Tempo, politica internazionale, mondialità

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Tempo, politica internazionale, mondialità
Introduzione
Tempo, politica internazionale, mondialità
Il discorso su tempo, azione e comportamento politico è abbastanza ricorrente nel linguaggio comune e meramente descrittivo. Capita, non di
rado, di sentir parlare di stasi nelle decisioni, di inerzia dei governi, delle
burocrazie, o di ritmi blandi se non addirittura quiescenti nelle attività dei
parlamenti, rispetto alla velocità dell’ambiente sociale, al dinamismo del
mondo delle imprese e alla fuga in avanti dell’innovazione tecnologica.
Il tempo ordinario della normalità politica, in molti paesi, può apparire
lento, in talune fasi storiche addirittura cristallizzato e sfasato rispetto ai
tassi di cambiamento del mondo esterno, come ambito delle trasformazioni complesse che modificano la vita delle società. Ad esempio, per rimanere nall’area dei regimi pluralisti maturi, «fino ai tardi anni ’60, le società
dell’Europa occidentale parvero più coese, più abitudinarie, più inclini alla
routine di quanto prevedessero coloro che temevano il cambiamento o che
lo auspicavano» [Maier, 2003, p. 226].
Tuttavia, anche sul piano della riflessione politica, il discorso sul tempo
ha acquistato una certa salienza, anzi val la pena di notare che in alcuni casi è stato elevato ad aspetto connotativo della forma politica tipica della
tradizione occidentale, la democrazia rappresentativa.
Innanzitutto è proprio dal significato di rappresentanza che pare emergere questa affiliazione temporale del concetto di democrazia in senso moderno. Nella rappresentazione, in cui si articola il rapporto indissolubile fra
gli eletti e gli elettori, ciò che scaturisce dal senso primo del termine, è che
in tale rapporto si fa presente qualcuno che non è o non è più materialmente presente [cfr. Mény e Surel, 2001, pp. 68, 175]. La rappresentanza è
quindi l’istituto che fa durare il consenso dato dagli elettori nel tempo de-
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gli eletti, che lo fa esistere nel presente delle deliberazioni e dell’azione di
governo. Fa sì, in conclusione, che non si esaurisca, come nella democrazia
diretta di ascendenza rousseauiana, in “atto puro”, cioè espressione compiuta della volontà generale del popolo. Questa si materializza nell’istante
della deliberazione e si dissolve non appena la presenza organica del démos
si assenta. La rappresentanza è quindi la trasmissione del passato della volontà sovrana al presente continuo della deliberazione dei rappresentanti
(fino al termine del loro legittimo mandato), la durata di una presenza assente in cui si dispiega il tempo del consenso.
Di significato temporale della democrazia, inoltre, si afferma anche con
altra sfumatura di senso. «Con la democrazia si tratta sempre di temporizzare. Non si può concepirla senza quest’obbligo permanente di prendere
tempo – di elaborare delle proposte, di dibattere le scelte possibili, di convincere e di mettere in atto delle decisioni. Il potere democratico si esercita
sempre più lentamente di un potere personale autoritario (…) Infine il
tratto caratteristico della rappresentanza democratica è di essere essenzialmente effimera perché il controllo del potere deve sempre ritornare
all’istanza sovrana. Il solo modo di non sottrarre al popolo la sua sovranità
è di non confermare ai suoi rappresentanti e ai suoi governi altro che un
potere provvisorio. Così la democrazia ha creato un tempo politico nuovo,
ritmato sulle consultazioni elettorali. Questa temporalità istituzionale rompe con il tempo politico dei regimi monarchici coordinato alla durata della
vita del sovrano, ossia al ritmo del ricambio generazionale in seno alla famiglia reale» [Agacinski, 2000, pp. 151, 165].
In effetti, l’istituto del potere assembleare nella pólis dell’età classica, il rito
della discussione e della deliberazione nell’ecclésia, hanno introdotto il tempo
nel comportamento politico, la sequenza nell’iter dell’agire politico, la sua durata, la differenza delle opinioni e degli atteggiamenti e quindi l’intervallo tra
la deliberazione e la decisione. Un’acquisizione quella del tempo umano nella
politica che si erigeva contro l’atemporalità del potere dispotico e sacrale, in
cui l’atto d’imperio dell’autocrate si racchiudeva nell’unità del comando e
nell’unità di tempo istantanea e indifferente della decisione suprema.
È in questa direzione che ben si comprende come il fattore tempo venga indicato, da giuristi e scienziati della politica, come uno dei fattori discriminanti delle diverse forme in cui si declina la partecipazione e la decisione democratica, dal modello assembleare ristretto a quello referendario
[cfr. Dahl, 1991, p. 51 ss.]. O venga a intervenire come indicatore di prima
evidenza dell’affermarsi di forme plebiscitarie di democrazia anche all’interno delle cornici istituzionali della rappresentatività. «La democrazia è
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essenzialmente tempo, il tempo che ci dà il distacco dai problemi e dalle
loro soluzioni. Una democrazia “in tempo reale” non è una democrazia,
ma è demagogia. La democrazia “in tempo reale” è quel regime in cui la
folla viene interrogata e risponde immediatamente: interrogata dal demagogo cioè da colui che muove la folla» [Zagrebelsky, 1995, p. 44].
