N°5 – 1 Marzo - Pro Civitate Christiana

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N°5 – 1 Marzo - Pro Civitate Christiana
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
Il peggio della quindicina Sicurezza energetica
Sindacato: Le occasioni perdute Il rapporto mafia-politica
La linea scura dei fondamentalismi
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ANNO
NUMERO
5
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
e 2,00
Foibe: Il ricordo A sinistra della sinistra
Principio antropico: Teoria scientifica o atto di fede?
Babele, propaganda, domino Dire il peccato
Banche armate
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
1 marzo 2006
ISSN 0391 – 108X
novità
Un nuovo servizio ai lettori.
A grande richiesta
la raccolta in volume degli articoli
più significativi di uno stesso Autore
con particolare riferimento
alle tematiche più dibattute
a livello sociale, etico, politico
e religioso
Carlo Molari
CREDENTI
LAICAMENTE
NEL MONDO
pagg. 168 - E 20,00
RILEVANZA SOCIALE DELLA FEDE IN DIO
La speranza nei tempi della disperazione
Decadenza della fede, relativismo, religione civile
La fede in Dio nella pratica politica
Politica e profezia
Guai a voi!
Secolarizzazione e dialogo interreligioso
La nuova Europa: radici e identità
Le Chiese in difesa dell’ambiente
FEDE E CULTURA
Le tracce di Dio nella cultura umana
Scienza e trascendenza
L’azione di Dio in un contesto evolutivo
Creazionisti e neodarwinisti
Il contributo di Teilhard de Chardin al problema del Male
per i lettori
di Rocca
e 15
anziché
e 20
RICHIEDERE A ROCCA
c.p. 94-06081 Assisi
e-mail: [email protected]
conto corrente postale 15157068
NEL VORTICE DELLA STORIA
La crisi della Chiesa
Come e perché cambiare
Le componenti della conversione
Transizioni traumatiche
Letture divergenti del Concilio
La missione della Chiesa nel mondo attuale
Ritrovare l’essenziale
I laici nella Chiesa
I laici nel mondo
Il primato della coscienza
Funzioni e limiti del Magistero
UOMINI NUOVI
L’esperienza religiosa
Le emozioni nell’esperienza di fede
Cammini di libertà
Spiritualità del gratuito
Leggi umane e fedeltà alla vita
Spiritualità della liberazione
4
6
10
11
13
sommario
Libri
Rocca
14
17
18
21
22
24
28
31
1 marzo
2006
32
35
5
36
38
41
Ci scrivono i lettori
42
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Valentina Balit
Notizie dalla scienza
44
Vignette
Il meglio della quindicina
47
Raniero La Valle
Resistenza e pace
Il peggio della quindicina
51
Maurizio Salvi
Sicurezza energetica
Un problema planetario
52
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Foibe
54
Luciano Bertozzi
Finanza
Una campagna contro le banche armate
57
Romolo Menighetti
Parole chiave
Mafie
58
Filippo Gentiloni
Politica italiana
A sinistra della sinistra
58
Davide Romano
Criminalità organizzata
Il rapporto mafia-politica
59
Fiorella Farinelli
Sindacato
Le occasioni perdute
59
Oliviero Motta
Terre di vetro
Altri tempi
60
Pietro Greco
Principio antropico
Teoria scientifica o atto di fede?
60
Stefano Cazzato
Lezione spezzata
Ragazzo, dove sei?
61
62
Claudio Cagnazzo
Cambiare casa come metafora dell’esistere
Rosella De Leonibus
Cose da grandi
Il coraggio e la paura
Enrico Peyretti
Fatti e segni
Cari nostri vecchi
63
Giuseppe Moscati
Maestri del nostro tempo
Bertrand Russell
Il coraggio delle proprie idee
Marco Gallizioli
Culture e religioni raccontate
La linea scura dei fondamentalismi
Carlo Molari
Teologia
Dio è amore: un itinerario di lettura
Adriana Zarri
Controcorrente
Eppure succede
Rosanna Virgili
La voce del dissenso
Babele, propaganda, dominio
Lilia Sebastiani
Il concreto dello spirito
Dire il peccato
Giacomo Gambetti
Cinema
Per amore o per forza
Match Point
Roberto Carusi
Teatro
Vita e morte di Pasolini
Renzo Salvi
RF&TV
Torino 2006
Mariano Apa
Arte
Alba
Michele De Luca
Mostre
Viaggio alle Alpi
Alberto Pellegrino
Musica
Elegia per giovani amanti
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Ebay.it
Riviste/Libri
Carlo Timio
Rocca schede
Paesi in primo piano
Bangladesh
Nello Giostra
Fraternità
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 5 – 1 marzo 2006
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ANNO
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ROCCA 1 MARZO 2006
Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono
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non si restituiscono
Questo numero
è stato chiuso il 14/02/2006 e spedito da
Città di Castello il 17/02/2006
4
La vita o i beni
economici?
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
Scusatemi se vi scrivo
ancora, ma credo che ormai risultiate uno dei
pochi punti di riferimento alternativi in questo
marasma di ottundimento.
Vorrei chiedervi: mi sapreste spiegare come
mai i nostri vescovi, nella persona del Cardinale Ruini, o quelli che
fanno parte del comitato per la salvaguardia
della vita, o tutti gli altri
buoni cristiani che scendono in piazza a manifestare contro i pacs o
contro l’aborto, (perchè
forse per difesa della
vita si intende solo tutto
ciò che è inerente al sesso o che va contro una
morale ipocrita), non
hanno avuto il coraggio
di dire una sillaba contro la nuova legge sulla
legittima difesa che va
ad equiparare i beni materiali alla vita di una
qualsiasi persona, sia
anche questi un ladro o
un delinquente? Forse
che il mammona evangelico si è impossessato
dei nostri cervelli, che
non vedono più con
chiarezza, quando si
tratta di difendere i beni
economici? O forse che
mettere armi in mano al
cittadino e dirgli di farsi giustizia da solo è
molto più comodo per
uno Stato che non sa più
cosa sia la giustizia, per
una Chiesa la cui unica
giustizia è quella di interessarsi di quanti sgravi fiscali ottenere?
So che è una domanda a
cui non c’è risposta, ma
mi auguro che nasca
qualche comitato a difesa di ogni vita.
Giovanni Fusco
Napoli
Tra i miei amici ci sono
diverse persone che hanno visto fallire il loro
matrimonio e si sono risposati: un amore è morto, un amore è rinato;
sono amico anche di persone che vogliono bene
ad una persona dello
stesso sesso: sia gli uni,
sia gli altri amano, si
donano, si servono a vicenda, crescono in umanità. La domenica però
non sono nella fila per la
comunione: non possono perché vogliono bene
ad una persona. Anzi, alcuni di loro si sentono
completamente non accetti e, pur credenti,
hanno lasciato la loro
comunità.
Cerco di impegnarmi
contro la pena di morte
e apprezzo tutte le prese
di posizione della gerarchia in questo senso.
In questi giorni è stata
approvata la nuova legge sulla cosiddetta legittima difesa che, a quanto riportato dai giornali,
sancisce la non punibilità di chi, per proteggere
cose, uccide persone anche solo introdottesi in
casa.
Negli ultimi tempi i vescovi italiani hanno parlato spesso, anche se io
talvolta avrei atteso altre
parole. Adesso in presenza di una siffatta legge
avranno da dire qualcosa verso chi ama più le
cose di una vita umana?
So bene che la Chiesa
non è la Cei e che anche
tanti vescovi dicono anche altre cose.
Non chiedo nemmeno
una ulteriore ingerenza
nella politica che è laica,
ma una parola in difesa
della vita esistente che
vale piú di tutte le cose
possibili; una parola perché i cristiani nel loro
comportamento vadano
oltre questa legge nella
loro vita; per dire che,
chi la applichi, non ama
abbastanza la vita e le
persone e quindi che dovrebbe chieder perdono
prima di mettersi in fila.
Piero Bartalesi
Frankfurt/Main
Religioni
a scuola
Ho letto con immenso
piacere l’articolo «Ripensare l’insegnamento
delle religioni» di Brunetto Salvarani sul n. 2
di Rocca del 15 gennaio
2006.
È un problema che mi
sta a cuore da tanti anni
anche perché sono stata
insegnante nelle scuole
medie, madre di quattro
figli (tutti studenti) e ultimamente volontaria
tra persone con problematiche complesse; ultimissimamente un po’
fuori combattimento per
età e problemi di salute.
Per fortuna mi entusiasmo ancora.
Ho provato in passato ad
esprimere il mio pensiero ma la mia voce non è
una grande voce e i tempi non erano certo maturi (il Concordato era
inattaccabile). Ora la situazione sociale richiede
assolutamente un orientamento del genere,
pena l’analfabetismo religioso (prodotto anche
dall’attuale ora di religione) e un accrescersi
delle distanze, favorito
sicuramente da scuole
diverse per ogni Comunità di Fede. Sono fiduciosa che si porti avanti
con impegno questo discorso e si lavori per la
realizzazione dell’insegnamento nelle scuole di
«Storia delle Religioni».
Vi ringrazio dell’attenzione e invio cordiali saluti.
Clara Pericoli
Milano
ai lettori
GRAZIE!
a tutti voi che esprimete la vostra attiva solidarietà
con gli abbonamenti sostenitori e con i numerosi abbonamenti semestrali «3 mesi li paghi tu, 3 mesi li
paghiamo noi» che fanno conoscere Rocca ad una
cerchia più larga di lettori e che ci permettono di proseguire il nostro impegno con una certa tranquillità.
E vi diciamo grazie dalle colonne della rivista con
questa lettera aperta, poiché siete tanti e non riusciamo a contattarvi personalmente per la gran mole
di lavoro che in questo momento stiamo affrontando.
Grazie ancora a chi si è ripresentato puntuale al
rinnovo dell’abbonamento, dimostrando fedeltà, consenso e sostegno al nostro lavoro.
RITARDI
Ma non tutto fila liscio e qui ritorna pesante il «problema Poste». Numerose le telefonate che lamentano il mancato arrivo di Rocca, soprattutto da chi ha
regalato nuovi abbonamenti. Purtroppo dobbiamo segnalare che ora, ai primi di febbraio, stanno ancora
giungendo cedole di versamenti effettuati nell’ultima decade di dicembre e appena adesso cominciano ad arrivare le ricevute relative ai versamenti
dei primi di gennaio.
Da parte nostra possiamo solo spostare la scadenza dei semestrali (richiesti da gennaio a giugno) al
31 agosto, con inizio dal 1° marzo, in modo da far
pervenire i numeri attuali e non arretrati. Forte comunque resta il disagio vostro e nostro.
STRINGERE I TEMPI
Vi chiediamo cortesemente alcune forme di collaborazione, in modo da recuperare almeno un mese
di tempo: inviateci per lettera o fax le vostre richieste (abbonamenti, libri, Cd-rom) accompagnandole
con fotocopia della ricevuta di pagamento. Per libri
e Cd-rom potete anche eseguire il pagamento al
ricevimento, con il bollettino postale che accludiamo nella spedizione, rinunciando al contrassegno
che vi comporta un costo aggiuntivo medio di 8 euro,
spesa troppo alta rispetto all’importo dovuto.
E ANCORA GRAZIE!
ROCCA 1 MARZO 2006
Rocca
ci scrivono i lettori
CI SCRIVONO I LETTORI
Per la vostra confortante solidarietà che vi fa sentire
a noi più vicini e ci pungola e stimola nella dinamica
del confronto e nel non facile cammino della comunicazione e… (continuate voi)
la Redazione
5
a cura di
ROCCA 1 MARZO 2006
6
Assisi - Giornata di sole, l’11 febbraio, che accende le antiche
mura, mentre dalla torre la
«campana delle laudi» suona a
distesa e il vento agita i gonfaloni dei dodici Comuni annoverati
nel territorio della Diocesi di
Assisi-Gualdo-Nocera umbra
che oggi accoglie il nuovo vescovo. Sobrio e garbato il saluto del
Commissario prefettizio Di Prisco a monsignor Domenico Sorrentino; lunga, solenne, partecipata la liturgia nella cattedrale
di san Rufino nel corso della
quale il neo-vescovo stempera la
polemica coi francescani che
precedette la sua nomina, risalendo alla sorgente del messaggio di Francesco e commentando il vangelo del giorno – quello
della guarigione del lebbroso –
proprio alla luce della vita del
Santo. La basilica, di cui i turisti non si stancano mai di ammirare la singolare bellezza della facciata, fu il luogo dove Francesco fu battezzato, pregò e predicò. Il Vescovo non si sottrae
all’accostamento della parola
evangelica a quella pagina di storia che racconta del giovane
Francesco il quale al momento
della conversione, nella radicale consapevolezza che non c’è
amore a Dio senza quello ai fratelli più poveri, si avvicina ai lebbrosi del suo tempo e, vincendo
il naturale ribrezzo, bacia il lebbroso. Ci sono icone che i secoli
non cancellano, sembra dire il
Vescovo: attraverso questo bacio passa la passione per la vita
del giovane assisano che poi gli
permetterà di intonare il famoso cantico di Frate sole.
Nella Bolla di Benedetto XVI di
assegnazione della diocesi al
vescovo Sorrentino si legge:
«Abbiamo cercato con diligenza un pastore di uomini stimato che, seguendo le orme del
poverello d’Assisi, sappia d’ora
in poi governare quella comunità con fermezza e saggezza».
Ora il suo governo sarà da realizzarsi armonizzando la proposta pastorale delle basiliche francescane con quelle della diocesi. C’è poi la promessa del Papa
di una visita ad Assisi.
Uscendo da san Rufino si è fatto buio, ma in alto c’è la Rocca illuminata, un tempo segno
di guerra, dove ora invece si
raccolgono le bandiere della
pace. Il Vescovo aveva dichiarato irrinunciabile l’impegno
cristiano per la pace, definendo Assisi un «laboratorio di
pace e di dialogo». Sì, anche
di dialogo con le altre religioni, nuovo capitolo della nostra
chiesa, inaugurato a san Francesco con l’incontro del 1986,
e mai più disatteso in Assisi anche nel piccolo prezioso dialogo delle comunità monastiche
di diverse religioni, negli incontri culturali alla Cittadella.
Dialogo difficile ma ineludibile. Com’è difficile l’attenzione
partecipe ai bisognosi, nuovi e
di sempre, mentre il Vescovo
ne dà l’esempio visitando,
come suo primo atto, i ragazzi
non udenti e non vedenti dell’Istituto serafico della città.
ATTUALITÀ
Mass media
diamo
voce
alla pace
Cina
giornalisti
libertà e
inquietudine
Diritti umani
accuse
pesanti a
Guantanamo
Usa
un nuovo
muro
di Berlino?
Sono in tanti a lamentare il
deficit pauroso nell’informazione a copertura del mondo
della solidarietà e della speranza. Se è vero che c’è tanta
carta stampata prodotta proprio da associazioni e realtà
variegate dell’impegno sociale e che l’avvento di internet
ha sicuramente favorito l’accesso a notizie e approfondimenti su pace e dintorni, è
altrettanto vero che queste
informazioni non raggiungono il grande pubblico. La Tavola della pace, forte della
sua rete di associazione ed
enti locali, ha avviato da tempo un percorso in questo senso trovando come grandi alleati la Fesmi (rete di riviste
missionarie), altre testate di
area (fra queste, Mosaico di
Pace di Pax Christi), soprattutto la Federazione Nazionale della Stampa e Usigrai
(il Sindacato dei giornalisti
del servizio pubblico). In questo percorso viene proposta
una tappa molto importante
il 10 marzo prossimo. Si tratta di 24 ore dal titolo significativo «Diamo voce alla
pace».
