“Oscuro come venne, partì. Lasciando un segno”.

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“Oscuro come venne, partì. Lasciando un segno”.
“Oscuro come venne, partì.
Lasciando un segno”.
GIUSEPPE LOMBARDO
Quando mi è stato proposto di scrivere una breve biografia del M.
Lombardo, in occasione del primo anniversario della sua morte, avevo
pensato ad una… biografia. Quella specie di rincorrersi di date che avevo
odiato con tutto me stesso quando da ragazzino studiavo i poeti. Poi mi
ricordai che il Maestro Lombardo, quando mi parlò di Leopardi – per fare
un esempio molto più caro a lui di quanto lo sia per me: io gli ho sempre
preferito Manzoni ed il M. Lombardo lo sapeva – sicuramente mi disse la
data di nascita e di morte, ma a me di Leopardi è rimasto impresso un viso
malaticcio e brutto, carico di “pensiero”, con gli occhi a scalare la vetta di
una torre solo per vederci un passero e poterlo descrivere. E potersi
descrivere. So bene che quanto ho detto non è facile da comprendere, ma
purtroppo per voi, non ho l’abilità del professore nel far capire anche ai più
umili, anche ai piccoli, anche a coloro che non volevano capire, ciò che
spiegava: “Ogni bambino – diceva – ha la capacità di capire, tutti, nessuno
escluso. E’ compito dell’insegnante trovare il modo giusto per “fare
capire”. Quando un insegnante si arrende perché quel bambino “non
capisce”, non ha fallito il bambino, ma l’insegnante”.
E questo lui lo diceva con cognizione di causa, perché erano cose che
aveva sperimentato sia da insegnante che da alunno. In quinta elementare,
per l’esattezza. La povera, umile e laboriosa famiglia nella quale era nato il
12 agosto del 1931, mandava a scuola un giorno lui un giorno l’altro
fratello, in maniera da adempiere all’obbligo col Governo (che puniva i
genitori alla seconda assenza a scuola dei figli) ed a quello, ben più grave,
con i padroni del fondo condotto in colonia, che richiedeva il lavoro assiduo
di tutta la famiglia, fin dai primi anni di vita. Lui, Peppino, sbeffeggiato
dalla maestra che non digeriva la trovata dal padre, non studiava. Poi venne
una supplente, se lo mise accanto, si fece spiegare i motivi di quelle assenze
e della scarsa applicazione e Giuseppe si incoraggiò, ottenendo la licenza
elementare.
Di quell’esame il prof. Lombardo narrava sempre un aneddoto, che è
il caso di ricordare. Giunse agli esami con le manine scure e rugose, per via
del lavoro in campagna e tentava di nasconderle per la vergogna. Un
commissario se ne accorse, lo invitò a tirarle fuori e gli intimò: “non devi
nasconderle, queste mani ti fanno onore!”.
La scuola media era “proibita” a famiglie come la sua, anche perché
Domenico, il fratello maggiore, è chiamato in guerra, sulle stesse montagne
dove 23 prima il loro padre aveva seppellito, durante la prima guerra
mondiale, i corpi dei commilitoni. Non si rassegnò e quando poteva
frequentava, pur avendola superata, come uditore non iscritto la quinta
elementare con quella supplente tanto cara, fuggendo dalla finestra se
arrivava l’ispezione.
Nel 1943 a Scifì si trasferisce un giovane insegnante e Peppino, tutte
le volte che può, ci va. Quel giovane punta a laurearsi in lettere classiche e
con la scusa di “allenarsi” dà a Peppino lezioni private gratis, gli presta
libri, lo incoraggia a studiare anche da solo, visto che i suoi non possono
mantenerlo a scuola. Ma durante il giorno, tocca sempre di lavorare in
campagna. Studiando di notte, con quella caparbietà che ne avrà
caratterizzata l’intera vita, prepara gli esami di terza media e li supera.
Continua a studiare, con lo stesso “metodo” notturno, ed all’insaputa di
familiari e conoscenti, nel 1950 consegue il diploma di abilitazione
magistrale.
Ora la sua vita sta prendendo davvero una piega diversa, ma dovrà
riservargli ancora molte delusioni. Si iscrive all’università, ma a 22 anni
deve abbandonare per l’incedere di una malattia che lo perseguiterà per 35
anni e che non sarà mai esattamente individuata dai medici. Guarirà negli
anni ’80 grazie alla prescrizione di un farmaco… errato, che lui continuò lo
stesso ad assumere per i benefici che gli apportava e perché comunque si
riteneva ormai in fase terminale. Dopo la guarigione, intensificò gli studi
anche sulla malattia che gli aveva condizionato la vita, e ricondusse i suoi
sintomi alla C.F.S., sindrome da stanchezza cronica, ancora oggi molto
studiata negli ambienti degli ambienti neurologici.
Anche la sua carriera di insegnante fu travagliatissima e
contrassegnata da continui errori che si verificavano a suo discapito e che
egli “raddrizzava” con tenaci lotte e ricorsi.
Insegnò, tra l’altro a Messina, Brescia, Brindisi, e Roma, oltre che in
molti comuni del messinese, tra cui Antillo (“a Murazzo ci andavamo con
l’asino, io e lui”, raccontò un giorno il prof. Concetto Lo Schiavo, suo
collega), Roccafiorita, Motta Camastra, Giardini Naxos e soprattutto Scifì,
dove vi giunse nel 1974-75, senza poter più guidare la macchina a causa dei
malanni.