Se il tempo è entrato nella pólis, a fare da contrassegno alle forme del
potere, e dalla democrazia degli antichi si è trasferito nella democrazia dei
moderni, sempre a segnare i passaggi critici della formazione del consenso,
si può dire che nell’ambiente internazionale, almeno da quando si possa
parlare di rapporti fra comunità politicamente organizzate, ha, in modo ricorrente, fissato delle discriminanti, delle linee di discontinuità. Lo stato di
quiete, se non di pace in senso stretto, tra i popoli, le città, gli stati, è stato
ritmato dai tempi relativamente lenti (e seppur più veloci, come nell’éra
moderna, ancora ripetitivi e prevedibili), del doux commerce, degli scambi,
delle transazioni. E si aggiunga non meno che dai riti, più o meno formali,
della diplomazia, un’attività che si esercita proprio nel diluire i tempi troppo concitati o incalzanti delle emergenze, delle tensioni, delle crisi.
All’opposto, lo stato di guerra, di belligeranza e di confronto armato, ha
assunto il passo più intenso e accelerato degli eventi che creano la condizione di incertezza nei tempi e di percezione dei mutamenti inattesi o imprevisti. Il senso di discontinuità che spezza le consuetudini e le ritualità, le
tradizioni e le persistenze della memoria e che impone nuovi e più stringenti ritmi temporali.
Pertanto, dal fattore tempo, e non soltanto cronologico, ma vissuto dagli attori, difficilmente si può prescindere quando si apre il discorso sulla
natura della politica internazionale. E, in effetti, la riflessione internazionalista, dal livello meramente descrittivo, a quello interpretativo, a quello più
dichiaratamente teorico, raramente se ne defila anche se non sempre lo
rende esplicito nel suo argomentare.
Basterebbe solo dire che è proprio il taglio temporale degli enunciati
che, in molti casi, crea il distinguo fra storia e teoria delle relazioni internazionali. Nessuno storico oggi si sognerebbe di rinunciare ad una certa sensibilità teorica, a un quadro di concetti, o addirittura a dei modelli. «Non
esiste cioè – ha rilevato Ennio Di Nolfo – la capacità di capire storicamente
i fenomeni della società e della natura se non si muove da una teoria che
non contribuisca a porre domande utili e significative all’insieme delle fonti disponibili» [Di Nolfo, 2000, p. 35]. Semmai si può dire che gli internazionalisti hanno una maggiore tendenza all’astrazione e che gli storici, invece, sono propensi ad usare concetti più descrittivi.
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Il vero crinale però che divide scienziati e storici risiede proprio nella
posizione di fronte al tempo. I primi si collocano in una prospettiva extratemporale, soprattutto coloro che indagano al livello di sistema internazionale e non degli attori e delle politiche estere degli stati. Si collocano cioè
in una prospettiva di tempo talmente rallentato da sembrare statico: il solo
modo di identificare le invarianze, la struttura di una determinata realtà,
rendendo intelligibile la mutevolezza del divenire storico all’interno di un
costrutto, di uno schema di analisi.
Per sua natura, il discorso storico è invece rivolto a riordinare la frammentarietà del reale, degli eventi e delle situazioni, in un racconto, nella
forma della narrazione. È una ricostruzione che come tale utilizza, ma non
privilegia, modelli e concetti. La sua trama è lo sviluppo diacronico, la sequenza lineare orientata nella direzione dello scorrere del tempo.
Naturalmente sarebbe difficile negare che la riflessione sulla politica internazionale abbia guardato, con frequenza, agli aspetti dello spazio più
ancora che del tempo. È quasi di immediata evidenza la prevalenza dello
spazio nel discorso geo-politico, che nello sviluppo storico individua gli insiemi di immagini, di regole, di istituzioni che presiedono alla rappresentazione e al dominio dello spazio geografico [cfr. Jean, 1995, pp. 6-7]. Ma
non solo di questo si vuole parlare.
Si pensi alle più antiche rappresentazioni dei rapporti fra soggetti territoriali autonomi, siano essi póleis, imperi, principati o stati sovrani. Si pensi
allo spazio politico policentrico nel sistema di città-stato della Grecia classica, alla spazialità dualistica, segnata dal limes, dalla frontiera, infine dal
vallum e dal fossatum Africae, tra l’impero di Roma (età dei Flavi e degli
Antonini, I e II secolo d.C.) e la barbarie. E andando oltre, si faccia mente
locale sulla spazialità, in origine territoriale, poi quasi astrazione di un luogo matematico, dell’equilibrio europeo delle potenze, sulle geometrie lineari e poligonali dei sistemi internazionali che si sono succeduti dopo le
guerre di religione: prevalentemente multipolari, raramente bipolari. Raggiunto il moderno recente e il contemporaneo, non vanno dimenticate le
configurazioni disegnate dagli spazi centro/periferia, prevalenti soprattutto
nelle analisi del sistema-mondo della scuola neomarxista di Immanuel
Wallerstein. O la partizione degli spazi planetari fra zone di pace e zone di
conflitto definite da Max Singer e Aaron Wildavski e ancora, la segmentazione degli spazi globali secondo la mappa geo-culturale delle civiltà proposta nel modello di Samuel Huntington 1.