«Pace e informazione sono
due beni fondamentali a rischio – si legge nell’appello di
convocazione della giornata
–. La pace resta un sogno per
miliardi di bambine e bambini, donne e uomini provati dei
fondamentali diritti umani. E
anche da noi è sempre più in
pericolo. L’informazione, sottoposta a pesanti limitazioni
e condizionamenti politici ed
economici, rischia di essere
sempre più scadente e meno
libera e indipendente». Scuole e testate locali, gruppi e volontari il 10 marzo sono invitati a mobilitarsi. (Tonio Dell’Olio).
Maggiori informazioni sul
sito: wwwtavoladella pace.it.
La morte, avvenuta il 2 febbraio, del giornalista Wu
Xiangu a Taizhou (provincia
costiera dello Zhejiang), a
causa delle botte inflittegli da
alcuni poliziotti furiosi che gli
contestavano la pubblicazione di un articolo critico sull’imposizione di tasse locali
arbitrarie, è occasione di riflessione su ciò che sta avvenendo in questo momento in
Cina.
In un momento di transizione economica, ipotizzata
come «mercato del secolo»,
di una diplomazia inseguita
dalle cancellerie mondiali,
l’informazione del gigante
asiatico è attraversata da una
profonda crisi. Da alcuni
anni sembrava aperta la strada comunicativa a un respiro di libertà, invece il Partito
interviene ancora massicciamente perché gli affari interni non si conoscano e non si
conoscano nemmeno per
esempio, le sanzioni comminate dal partito a chi aderisce a chiese o a gruppi religiosi. Le Monde parla di «regressione» e s’interroga:
«dove sono le ricadute del
miracolo economico?».
Amnesty international, organizzazione per la difesa dei
diritti umani, nel suo ultimo
rapporto reso noto a Londra
il 6 febbraio, relativo alla base
americana di Guantanamo a
Cuba, giudica che questa prigione condanna «migliaia di
persone a una vita di sofferenze, di tormenti e di sospetti».
Il rapporto, intitolato «Guantanamo, vite fatte a pezzi»,
parla di 500 persone, originarie di 35 paesi, detenute nel
campo, nei quattro anni dalla
sua apertura. Chiede la pubblicazione di un elenco preciso della loro identità e nazionalità e di processare o rilasciare tutti i detenuti nell’isola. Nessuno, stando ad Amnesty, ha beneficiato di una revisione giudiziaria circa la legittimità della propria detenzione. Nove continuano a essere in prigionieri nonostante non siano più ritenuti dal
governo statunitense combattenti-nemici. Amnesty denuncia la «tortura» dell’alimentazione forzata attraverso una
sonda nasale senza anestesia
che sarebbe imposta dalle autorità alle decine dei prigionieri in sciopero della fame.
È stato approvato dalla Camera dei deputati, con 239 voti a
favore e 182 contro, un progetto di legge sulla riforma dell’immigrazione illegale che
prevede la costruzione di un
muro lungo 700 miglia che attraverserebbe California, Arizona, New Mexico e Texas per
impedire l’ingresso negli Usa
dei clandestini. La conferenza
episcopale statunitense è estremamente preoccupata per le
nuove misure che possono aggravare lo status penale degli
immigrati e teme fortemente
che la nuova legge metta a repentaglio anche quelli in piena regola. Monsignor Barnes,
vescovo di San Bernardino
(California) e presidente della
Commissione episcopale per i
migranti, ha fatto appello al
presidente Bush perché si opponga al progetto che ha vari
aspetti estremamente punitivi,
come quello di vietare, anche
ai cittadini statunitensi, di prestare prima assistenza agli
stranieri senza permesso legale. Da Philadelphia il cardinale Justin Rigali e da Los Angeles il card. Roger Mahony hanno chiesto al Senato di bocciare la nuova norma.
Turchia
dialogo e martirio
L’uccisione di don Andrea Santoro (nella foto), parroco di Trabzon (Turchia), uomo di dialogo, porta alla luce una personalità
mite e insieme ricca di fede coraggiosa: « Il Medio oriente deve
essere riabitato – aveva detto in un ritiro due mesi fa – come fu
abitato ieri da Gesù : con lunghi silenzi, con umiltà e semplicità
di vita, con opere di fede, con miracoli di carità, con la limpidezza inerme della testimonianza, con il dono consapevole della vita». La sua morte porta su due piste: una riguarda la provocazione politico-religiosa e ritiene che l’intento degli istigatori è
stato quello di provocare un conflitto tra la religione islamica e
quella cristiana, conflitto attualmente immotivato e inesistente
in Turchia ma esasperato in tutti gli stati islamici a seguito delle
vignette blasfeme pubblicate in Danimarca. Un’altra pista sospetta che il delitto sia legato alla mafia implicata nel traffico di
prostitute cristiane provenienti da paesi dell’ex Unione Sovietica, che don Andrea tentava di contrastare.
ROCCA 1 MARZO 2006
Assisi
l’insediamento del nuovo vescovo
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
7
8
ATTUALITÀ
Kenya
ai bambini
cibo
per cani?
Germania
il centenario
di Dietrich
Bonhoeffer
La beneficenza inutile continua senza interruzione ad
inondare i Paesi poveri, accompagnata dal retropensiero: «Siccome non hanno niente che si accontentino di qualsiasi cosa gli mandi».
Ma qualcuno ha cominciato a
dire basta: è di questi giorni
la notizia che il governo del
Kenya ha rifiutato una partita di 42 tonnellate di cibo in
polvere – seimila razioni, un
supplemento nutrizionale utile per sfamare 160 bambini
per 60 giorni, secondo le valutazioni della ditta neozelandese offerente – peccato che si
trattava di…cibo per cani!
Anche se il paese è in ginocchio per una grave siccità e la
carestia, «Le persone non
sono cani» hanno risposto le
autorità di Nairobi.
Ma questo è solo l’ultimo, a
quanto sappiamo, di una serie
di episodi che hanno avuto
come teatro altri Paesi africani e/o comunque del Terzo
Mondo: si possono citare le
migliaia di tonnellate di grano
prodotto da piante geneticamente modificate, donate dagli Stati Uniti allo Zimbawe affamato e da questo rifiutate o
il latte in polvere inviato in
Paesi dov’è un sogno disporre
di acqua potabile per diluirlo
o ancora i farmaci inutili o scaduti mandati per beneficenza,
in realtà per esaurire le eccedenze o per disfarsi di rifiuti
costosi da smaltire.
«Donare non significa liberare la cantina o la soffitta dalle
immondizie» è una frase che
possono purtroppo ripetere gli
operatori di organizzazioni
umanitarie che si vedono recapitare quantità incredibili di
cose inutili. Per disfarsene
devono impegnare tempo e
denaro, sottraendoli proprio a
interventi di soccorso che costituiscono la ragion d’essere
del loro lavoro.
Con numerose iniziative culturali e religiose è stato ricordato il centenario della nascita di Dietrich Bonhoeffer (4
febbraio 1906). Per una analisi del suo pensiero rinviamo i
lettori all’articolo di Giuseppe
Moscati «Dietrich Bonhoeffer,
essere-per-gli-altri» (Rocca, n.
8/2004), mentre vogliamo ricordare alcuni tratti della sua
storia che lo collocano oltre
che tra i più illuminati teologi
del 900 gli ecumenisti, anche
nel martirologio cristiano.
Pastore luterano, nel saggio
dell’aprile 1933 «La Chiesa
davanti al problema degli
ebrei» fu il primo ad affrontare il tema del rapporto tra
la chiesa e la dittatura nazista, sostenendo con forza che
la chiesa aveva il dovere di opporsi all’ingiustizia politica.
Aderendo alla cosiddetta
«chiesa confessante», diresse
il seminario clandestino per i
pastori delle chiese di Zingst
e di Finkenwalde, quest’ultimo seminario poi chiuso dalla Gestapo. La stessa Gestapo
bandì Bonhoeffer da Berlino
e nel settembre del 1940 gli
proibì di predicare. Egli continuò il suo lavoro di insegnante nella clandestinità e nel
1943 si avvicinò a un gruppo
di resistenza e cospirazione
contro Hitler. La sua attività
per aiutare gli ebrei a fuggire
dalla Germania lo portò alla
carcerazione nel 1943. Dopo
un fallito attentato contro Hitler il 20 luglio 1944, Bonhoeffer fu trasferito nella prigione
di Berlino, poi nel campo di
concentramento di Buchenwald e infine di Flossenburg, dove fu impiccato nudo
insieme ad altri cospiratori.
Così, l’8 aprile 1945 si compiva il suo destino. «È la fine,
per me l’inizio della vita» rispose a chi gli diceva addio,
ormai consapevole del cammino a cui l’aveva condotto la
grazia a caro prezzo offerta a
ogni discepolo di Cristo.
New York
la morte
di Coretta
King
Si moltiplicano, da tutte le parti del mondo, i commossi
omaggi a Coretta King, vedova del pastore Martin Luther
King, anche lei figura importante della nonviolenza nella
battaglia per i diritti civili dei
Neri negli Stati Uniti e nel
mondo. Quattro presidenti, i
due Bush, Carter e Clinton
hanno partecipato ai suoi funerali. G. Bush ha ricordato:
«I contributi della signora
King alla libertà e all’uguaglianza hanno fatto dell’America una nazione migliore e più
umana».
Coretta ha avuto un ruolo,
spesso nascosto, nel movimento nonviolento durante
gli anni 1950-60 quando suo
marito – un pastore battista
che aveva cominciato la sua
missione in una chiesa di Birmingham, in Alabama – divenne simbolo di un movimento sociale profondamente radicato nella religione. Si
erano incontrati mentre lei
studiava musica e lui compiva gli studi di teologia all’Università di Boston. Lascia ad
Atlanta, in Georgia, un Centro, da lei fondato, di educazione non violenta.
notizie
seminari
&
convegni
Roma. Il Presidente della Repubblica Ciampi ha ricevuto il
2 febbraio il comitato «Salviamo la Costituzione», che lotta
per il «no» alla devolution e
l’ex Presidente Oscar Luigi
Scalfaro che ne è lo sponsor.
Scalfaro aveva lamentato più
volte a riguardo «il silenzio
assordante dei media». (www.
salviamolacostituzione.it).
Il Cairo. Shenuda III, papa
dei Copti egiziani, ha ringraziato il presidente Mubarak
per la firma di un decreto
che facilita finalmente la costruzione di chiese. I copti
rappresentano il 10% dei 73
milioni di abitanti dell’Egitto.
Pisa. Alle elezioni del 2009
per la provincia di Pisa an-
che gli immigrati (è il primo
caso per una simile ammissione in Italia) avranno diritto di voto attivo e passivo. Lo
ha stabilito il 1° febbraio una
modifica dello Statuto con il
voto favorevole dei gruppi
della maggioranza (sinistra),
che ha sostenuto la necessità di spazi pubblici condivisi.
2-4 marzo. Ancona. Meeting
nazionale sul lavoro di strada,
organizzato dal Gruppo Abele di
Ancona e regione Marche. Sede:
Teatro delle Muse. Inf.: laura.
[email protected]; tel.
071 222 6115.
3 marzo. Piacenza. Presentazione del progetto pedagogico
di teatro interattivo rivolto agli
adolescenti dai 15 ai 18 anni
«Cosa vuoi da me papà?», curato dal Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei
conflitti. Nei giorni 13, 14, 15 il
progetto sarà a Senigallia (An).
Informazioni: tel. 0523 498 594.
3-26 marzo. Palermo. La Provincia regionale di Palermo in
collaborazione con la Galleria
d’Arte contemporanea della Pro
Civitate Christiana di Assisi
propongono l’opera del grande
artista francese Georges
Rouault «Miserere», al Loggiato San Bartolomeo 25. All’inaugurazione, saluto del Presidente Musetto, Presentazione di
Augusto Cavadi, Concerto del
M° Visconti. Visita guidata da
Anna Nabot, direttrice della
Galleria d’Arte della Pro civitate Christiana. Informazioni: tel.
091 6682989 / 338 667 1989 /
075 813231; e-mail: [email protected].
[email protected], http://
procivitate.assisi.museum.
6 e 13 marzo. Vercelli. Per il
ciclo «L’esperienza del credere
oggi», due incontri: il primo
sul tema: «Dialogo ecumenico
e interreligioso in Europa» (relatori mons. Aldo Giordano e
Birgit Wolter); il secondo su:
«Credere senza appartenere e
appartener senza credere. Le
forme dell’adesione religiosa»
(Gad Lerner, Beppe del Colle,
Maurizio Ambrosiani). Ore 21,
Seminario, piazza sant’Eusebio 10, Vercelli. Informazioni:
tel. 328 7447376.
6/13/20 marzo. Torino. Tre incontri organizzati dal Gruppo
Abele su: «Una legge uguale per
pochi. Il diritto penale e gli
esclusi: dalla Bossi-Fini alla ex
Ciriello, passando per il Fini
delle droghe». Sede: Biblioteca
Centro studi del Gruppo Abele,
c.so Trapani 91/b Torino. Informazioni: Salvatore D’acierno
tel.011 384 1053; e-mail
[email protected],
7 marzo. Genova. Per il ciclo
«Il dialogo tra Dio e l’uomo: In
ogni tempo, in ogni luogo» incontro con Brunetto Salvarani,
teologo e saggista, sul tema.
«Bibbia e cultura». Ore 18 presso la sede del Gruppo Piccapietra, piazza S. Marta 2 (Ingresso
Quadrivium). Informazioni:
010 218074/010 216 149.
9 marzo. Padova. Organizzato dalla Cappella Universitaria,
Incontro con P. Bartolomeo
Sorge S. J. sul tema: «Verso Verona: l’eredità del Vaticano II
nel cammino della Chiesa italiana» alle ore 20.45. Informazioni: Cappella universitaria
San Massimo, Vicolo san Massimo 2, Padova.
12-19 marzo. Cuneo. Al Palazzo della Provincia VI Edizione
della «Mostra internazionale
del libro Nord/Sud – Parole fra
Continenti». Tema: «la donna
e non solo...». La manifestazione prevede anche una serie di
dibattiti pubblici, tavole rotonde, incontri con gli studenti. Informazioni: Parole fra Continenti c/o Giustizia e Pace, via
Roma 7-12100 Cuneo.
15-17 marzo. Padova. Corso
di aggiornamento per insegnanti organizzato presso il liceo Cornaro dall’Associazione
laica di cultura biblica «Biblia»
sul tema «La parola che unisce
e che divide» (ore 15,30-18,30).
Informazioni: Prof. Francesco
Marin, tel. 049 755695.
19-26 marzo. Strasburgo
(Francia). Convegno organizzato dal Consiglio ecumenico
giovanile europeo e dal Forum
delle organizzazioni giovanili e
studentesche musulmane euro-
pee sul tema: «Sconfiggere
l’islamofobia: promuovere il
dialogo e la cooperazione interreligiosa». Informazioni:
www.valdesian.org.
23-26 marzo. Assisi. La letteratura dell’emigrazione è il
tema del 45° Seminario di Letteratura promosso dalla Biblioteca della Pro Civitate
Christiana in collaborazione
con l’Università di Perugia. Relazioni di Sebastiano Martelli, Aldo Morace, Francesca
Tuscano, Antonio Palermo,
Roberto Fedi, Domenico Scarfoglio, Raffaele Nigro, Vincente Gonzàles Martìn, Francesco
Durante. Dibattiti, approfondimenti. Informazioni: Biblioteca Pcc, tel. 0758 13 231.
25 marzo e 1 aprile. Pinarella di Cervia (Ra). Pax
Christi organizza un corso per
insegnanti, animatori, catechisti sul tema: «Educare alla
pace» con lo scopo di proporre esperienze formative, idee
e strategie comunicative nonviolente: Informazioni: 329
7655582, tel. 0544 987 158.