“Prodigiosamente risorto a nuova vita, durante i primi anni Ottanta”
(come scrisse lui in Cose da pensare), Giuseppe Lombardo può dedicarsi
agli ultimi anni di insegnamento, agli studi storici, alla politica (che lascerà
nel 1987), al sociale (fondando un’associazione ed una compagnia teatrale),
alla scrittura (quasi una decina di opere, di cui tre pubblicate). Ma è
soprattutto la storia del comprensorio ad occupare i suoi pensieri e le sue
notti. Scifì, la terra in cui nacque e morì senza mai essere adeguatamente
valorizzato; ma anche l’intera zona, a cominciare da quella che chiamava la
“questione omerica”, enucleata nel libro “Scifì: da Omero a oggi”, il cui
riferimento territoriale del titolo da un’idea ristretta dell’enorme valenza
dell’opera, che riguarda in realtà una tesi su alcuni passi dell’Odissea
relativi all’intero comprensorio; una tesi che coincide con riferimenti
etimologici e toponomastici, ancora inspiegati.
Chi lo ha conosciuto, lo ricorda per la sua saggezza; per la sua
enorme e fanciullesca bontà, che spesso sfociava in quasi ingenuità; per una
intelligenza sopraffina nel discernere la cosa “giusta” da quella sbagliata,
malgrado l’assoluta incapacità di vedere il male negli altri, finchè il male
non gli si riversava addosso, procurandogli dolore, per il male in sé e per
l’incapacità nel vederlo e prevenirlo. Ed allora ricominciava, più tenace di
prima, pronto al perdono e fermo nelle sue convinzioni, ponderate fino
all’inverosimile. Un “fuoriclasse” della vita, uno di quei personaggi che
segnano coloro che li conoscono. Ogni sua frase era una lezione di vita e
malgrado ciò, quando andò in pensione, disse ai suoi alunni: “grazie, per
quel che mi avete insegnato, perché io ho imparato da voi”.
Chi invece non lo ha conosciuto personalmente, lo collega agli scavi
archeologici di Scifì, per i quali ha lottato contro tutto e tutti, e chi conosce
a fondo tutte le vicende, sa che questa non è un’espressione eufemistica… .
Già dai primi anni Ottanta raggiunge la convinzione che a Scifì,
proprio nella zona del c.d. Castello, dove oggi sorgono gli scavi, fosse
esistito un monastero antico. E lo datò prima di averne traccia: epoca
bizantina. Questo monastero sarebbe stato seppellito da un evento
alluvionale e poi ricostruito col nome di SS. Pietro e Paolo d’Agrò, sulla
sponda opposta, dove oggi si trova la chiesa, unica in Europa per le sue
caratteristiche architettonico-religiose.
Nel 1987, mentre un signore scava per realizzare una vigna, emerge
una traccia di muro. Lui crea un putiferio, ne parla al consiglio comunale,
cerca di coinvolgere tutti, ma gli danno del visionario. Allora, per evitare
che i muri scompaiono, compra il terreno con i soldi che stava risparmiando
per la sistemazione della propria casa: dieci milioni per un piccolo
fazzolettino di terra.
Intensifica gli studi, malgrado il palese ostruzionismo del comune di
Forza d’Agrò e la totale indifferenza della Soprintendenza, infastidita dai
suoi continui solleciti. Un piccolo gruzzolo di giovani e la sua famiglia sono
gli unici a credere nella sua sanità mentale. Studia ancora, ricerca e
pubblica un primo “Documento sulla ubicazione del Monumento-Monastero
dei SS: Pietro e Paolo d’Agrò”, poi ne viene fuori un secondo, in cui egli
precisa l’epoca romana del Monastero e ipotizza un precedente
insediamento greco. Molti funzionari dello Stato pagati per avallare o
confutare quanto diceva, si limitano a ridergli in faccia: letteralmente, come
accadde ad un convegno a Forza d’Agrò, sul piazzale della Triade.
I suoi studi incrociano la strada di Archeoclub che vuole vederci
chiaro su quei muri. Così, la lotta a due porta ad una prima campagna di
scavi nel ’95, poi una seconda nel ’97 ed una terza nel 2001. Tutti piccoli
saggi che confermano la datazione indicata da Lombardo e soprattutto
confermano l’esistenza di un fabbricato che costituisce il più importante
ritrovamento archeologico nella Val d’Agrò. Secondo la Soprintendenza
però, non è un Monastero, ma probabilmente una mansio romana.
Lombardo non si dà per vinto: “gli antichi monasteri non erano solo la
chiesa – avrà modo di dire – ma avevano agglomerati ed edifici eterogenei e
funzionali a tutta l’attività che vi si svolgeva. Bisogna scavare ancora”. Ma
non avrà modo più di vedere oltre. Un tumore lo colpisce a metà del 2002 e
lo stronca in pochi mesi.
Avrà il tempo di scrivere, di sé, quella frase che introduce questa
biografia, riportata sulla lapide. Ed avrà il tempo, in un torrido mattino di
agosto, di dire a due suoi nipoti, uno anagrafico, l’altro sentimentalmente
considerato tale, che se avesse avuto ancora due anni, due soli anni, avrebbe
riportato tutto alla luce.
Dio non glieli ha concessi. Forse perché vuole che siano altri a
continuare la sua opera. Vuole che quell’opera sia finita proprio da coloro
che gli sono stati contro o da coloro che non gli sono stati vicino
abbastanza. O dai quei “bimbi” che tanto amava e che qui, di fronte, sono
troppo piccoli e non l’hanno conosciuto, ma ne possono vedere l’opera e…
Beato chi pur non avendo visto, crederà.
Filippo Brianni