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Per lo schema centro-periferia, si rinvia, nell’amplia bibliografia di Wallerstein, alla
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Il fattore tempo, è vero, assume invece ben altra forza esplicativa nelle teorie cosiddette cicliche che identificano, nell’avvicendarsi delle egemonie o
nell’evoluzione della politica mondiale attraverso fluttuazioni-ritmiche, una
qualche forma di periodicità, ancorata ad un tempo macro-storico che regola il mutamento [cfr. Bonanate, 1992, pp. 152-158]. Ma quale tempo? Un
tempo del mito, metastorico, il tempo dell’eterno ritorno o quello circolare
della tradizione ellenica, ben lontano da quello lineare e progressivo della
tradizione giudaico-cristiana-occidentale. Il tempo del divenire storico, in
cui si collocano anche i tempi della società, della politica e i tempi dell’azione
e della decisione, viene recuperato, dalla teoria politica, in quelle che Kenneth
Waltz identifica come la prima e la seconda immagine selezionate attraverso
il prisma internazionale, ossia i due livelli dell’individuo e dello stato [cfr.
Waltz, 1998]. Oppure, analogamente, nel secondo livello di analisi di David
Singer, quello della politica estera degli stati, visti come attori unitari o come
soggetti che agiscono attraverso i veri artefici della decisione politica, in generale gli individui e gli uomini di vertice che operano nel meccanismo di
formazione delle decisioni [cfr. Singer, 1976, p. 14 ss.].
A questo punto, si riviene inevitabilmente, nell’analisi del tempo dell’azione e del tempo sociale, alle due tipiche scansioni temporali che ricorrono nella storia della società internazionale: il tempo di pace e il tempo di
guerra, dove riecheggia la classica lezione di Raymond Aron: «le relazioni
interstatali presentano una caratteristica originale che le distingue da tutte
sintetica illustrazione del tema nella sua Introduzione all’analisi del sistema-mondo [2004,
passim]. Per la spazialità segmentata fra pace e conflitto, così i due autori Singer e Wildavski: «La chiave per comprendere il vero ordine globale è di separare il mondo in due parti. Una parte è composta da aree di pace, benessere e democrazia. L’altra parte, da aree di
turbolenza, guerra ed economie emergenti. (…) Le zone di pace e democrazia comprendono Europa occidentale, Stati Uniti e Canada, Giappone e gli Antipodi che complessivamente hanno il 15% della popolazione mondiale. Il resto del mondo, che comprende
Europa dell’est e del sud-est, i territori dell’ex Unione Sovietica e la maggior parte di Asia,
Africa e America latina è costituito, per ora, da zone di turbolenza e di sviluppo emergente» [1996, p. 3]. Per la mappa delle civiltà, così Samuel Huntington: «In sintesi il mondo
post-Guerra fredda è un mondo composto da sette o otto grandi civiltà. Le affinità e le differenze culturali determinano gli interessi, gli antagonismi e le associazioni tra gli stati. I
paesi più importanti del mondo appartengono in grande prevalenza a civiltà diverse. I conflitti locali con maggiori probabilità di degenerare in guerre globali sono quelli tra gruppi e
stati appartenenti a civiltà diverse. (…) Lo scenario politico mondiale è diventato multipolare e caratterizzato da più civiltà. (…) Le civiltà sono entità estremamente rilevanti e i
confini che le separano, benché raramente ben definiti, sono confini reali» [trad. it., 2000,
pp. 25, 49].
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le altre relazioni sociali: si svolgono all’ombra della guerra o, per servirci di
un’espressione più rigorosa, le relazioni tra stati comportano per loro essenza l’alternativa della guerra e della pace» [Aron, 1970, p. 24]. Si riscontrerà quindi l’alternanza di un tempo della pace, caratterizzato da un ritmo
relativamente lento, assimilabile ai tempi lunghi della sedimentazione storica. Stabilità strutturale, routines diplomatiche, aumento degli scambi e
dei contatti umani, crescita della prosperità, ne costituiscono il quadro storico-ambientale. Diversamente, situazioni di emergenza, segnate da cadenze pressanti e dall’incalzare degli eventi, connotano il tempo del conflitto
che è inquadrato storicamente da profonde discontinuità nei trend socioeconomici, mutamenti accelerati dei contesti politici e istituzionali, transizioni non lineari. Comunque, i processi di cambiamento vengono percepiti
dai contemporanei, nell’arco del presente e del recente passato e nel vissuto quotidiano, come troppo rapidi e spesso irreversibili.
Riguardo al tempo della guerra, gli studi di politica estera che si sono
occupati anche degli aspetti cognitivi delle decisioni, hanno definito delle
situazioni-tipo in cui la dimensione temporale assume particolare rilievo. I
casi in cui rileva il “tempo del conflitto”, ossia quella specifica modalità del
tempo dell’azione diplomatica che si riscontra in situazioni di grave tensione e di conflittualità incombente. È un tempo chiuso, definito da limiti
temporali stretti e che dagli apparati decisionali dei governi, e dagli altri
soggetti di politica estera, è percepito come abbreviato e compresso.
La nozione intuitiva che di questo referente temporale – diverso dal
tempo fisico o da quello di comune esperienza – forniscono in genere gli
storici e gli analisti politici, è abbastanza condivisa: il tempo diplomatico
scorre più veloce del tempo dell’orologio. O meglio, in momenti di intensa
attività diplomatica, in situazioni di forte tensione conflittuale, all’interno
di un certo segmento di tempo si concentrano più eventi, più messaggi, più
decisioni, più azioni. Il tempo cioè è più pieno, le durate si allungano ri2
spetto alla stessa quantità di tempo ordinario .