31 marzo-2 aprile. Asti. «Tov
mut: buona è la morte?» è il
titolo del convegno nazionale
dell’Associazione «Bibilia». Tra
i relatori: Giovanni Filoramo,
Amos Luzzatto, Ida Zatelli,
Piero Stefani, Carlo Molari,
Sandro Spinsanti, Luigi Bersani, Paola Borgna, Giuseppe
Barbaglio, Paolo De Benedetti. Moderatrice Laura Novati.
Inf.: Biblia, Via A.da Settimello 129 – 50040 Settimello (Fi).
22-25 aprile. Assisi. Convegno organizzato dall’Istituto
secolare «Santa Elisabetta
d’Ungheria» per giovani in ricerca vocazionale sul tema:
«Laici come gli altri ma...».
Informazioni: Piccola Fraternità francescana «S. Elisabetta», piazza vescovado 5,
06081 Assisi, tel. 975 812 336,
fax 075 816 377; e-mail:
[email protected].
ROCCA 1 MARZO 2006
ROCCA 1 MARZO 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
9
ATTUALITÀ
Valentina
Balit
10
Contro la malaria scende in campo la meteorologia, grazie a sistemi di previsione sempre più sofisticati. Un team di ricercatori inglesi, coordinati da Tim Palmer dello European Centre for Medium Range Weather Forecasts di Reading, ha sviluppato un sistema computerizzato che utilizza i dati climatici per prevedere con cinque mesi di anticipo gli alti e bassi delle epidemie.
La notizia è stata pubblicata sulla rivista
Nature. Ogni anno più di un milione di persone muoiono a causa della malaria, e l’infezione coinvolge 500 milioni di individui
in tutto il mondo. Il 90% dei casi si concentra in Africa, dove le epidemie, pur interessando una piccola percentuale di infezioni,
contribuiscono comunque a un significativo aumento delle vittime dovute per lo più
a fattori endemici.
«Influendo sullo sviluppo del parassita della malaria e sul comportamento delle zanzare che ne sono portatrici», spiegano i ricercatori inglesi, «il clima è un fattore importante da tenere in considerazione per
tenere sotto controllo le epidemie. Alti livelli di piovosità portano in genere un aumento dei casi di malaria».
Basandosi sull’analisi della piovosità e delle temperature superficiali del mare, fino ad
oggi i modelli climatici sono stati in grado
di fare previsioni relative al picco della malattia con un mese di anticipo. Il sistema
messo a punto dal team inglese combina
diversi modelli climatici in un unico programma informatico che fornisce previsioni più accurate fino a cinque mesi prima. I
ricercatori lo hanno sperimentato con successo per predire in modo retrospettivo le
epidemie del Botswana del 1982 e del 2002.
Dati alla mano, i governi e le agenzie non
governative potranno decidere meglio come
impiegare i sistemi di prevenzione, le medicine, i pesticidi.
Palmer spera che il sistema messo a punto
potrà essere usato anche per fare previsioni
relative ad altre malattie legate al clima
come il dengue, il colera e la meningite, o
anche in agricoltura, orientando il tipo di
colture da far crescere nelle stagioni più piovose. La ricerca è stata finanziata dal progetto europeo Demeter, che prevede lo sviluppo di un insieme unico di modelli meteorologici europei per la stima delle produzioni agrarie in Europa e la diffusione delle
malattie endemiche in Africa.
da IL MANIFESTO, 1 febbraio
da LA REPUBBLICA, 3 febbraio
da L’UNITÀ, 9 febbraio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 4 febbraio
da L’UNITÀ, 10 febbraio
da LA REPUBBLICA, 1 febbraio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 7 febbraio
ROCCA 1 MARZO 2006
ROCCA 1 MARZO 2006
OCCA 2005
della quindicina
previsioni del tempo
per combattere la malaria
il meglio
Scoperto negli Stati Uniti un fattore molecolare alla base di diverse forme comuni di
tumori, come quelli che colpiscono seno,
polmoni e prostata. La notizia è stata pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. Lo studio, coordinato da Carlo Croce dell’Università dell’Ohio, ha richiamato l’attenzione su un piccolo gruppo di molecole, chiamate microRna, sulla cui azione si fonderebbero alcuni
meccanismi di sviluppo comuni a forme
tumorali apparentemente molto diverse.
Solo negli ultimi anni gli scienziati hanno
cominciato a ipotizzare che queste molecole possano avere un ruolo determinante nella regolazione dell’attività dei geni e quindi
anche delle neoplasie. I risultati dello studio di Croce, basato sull’analisi del livello di
attività dei microRna in più di 500 frammenti di tessuti o di organi colpiti da tumore,
sono evidenti: 137 differenti microRna sono
espressi in almeno la metà dei tumori considerati e, di questi, 43 si comportano in
maniera tale da consentire agli scienziati di
distinguere tra tessuti normali e tessuti
maligni. Dei 43 microRna, inoltre, circa 21
si rivelano «difettosi» in almeno tre delle
neoplasie considerate e l’alterata attività di
alcuni di loro è comune a sei differenti tumori.
«La scoperta di questo marchio molecolare
comune a più tumori è importante», spiega
Croce, «perché mostra come molte forme
di cancro condividano gli stessi processi
genetici. Stringere il cerchio intorno alle
molecole di microRna più attive fornisce
una guida per orientarsi nella ricerca futura».
Sono già in corso esperimenti per ideare
nuove strategie di cura che abbiano come
mira proprio i microRna: la sperimentazione sugli animali è già cominciata e quella
sull’uomo è prevista entro l’anno. Secondo
i ricercatori, i microRna potrebbero essere
i bersagli d’elezione per una nuova generazione di terapie oncologiche. Il ruolo dei
microRna nel cancro potrebbe inoltre rivelare varie sfaccettature: queste molecole,
come gli oncogeni, potrebbero promuovere
la crescita delle neoplasie, oppure la loro
presenza, come fossero geni oncosoppressori, potrebbe essere determinante per prevenire il tumore. Lo stesso microRna, spiega Croce, potrebbe essere troppo abbondante in un tumore e carente in un altro, ovvero avere un ruolo diverso di tumore in tumore.
Gli stessi microRna potrebbero per questo
essere usati un giorno come trattamenti: se
si potessero sostituire microRna danneggiati
in alcuni tipi di cancro o eliminare quelli in
eccesso in altri, forse si potrebbero preveni-
re i primi passaggi che promuovono lo sviluppo di una neoplasia. «Ancora molto lavoro resta da fare», conclude Croce, «ma
siamo convinti che questo ambito della ricerca porterà a cure migliori e meno tossiche di quelle oggi disponibili».
vignette
notizie
dalla
scienza
la «firma molecolare»
dei tumori
ATTUALITÀ
da IL MANIFESTO, 11 febbraio
11
giornate di spiritualità
13-17 aprile
il peggio della quindicina
PASQUA IN CITTADELLA
conversazioni sul Mistero pasquale, fondamento della fede cristiana; liturgie del Triduo; processione cittadina del Cristo morto
28° seminario
LA COMUNICAZIONE NELLA COPPIA
28 aprile - 1° maggio
per coniugi, fidanzati, operatori sociali e pastorali
DIVERSI COME DUE GOCCE D'ACQUA
il maschile e il femminile alla prova, oggi
venerdì 28
ore 21,15
sabato 29
ore 9,00
9,30
15,30
domenica 30
ore 9,00
9,30
e 15,30
19,00
lunedì 1°/5
ore 9,30
12,00
performance interattiva a cura di Franco Narducci, attore
spazio di preghiera animato dai Volontari della Cittadella (in cappella)
tavola rotonda: il maschile e il femminile alla prova, oggi
Elena BESOZZI, sociologa della conoscenza; Giancarlo BRUNI, biblista; Rosella DE LEONIBUS, psicologa e psicoterapeuta
coordinano Donata e Nino DE GIOSA, Volontari della Cittadella
la coppia si racconta: testimonianza di Cornelia DELL’EVA e Francesco COMINA
filo diretto con i relatori
presentazione dei laboratori e dei gruppi di approfondimento
spazio di preghiera animato dai Volontari della Cittadella
visto da lei, visto da lui: laboratori e gruppi di approfondimento
laboratori:
Luigi Bovo, psicoanalista: Perché le donne non sanno leggere le cartine e gli uomini non si fermano mai a chiedere?
Rosella De Leonibus: Marte e Venere in camera da letto
Carmelo Di Fazio, neuropsichiatra: Quali i rischi dell’indifferenziazione?
gruppi di approfondimento:
Elena Besozzi: in dialogo con i partecipanti
Giancarlo Bruni: Ossa delle mie ossa, carne della mia carne (Gen 2,23)
Francesco Comina-Cornelia Dell’Eva: casa-lavoro-tempo libero
liturgia eucaristica
quali nuovi orizzonti? confronto in assemblea con i relatori e gli animatori dei laboratori e dei gruppi
pranzo e partenze
i relatori: Luigi BOVO, psicoanalista dell’Istituto Aberastury, Perugia; Giancarlo BRUNI, biblista, della Comunità di Bose; Francesco COMINA, editorialista de
‘L’Adige’, Bolzano; Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta, Perugia; Cornelia DELL’EVA, incaricata Stampa all’università di Bolzano; Carmelo DI FAZIO,
neuropsichiatra e psicoterapeuta, Busto Arsizio/VA
4° Convegno Terza Età
14-17 maggio
PADRI E FIGLI... NEL FLUIRE DELLE GENERAZIONI
'proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato e il germoglio che ti sei coltivato' (Salmo 80, 16)
Nella problematicità dei rapporti tra giovani e adulti, come è possibile attuare la trasmissione di cultura per una umanizzazione della società?
Le generazioni potrebbero incontrarsi nella comunicazione non secondo uno schema piramidale, oggi improponibile, ma nella convergenza e nell’amore,
nella valorizzazione e nella lettura, anche se differenziata, delle proprie esperienze di vita.
Nello sviluppo del tema si alterneranno esperti con lezioni e attività laboratoriali.
i relatori: Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta; Tonio DELL’OLIO, teologo; Roberto SEGATORI, sociologo; Tullio SEPPILLI, antropologo
informazioni - iscrizioni:
Cittadella Ospitalità - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG – tel. 075813231; fax 075812445
e-mail: [email protected] – internet: www.cittadella.org
Raniero
La Valle
D
ice Johan Galtung, che è uno
«scienziato dei conflitti», che
quando c’è una crisi bisogna andare a vedere che cosa è successo
prima, anche molto prima, per
capire come è sorta e come si può
risolvere. Per esempio per capire l’attuale furore dell’Islam egli ricorda che al tempo della
prima guerra mondiale l’Inghilterra aveva
promesso ai popoli dominati dall’Impero ottomano che, se se ne fossero affrancati, avrebbero ottenuto l’indipendenza; e invece, finito
quell’Impero, essi sono stati di nuovo assoggettati in colonie, mandati ed occupazioni militari di altri Imperi.
Così è abbastanza ridicola la gran discussione che si è fatta in questi giorni per chiedersi,
increduli, se c’è proporzione tra una semplice vignetta pubblicata in un giornale un po’
razzista di un Paese relativamente piccolo e
periferico dell’Occidente come la Danimarca,
e l’insurrezione delle masse islamiche nel
mondo intero, dal Maghreb al Libano, alla
Somalia, al Kashmir, all’Indonesia. È evidente che non c’è proporzione. Se quel vignettista pensasse di avere creato lui tutto questo
sconquasso, sarebbe affetto da delirio di onnipotenza. Anche tenendo conto dell’atteggiamento anti-iconico dell’Islam, in una civiltà
tutta piena di immagini anche i musulmani
sono abituati a vedere senza batter ciglio immagini religiose e perfino caricature; certo la
satira religiosa non piace a nessuna religione, ma il mondo è il mondo, e anche Rocca
pubblica una pagina di vignette in cui talvolta figurano Papa, cardinali e perfino Komeini; e non s’è mai vista alcuna rivolta.
Dunque è chiaro che una vignetta di per sé è
inadeguata a sommuovere il mondo; a meno
che non sia il classico fiammifero che cade
su un barile di polvere. E a quel punto diventa del tutto irresponsabile, per l’Occidente,
trincerarsi dietro la superiorità del proprio
principio della libertà di stampa, rifiutare di
presentare le scuse richieste dalla parte comunque offesa, e anzi dare la stura alla ripubblicazione delle stesse vignette o di altre
ormai scientemente antislamiche, in nome
della democrazia che noi abbiamo e che loro
non hanno. Così facendo non solo aggiunge
insulto ad offesa, e umiliazione ad umiliazione, ma mentre attacca il fondamentalismo
altrui, trasforma un principio di libertà in un
feticcio, un idolo, un tabù in casa propria.
Quello che bisogna capire è perché in tutto il
mondo arabo e islamico si bruciano le ban-
diere, si attaccano le ambasciate e si grida
contro l’Occidente. Non certo perché sono i
governi a sobillare, perché in tal caso non lo
farebbero quelli messi su dagli americani; né
si tratta solo di fanatici, perché la dimensione di massa del fenomeno non consente questa analisi. Se lo fanno, probabilmente è perché non ne possono più. Una lunga catena di
cause, in cui molto hanno giocato la protervia e l’incultura dell’Occidente, ha portato le
masse arabe e musulmane ad accumulare un
potenziale di rivolta, che può non esplodere
solo se trova la via di un’emersione e di una
fuoruscita politica. Se ci si chiede ad esempio perché il popolo più moderno e laico del
Medio Oriente, quello palestinese, ha votato
in massa per Hamas, è facile dire che questa
è stata da un lato una risposta alla liquidazione della politica di Arafat da parte di Israele e
dell’Occidente, dall’altro è stato il tentativo
estremo di esperire la via politica invece della lotta armata prima della archiviazione definitiva delle speranze di avere uno Stato; e
che sia in crisi questa speranza è mostrato
dal fatto che, proprio nel pieno della collera
suscitata dalle vignette, il primo ministro israeliano Olmert ha dichiarato di volersi annettere la Valle del Giordano e tutte le terre occupate dai coloni.
Allora la conclusione è molto semplice. Volete lo «scontro di civiltà»? Non ci vuole niente,
ed ecco lo avete. L’Italia del resto, sempre zelante, ci era arrivata per prima: fin dal «Nuovo Modello di Difesa» adottato nel 1991 dopo
la rimozione del muro di Berlino e la I guerra
del Golfo, essa aveva sancito che, venuto
meno il comunismo, lo scontro sarebbe stato
ormai con l’Islam; si trova scritto infatti in
quel documento strategico che il Mediterraneo e il Medio Oriente sarebbero stati il teatro di un «più generale confronto tra una realtà culturale islamica e i modelli di sviluppo
del mondo occidentale», e che «il conflitto
arabo-israeliano, nella sua contrapposizione
tra tutto il mondo arabo da un lato, sia pure
con formule e sfumature diverse, ed il nucleo
etnico ebraico dall’altro, può essere considerato un’emblematica chiave interpretativa del
rapporto Islam-Occidente».
L’interpretazione razzista e religiosa del conflitto israelo-palestinese che era in atto e del
conflitto futuro tra l’Occidente e il resto del
mondo ancora da bonificare, era già seminata lì. Adesso è il momento di rendersi conto
dei suoi frutti, e di correre ai ripari.
