con gli occhi nerissimi. Era alto, magro,
distinto, con l’inconfondibile sicurezza dell’uomo che tutto può avere. Portava i
suoi settantacinque anni con disinvoltura e quando gli riusciva di sorridere, di
colpo non aveva più età.
“ Ciao”, disse alla ragazzina che lo fissava con indifferenza. “ Fai la brava che
uno di questi giorni ti regalo una pelliccia di cincillà. Ah già, siamo in aprile.
Vuol dire che ti farò fare un bel bikini di leopardo”, la salutò scherzando.
Uscì e richiuse adagio la porta. Il corridoio però non era deserto come sperava.
Un uomo in camice bianco spingeva una sedia a rotelle, sulla quale giaceva
inanimato un tizio di mezza età. La prima cosa che Enrico Crivelli notò furono i
suoi capelli tinti di un castano scuro, quasi rossiccio.
“ E’ soltanto svenuto”, disse l’infermiere. “ Si tratta di un piccolo collasso
circolatorio.”
Crivelli però troppo a lungo aveva vissuto per non capire che quello era morto
stecchito.
“ Altro che collasso, gli è venuto un infarto. Non è una morte malvagia: al
culmine dell’esultanza”, ragionò fra sé.
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Naturalmente si congratulò con se stesso per la sua giovanile energia.
Il cavalier Crivelli uscì nella strada. Via Meravigli era invasa di luce
primaverile.
Che bella la vita! Con passo elastico raggiunse la piazza dove, in sosta precaria,
aspettava la Lancia Thema, guidata da Cesarino, l’autista da vent’anni al suo
servizio.
“ A San Siro, in via Caprilli al sette”, gli disse.
-----------------------------------------------Aladina Luraghi posò la rivista sul tavolo del salotto e guardò il pallido cielo
milanese striato da nuvole rosa.
Crivelli, il suo ex cognato, tardava ad arrivare. Chissà perché le aveva chiesto
quell’appuntamento così urgente.
Aladina non riusciva proprio a immaginarne la ragione. D’altra parte Enrico
l’aveva sempre aiutata fin da quando lei, appena ventitreenne, ma incinta, aveva
spostato quell’imbecille del padre di suo figlio. Adesso, a trentacinque anni, era
sola con un bambino dodicenne afflitto da una malformazione cardiaca che
soltanto un’operazione del professor De Bakey poteva risolvere.
Si alzò e girellò per il piccolo salotto ammobiliato in modo semplice. Con gesto
abitudinario scosse la chioma che le arrivava fino a metà schiena. Come al
solito era vestita in modo sobrio: una camicetta di cotone bianco e una gonna
grigia. L’espressione dei suoi occhi chiari era triste.
Per un ex fotomodella senza diploma né laurea, non era facile trovare un lavoro
sufficientemente redditizio per campare in modo decoroso.
Aladina sopravviveva con il misero mensile assegnatole dal tribunale e i
generosi contributi che Enrico Crivelli non dimenticava di elargirle.
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Il magnate, ricco fin dalla nascita, era diventato, grazie alle sue notevoli
capacità imprenditoriali, titolare di uno dei pochi gruppi finanziari che
contavano veramente in Italia e in Europa.
Con Alessandra, la sorella di Aladina, Enrico era stato sposato per ben quindici
anni e Aladina non aveva mai capito perché avessero divorziato. Un vero
mistero!
Alessandra era passata di colpo dalla vita sociale più fastosa alla cascina dietro
Bereguardo dove viveva soltanto coi suoi cani e i suoi fucili. La caccia ormai
era la sua unica ragione di vita: una passione che nel suo ambiente veniva
giudicata persino eccessiva.
Qualcuno suonò alla porta. Aladina riemerse dai pensieri del passato e andò ad
aprire.
----------------------------------------------------Dietro il battente vide soltanto il più voluminoso cesto di gardenie che si possa
immaginare. Dietro il cesto spuntava il berretto d’autista di Cesarino. Dietro
Cesarino si intravedeva Crivelli sorridente e festoso.
“ Ma non è il mio compleanno!”, obiettò stupefatta Aladina. “ Comunque
grazie, sono bellissime.”
“ Nulla di comparabile alla freschezza del tuo incarnato”, fu la risposta galante
e un po’ antiquata del Crivelli che entrando inciampò nello zerbino. Soltanto il
saldo braccio dell’autista gli impedì di finire a gambe levate.
Il piccolo appartamento fu subito invaso dal profumo intenso di quei fiori.
Cesarino si eclissò e i due sedettero sul divano.
Per nulla imbarazzato, Crivelli entrò immediatamente nell’argomento che gli
stava a cuore.
“ Vedi, Aladina, oggi è un giorno speciale perché ho trovato il coraggio di
parlarti. Tu credi che io ti abbia sempre voluto bene come un fratello maggiore,
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forse sarebbe meglio dire un padre. In parte è vero, ma la realtà è alquanto
diversa perché io ti amo pazzamente. Lo so: in questo momento forse ti sembro
ridicolo, ma…il cuore non invecchia. Sono innamorato di te. Mi rendo conto
che fra noi ci sono quarant’anni di differenza. Ma infine anche questo va a tuo
vantaggio. Quanto tempo vuoi che ti faccia perdere? Venti, trent’anni al
massimo. Ti prego, sposami, sposami al più presto.”
“ Mamma!”, chiamo una voce infantile dalla stanza accanto, e la donna accolse
come una liberazione l’intervento del figlio. Di là, Rodolfo stava facendo i
compiti e, come la solito, aveva qualche problema.
“ Enrico deve essere diventato pazzo”, pensò Aladina sudando freddo. Un
rapido calcolo mentale le aveva appena rivelato che era convinto di campare
fino a centocinque anni, visto che si riprometteva di fargliene perdere “soltanto”
venti o trenta.
Ma che illuso!, che presuntuoso!,e che insolente, a farle, con tanta sicumera,
senza la minima esitazione, una proposta di matrimonio. A lei, una donna piena
di vita ancora giovane e bellissima! Chissà cosa gli era saltato in testa. Forse un
attacco di aterosclerosi galoppante.
Guardò suo figlio con infinita tenerezza.
“ Che ne pensi dello zio Enrico”, gli chiese.
“ E’ vecchio”, rispose Rodolfo con la spietata sincerità dell’infanzia.
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