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La nozione di tempo diplomatico è apparsa, precipuamente, negli scritti degli storici
diplomatici che l’hanno usata per esprimere l’idea che certi periodi hanno i loro propri
ritmi i quali non possono essere riflessi dal tempo dell’orologio. La durata quindi è proporzionale al numero e all’intensità dei cambiamenti nell’ambiente sociale di riferimento.
Il tempo diplomatico ha un passo più rapido del tempo legale quando si verificano più eventi della norma. In altre parole un certo intervallo temporale è più pieno, ossia abbraccia
più eventi e viene sperimentato come una durata più lunga che lo stesso intervallo in termini di tempo fisico. Pertanto se si considera che il tempo è un flusso e non uno stock fisso, per indicare cambiamenti nelle scale temporali è necessario usare i differenziali e quin-
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Molti elementi nelle fasi di acuta tensione e di bellicosità indicano che il
tempo del conflitto dà luogo a fenomeni di stress e sorpresa temporale, errori nella valutazione dei tempi di comunicazione e quindi rigidità e fraintendimenti nel processo decisionale. È una delle variabili, si può ben dire
meno esplorate, ma comunque non secondarie, nel delineare lo sviluppo
dei conflitti e i problemi inerenti alla gestione delle crisi che innescano i
veri e propri episodi di violenza armata.
Negli ultimi decenni del XX secolo, tuttavia, sia la politica internazionale che le relazioni internazionali come campo di ricerca, con i loro paradigmi, hanno visto la loro agenda tematica, – a riflettere gli aspetti di
novità della vita materiale del sistema globale – non meno che il quadro
concettuale e interpretativo, subire ampi aggiustamenti e mutazioni.
Uno degli aspetti più rilevanti e anche problematici è certamente rappresentato dalla globalizzazione. Questa è, come largamente noto, un fenomeno
che attiene alla complessità via via crescente della vita internazionale, sia per
quanto riguarda il numero e la qualità degli attori, l’ampiezza e intensità delle relazioni, i modi in cui si organizzano le interdipendenze.
È intuitivo che tutto ciò chiama in causa entrambe le dimensioni in cui
si distende la società internazionale, quella spaziale e quella temporale. Secondo alcune ben consolidate immagini della globalizzazione, questo fenomeno avrebbe prodotto un effetto di amplificazione sia nella dimensione dello spazio che in quella del tempo. In breve, l’attività politica, economica e sociale avrebbe attraversato un processo di estensione globale
(mondializzazione). In secondo luogo, si sarebbe assistito a un incremento
– apparentemente senza limiti – della frequenza e dell’immediatezza nei
contatti e nelle comunicazioni (accelerazione) [cfr. Held e McGrew, 2003,
Cap. I) 3.
di utilizzo dt per esprimere i flussi nel tempo fisico e dT per quelli nel tempo diplomatico.
Si può scrivere la funzione dT = dtf (i) dove i indica l’intensità del fenomeno osservato, ossia il numero dei mutamenti relativi al fenomeno in oggetto con f (i) > 0. Con i = 0 infatti il
sistema è al punto di stasi, con divenire nullo. Invece maggiore l’intensità dei mutamenti
(ad. es. atti bellicosi) più rapido il flusso del tempo e viceversa. In termini matematici, quando f (i) = 1 allora dT = dt (il tempo diplomatico ha lo stesso passo del tempo cronologico).
Quando f (i) > 1, T (il tempo diplomatico) è più rapido di t (del tempo dell’orologio); quando f (i) < 1, T è più lento di t. Se ora nell’equazione dT = dtf (i) dividiamo entrambi i termini
per la variazione di tempo cronologico dt otteniamo dT/dt = dtf (i)/dt. Semplificando otteniamo dT/dt = f (i), cioè un coefficiente di flusso del tempo diplomatico rispetto al tempo del
calendario [cfr. Allan, 1987, pp. 101-103].
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Sulla globalizzazione lo sforzo definitorio è stato rilevante. Anche sul lemma e i sinonimi si è ampiamente argomentato. Tuttavia, a livello analitico, la globalizzazione rimane
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Secondo altri, fra i quali si ricorda in primis Anthony Giddens, è invece
sulla divaricazione tra il fattore spaziale e quello temporale che si apre la
prospettiva della globalizzazione. Per il sociologo inglese, infatti, il termine
sta ad indicare «una intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località molto lontane, facendo sì che gli eventi locali vengano modellati da eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza
e viceversa» [Giddens, 1994, p. 71]. Qui il processo è visto come una variazione della velocità di contatto, un’accelerazione dell’interscambio umano
che riduce le distanze e induce un dominio della dimensione temporale su
quella spaziale, quest’ultima progressivamente sfaldata dai tempi abbreviati
e accelerati. Ed è esattamente in questa biforcazione tra i due, nelle asimmetrie che si producono fra le due variabili che si situa l’esperienza globalizzante. Non è sufficiente dire, cioè, che la globalizzazione consiste in una compressione spazio-temporale dove risultano erosi i limiti della distanza e del
tempo nelle interazioni fra i soggetti e nelle organizzazioni sociali [Held e
Mc Grew, 2003, p. 14]. È infatti su questo punto che è opportuno soffermarsi per cogliere, con maggiore definizione, il profilo del fenomeno.