❑
13
ROCCA 1 MARZO 2006
Cittadella Ospitalità
RESISTENZA E PACE
SICUREZZA ENERGETICA
Maurizio
Salvi
n attesa che il Panicum virgatum (una
pianta delle graminacee conosciuta in
italiano come panico verga) sia in grado di contribuire alla produzione di
etanolo a basso costo, come ha assicurato il presidente statunitense George W. Bush nel suo discorso sullo Stato
dell’Unione all’inizio di febbraio, la questione della sicurezza energetica è divenuta un autentico incubo per i governi del
mondo ed in particolare per quelli, come
Usa, Cina, India e Europa, che sono importatori netti di risorse energetiche come
petrolio o gas.
I
imperialismo russo
ROCCA 1 MARZO 2006
L’occasione ravvicinata per evocare questo
problema si è avuta nel G8 svoltosi sotto
presidenza della Russia a Mosca il 10 e 11
febbraio, occasione in cui verbalmente il
Ministro delle Finanze russo, Aleksei Kudrin, non ha risparmiato promesse e garanzie di forniture di gas per il futuro al
mondo intero. Anche se alla richiesta chiave, quella di ratificare la Carta dell’Energia messa a punto nel 1991 dall’Unione
europea (Ue) per il commercio energetico
con l’est europeo, ha detto che per il momento Mosca «non era ancora pronta a
fare questo passo». Se avesse detto sì al
documento, Kudrin avrebbe praticamente rimesso in discussione il monopolio per
le esportazioni di cui gode il gigante statale Gazprom, e che di recente il quotidiano
britannico The Guardian ha definito stru14
mento di una sorta di «imperialismo energetico». Non diverso comunque da quello
in passato esercitato dalle leggendarie ‘Sette Sorelle’ (le più grandi multinazionali petrolifere) ed in certi momenti perfino dall’Opec, l’organizzazione dei Paesi maggiori produttori di petrolio.
L’Europa affronterà di nuovo la questione energetica nel Vertice europeo di marzo e Martin Bartenstein, Ministro dell’Economia austriaco – Vienna esercita la
presidenza di turno comunitaria – ha sostenuto che «tutta l’Europa deve ripensare la sua politica energetica» puntando «a
sicurezza dell’approvvigionamento, diversificazione delle fonti, competitività dei
prezzi e possibili strategici investimenti
futuri nel settore».
sia all’Ucraina, e successivamente il pesante confronto fra Occidente e Iran sui
programmi nucleari di Teheran che ha spinto la Repubblica islamica, non solo ad avvertire di volere comunque andare avanti
nella ricerca atomica, ma anche a brandire
la minaccia di rappresaglie petrolifere. Se
a questo poi si volessero aggiungere l’attacco da parte di non meglio definiti ‘movimenti di liberazione’ alle istallazioni della
Shell in Nigeria e la decisione del nuovo
presidente della Boliva, Evo Morales, di
nazionalizzare il settore degli idrocarburi,
si percepirà che effettivamente esistono
tutti gli elementi per fare di quello in corso
un anno di forti tensioni sul pianeta energetico, in particolare per quanto riguarda i
prezzi.
scenario mutato
saltano le regole
Le diplomazie erano abituate a destreggiarsi nelle fluttuazioni dei prezzi del petrolio, ma dalla decisione di Washington
di invadere l’Iraq, e per la presenza più
aggressiva della Cina nello scenario mondiale, la questione è completamente mutata ed oggi sussulti energetici che in passato potevano essere perfettamente controllati, sono invece considerati della
massima gravità. E così, per confortare
il proverbio per cui ‘il buon giorno si vede
dal mattino’, va detto che il 2006 è cominciato con due crisi a sfondo energetico di grande livello: la ‘guerra’ MoscaKiev sul prezzo del gas fornito dalla Rus-
A mettere in difficoltà le economie del
Nord del mondo vi è anche una lenta ma
sempre più chiara presa di distanze dei
paesi produttori di idrocarburi dalle regole che fino ad ora hanno governato il
commercio di petrolio e gas. Per non parlare poi dei danni incalcolabili che ha
causato a paesi come Italia, Germania o
Giappone, la decisione di occupare
‘manu militari’ i pozzi petroliferi iracheni, con la scusa ufficiale di volerli preservare «per il bene della democrazia»,
ma in realtà per assegnarli in gestione
alle compagnie multinazionali degli Stati
Uniti e degli altri principali Paesi alleati
15
ROCCA 1 MARZO 2006
un problema
planetario
SICUREZZA
ENERGETICA
congiuntura senza alternative
Gli analisti concordano nel sostenere che
l’evento che potrebbe aprire prospettive
di grande incertezza a livello mondiale è
l’eventuale decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di imporre sanzioni all’Iran per la sua politica nucleare. E David Butter, economista capo della Economist Intelligence Unit, ha di recente osservato in questo ambito che «se la situazione in Iran diventasse più tesa, non sarebbe da escludere per quest’anno un barile di petrolio a 90 dollari». Questo perchè nonostante la disponibilità dell’Arabia saudita ad aumentare la sua produzione fino a undici milioni di barili al giorno (ora è a 9,5 milioni), un’eventuale sospensione delle esportazioni iraniane creerebbero una penuria di 2,5 milioni di
barili quotidiani che si aggiungerebbe alla
riduzione della produzione del 10% già
fatta registrare dagli atti di violenza in Nigeria.
Questa emergenza coglie sia i governi sia
le stesse imprese del ramo sostanzialente
impreparate sulle alternative da studiare
cep
centro
educazione
permanente
CORSO QUADRIENNALE
DI MUSICOTERAPIA
Assisi
IL CORSO SI ARTICOLA IN:
• uno stage residenziale estivo di due settimane ogni anno
• un tirocinio di 250 ore dopo la frequenza del 2° anno
ROCCA 1 MARZO 2006
REQUISITI DI AMMISSIONE:
diploma di scuola secondaria superiore e diploma di Conservatorio o almeno del compimento medio
Il CORSO QUADRIENNALE, istituito sin dal 1981, è finalizzato
all’acquisizione di competenze musicoterapiche di base,
utilizzabili in differenti contesti (educativo-preventivo,
riabilitativo, terapeutico e di integrazione sociale).
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16
per affrontare questa complessa congiuntura. E non basta osservare, come ha fatto Claude Mandil, direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie),
che «il problema non è il gas russo, ma
Gazprom. E i consumatori occidentali
non possono acquistarlo se non passando attraverso una società monopolistica,
diretta dal Cremlino». La verità è che il
fattore di rischio più evidente ha un carattere economico e riguarda gli insufficienti investimenti nel campo dell’esplorazione-produzione.
Secondo una valutazione offerta dal quotidiano Le Monde (14 febbraio 2006),
«essa priva i paesi consumatori di cinque
milioni di barili al giorno che permetterebbero di compensare una eventuale rottura delle forniture provenienti da Iran,
Nigeria o dal Venezuela, che sono i tre
paesi a rischio maggiore».
Quest’anno la domanda di greggio crescerà, secondo l’Aie, del 2,2%, gli Stati Uniti
resteranno i maggiori consumatori (un
quarto del totale) mentre la Cina diventerà ancora più vorace, con una crescita di
consumo del 6,6%. E agli esperti non è
sfuggito il viaggio a Pechino del re Abdallah – il primo di un monarca saudita in
territorio cinese – che si è concluso con
la firma di un protocollo d’accordo che
evoca piani di cooperazione di alto livello nei settori petrolifero, gasifero e minerario.
Europa senza strategie
Questa realtà spinge gli Usa alla diversificazione degli approvvigionamenti energetici, già avviata anni fa con la creazione
di un mercato petrolifero in Asia centrale
e in Africa occidentale. Una strategia non
adottata invece dall’Europa che è quasi
totalmente dipendente per le sue forniture di petrolio da un piccolo gruppo di paesi dell’area mediorientale (Iran, Arabia
saudita e Kuwait) che racchiudono riserve per 1.278 miliardi di barili. Ma anche
qui esistono dubbi e pericolose ipotesi
che, se confermate, potrebbero infiammare i mercati energetici.
Dopo i dubbi avanzati da Matthew Simmons, un uomo d’affari texano esperto in
questioni petrolifere, sulle riserve reali
dell’Arabia saudita, ora il settimanale ‘Petroleum Intelligence Weekly’ punta in direzione del Kuwait le cui riserve di ‘oro
nero’, sostiene, potrebbero essere due volte inferiori alle cifre ufficialmente fornite.
Maurizio Salvi
OLTRE LA CRONACA
Romolo
Menighetti
L
Foibe
a «Giornata del ricordo delle foibe
e dell’esodo degli italiani dalla Venezia Giulia e dall’Istria» intende
ricordare i nostri connazionali uccisi in quelle terre, perché fascisti
o semplicemente perché italiani,
tra il 1943 e il 1945, per mano dei partigiani jugoslavi. Fortemente voluta dalla Destra, è stata istituzionalizzata con legge del
2004 nella giornata del 10 febbraio. Stime
di parte italiana fanno ammontare le vittime a 4500. Particolarmente crudele fu il
modo con cui furono perpetrati questi crimini: le persone furono gettate, ancora vive
in gran parte, nei profondi crepacci carsici, le foibe. La Giornata ricorda anche l’esodo forzato di migliaia di giuliano-dalmati,
costretti ad abbandonare case e beni, avendo scelto di voler continuare ad essere italiani.
Le foibe sono una brutta pagina per tutti.
Per i partigiani jugoslavi autori del massacro. Per i comunisti italiani, che avvolsero
nel silenzio tali crimini in quanto pare fossero coinvolti, dalla parte dei carnefici,
anche alcuni dei loro. Per il governo italiano, che al fine di non rompere i delicati
equilibri della Guerra fredda, rinunciò ad
indagare. E soprattutto per i fascisti, in
quanto l’intreccio di odi e di atrocità che
portò a quelle tragedie ebbe origine dalla
politica di Mussolini e dalla successiva invasione militare della Jugoslavia, assieme
ai nazisti, nel 1941. Le foibe si configurano come non giustificabile reazione di
un’etnia che si vendica nei confronti degli
appartenenti ad una nazione che aveva collaborato al tentativo di «pulirla».
Conviene perciò, onde meglio capire, tracciare alcune linee di storia.
Con il trattato di Rapallo del 1920 vennero assegnati all’Italia alcuni territori della
Slovenia e della Croazia. Il governo fascista avviò su questi una politica di italianizzazione forzata della popolazione (divieto dell’uso del serbo-croato, imposizione della lingua italiana negli uffici pubblici e nelle scuole, italianizzazione dei cognomi). Non mancarono, inoltre, scorribande nelle città e nei villaggi per scoraggiare ribellioni. Centinaia furono i processi intentati dai tribunali speciali, molti dei
quali finirono con condanne a morte.
Nel 1941 la situazione si aggravò con l’aggressione militare nazifascista alla Jugoslavia. Questa portò alla costituzione dello stato fantoccio di Croazia guidato dagli
ustascia di Ante Pavelic, che avviò una politica di sanguinaria repressione nei confronti dei serbi. Anche le truppe italiane,
nelle zone da loro occupate, si macchiarono di stragi, incendi di villaggi e deportazioni in campi di concentramento, dove
altissimo fu il numero dei morti per fame,
malattie e sevizie. Si stimano in un milione le vittime della repressione nazifascista
(www.ciari.net/foibe).
Va ricordato in particolare il lager di Arbe,
uno dei tre campi di concentramento gestiti dagli italiani. In esso furono rinchiusi
15000 internati, sottoposti ad un regime
di detenzione così duro che vi furono circa 1200 morti, stando ai calcoli di Bodizar
Jezernik, storico e preside della facoltà di
Lettere all’Università di Lubiana. Il campo di Arbe è stato definito «il più grande
cimitero Sloveno».
Le stragi compiute dall’esercito italiano in
Slovenia demitizzano il mito degli «italiani brava gente», mito che tra l’altro Mussolini detestava, stando a quanto disse in
un incontro con i suoi generali a Gorizia,
nel luglio 1942: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali, incapaci di essere duri quando
occorre» (Riccardo Staglianò, Quando gli
italiani uccidevano, in «La Repubblica» 30
ottobre 2003).
Secondo il documentario Fascist Legacy
(L’eredità del fascismo, regia di Ken Kirby,
consulenza storica di Michael Palumbo),
prodotto e trasmesso dall’inglese Bbc in due
puntate l’1 e l’8 novembre 1989, ma mai trasmesso dalla Rai, i crimini sistematicamente commessi dall’Italia fascista nella costruzione del suo impero, in nome della «superiore civiltà italica» e della «missione civilizzatrice», avrebbero, per difetto, causato
la morte di 250.000 jugoslavi, 100.000 greci, 100.000 libici, 300.000 etiopi.
Questo dunque è il contesto entro cui inquadrare la tragedia delle foibe. Farne
memoria senza strumentalizzazioni è oggi
l’unico modo per ricordare quelle vittime
dignitosamente.
❑
17
ROCCA 1 MARZO 2006
intervenuti a Baghdad.
FINANZA
campagna
contro
le banche armate
18
I
venienti dalla società civile, dalle imprese e dai governi hanno creato i presupposti per la fine dell’apartheid. Anche in Italia ci furono campagne di pressione sulle
società presenti nel Paese africano ed in
particolare sulle banche, Rocca fece la sua
parte annullando la pubblicità di un istituto di credito sulle proprie pagine, rinunciando ad un finanziamento non disprezzabile.
controllo attivo dei cittadini
Più recentemente, nel 1999 è nata la Campagna sulle banche armate, promossa dalle riviste Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico di pace, per favorire un controllo attivo
dei cittadini sulle operazioni di appoggio
alle esportazioni di armi e per la fuoriuscita dalle banche da tale attività, peraltro
legale e regolamentata dalla legge 185 che
disciplina tale settore. La Campagna chiedeva ai cittadini di non chiedere finanziamenti alle predette banche armate. Si trattava di un’azione nonviolenta che invitava
a non collaborare con chi aiutava in qualche modo il commercio delle armi. Del
resto non è accettabile che i soldi dei cittadini siano utilizzati per creare lutti e rovine con tali vendite, anziché benessere e
sviluppo.
Un recente convegno romano, organizzato dalla Campagna, è stato il primo mo-
le principali banche nell’export di armi
chi riarma, chi sta disarmando, le new entry: due trienni a confronto
triennio 1999-2001 (valori in milioni di euro)
1999
Unicredito Italiano
644,5
Capitalia
64,9
Banca Intesa
189,0
Banca Nazionale Lavoro
48,6
Gruppo Bancario San Paolo Imi
78,3
Banco Bilbao Vizcaya Argentaria
Credit Agricole Indosuez/Calyon
Bnp Paribas
32,0
Barclays Bank
1,3
Banco Santander Central Hispano
Gruppo Mps
0,9
Arab Banking Corporation
16,2
2000
106,6
357,9
184,8
61,9
21,5
2001
55,6
190,9
78,3
104,6
48,9
46,7
40,2
3,1
27,2
19,7
14,7
Totale
806,7
613,7
452,1
215,1
148,7
46,7
40,2
32,0
28,5
19,7
18,7
16,2
%
33,1
25,2
18,5
8,8
6,1
1,9
1,6
1,3
1,2
0,8
0,8
0,7
Totale
724,3
538,5
279,1
237,4
177,4
151,8
141,2
120,3
87,3
82,1
70,0
53,4
%
27,2
20,2
10,5
8,9
6,7
5,7
5,3
4,5
3,3
3,1
2,6
2,0
triennio 2002-2004
Capitalia
Gruppo Bancario San Paolo Imi
Banca Nazionale Lavoro
Banco Bilbao Vizcaya Argentaria
Banca Intesa
Unicredito Italiano
Banca Antonveneta
Credit Agricole Indosuez/Calyon
Cassa di Risparmio della Spezia
Barclays Bank
Société Générale
Banca Popolare di Milano
2002
98,4
80,6
137,8
216,0
56,8
99,6
6,9
2003
229,8
91,8
69,7
5,2
97,4
31,9
13,3
2,3
31,3
34,1
22,7
70,0
2004
396,1
366,1
71,6
16,2
23,2
20,2
121,0
120,3
50,9
28,1
53,4
ROCCA 1 MARZO 2006
ROCCA 1 MARZO 2006
Luciano
Bertozzi
recenti scandali finanziari avranno,
probabilmente, anche un riflesso positivo. I risparmiatori stanno prendendo coscienza della necessità di chiedere conto alle banche dell’utilizzo dei
propri soldi. Come si è verificato nel
settore alimentare a seguito della «mucca
pazza», che ha costretto tutti a guardare
con molta attenzione cosa si mangia, la
stessa situazione si sta verificando per i
mercati finanziari.
L’esigenza di maggiore trasparenza e di
etica pone ciascuno di noi di fronte a scelte importanti: non più la ricerca del massimo profitto, bensì soluzioni che non si
traducano in sfruttamento per alcuni. Si
aprono nuove prospettive, quindi, per la
cosiddetta finanza etica, cioè attività finanziarie finalizzate anche alla responsabilità
sociale d’impresa, termine che va tanto di
moda ed a cui proprio le banche hanno
dedicato tanti convegni.
Non bisogna dimenticare che non si parte da zero. In passato sono stati raggiunti
importanti risultati, grazie alle pressioni
internazionali che hanno spinto il mondo imprenditoriale a disinvestire dal Sud
Africa quando il razzismo era imposto per
legge. Negli anni ’80, ad esempio, soprattutto in Regno Unito chi utilizzava carte
di credito di banche notoriamente finanziatrici del regime sudafricano era visto
con riprovazione. Le spinte congiunte pro-
Fonte: “Missione oggi” - gennaio 2006
19
la risposta di enti locali
ROCCA 1 MARZO 2006
Il punto di vista della Campagna, lo ha sottolineato Carmine Curci direttore di Nigrizia, è quello dei popoli del Sud del mondo
che vedono le armi quali strumento della
propria oppressione e di sottosviluppo.
Rimane la questione di allargare il fronte
all’Europa, cioè di un allargamento alla
società civile degli altri paesi europei, una
sfida inevitabile in tempi di globalizzazione delle economie.
Il problema, del resto, interessa anche gli
enti locali, le istituzioni più vicine ai cittadini e da questi ultimi eletti. Si stanno
moltiplicando Comuni e Province che fra
gli elementi di valutazione nella scelta delle
banche presso le quali svolgere le proprie
attività di riscossione includono anche l’assenza dalla lista delle cosiddette «banche
armate». Fra gli altri casi sono da citare i
comuni di Pavia e di Firenze; il comune di
20
Roma è andato anche oltre dotandosi di
un regolamento sulle sponsorizzazioni etiche, che dalla fine del 2006 sarà esteso
anche alle banche. In altre parole la Capitale non utilizzerà sponsor presenti nel
commercio delle armi. Si tratta di un passo concreto che ha visto alleati società civile ed enti locali nella diffusione della cultura della pace. Tali iniziative rappresentano un argine alla militarizzazione della
nostra politica estera ed anche dell’economia visto che Finmeccanica sta crescendo
in continuazione nel settore militare ed è
ormai fra i principali produttori di armi al
mondo. Del resto la riconversione produttiva dal militare al civile è una scelta obbligata, anche dal punto di vista economico.
problemi nel mondo del lavoro
Gli esempi potrebbero continuare, ad ogni
modo è da segnalare un ulteriore settore
di intervento: gli investimenti dei fondi
previdenziali. È dei giorni scorsi l’annuncio che il fondo previdenziale pubblico
norvegese Global ha venduto, secondo il
Guardian, la propria quota di azioni
Finmeccanica oltre che di altre industrie
militari americane. Il motivo? Perché l’holding italiana possiede il 25% della società
Mdba che è impegnata nella realizzazione
di missili nucleari. Com’è noto la legge italiana vieta la partecipazione al nucleare
militare. Su questo c’è la smentita da
Finmeccanica, ed i sindacati hanno chiesto chiarimenti.
I sindacati possono svolgere un ruolo significativo della finanza etica, ad esempio
in merito alla previdenza complementare.
Proprio le organizzazioni dei lavoratori
della Deutsche Bank – ha ricordato il responsabile internazionale dei metalmeccanici Cisl – Alioti, hanno di fatto imposto
che gli investimenti del fondo di tale banca non siano indirizzati in azioni di aziende della difesa. Lo stesso problema si è presentato a Cometa, il fondo integrativo contrattuale dei metalmeccanici: i sindacalisti hanno chiesto una cosa analoga ma si
sono visti il rifiuto dei rappresentanti di
Confindustria, per cui l’iniziativa si è bloccata. I sindacati debbono essere in prima
linea nello spezzare il connubio finanza
armi: i lavoratori hanno tutto da guadagnare da un mondo in cui le armi siano
poste fuori dalla storia.
mafie
PAROLE CHIAVE
Romolo
Menighetti
e mafie sono organizzazioni, non
necessariamente circoscritte territorialmente, in grado di imporre
alla maggioranza dei cittadini che
vivono entro il loro raggio di azione, norme a proprio vantaggio, quasi sempre con la violenza, in contrasto con
le leggi vigenti.
Non tutte le forme di illegalità sono mafia.
Occorre, infatti, che i soggetti che violano le
norme siano in grado di bloccare, in qualche modo, i meccanismi sociali di sanzionamento del comportamento illegale.
Presso popolazioni sulle quali il potere centrale cerca di imporre modelli sociali ed economici che sono recepiti come estranei alla
propria cultura e tradizione, la mafia può
assumere le sembianze di una «resistenza».
È il caso della mafia nel Sud Italia dopo
l’Unità. Se poi le popolazioni vivono in situazione di povertà, l’illegalità sistematica
si può diffondere come conseguenza dello
sviluppo insufficiente, della disoccupazione, delle anomalie del mercato del lavoro,
della mancanza di una politica economica
finalizzata alla giustizia sociale.
Per contro le mafie, intese soprattutto come
economie illegali, possono anche essere la
conseguenza di uno sviluppo economico e
sociale secondo il modello della globalizzazione neoliberista. È questo il caso oggi di
gran lunga prevalente.
Certo, i comportamenti mafiosi, nel passato, hanno avuto origine da vari fattori:
ambientali, sociali, antropologici. Erano
anche il frutto di culture subalterne, tradizioni familiari, popolari, e anche religiose. Ma il comportamento mafioso si è sviluppato soprattutto entro il solco dell’interesse economico (mafia del feudo, mafia del mattone, mafia della droga), inserendosi parassitariamente là dove i profitti erano cospicui, intessendo alleanze con
chiunque, titolare di potere politico economico e sociale, potesse legittimarla, radicarla, rafforzarla.
La mafia non ha ideali, né appoggia per sempre una data parte politica. Entro questa logica oggi le mafie trovano nell’economia globale il loro più ampio bacino operativo, anche se non disdegnano il piccolo cabotaggio. La grande facilità con cui i soldi si possono spostare da un capo all’altro del globo,
L
determinano il passaggio di enormi capitali
dall’economia produttiva a quella speculativa, che grazie all’elettronica sorvolano frontiere ed eludono controlli. Si favorisce così
la mescolanza tra capitali puliti e non puliti.
In questo contesto oggi si sviluppano gli interessi e gli affari delle mafie, le quali si sono
trasformate sostanzialmente in un sistema
di interessi che si instaura tra l’attività di accumulo di capitali, la criminalità organizzata e i vari poteri politici.
I tratti salienti dell’attività mafiosa sono la
natura illegale del prodotto (droga, armi),
ovvero l’esercizio abusivo di un servizio (protezione), ovvero l’ingiusto accaparramento
di attività legali (appalti, commesse).
La particolare risorsa su cui le mafie possono contare è la fedeltà – l’omertà – tra i
suoi membri e complici. Una fedeltà che è
funzione del forte grado di controllo sull’attività dei membri dell’organizzazione
criminale, che deve essere assai più forte
di quanto non avvenga in una normale impresa legale. Tale controllo è enormemente facilitato dalla pratica della violenza.
A questo punto è utile chiedersi quali siano i meccanismi che determinano il consenso nei confronti di organizzazioni che
compiono azioni illegali.
Una delle principali ragioni sta nella loro capacità di fornire un servizio di controllo e
garanzia della «correttezza» delle transazioni. Tale servizio dovrebbe essere reso dallo
Stato, titolare del potere di controllo. Là dove
lo Stato non è in grado di fornirlo, prosperano le mafie. Questo tipo di «servizio» è deleterio per la società civile, perché l’organizzazione criminale assicura e garantisce solo
i suoi membri e non la collettività. Inoltre
entrando in competizione con lo Stato, contribuisce a generare sfiducia in esso, innescando così un circolo sempre più vizioso.
La lotta alle mafie implica perciò, da un
punto di vista sostanziale, un recupero da
parte dello Stato di tutte le sue funzioni
(garanzia, controllo, giudizio, sanzione,
promozione dello sviluppo e della legalità). Sul piano operativo, l’ambito entro il
quale esso deve principalmente indagare
ed intervenire è oggi quello facente capo
al sistema creditizio, diventato lo snodo
principale attraverso il quale passa gran
parte dell’attività illegale di tipo mafioso.
Luciano Bertozzi
21
ROCCA 1 MARZO 2006
FINANZA
mento di confronto pubblico fra la società
civile e le banche. La proposta lanciata
dalla Campagna di un osservatorio permanente su banche ed esportazione di armi,
ha raccolto la disponibilità di Capitalia,
uno dei principali gruppi di credito italiani. In questo modo banche, sindacati, enti
locali e società civile «etica» potrebbero
monitorare il fenomeno.
Essa ha avuto il merito di tenere alta l’attenzione sul mercato delle armi e i suoi
intrecci con il mondo della finanza. «Abbiamo chiesto alle banche chiarezza e trasparenza sulle operazioni di sostegno all’export armiero – ha affermato Giorgio
Beretta, coordinatore della Campagna – ed
una buona fetta di opinione pubblica ha
colto le ragioni del nostro agire e ha sollecitato le banche a modificare i loro comportamenti.
In effetti nel corso di questi anni molti istituti hanno fortemente ridimensionato il
loro contributo al settore, e in alcuni casi
sono usciti completamente dal business
delle armi».
Infatti il direttore generale di Capitalia,
Carmine Lamanda ha affermato che la sua
società nel 2005 ha diminuito del 70%
l’esposizione nel sostegno al settore delle
armi e che la legge 185 del 1990 che regolamenta questo particolare commercio è
forte di un buon impianto che va mantenuto intatto.
Grazie alle pressioni della Campagna alcuni importanti banche sono uscite o hanno annunciato l’intenzione di uscire da
questo business.
POLITICA ITALIANA
a sinistra
della
sinistra
I
gli arrabbiati
ROCCA 1 MARZO 2006
Siamo, ormai, alla vigilia delle elezioni
politiche, in una fase piuttosto concitata,
per non dire drammatica, della nostra vita
democratica: è logico, quindi, che le voci
«arrabbiate» si facciano sentire anche con
una certa aggressività che rasenta la violenza. È anche logico che approfittino delle circostanze offerte dal momento, «ca22
valcando» – come si suol dire – le situazioni più opportune, dal percorso dei treni fra
l’Italia e la Francia all’eterno antico problema dell’energia.
È anche logico che le forze di sinistra –
soprattutto quelle meno «riformiste» – cerchino di cavalcare la protesta, facendola
rientrare, per quanto possibile, nella dialettica politica che cerca non tanto lo scontro quanto la vittoria democratica. È quello che in questo periodo sta cercando di
fare Bertinotti con Rifondazione. E, a
quanto sembra, con un certo successo.
Ma il problema rimane. Ancora una volta
una quadratura del cerchio. Non ignorare
le voci «arrabbiate», ma farle rientrare
nell’ambito dei metodi democratici, evitando ogni forma di violenza.
al limite tra il legale e l’illegale
Non sarà facile. Bisognerà, prima di tutto,
riconoscere le loro ragioni. Non si tratta
di follie, ma di richieste spesso legittime,
ricche di una buona dose di ragionevolezza. Senza riconoscere, invece, i torti: il reato deve rimanere tale se non si vuole veramente sovvertire l’ordine legale e democratico. La violenza va ancora e sempre
condannata: non risolve i problemi ma li
aggrava.
Ma non è facile delineare i confini. Spesso
non si tratta di un nero ben distinguibile
dal bianco, ma di un grigio: un terreno al
limite fra il legale e l‘illegale. Gli stessi mass
media sono incerti, talvolta la stessa magistratura. Non serve tagliare con il coltello –
come si suol dire – i torti dalle ragioni. Gli
uni e le altre abitano quasi sempre da tutte
e due le parti. Sono aumentati e la complessità dei problemi e la diffusione delle
notizie. Al fondo di tutto, la questione della
verità, sempre più condizionata e quindi più
lontana, meno a portata di mano del cittadino anche attento, anche bene informato.
reciproca collaborazione
Allora una sola conclusione è possibile: evitare i giudizi facili e le prese di posizione
parziali ed affrettate. Informarsi, comprendere, riconoscere i torti e le ragioni sia dei
contestatori che dei contestati. Cercare di
inquadrare i singoli episodi in un quadro
politico più ampio che tenga conto e della
contestazione in atto e di tutti quegli elementi che le stanno alle spalle: storie, capitali, problemi.
Anche dal punto di vista dello scontro fra
sinistra radicale e sinistra riformista le prossime elezioni saranno significative. In caso
di vittoria sarà possibile la reciproca collaborazione? Le premesse permettono una
risposta affermativa.
Filippo Gentiloni
23
ROCCA 1 MARZO 2006
Filippo
Gentiloni
nomi sono svariati, ma i gruppi designati, anche se non numerosissimi,
rappresentano un problema politico
unitario e di una certa importanza. Si
parla di no global, ma anche di antagonisti e di contestatori.
Il governo preferisce parlare di «anarco
insurrezionalisti», mentre nella «sinistra
riformista», proprio quella che i contestatori contestano, alcuni, rifacendosi alla storia, parlano di «luddismo culturale». Non
è, dunque, una novità. A sinistra della sinistra si schierano gruppi che sono insoddisfatti della sinistra, delle sue mediazioni
e dei suoi compromessi: sostengono posizioni più radicali, temono che la sinistra
più moderata – «riformista» appunto – finisca assorbita dal centro e quindi da una
destra sempre più potente ed egemone.
Necessità, quindi, di metodi e strumenti
anche al di fuori dei canoni delle democrazie parlamentari.
ROCCA 1 MARZO 2006
Davide
Romano
24
il rapporto
mafia-politica
S
enza il rapporto con la politica – un
rapporto antico che, secondo alcuni
storici, inizia con la stessa storia
unitaria –, la mafia non sarebbe
mafia, ma solo criminalità comune,
e di conseguenza per indagarla non
ci sarebbe neppure bisogno di una apposita
Commissione parlamentare permanente.
A che punto è oggi il rapporto tra mafia e
politica?
Nella cosiddetta Prima Repubblica il rapporto tra mafia e politica era forte e talmente
stretto da provocare guasti profondi in parti
molto vaste del nostro territorio. Nella generalità dei casi esso era di mediazione perché la politica non sempre esprimeva direttamente una rappresentanza mafiosa; e ciò
per la fondamentale ragione che la politica
e i partiti erano forti e legittimati di fronte
all’opinione pubblica locale e nazionale.
Non avevano bisogno di avere propri esponenti che si affiliassero alla mafia e il rapporto era tale che la mafia non era sovraordinata alla politica, ma, al contrario, era la
politica ad essere sovraordinata alla mafia.