Si potrà ben dire, infatti, che le origini della globalizzazione vanno rintracciate in epoca non più tanto prossima al contemporaneo e che si tratta di uno sviluppo di lunga durata che va inteso diacronicamente in un
arco secolare. Per alcuni (fase germinale) si protenderebbe addirittura oltre l’inizio della modernità, all’epoca delle prime navigazioni in mare aperto e comunque a quella dei grandi attraversamenti oceanici e dell’insediamento nei nuovi mondi, ossia al XV secolo [Waters, 1995, p. 4 e
Robertson, 1999, pp. 58-60]. O sarebbe scaturita da quel processo storico di formazione dell’economia capitalista, di cui costituirebbe, dopo sette secoli di espansione, la fase di riorganizzazione alla fine dell’éra mopiù un’area tematica che un vero e proprio concetto. E sul piano materiale, più una costellazione di fenomeni che un aspetto unificante della realtà societaria. Comunque, per le definizioni e il campo tematico, si può vedere Zolo [2004] e il sempre notevole Giddens,
[1994]. Per una prospettiva storica di ampio raggio della globalizzazione si rinvia a Waters, [1995]. Inoltre, Robertson [1999, in part. p. 58 ss.] e Clarck [2001]. Per Thomas
Friedman ci sono state tre ére di globalizzazione. La prima (1492-1800) ha visto protagoniste le nazioni, la seconda (1800-2000), ha avuto come forza trainante le grandi imprese
trans-nazionali, la terza (2000-), il potere competitivo diffuso degli individui. Cfr. Friedman [2006, pp. 13-15]. Per un punto di vista che nel linguaggio delle relazioni internazionali d’antan si definirebbe tradizionalista, cfr. Cesa [2002, pp. 389-423]. Per uno stimolante scorcio dei problemi semantici e concettuali è utile anche il lavoro di Larochelle [2005,
pp. 5-34].
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derna industriale [cfr. Clark, 2001, pp. 48-49 e Shankar, 2007, p. 54 ss.].
Vi sarebbe quindi almeno un minimo di convergenza, anche se generica, sul fatto che sussista un legame tra esordi della globalizzazione e avvento della modernità occidentale. Tuttavia, «descrivere la globalizzazione rimane un compito arduo; si tratta della co-evoluzione interattiva di milioni
di trend tecnologici, culturali, economici, sociali e ambientali che si distribuiscono su tutte le concepibili scale spazio-temporali». Sarebbe perciò
molto dubbio parlare della globalizzazione come di un processo evolutivo
che si può interpretare secondo uno schema ordinato a stadi e a fasi. «È
legittimo pensare che i processi che la globalizzazione abbraccia, hanno la
capacità di mutare nel tempo, in modo non-lineare, caratterizzato da periodi di avanzamemento, stabilizzazione, e temporaneo declino» [Rennen
and Martens, 2003, pp. 142-143].
Tuttavia alludere alla variabilità nel tempo di tali processi non chiarisce
più di tanto. Infatti, in questo tipo di argomentazioni tendono a essere assemblati concetti inerenti a sviluppi storici diversi, pur con tracciati paralleli, quali espansione spaziale del sistema europeo, occidentalizzazione,
modernizzazione, e in tal modo si perviene a svalutare la specificità temporale del fenomeno. Si vuol dire che di globalizzazione si può parlare solo
dopo che si è spezzata la proporzionalità tra le due dimensioni della scala
spaziale e di quella temporale del sistema. Brevemente, la globalizzazione
emerge solo dopo che si sono raggiunte le distanze massime, i limiti di saturazione spaziale del sistema.
Al tempo della prima colonizzazione delle nuove terre, le tecniche di
navigazione d’altura, consentivano bensì la copertura delle grandi distanze,
allargando gli spazi del sistema europeo-mediterraneo, ma i tempi si misuravano in mesi e non in giorni. Le distanze si erano dilatate, ma la proporzionalità con i tempi lunghi permaneva. Dopo l’introduzione del vapore, lo
sviluppo delle linee ferrate, ecco che la velocità aumentava e i tempi si
comprimevano, ma la seconda grande proiezione nelle aree più remote del
globo (l’epoca dell’imperialismo coloniale), aveva consentito ancora di
mantenere quella proporzionalità, allargando, al limite massimo, la disponibilità degli spazi territoriali da raggiungere, insediare e collegare con i
centri metropolitani.
Dopo la seconda metà dell’800 però, verso gli anni ’80, la spazialità del
globo era ormai esaurita. Invece proprio negli ultimi decenni del secolo e il
primo del ’900, si affermava una serie impressionante di innovazioni nelle
telecomunicazioni (telegrafo senza fili, telefono) e nei trasporti (motore a
scoppio, aeromobili) che accorciava drasticamente i tempi fino a ridurli al-
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la istantaneità della comunicazione telefonica. Ecco perché si dice che la
prima globalizzazione è quella che precede gli anni del 1914, anni in cui il
volume e l’intensità degli scambi, dei contatti, dei flussi di capitale e dei
flussi umani, e con essi il livello di apertura e integrazione nel mondo europeo erano pari, se non superiori, a quelli della globalizzazione contemporanea [cfr. Clark, 2001, pp. 80-81).
Per l’epoca pre-1914, in effetti, si può ragionevolmente parlare di esperienza globalizzante. L’accelerazione e la brevità dei tempi in rapporto agli
spazi, che ormai non erano ulteriormente dilatabili con l’aumento della distanza, erano tali da aver alterato in maniera inusitata la proporzione tra
spazio e temporalità. Il tempo si abbreviava in rapporto allo spazio non espandibile, creando quella distonia che si traduceva, a livello cognitivo, in
un assorbimento della dimensione spaziale nell’accelerazione temporale.