In altre parole, la politica era più forte della mafia, il potere politico era più forte del
potere mafioso.
Ci sono stati casi clamorosi di grandi mafiosi che, subito dopo la fine del fascismo,
furono posti dagli alleati americani alla
guida di importanti amministrazioni locali
in Sicilia; il più noto fu Calogero Vizzini,
nominato sindaco di Villalba.
Per rimanere sempre nell’ambito della rappresentanza amministrativa basti ricordare anche il caso di Palermo il cui sindaco
Vito Ciancimino, esponente di primo piano della Dc siciliana e, almeno per un certo
periodo, della corrente andreottiana. Di recente scomparso, nel novembre 2002, si è
portato con sé molti dei segreti mafiosi riguardanti in particolar modo i rapporti tra
Cosa nostra siciliana e la politica, le istituzioni, gli affari.
E tuttavia, il dato caratterizzante quell’epoca era la grande capacità di mediazione
politica, di governo dei rapporti tra mafia e
politica evitando sia di renderli eccessivamente conflittuali sia di portarli sino al
punto da valicare in modo abnorme una
certa rappresentanza diretta.
Molti uomini politici dei partiti di governo
ricercavano i voti dei mafiosi o erano votati dalla mafia, e non facevano nulla per
impedire che ciò accadesse.
Ciò poteva sfuggire alla censura della magistratura o incorrere nella volontà del legislatore che non aveva alcuna intenzione
di prevedere sanzioni per l’uomo politico
che accettava i voti di mafia, ma certo non
sfuggiva al senso comune del territorio dove
operava l’uomo politico votato dal mafioso; tale circostanza, infatti, era ben nota a
tutti.
A livello locale, regionale e nelle elezioni
politiche per eleggere il parlamento nazionale o quello europeo tale prassi era frequente e diffusa; si può tranquillamente
affermare che faceva parte della normalità
di ogni campagna elettorale di una zona di
mafia. Il cosiddetto voto di scambio era una
realtà incontrovertibile.
Una dinamica simile si realizzava tra le organizzazioni mafiose ed il territorio nel suo
complesso, dal momento che si era venuto
a determinare un sistema di relazioni che
rendeva forte la sua legittimazione, con una
presenza devastante in diversi settori strategici della vita del nostro Paese, con un
radicamento più forte in quasi tutte le aree
del Mezzogiorno.
Per varie ragioni – non ultime il crollo del
muro di Berlino che rendeva oramai superfluo l’uso della mafia in funzione anticomunista e l’ascesa in Cosa nostra di Totò
Riina il quale voleva ribaltare la dipendenza della mafia dalla politica – quel rapporto via via si andò consumando.
Le stragi del ‘92- ‘93 hanno segnato il punto più alto e nel contempo il più forte di
una crisi che durava da anni e l’avvio di un
nuovo rapporto che, se non si introducono
radicali correttivi, rischia di esser più dirompente di quello precedente.
la simbiosi
Oggi si va profilando un rovesciamento
di quell’antico rapporto per arrivare ad
una rappresentanza diretta di uomini
politici e di spezzoni di partiti direttamente nelle cosche mafiose.
C’è il pericolo, molto concreto, basti richiamare alla mente le ultime inchieste
giudiziarie, che si arrivi a determinare
una simbiosi tra uomo politico e uomo di
mafia senza che sia possibile separare e
distinguere l’uomo politico dall’uomo di
mafia perché le due funzioni sono sussumibili nella stessa persona.
Questa tendenza non ha sostituito il voto
di scambio perché essa, al momento, non
si è affermata dappertutto. Dire che questa tendenza coinvolge tutti i partiti e tutti gli schieramenti è un modo per eludere
il problema e per non affrontare le questioni reali che sono squadernate sotto gli
occhi di tutti.
Non è vero che tutti i partiti sono infiltrati nella stessa misura e non è vero che tutti
i partiti si comportano allo stesso modo
quando ci sono iscritti o esponenti del partito che risultino coinvolti.
Ci sono partiti che sospendono o fanno
dimettere i loro iscritti o li espellono, ci
sono altri partiti che li coprono o li lasciano nei loro incarichi.
Ci sono esponenti di primo piano ed esponenti di secondo piano; e ciò non ha lo
stesso peso politico.
Affermare che ci penserà la magistratura
significa ritornare agli anni cinquanta e
sessanta quando questo ritornello serviva a coprire un rapporto collusivo tra
mafia e politica i cui esiti disastrosi sono
noti; basta citare per tutti il nome di Salvo Lima e il ruolo da lui svolto in Sicilia e
a livello nazionale.
Si è venuto a determinare un aumento della rappresentanza diretta di uomini politici dentro le organizzazioni mafiose mentre, naturalmente, non è scomparsa la fase
della mediazione.
Mediazione e rappresentanza diretta non
sono in contraddizione, sono solo le facce di una stessa medaglia, quella del rapporto perverso e nel contempo pervasivo
tra mafia e politica, tra mafia e potere
pubblico.
Il dato di fondo, incontrovertibile, è che
il rapporto tra mafia e politica è notevolmente aumentato ed ha segnato in modo
significativo il periodo compreso in questa legislatura. Come tempo fa ha sottolineato dalle pagine del «Corriere della
Sera», con la libertà intellettuale e l’acume che tutti gli riconoscono, il professor
Sartori.
Il rapporto mafia-politica, quindi, è destinato ad aumentare ulteriormente se i
partiti non correranno rapidamente ai ripari.
E la recente modifica del sistema elettorale con il ritorno al proporzionale pone
25
ROCCA 1 MARZO 2006
CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
la scelta dei candidati
ROCCA 1 MARZO 2006
Da qualche tempo alcuni esponenti politici
– di maggioranza e di minoranza – propongono che i partiti si dotino di un codice etico di autoregolamentazione. Attraverso il
Codice etico di autoregolamentazione, infatti, i partiti si dovrebbero impegnare ad
escludere dalle liste dei candidati al Senato
e alla Camera, alle assemblee regionali ed
ai consigli provinciali, comunali e circoscrizionali tutti coloro che siano stati condannati anche solo con sentenza di primo grado per una serie ben specificata e delimitata di delitti (tra i quali l’omicidio volontario, le lesioni gravissime, il sequestro di persona, il traffico di droga, l’estorsione, l’usura, i reati di mafia, i casi di concorso nell’associazione mafiosa e di favoreggiamento, la corruzione la concussione, la bancarotta fraudolenta, il falso in bilancio) e, per
i reati più gravi tra questi, anche coloro che
siano stati rinviati a giudizio.
Prescindendo dall’esito finale del giudizio
e considerando i coinvolti come innocenti
fino a sentenza definitiva, è legittimo che
la politica così si tuteli.
In tal modo, tra l’altro, si rendono autonomi i partiti dagli esiti giudiziari; sono i partiti che così facendo tutelano se stessi e i
propri candidati.
Il principio generale da affermare è che i
partiti si impegnano a valutare e scegliere
candidati esenti da ogni rischio di inquinamento mafioso, tenendo conto di tutte le
conoscenze ed informazioni disponibili e
che sono ben più ampi e più pregnanti di
quelli di un magistrato che potrebbe non
arrivare a conoscere alcuni fatti che si apprendono, invece, per altra via, interna alla
vita dei partiti.
26
Anche al di là dell’accertamento giudiziario di responsabilità penali, sono i partiti
che devono assicurare l’indipendenza e la
moralità pubblica di ciascuno degli eletti.
Il ripudio della mafia non può risultare soltanto da un’autocertificazione dei candidati,
ma dev’essere oggetto di una scelta del partito, che espressamente garantisce per ciascun candidato.
L’utilizzo del Codice etico di autoregolamentazione aiuterebbe molto a mettere tutti i partiti in condizione di svolgere una
duplice funzione essenziale nel contrastare il rapporto mafia-politica: selezionare
adeguatamente la propria classe dirigente
e determinare una scelta dei candidati libera dai continui tentativi di «condizionamento mafioso».
Ci sono, ad esempio, rapporti consapevoli
e devastanti tra boss e politici non sempre
sanzionabili penalmente ma tali da essere
incompatibili con l’etica pubblica, con i
valori di un partito, con la coscienza democratica di un Paese per cui la responsabilità politica può diventare più incisiva prevedendo la non candidatura o la stessa
esclusione da un partito.
Come è evidente, tale approccio è diverso dal
sottoscrivere un generico impegno dei candidati contro la mafia che potrebbe essere
sottoscritto anche da Bernardo Provenzano,
Matteo Messina Denaro ed altri boss o fiancheggiatori per via del fatto noto che chi appartiene o collude con la mafia può pubblicamente disconoscere tale legame. Il Codice
etico di autoregolamentazione è, inoltre, un
tassello forte del percorso di riforma della
politica, che deve coinvolgere il modo di pensare e praticare la politica in una democrazia
avanzata che vuole unire legalità e sviluppo e
liberarsi dal peso devastante delle mafie.
responsabilità politica
In questa ottica la responsabilità politica
deve ritornare a svolgere una propria funzione.
Nel periodo antecedente il «maxi-processo»
degli anni ’80 l’azione giudiziaria era debole, spesso assente o persino compiacente e
se qualche magistrato usciva dal coro l’isolamento lo colpiva inesorabilmente. Non si
dimentichi che Cosa nostra, prima di colpire Falcone e Borsellino, aveva ucciso Scaglione, Costa, Terranova e Chinnici. Il primo «maxi-processo», che ha preso il via nel
1985 e si è concluso nel gennaio del 1992
con la nota sentenza della Cassazione, ha
suggellato una lenta ma costante ripresa
dell’azione giudiziaria. A questa positiva
entrata in scena della responsabilità penale ha corrisposto un lento declino della responsabilità politica. Dal periodo successivo alle stragi del ‘92-‘93 l’iniziativa giudiziaria ha ottenuto risultati inediti per la storia del nostro Paese: centinaia di ergastoli
a carico di boss storicamente impuniti oltre al sequestro e confisca dei beni.
Anche oggi questa attività continua e, nonostante le enormi difficoltà amministrative e normative che la politica ed il Governo creano nei confronti dell’azione penale
contro la mafia e l’intramontato sistema
delle collusioni, si continuano a mietere
successi di rilevante portata.
Nel contempo la responsabilità politica si
è ulteriormente affievolita producendo danni incalcolabili alla lotta alle mafie. È nostra profonda convinzione che sono necessari entrambi i livelli di responsabilità.
La responsabilità politica, in particolare,
deve recuperare terreno e diventare una
vera e propria risorsa nella lotta alle mafie.
mafia e economia
Ma veniamo ad un’altra dimensione decisiva nell’ambito di una moderna azione
antimafia in Sicilia: il rapporto mafia-economia. Cercherò qui di essere breve e di
affrontare solo un aspetto, di questa questione, che però mi sembra fondamentale
perché, come ci ha insegnato Pio La Torre,
per fare un’efficace lotta alla mafia bisogna
colpirla al portafogli, prima di tutto.
Come, durante la sua visita in Sicilia, Cuffaro ricordava a Ciampi, l’Assemblea regionale siciliana ha approvato uno schema di
progetto di legge costituzionale da proporre, ai sensi dell’art. 18 dello Statuto, al Parlamento nazionale. Esso contiene varie
«Modifiche allo Statuto della Regione», tra
le quali un articolo aggiuntivo che testualmente recita: «La Sicilia ripudia la mafia
quale fenomeno di violenza contro la libertà della persona e dell’impresa. La Regione
promuove e sostiene tutti gli interventi finalizzati alla rimozione delle cause sociali
ed economiche riconosciute all’origine del
fenomeno criminale». Per inciso, vorrei ricordare che le Camere non l’hanno ancora
convertito in legge costituzionale.
Ma nel caso fosse approvato, le leggi e gli
atti amministrativi della Regione dovranno essere valutati alla luce di questo nuovo
principio.
Ad esempio, per quel che riguarda gli appalti di opere pubbliche e di servizi nell’ambito della Regione siciliana – che l’ex procuratore Grasso, non molto tempo fa, denunciava l’esser controllati per oltre il 90%
da Cosa nostra – dovranno essere introdotte norme più rigorose. Anzitutto, va data
vera attuazione alla legge regionale che istituisce le stazioni uniche appaltanti.
Anzi, ci si potrebbe spingere oltre e proporre che tutti gli appalti siano gestiti dentro
queste ultime e che venga istituito un Osservatorio sugli appalti all’interno del quale lavori un pool interforze in strettissimo
collegamento con le Prefetture per monitorare e setacciare le imprese aggiudicatrici
con il precipuo scopo, insomma, di «fare le
analisi del sangue» a tutte le imprese che si
aggiudicano appalti pubblici, tanto per capovolgere una triste affermazione infelicemente pronunziata qualche anno fa.
La più diretta conseguenza sarebbe quella
che non dovrebbero mai essere stipulati contratti con imprese vincitrici di gare, in caso
di accertati gravi elementi che dimostrano
la partecipazione di soggetti mafiosi all’attività imprenditoriale, l’abituale mancato
rispetto dei contratti di lavoro e dei diritti
dei lavoratori, l’esistenza di accordi o forme di cooperazione con imprese mafiose,
ovvero l’acquiescenza ad attività estorsive.
Vorrei concludere con un’ultima personalissima considerazione. C’è una frase che
Paolo Borsellino ebbe a dire una volta: «Un
giorno questa terra sarà bellissima». Sono
parole che mi girano spesso per la testa e
che mi commuovono ogni volta che le rileggo o le sento perché per me sono l’espressione di un amore grandissimo per la nostra regione. Io penso che, senza questo
amore, senza la forza di questo sogno coltivato ad occhi aperti e contro ogni speranza, ogni azione di lotta contro Cosa nostra
sarebbe una fatica vana.
E, allora, credo che l’unico augurio che si
possa fare a questo Paese, e ai siciliani in particolare, è che il sogno di Paolo Borsellino
diventi presto una felice profezia che si avvera: la nostra terra diventi davvero presto bellissima e finalmente libera dalla mafia.
ROCCA 1 MARZO 2006
in capo ai partiti, ancor più che in passato, una responsabilità in più nella scelta
dei candidati.
Nessuno potrà trincerarsi dietro l’alibi di
un tempo affermando che la responsabilità è degli elettori che scelgono gli eletti.
Ora gli elettori sono stati espropriati di questa facoltà e non hanno neanche la possibilità di esprimere una loro preferenza per
un determinato candidato; possono solo
fare una croce sul partito che ha scelto i
candidati e che, soprattutto, ha deciso l’ordine che devono avere in lista, ordine che è
fondamentale per l’elezione.
Davide Romano
27
SINDACATO
le occasioni
perdute
28
N
quando è vietato da leggi e contratti; sugli scioperi dei trasporti urbani che mettono in ginocchio intere aree penalizzando i cittadini e l’economia mentre poco o
nessun danno ne deriva alle controparti.
Ma a colpire sono sopratutto le analisi della scarsità di effetti positivi di questo frequentissimo ricorso a forme molto dure
di lotta, visto che nei trasporti come in
altri settori dei servizi e della produzione
manufatturiera i lavoratori italiani hanno per lo più salari più bassi che negli altri paesi, rinnovi contrattuali che arrivano sempre in ritardo, condizioni di sicurezza peggiori (in nessun paese ci sono
tanti incidenti sul lavoro, anche mortali,
come da noi), deboli diritti in termini di
formazione continua e di ammortizzatori sociali, nessun servizio efficiente di collocazione e di ricollocazione lavorativa
dopo i licenziamenti. Che cosa non va nel
modello e nella pratica delle relazioni industriali? Che cosa c’è di inadeguato nella cultura sindacale del conflitto?
5 milioni fuori contratto
Le cause di questa situazione, che è ormai di questo tipo da non pochi anni – e
anche da assai prima del blocco del dia-
logo sociale prodotto dal governo Berlusconi – sono numerose, e hanno ovviamente a che fare anche con le caratteristiche del nostro sistema economico-produttivo, ma le domande restano. E, anche se le spiegazioni e le proposte di Ichino non sono sempre convincenti, le sue
analisi non cadono mai nel vuoto. È vero
che i contratti collettivi nazionali di categoria, il banco di prova del ruolo del
sindacato, valgono ormai per non più
della metà dei lavoratori occupati, non
più di 9 milioni e mezzo (i 6 milioni di
dipendenti delle aziende con più di 15
dipendenti e i 3 milioni e mezzo di dipendenti delle amministrazioni pubbliche), mentre per i 3 milioni che lavorano nelle imprese più piccole, per i 2 milioni e forse più di veri e falsi contratti
di collaborazione, per chi lavora in nero,
per i moltissimi lavoratori anche di imprese medio-grandi del Mezzogiorno
sono solo dei pezzi di carta. È vero che il
modello contrattuale italiano, che affianca al contratto collettivo nazionale di
categoria un secondo livello di contrattazione – quello a livello di azienda o di
territorio o di filiera che dovrebbe essere il più importante per il miglioramento dell’organizzazione del lavoro, la con-
nessione della retribuzione alla produttività, il rapporto tra la formazione e l’inquadramento professionale – dà qualche
risultato solo nelle grandi aziende (quando non sono in difficoltà) ed è un flatus
vocis nelle altre. È vero che il sindacato
continua a privilegiare la difesa degli
occupati e dei posti di lavoro mentre da
sempre trascura l’importanza dei servizi
di accompagnamento e di inserimento lavorativo per chi è senza lavoro, tant’è che
non c’è paese in Europa che ne sia privo
come il nostro. Ed è anche vero che la
cultura del conflitto, e l’uso spregiudicato dello strumento dello sciopero, questi
problemi non li sta risolvendo, e da molto tempo, se non per le categorie che
possono paralizzare con poco sforzo servizi essenziali. Il conflitto duro, dunque,
è diventato «di destra»? E dove rischia
di finire, in un mondo del lavoro ormai
nettamente segmentato e in cui cresce la
contrattazione individuale tra lavoratori e datore di lavoro, il sindacalismo confederale della «solidarietà», dell’«unità»
di tutto il lavoro dipendente?
ROCCA 1 MARZO 2006
ROCCA 1 MARZO 2006
Fiorella
Farinelli
on è la prima volta che quello
che scrive Pietro Ichino sul sindacato e sulle relazioni industriali viene accolto da accese
discussioni e da polemiche.
Succede anche perché il personaggio – professore di diritto del lavoro
all’Università Statale di Milano ed editorialista del Corriere della Sera – è figlio
diretto di quella cultura e di quel mondo
di cui, in ogni articolo, svela i limiti e i
fallimenti. Oltre che parlamentare del
Pci, infatti, è stato dirigente della Fiom,
il combattivo sindacato Cgil dei metalmeccanici, e poi responsabile dei servizi di assistenza legale della Camera del
Lavoro di Milano. Ma le reazioni derivano sopratutto dal fatto che, nove volte su
dieci, i suoi commenti alle vicende di
conflitto sindacale dicono quello che
molti non hanno il coraggio di dire, anche a sinistra e nella stessa Cgil. Sono le
impietose considerazioni sui comportamenti vertenziali di categorie come quella dei controllori di volo, lavoratori pagati benissimo, meglio che in molti altri
paesi europei, e tuttavia perennemente
in agitazione; sulle hostess dell’Alitalia
che si mettono in malattia a rotazione
per potersi astenere dal lavoro anche
fallimenti e occasioni perdute
Sono domande che interpellano dura29
30
re. E sollecitare lo sviluppo di culture e
di relazioni sindacali non solo di tipo
conflittuale, ma anche di tipo cooperativo. È vero – riconosce l’autore – che
non esiste mai nessuna garanzia a priori di buon funzionamento del gioco di
relazioni sindacali diverse da quelle
apertamente conflittuali; e sopratutto di
un buon funzionamento per entrambe
le parti, i cui interessi riguardo alla spartizione dei frutti sono oggettivamente e
inevitabilmente contrapposte. «Una
cosa però è certa: che il conflitto riduce
la ricchezza prodotta mentre la capacità di accordarsi per investire insieme sul
futuro – il lavoro da una parte, il capitale dall’altra – costituisce una risorsa
competitiva formidabile». Ed è certo
anche che «se vogliono tirare fuori l’economia italiana dalle secche in cui si sta
arenando, imprenditori e lavoratori devono serrare i ranghi, evitare i costi del
conflitto, recuperare al più presto la capacità di elaborare una visione condivisa dei vincoli con cui occorre fare i conti, in modo da potersi accordare su progetti coraggiosi di lungo respiro: fondati su una ripartizione concordata di costi e benefici, oltre che su una solida
affidabilità reciproca delle parti, almeno a medio termine».
proposte e reazioni
È in questo quadro di analisi e di riflessioni che Pietro Ichino avanza anche proposte di modifica del modello contrattuale vigente, collegate al tema della rappresentatività, che potrebbero piacere di più
ad alcune sigle sindacali e dispiacere
molto invece ad altre. E che hanno infatti
già provocato reazioni accese di esperti,
politici, opinionisti. Ma, al di là dell’impatto che esse potranno o meno avere sul
dibattito in corso su questi temi tra le tre
confederazioni sindacali e tra le parti sociali, è indubbio che dall’insieme del lavoro emerge una effettiva situazione di
difficoltà e di stallo del movimento sindacale e del dialogo sociale. Che non si
può attribuire solo a un contesto politico
e istituzionale sfavorevole, che pure ha
contato non poco negli ultimi anni, ma
che ha anche ragioni interne. È interesse
di tutti, e dell’intero paese, che esse possano trovare presto una soluzione.
Fiorella Farinelli
(1) A che cosa serve il sindacato?, Mondadori,
Milano 2006.
TERRE DI VETRO
altri tempi
Oliviero
Motta
aura è una maestra e questo lo capisci presto: sarà il suo aspetto o
la parlata tranquilla che scandisce
parola dopo parola. I capelli lunghi raccolti perennemente sopra
la testa, gli occhiali cerchiati di
metallo e quello sguardo al contempo miope e acuto: agli appassionati di cartoon
potrebbe ricordare la nonnina del canarino Titti, così dolce eppure così determinata ad inseguire gatto Silvestro a scopa
sguainata...
La prima volta che l’ho vista mi ha dato
l’idea di un’insegnante elementare un po’
stereotipata: tutta casa e scuola o giù di lì.
Ma una cosa in particolare non quadrava:
il fatto che conoscesse i nomi di tutti i bambini rom della sua scuola. Non si limitava,
insomma, a quelli che frequentavano la sua
classe. Sapeva collocare mentalmente ciascuno nel quartiere, in questa piuttosto che
in quella area abusiva e conosceva le loro
storie, le abitudini, lo stato di salute dei
componenti della famiglia.
Nomi non agevoli da pronunciare e da
memorizzare prendevano forma e sostanza nelle sue parole misurate: diventavano
così biografie, vita concreta.
Da allora l’ho incrociata un paio di volte
l’anno, all’inizio e al termine dell’impegno
scolastico; e puntualmente sapeva raccontarmi vicende e rovesci di tutte le famiglie
più sconclusionate ed emarginate del quartiere in cui sorge la sua scuola.
Nessuna spiegazione in più, tanto meno
dichiarazioni di principio o ideologiche:
solo notazioni biografiche, cronaca pura
condita da una sincera preoccupazione e
da una partecipazione ai destini dei bambini più ai margini della scuola.
Per saperne qualcosa di più ho chiesto alla
sua dirigente scolastica: Laura ha cominciato sette anni fa a prendersi cura dei primi bambini rom arrivati alla scuola. Prima quelli della sua classe, poi progressivamente la ventina di bambini che hanno
cominciato a frequentare con alterne fortune le classi delle elementari. Ma non si
L
è accontentata di seguirli dal punto di vista didattico, ha cominciato a girare tra
le roulotte e le baracche per conoscere
loro e le famiglie d’origine. Da allora è
diventata un punto di riferimento per tutte le piccole grandi necessità della comunità zingara. Un’autorevolezza conquistata scarpinando fuori dalle aule scolastiche, tra il fango e il degrado degli angoli
di città.
Per cinque anni consecutivi, cascasse il mondo, ogni lunedì mattina si è presa cura anche dell’igiene dei bimbi, docciati per bene e
se necessario rivestiti prima di entrare nelle
classi; ha cominciato poi a coinvolgere i colleghi ed è diventata un punto di riferimento
per tutte le istituzioni impegnate nell’assistenza sociale e nella mediazione culturale,
dentro e fuori la scuola.
Ha costruito insomma attorno a sé una rete
concreta e discreta che senza chiacchiere
o proclami ha sostenuto il percorso di integrazione di più di trenta bimbi dentro il
tessuto scolastico e civile di una comunità
locale.
Il tutto senza una parola in pubblico.
Il Comune ha cercato invano di attribuirle
un riconoscimento per la sua opera di solidarietà concreta ma lei è riuscita sempre
a sottrarvisi. Anche la Provincia voleva
premiarla ma non c’è stato verso. Persino
il giorno in cui è andata in pensione ha
marinato il collegio docenti che avrebbe
voluto salutarla ufficialmente. Era davvero malata quel giorno? C’è da dubitarne.
Questo atteggiamento riservato e schivo ha
generato anche qualche perplessità tra chi
pensa che la testimonianza pubblica conservi un insostituibile valore educativo e
politico. Eppure, a pensarci bene, anche
in questo Laura si è rivelata quello che è:
semplicemente maestra.
Non le ho mai chiesto la motivazione di
tanto impegno gratuito. Scommetto che mi
avrebbe risposto come Giorgio Perlasca a
Enrico Deaglio: «Ma lei, al mio posto, che
cosa avrebbe fatto?».
Altri tempi.
31
ROCCA 1 MARZO 2006
ROCCA 1 MARZO 2006
SINDACATO
mente le più grandi – anzi ormai le uniche – organizzazioni di massa del paese. Che inquietano, e forse disturbano,
settori importanti della sinistra sociale
e politica. E che tuttavia è difficile rimuovere. Nel suo ultimo libro (1), Pietro Ichino le ripresenta tutte, e butta sul
piatto della discussione tra le parti sociali e di quella interna a Cgil, Cisl, Uil
una serie di proposte che riguardano sia
la modifica del modello delle relazioni
industriali sia il superamento della cultura del conflitto. Lo fa, da vecchio sindacalista Fiom, attraverso l’analisi di
una vicenda emblematica che riguarda
il tormento centrale del sindacato metalmeccanico, il settore auto, la Fiat, lo
stabilimento Alfa Romeo di Arese. La vicenda è quella della chiusura di Arese
da parte della Fiat, nell’anno 2000, e
della contemporanea richiesta da parte
della casa automobilistica giapponese
Nissan di disporre di un sito in Europa
per la produzione di un modello per il
mercato comunitario. Perché il sindacato italiano – le parti sociali, lo Stato –
allora non candidarono Arese e i suoi
duemila operai condannati a perdere il
lavoro? Perché si perse l’occasione, afferrata invece dalla Gran Bretagna, di
aprire immediatamente una trattativa?
Secondo Ichino, non fu perché si temevano, o perché erano scontate, condizioni di lavoro peggiori o precarie (nello
stabilimento inglese scelto da Nissan il
lavoro è oggi retribuito il doppio di quello italiano, è stabile e qualificato), ma
perché il nostro modello contrattuale
basato sul contratto nazionale di categoria non consentiva la fuoriuscita da
quel quadro dei soli lavoratori di Arese.
Il totem dell’uguaglianza avrebbe impedito la soluzione del problema. La cultura del conflitto avrebbe fatto ostacolo
a una trattativa pragmatica. L’idea che
lo Stato deve mettere in campo proprie
strategie e propri investimenti per salvare l’industria nazionale avrebbe congelato ogni iniziativa. Ma ancora oggi,
a cinque anni da quella vicenda, Arese
non è rinata, e i suoi duemila lavoratori, in un mercato del lavoro vivace come
quello dell’area milanese, sono ancora
in ballo: perché è il sindacato stesso a
non occuparsi del loro reinserimento lavorativo, a non pretendere servizi efficaci di formazione, riconversione professionale, accompagnamento a nuove
opportunità di occupazione.
Sono questi fallimenti, e queste occasioni perdute, che dovrebbero far riflette-
PRINCIPIO ANTROPICO
teoria scientifica
o
atto di fede?
P
coincidenze cosmiche
Questi presupposti sono piuttosto semplici. «È ben noto che ci vuole carbonio per
32
fare dei fisici», notava per esempio, tra il
serio e il faceto, il fisico Robert Dicke, nel
1961. La constatazione, per quanto in apparenza banale, ha notevoli implicazioni
cosmologiche e filosofiche, oltre che biofisiche. Sia perché i fisici, e un po’ più in
generale tutti gli uomini, sono, per dirla
con Victor Weisskopf (un fisico), l’occhio
attraverso cui l’universo sta imparando a
osservare se stesso. Sia perché, per avere
del carbonio (e dei fisici), occorre – ci dice
il Modello Standard dell’evoluzione cosmica – un universo stabile, lontano dall’equilibrio termico e piuttosto longevo.
Di più. Occorre che le interazioni fondamentali tra le particelle elementari, le loro
masse e tutta una lunga serie di parametri
fisici, astrofisici e cosmologici indipendenti siano, come dicono gli esperti, fine tuned, finemente modulate. Insomma, perché ci siano dei fisici e, un po’ più in generale, degli uomini che lo osservino, occorre che l’universo presenti un novero di
coincidenze piuttosto nutrito e niente affatto scontato. Ma poiché il carbonio, i fisici e gli esseri umani in generale esistono, significa che il nostro universo è fine
tuned, è finemente modulato. Significa che
nel nostro universo si sono avverate quella
serie incredibile di coincidenze che, sole,
consentono l’esistenza di un essere intelligente capace di osservarlo.
Il primo a notare l’esistenza di queste coincidenze cosmiche è stato Paul A. M. Dirac,
che ne ha reso conto in una serie di articoli pubblicati tra il 1937 e il 1938. Il fisico
inglese di origine francese rilevò che un’intera costellazione di importanti costanti
adimensionali, che coinvolgono parametri fondamentali sia in fisica che in cosmologia, come la costante gravitazionale, il
rapporto tra l’intensità della forza elettromagnetica e l’intensità della forza gravitazionale, l’età dell’universo in unità atomiche, il numero di nucleoni (protoni e neutroni) presenti nell’universo, sono tutte
proporzionali a un medesimo numero:
1039. Dirac osservò anche che queste relazioni non possono essere frutto del caso,
ma devono essere la manifestazione di una
connessione causale ignota.
il principio antropico
Nel 1961 Robert Dicke, fisico a Princeton,
riprese la riflessione di Dirac e indicò la
possibile connessione causale in un nuovo principio: il principio antropico. Le relazioni di Dirac dipendono dal tempo, e
quindi non sono valide in ogni momento
della storia cosmica. Ma solo in questo
preciso momento. E questo preciso momento non è un momento qualsiasi, ma
un momento proporzionale alla vita me33
ROCCA 1 MARZO 2006
ROCCA 1 MARZO 2006
Pietro
Greco
adre George Coyne, direttore della
Specola vaticana e già consigliere
scientifico influente di Papa Giovanni Paolo II, ha (giustamente)
definito quello dell’Intelligent Design un credo religioso e non
certo una teoria scientifica.