La prima globalizzazione della cosiddetta Belle époque, produsse un’esperienza probabilmente più intensa di quella che segnò la fine del XX secolo,
nell’adattamento delle strutture cognitive alla deformazione della prospettiva temporale e della durata. Ecco perché, come vedremo in seguito, anche l’esperienza del primo conflitto mondiale suggellò il primo effettivo disorientamento nella percezione del tempo che caratterizza l’avvento di una
fase di globalizzazione.
Dopo la grande guerra europea, si sviluppava una forma di adattamento
cognitivo al tempo veloce. Inoltre, le nuove forme della spazialità riproducevano ancora una volta la proporzionalità – tra allargamento dello spazio
e inverso accorciamento del tempo – che aveva preceduto la prima esperienza globalizzante.
Si instaurava, già con la seconda guerra mondiale e, a seguire, nella seconda metà del secolo, una nuova dimensione della spazialità, si potrebbe
dire un recupero dello spazio. Lo spazio terrestre si ampliava, e smisuratamente, nello spazio atmosferico attraverso i progressi e l’autonomia dei
velivoli, poi dei vettori missilistici, indi anche trans-atmosferico con i lanci
satellitari e le spedizioni nel cosmo vicino. Già lo spazio atmosferico, comunque, ridondava quello territoriale e allargava significativamente le distanze percorribili, riassorbendo, almeno in parte, gli effetti dell’accelerazione temporale.
Al di là di questo, la rapida diffusione delle trasmissioni di immagini, attraverso il medium televisivo, costituiva uno spazio mediatico, virtuale, di
luoghi ed eventi, che annullava certo le distanze fisiche, laddove immagini
di siti anche remoti pervenivano in tempo reale e simultaneamente in innumerevoli e dispersi posti di ricezione. Tuttavia creava anche uno spazio
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simulato, ampio quanto e più del mondo fisico, che allargava nuovamente
le distanze, virtuali davvero, ma in grado attraverso la ricostruzione narrativa di riassumere il tempo al suo interno, di farlo durare. Si ricreava, in
queste due forme di dilatazione dello spazio, quella proporzionalità, tra
spazialità più ampia e tempo più veloce, che faceva retrocedere l’esperienza globalizzante.
Con l’avvento della cibernetica, delle reti, dell’informatica applicata alle
connessioni iper-veloci, iniziata nell’ultimo decennio del ’900, si ricreavano
le condizioni di una seconda fase di globalizzazione. Lo spazio reale e quello virtuale venivano risucchiati ancora nella centrifuga temporale. Lo spazio non poteva essere ulteriormente dilatato, né quello atmosferico, ingabbiato da un reticolo fittissimo di orbite satellitari e di traiettorie, né quello
mediatico-televisivo. Quest’ultimo era ormai saturato non più dalla trasmissione e ricezione passiva di immagini – che costituiva la struttura narrativa del raccontare a distanza – ma da filamenti di connessioni istantanee
e simultanee che sostituivano lo spazio dei flussi (in cui non esistono più
distanze, ma solo compresenze) allo spazio fisico e a quello mediatico. Cadeva quindi, e nuovamente, la simmetria o compensazione se si preferisce,
tra l’allargamento o espansione dello spazio e l’accorciamento del tempo. E
si producevano gli effetti di compressione temporale, di intensificazione al
massimo grado di contatti umani, sociali, economici, finanziari, ecc., orientati a interrompere la continuità con un passato anche recente e a far risaltare come irreversibili tendenze ormai fuori da ogni forma di ciclo storico.
Questo per significare che la globalizzazione, almeno nei due episodi in
cui essa si è rivelata, si colloca essa stessa, probabilmente alla conclusione
di un ciclo: quello della dilatazione dell’ambiente internazionale e della
rottura di un rapporto di equilibrio instabile, o quanto meno di compatibilità, tra deformazioni dello spazio (allargamento) e deformazioni del tempo
(accelerazione) nella vita del sistema.
La durata non può più essere espansa nell’estensibilità dello spazio. In
realtà, come è stato per la prima ondata di globalizzazione, anche il modello di connessione ultraveloce è in rapporto di continuità con lo sviluppo
dei sistemi di trasporto, e quindi anche trasporto delle informazioni, dalla
seconda metà del XIX secolo. La vera rivoluzione del tempo è già in
pectore nell’era nucleare, quando la percorrenza dei vettori strategici – una
ventina di minuti o poco più per i vettori a base terrestre, e, come si preciserà in seguito, molto, ma molto meno per gli ordigni mobili sottomarini –
comprime a tal punto i tempi di reazione da rendere ormai indistinguibile
il momento dell’allerta e quello della decisione. Già nell’éra della moderni-
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tà nucleare era compiuto lo spostamento del focus delle relazioni internazionali, dalla distanza, dalla territorialità, o altrimenti detta estensività spaziale, alla traiettoria, alla vettorialità, in altri termini la intensività del tempo.
Un evento epocale, come la fine della guerra fredda e della bipolarità,
dovrebbe indurre a riflessioni pertinenti in merito. Forse dovrebbe essere
sottolineato più incisivamente che lo sfaldamento dell’assetto bipolare è
riconducibile, fra le molte concause, anche a questa focalizzazione in senso
temporale della politica internazionale.
Infatti l’Unione Sovietica ha supportato la struttura dualista fino a
quando la rivalità strategica con l’altra superpotenza si è dispiegata per il
controllo degli spazi geo-politici (sfere di ingerenza, protettorati, ecc.) e
l’occupazione o il presidio dello spazio limitrofo extraterrestre (la competizione, negli anni ’60-’70, per lo spazio satellitare e delle stazioni orbitali).
Non è stata però in grado di perpetuare il suo ruolo di rivale bipolare
quando la competizione si è spostata al livello di guerra del tempo, a partire dagli anni ’80. Cioè quando sono emerse sfide come la SDI reaganiana
(il progetto di Difesa Strategica, tramandata nel linguaggio giornalistico
come “le guerre stellari”) la quale affacciava ai sovietici la possibilità di una
neutralizzazione della capacità di risposta strategica dell’URSS, il cosiddetto secondo colpo sui cui si stabilizzava l’equilibrio delle minacce reciproche. Di fronte a questa iniziativa, anche l’orientamento revisionista e modernizzante, fatto proprio dalle leadership del Cremlino seguite alla dirigenza Brezhnev, da Andropov a Gorbachev, dovette realizzare l’inerzia
tecnologica sovietica nel dominio dell’information technology e quindi nel
dominio del tempo: tempo di allerta, di comunicazione, di reazione del suo
sistema di sicurezza e di rappresaglia.
Il bassissimo stato di allerta in cui erano mantenute le forze nucleari
dell’URSS, anche in situazioni di tensione politica internazionale, insieme a
singoli episodi come l’incredibile atterraggio sulla Piazza Rossa del piccolo
velivolo da turismo del tedesco Mathias Rust nel 1983 o l’abbattimento per
errore di un Jumbo sud-coreano nel 1987, testimoniano della fragilità e
lentezza del sistema di comando e controllo dell’URSS. L’Unione Sovietica
era una potenza senza difesa di orizzonte, senza tempi di reazione e quindi
non sarebbe stata in grado di parare o replicare a qualsiasi atto offensivo di
natura strategica.
D’altra parte, è sufficiente sfogliare uno dei manuali di relazioni internazionali, apparsi nei decenni successivi alla fine della guerra fredda, per
trovarvi almeno un cenno a questa costante dei processi di globalizzazione,
ossia la compressione di spazio e tempo che l’innovazione tecnologica ha
Tempo, politica internazionale, mondialità
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reso molto più percepibile che negli anni del primo Novecento [cfr. Attinà, 1999, p. 150]. Dire compressione del tempo, ovviamente, rinvia ad
un’idea generica di densità e di abbreviazione dell’esperienza temporale.
In questo caso, tuttavia, vuol significare qualcosa di più complesso e cioè
che il volume delle interazioni e dello scambio di informazioni, che ha luogo nell’ambiente internazionale e che si sviluppa in tempo reale, ha raggiunto una soglia critica tale da produrre effetti di rilievo nei paradigmi
percettivi.
La prima e principale evidenza di ciò è una tendenziale destoricizzazione dell’esperienza, correlata a quella caduta della coscienza storica che già
ha preso forma nel periodo centrale del XX secolo e che Christopher
Lasch – all’inizio degli anni ’80 – definiva «perdita del senso della continuità storica, il senso di appartenenza a una successione di generazioni che
affonda le radici nel passato e si proietta nel futuro. È la perdita del senso
del tempo storico» [Lasch, 1981, p. 17].
La diffusione delle applicazioni telematiche e degli accessi al web, alle
reti, con gli effetti di istantaneità “in linea” che producono mutamenti simultanei negli ambienti connessi, modifica il tempo dell’esperienza. È curioso rilevare come, nella rete, soprattutto gli operatori dedicati si riferiscano oramai ad un tempo Internet che tiene conto dei mutamenti estremamente accelerati del web. Già all’inizio del nuovo millennio il cybertempo misurava durate di 6 mesi circa come tempi generazionali. Il rapporto di computo rispetto al tempo standard sarebbe di 1 a 4. È stata introdotta anche la variante del tempo IP, Internet Protocol, la cosiddetta
trasmissione per commutazione di pacchetto, ancora più accelerato, con
un rapporto di 1 a 6: ma non è necessario andare oltre, in quanto tali unità
di misura temporali sono sempre provvisorie e già “antiche”, seguono cioè
l’incremento delle velocità di servizio.
Esiste, peraltro, un altro aspetto del tempo digitale che merita considerazione. Si tratta del cyber-tempo finanziario, ossia il timing operativo della
algo-finanza. Una parte rilevante delle transazioni sui mercati, infatti, avviene attraverso sistemi automatici, software e algoritmi, ossia procedure
matematiche e quantitative, attraverso le quali molte istituzioni finanziarie,
(banche, fondi, ecc.) operano con velocità prossime a quelle delle particelle, sfruttando reti telematiche ultrarapide [cfr. Bauer jr., 1994, p. 103 ss.].
Si effettuano così milioni di operazioni computerizzate, al fine di sfruttare le minime e fugacissime differenze tra i prezzi dei valori quotati sui
mercati, con velocità di esecuzione sempre crescenti. L’unità temporale di
base è il millisecondo (10-3 secondi = 1/1000 di secondo, da non confon-
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Introduzione
dersi con il nanosecondo, porzione più infinitesima, corrispondente a 10-9 =
1 billionesimo di secondo [cfr. Tieman, 2008]). Di conseguenza, l’informazione trasmessa attraverso le reti e l’ordine di operazione del sistema, cioè
la “causa” e “l’effetto”, sono separate soltanto da una frazione temporale
inferiore al millisecondo. Si è, in sostanza, molto vicini alla simultaneità assoluta, alla concentrazione degli eventi nel micro-istante, al tempo senza
intervalli anche minimi, cioè al tempo immobilizzato nel presente.
In linea di semplice esercizio mentale, e con grossolane semplificazioni,
si consideri convenzionalmente una giornata finanziaria di 8 ore (con attività su mercati che si trovano sulla stessa sezione oraria). Ebbene, in tale
ipotesi, 1 giorno di operazioni elettroniche corrisponderebbe – valutando
che i processori possono eseguire un’operazione in pochi millisecondi (i
tempi saranno progressivamente limati), che la reazione dell’uomo alla ricezione di un dato prima di immettere l’ordine è di circa mezzo secondo e
che l’intera operazione al terminale si può svolgere quindi in poco più di
un secondo – a 9-12 mesi nei tempi umani quanto a distribuzione temporale degli eventi. Ovviamente, ripetiamo, si tratta di un esercizio puramente
teorico in quanto soltanto una porzione limitata degli scambi passa attraverso questo tipo di programmi. Ricordiamo però che, durante una delle
più gravi crisi nella storia della finanza, alla fine del primo decennio del
XXI secolo (la cosiddetta “crisi dei subprime”), i ripetuti crolli delle borse
erano in parte indotti, e comunque amplificati a dismisura, dalla velocità di
negoziazione di titoli, valute e derivati, che raggiungeva il parasossimo della concentrazione in tempi istantanei.
L’incidenza di tali procedure però segnala uno dei motivi per cui, nel
nostro secolo, lo sfasamento e l’accelerazione dei tradizionali cicli finanziari è corredata da frequenti evidenze e da molti interrogativi. Le durate ultrabrevi dei tempi della finanza digitale sono “fuori sincronia” e già incomparabili rispetto a quelle, relativamente lunghe, dei tempi economici e
sociali.
Questa serie di osservazioni aiuta infine a comprendere che cosa si voglia significare con “destoricizzazione” dell’esperienza. Vuol dire che avviene uno schiacciamento del passato sul presente. Ad esempio, per tornare al nostro primo enunciato, se un anno nel tempo web equivale a quattro
nel tempo legale e quindi 12 anni trascorsi (si prendano due date storicamente forti) dalla dissoluzione dell’URSS, 1989, alla tragedia dell’11 settembre 2001, a quasi un cinquantennio, ebbene la soglia del passato si
condensa e si contrae. A sua volta, il presente dei rapporti istantanei e dei
fenomeni sincronici – se lo si trasferisce a livello della cognizione umana –
Tempo, politica internazionale, mondialità
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è una fascia di esperienza più densa, più larga e ad alta concentrazione. È
quindi un presente con un certo spessore più che una linea sottile e sfuggente, come d’abitudine ce lo raffiguriamo in quanto soglia sempre mobile
tra ciò che è stato e ciò che sta per essere. Un aspetto, questo, della crescita
diffusa delle dimensioni del presente che è stata rilevata, nelle varie forme
del “presentismo”, dalla sociologia contemporanea [cfr. Leccardi, 1996].
Questo tipo di compressione temporale ostacola la formazione della
storicità che è legata alle attività della memoria, prima individuale, ma sullo sfondo collettiva e generazionale. La memoria, per sedimentare i suoi
contenuti, richiede durata, intervalli, sequenze, lavora cioè come il racconto storico secondo la freccia del tempo. In breve, è poco funzionale rispetto all’esperienza del simultaneo e del sincronico, tipica dello scambio di
informazioni attraverso i networks.
Ancora, lo stesso genere di sollecitazione temporale, che accompagna la
crescita delle tecnologie dell’informazione, restringe anche l’orizzonte delle
previsioni. Infatti il deficit di storicità dell’esperienza rende meno efficaci
le procedure della memoria che istituisce le analogie col passato e le estrapola linearmente nella previsione di medio e lungo termine. Il tempo di rete, il tempo on line, produce invece un presente che si avvicina sempre più
all’istantaneo e al simultaneo. E questa velocità di compressione dei tempi
schiaccia anche la previsione riducendone il raggio proiettivo. La previsione diviene una pura e semplice preemption, un’anticipazione di effetti che
vengono scontati e incorporati nel presente.
Quali sono dunque, le ricadute dei processi di globalizzazione e del suo
volano, le nuove tecnologie dell’informazione, sul tempo della politica internazionale e delle relazioni internazionali come esercizio di descrizione e
comprensione di tali realtà?
Le teorie realiste e neo-realiste, che hanno dominato nel secondo dopoguerra, da Raymond Aron a Kenneth Waltz, hanno identificato nella storia
del moderno sistema degli stati (westfaliano) fondamentalmente due forme
strutturali che rispecchiano la distribuzione delle forze, la multipolare e la
bipolare. Ma parlare di bipolarità e di multipolarità, come strutture stabili
(oltre che statiche in quanto inossidabili al cambiamento) dello spazio internazionale, aveva senso solo perché venivano situate nella lunga durata,
nel tempo lento delle persistenze storiche.
Dopo il 1989, con la perdita di identità e di ruolo di uno dei due poli,
l’URSS, si cominciò a parlare di unipolarità, come forma descrittiva del sistema internazionale. Una forma che però già in origine veniva considerata
instabile, di slittamento verso qualche forma di pluricentrismo.