L’Intelligent Design è una visione che pone
l’uomo al centro del creato e sostiene che
l’intera evoluzione cosmica è sapientemente finalizzata alla sua comparsa. Ma, si
chiede e ci chiede un lettore di Rocca, se è
questa visione antropocentrica e finalistica dell’universo che propone il Disegno
Intelligente, che differenza c’è rispetto a
quel principio antropico nato nell’ambiente dei fisici nel tentativo di spiegare, appunto, la presenza umana nella storia e
nella legalità cosmica?
È una domanda niente affatto banale. Che
ci aiuta a capire, in questi tempi confusi, cosa
distingue una teoria scientifica da un’ipotesi filosofica e da un credo religioso. Conviene, pertanto, richiamare alla memoria i presupposti del «principio antropico» che, a fasi
ricorrenti, fa capolino anche negli ambienti
degli scienziati agnostici.
due interpretazioni
ROCCA 1 MARZO 2006
Robert Dicke lega, dunque, i particolari
valori dei parametri fondamentali della fisica all’esistenza dei fisici. O, per evitare
fraintendimenti, all’esistenza di un essere
intelligente capace di osservare l’universo.
Il principio antropico che Dicke propone
si presta a una doppia interpretazione.
Puntualmente rilevata, nel 1974, dal cosmologo inglese Brandon Carter.
La connessione di Dicke può essere interpretata in una forma debole. E potrebbe
significare, semplicemente, che viviamo in
un universo caratterizzato da questi parametri fisici e non da altri, perché solo in
un universo simile potremmo vivere. Questo principio antropico debole non spiega
molto ed è persino tautologico. A meno di
non dare credito alla ipotesi dei molti mondi. Questa ipotesi, di cui esistono svariate
versioni, sostiene che esistono, appunto,
molti se non infiniti universi, ciascuno diverso dall’altro. Ciascuno con suoi propri
parametri fisici. L’uomo vive in uno di questi universi. Il principio antropico debole,
dunque, rileva che tra i diversi universi
possibili e osservabili l’uomo è presente
solo in quello che ha i parametri «giusti»
per consentire alla vita e alla vita intelligente di nascere.
C’è tuttavia un’altra interpretazione possibile della connessione rilevata da Dicke. Ed
è un’interpretazione forte. È quella, finalistica, secondo cui l’universo è stato progettato e fine tuned, finemente modulato,
per consentire la nascita dell’uomo. Un’interpretazione molto ben sintetizzata, nel
1986, da John Barrow e Frank Tipler:
34
«L’universo deve (la sottolineatura è mia,
nda) avere le proprietà che consentono alla
vita di svilupparsi in una qualche fase della sua storia». Il principio antropico forte
prevede dunque un progetto (anche se non
necessariamente un progettista) cosmico,
finalizzato alla nascita della vita intelligente. E ribalta quel punto di vista copernicano e, ancor più, darwiniano così ben sintetizzato dal biologo Jacques Monod, secondo cui l’uomo non era affatto previsto
ed è apparso per caso «nell’immensità indifferente del cosmo».
tra fiducia e critiche
La fiducia nel principio antropico, sia debole che forte, è tuttora abbastanza diffusa tra gli scienziati. E non solo nella comunità dei cosmologi. La fiducia in una
legge della complessità crescente uguale e
opposta alla seconda legge della termodinamica, per esempio, non è che una declinazione a uso dei biologi di questo medesimo principio.
Tuttavia le critiche che esso solleva sono
molte e, spesso, drastiche. C’è chi sostiene, senza mezzi termini, che dietro il principio antropico si nasconda una corrente
irrazionalista che tenta di reintrodurre forme di vitalismo o di animismo nell’impresa scientifica, a scapito del pensiero razionale. E c’è chi sostiene, ancora più drasticamente, che è la versione laica di un nuovo creazionismo.
A queste critiche, certo non infondate, è possibile accompagnare una critica epistemologica più stretta. E, forse, più pungente.
Quello antropico, nella sua versione debole,
è un principio che non spiega molto. E nella
sua versione forte diventa un principio generale solo a patto di reintrodurre il concetto aristotelico di causa finale nella spiegazione scientifica. Ma a questo punto i fautori del principio antropico forte si assumono
un onere non da poco: ribaltare i fondamenti
fisici e biologici dell’evoluzione della materia e dimostrare che c’è una legge generale e
necessaria in natura che impone alla materia cosmica di evolvere per soddisfare una
precisa e non procrastinabile finalità. Inutile dire che di questa legge, in natura, finora
non è stata riscontrata traccia alcuna.
Cosicché ha ragione il nostro lettore: tra il
principio antropico di alcuni fisici laici e
l’Intelligent Design di alcuni scienziati e filosofi credenti non c’è poi molta differenza: non sono teorie scientifiche, perché
entrambi si basano su un atto di fede.
LEZIONE SPEZZATA
ragazzo dove sei?
Stefano
Cazzato
L
a classe V H è composta da 14
alunni. Pochi ma svogliati. Le bocciature, gli abbandoni, le passerelle, i debiti insaldabili, l’hanno decimata. I sopravvissuti mi raccontano che due ex, Listoni e
Giannanzi, si aggirano come fantasmi per
l’istituto: hanno più di vent’anni e ripetono per la terza volta il quarto. Che Rossi
lavora: precario, flessibile, ma «almeno»
lavora. Che Gambali ha fatto il grande
passo: dal pedagogico al tecnico. E pare
che da quelle parti faccia un figurone.
Degli altri si sono perse le tracce. Sono
finiti nella fossa comune della mortalità
scolastica.
Fregandosene della continuità didattica e
di altre precedenze, i colleghi, uno dopo
l’altro, hanno scaricato la V H che mi è stata assegnata d’ufficio come ultimo arrivato. Me la sono presa.
«Il sogno di ogni insegnante. Classe piccola, eterogenea, si lavora bene», mi aveva
detto a settembre il vicepreside con un
ghigno che non lasciava presagire nulla di
buono. Era soprattutto quell’«eterogenea»
a sembrarmi ambiguo e sinistro. Poteva
significare «gruppo-classe con attitudini e
abilità diverse» o, più drammaticamente,
«non ci facciamo mancare niente». E infatti la V H sarà anche piccola e eterogenea ma è come un’orda di piraña pronta a
sbranarti, se abbassi le difese, e nel paragone, credetemi, si fa un torto ai piraña.
Oggi, un’ordinaria giornata di gennaio, cinque persone in classe: il sottoscritto e quattro di loro. Pochissimi e altrove. Sospetto
un’assenza di massa (si fa per dire) programmata e non perdo occasione per farlo presente.
– E gli altri? Dove sono gli altri?
– Ce semo solo noi, professo’, non ce vede,
a quelli non je regge la pompa!, risponde
Settini
– Che c’è, stanno male?
– E certo! Speramo che se li porta la cinese, ’na vorta per tutte!
– Ragazzi, vi rendete conto che quest’anno ci sono gli esami? È assurdo fare tutte
queste assenze strategiche per evitare i
compiti e le interrogazioni. Un po’ di impegno, uno sforzo finale…
– Macché strategiche, ce sta o non ce sta
l’influenza? C’è mezza Roma orizzontale…
E poi professò, Serafini ha fatto er pupo,
Pigna c’ha il set, Pomiatosky non viene mai
e Persichetti c’ha il concerto rock.
Già, «regolare», penso. Il fatto è che me ne
dimentico e talvolta mi illudo di poter fare
una lezione normale, con la classe che
prende appunti, fa domande pertinenti,
ascolta con attenzione, partecipa al dialogo educativo…
«L’interpretazione dei sogni di Freud, ragazzi, ha rivoluzionato il modo di intendere il soggetto…
«Secondo Dewey il pensiero ha un carattere adattativo, il pensiero è problem solving…
«La teoria del capro espiatorio spiega quanto siano difficili le relazioni umane, come, a
volte, si diventi forti coi deboli e deboli coi
forti…
Ma Serafini ha partorito da due settimane
un bimbo di cui la classe va orgogliosa e
rientrerà forse a marzo; Pigna è andata a
fare la comparsa in un film; Pomiatosky,
causa le sue assenze sistematiche, è ormai
conosciuto da tutti come «lo spettro»; Persichetti, da alcuni giorni, prova e riprova
in palestra due pezzi di Hendrix per la
megafesta interscolastica di fine anno. Un
po’ in anticipo, per la verità, ma Persichetti è uno che si applica e vede lontano.
– E gli altri?
– A professò, ce sta l’influeeenza…
Richiamato, una volta per tutte, al principio di realtà sto per invitare i restanti piraña a un’opportuna ripetizione del programma, quando l’alunna Maretti, sventolando il libretto delle uscite anticipate, mi
fa capire che, tra poco, in classe rimarremo in quattro: il sottoscritto e tre di loro.
– Vado via. Viene mio padre a prendermi.
– Un principio di influenza anche tu, Maretti?
– Peggio, professò, è ’na tragedia, me s’è
infettato er piercing all’ombelico!
Pietro Greco
35
ROCCA 1 MARZO 2006
PRINCIPIO
ANTROPICO
dia di una stella. E le stelle sono la fucina
che ha prodotto il carbonio e, quindi, i fisici che lo osservano.
Detta in altri termini, le coincidenze tra i
parametri cosmici non sono casuali. Quei
parametri hanno i valori che hanno per
consentire all’universo di diventare abbastanza vecchio da contenere i lunghi processi che portano alla vita e alla vita dei
suoi osservatori. Se la forza gravitazionale fosse stata solo un po’ più forte o solo
un po’ più debole, per esempio, la vita e la
vita intelligente in grado di effettuare osservazioni sull’universo non sarebbero mai
potute nascere, perché l’evoluzione cosmica sarebbe stata o troppo accelerata o troppo lenta. Insomma, sostiene Robert Dicke: «L’Universo, con i parametri fondamentali da cui dipende, deve essere così com’è
per consentire la nascita di un osservatore
a un qualche stadio del suo sviluppo».
cambiare casa
come
metafora dell’esistere
C
sentimenti murati
Così ti si mostra subito evidente che misteriosamente ciò che conservava i segreti
della tua storia non erano librerie o armadi, ma semplicemente le mura. Sono esse
a costruire letteralmente l’identità della tua
36
abitazione. Identità che, se ben strutturata, va a combaciare perfettamente con
quella tua e dei tuoi cari. E del gatto. E del
canarino. Posto che possano convivere. Le
mura dunque conservano e tramandano,
tanto che nella nuova casa i tuoi mobili,
apparentemente belli e funzionali, sembrano sperduti e senza anima. Eppure il mobiletto intarsiato era la gioia del tinello,
tanto che, nella vecchia casa, il quadro in
alto a sinistra lo guardava estasiato dal
primo giorno in cui lo ha conosciuto. E
l’appendiabiti di mogano con gli agganci
dorati era il vero padrone di casa, tanto
che gli ospiti vi appendevano i cappotti
come fossero in chiesa. Silenti e rispettosi. Ma nella nuova casa, niente. Il mobiletto intarsiato sembra ingombrare i movimenti. Un’insidia per le ginocchia. E l’appendiabiti di mogano assomiglia tristemente a quello dimesso della terza B del
liceo classico Mariotti, dove almeno il cuore è rimasto però appeso. E dagli a sperare
che i cosiddetti facchini si accorgano della
bellezza di ciò che trasportano. Dagli a sperare che posino gli occhi sul baule antico e
forte, o sul divanetto di pelle nera. Non esistono. Per loro non sono altro che legno e
metallo in movimento. Roba pesante. E al
massimo li utilizzano per sedervisi dolcemente afflosciati, con il panino in mano e
la lattina di birra poggiata sul comodino
delle tue notti. Dalla lampada azzurra alla
birra scura. Ed è la prima, ti accorgi, che
sarebbe tristemente fuori luogo. Insomma
è inutile aspettarsi solidarietà dal mondo,
cambiare casa è entrare nel limbo della precarietà esistenziale ed estetica. Le tue cose
vagano per le strade senza significato per
alcuno, se non nei ricordi tuoi e dei i tuoi
cari. E prima che riacquistino un senso
compiuto sarà necessario che la nuova abitazione li inglobi e li riconosca come degni di lei. Un tempo lunghissimo.
mobili in libertà
La verità è dunque che se noi siamo depositari di sentimenti, ricordi, emozioni abbiamo bisogno di uno stabile punto di riferimento per esprimerli, a noi e al mondo. Un ambiente circoscritto, riconosciuto, in cui ricomporli e farne omaggio al
mondo esterno ed a quello interno. Per
questo la nuova casa emoziona, in quanto
senti che potrai ricostruire una tua nuova
storia, un mondo di significati diversi, ma,
allo stesso tempo, stordisce, perché ciò che
lasci non ritornerà, è chiuso nelle mura
stinte del vecchio appartamento. Comunque esso sia. Ed in fondo è poi questo il
senso del nomadismo, soprattutto giovanile. Quel muoversi senza radici. Senza
una dimora fissa. Nasce dalla consapevolezza che, se si fugge da una casa ritenuta
prigione, non si può costruirne un’altra. È
la più grande manifestazione di affetto per
un luogo come la propria casa in cui si
vorrebbe la perfetta unione tra le cose e
gli uomini. Tra l’architettura muraria e
quella sentimentale. Si fugge per paura che
l’armonia non sia possibile. È un atto
d’amore. La paura che i fatti non siano all’altezza dell’idea che li sostiene. Tipico dei
giovani. Soprattutto i più sensibili. Per i
vecchi invece è diverso. Per loro la casa è
proprio la difesa estrema dei sentimenti,
che si vestono spesso d’abitudine. E cambiare casa è appunto un rischio sentimentale. Meglio la casa conosciuta, persino
magari con i suoi precari equilibri tra le
anime dei presenti. Meglio il quotidiano
confrontarsi e scontrarsi che l’insidia di
nuove stanze sconosciute, dove gli equilibri stabiliti possono alterarsi. Per i vecchi
la casa è dunque una sorta di difesa «patologica». Per i giovani spesso una sfida ai
sentimenti. In loro sempre estremi. Cambiare casa è per tutto questo anche una avventura del cuore, e ridurlo a mera problematica immobiliare è decisamente sbagliato. Quello spostarsi di cassapanche,
tavoli e poltrone è pieno di tale e tante sensazioni da riempire vagoni di camion e non
solo quello del semplice trasporto. Tanto
che, quando te ne stai seduto precariamente sulla scrivania gettata di sghimbescio sul
presunto studio della nuova abitazione,
non puoi non domandarti, guardando fuori
della finestra, se hai fatto bene. Se era proprio necessario per trovare nuovi spazi,
faticare così, fisicamente e soprattutto interiormente. Se in fondo non era meglio
dormire con il gatto addosso; con il respiro rumoroso del vecchio padre nitidamente
scandito nella notte; con quel bagno misteriosamente sempre occupato, anche
quando in casa non c’è nessuno; se infine
valeva la pena ripartire di nuovo per l’avventura della vita con questo nuovo abito
extralarge chiamato casa. Poi ti consoli,
pensando che la vita è sempre così, al confine tra passato e presente. Tra paura e
desiderio. Tra rinnovamento e conservazione. E che in fondo cambiare casa non è
altro che uno dei tanti modi per coltivare
sogni, illusioni e risciacquare l’anima nel
fiume della novità. Una metafora insomma del nostro vivere. Anche se, per dirla
tutta, decisamente costosa. Ma questa è
un’altra storia. Almeno in apparenza.
ROCCA 1 MARZO 2006
ROCCA 1 MARZO 2006
Claudio
Cagnazzo
ambiare casa è nel destino dell’essere umano. Tutti infatti usciamo
dal grembo materno, unica casa
comune, per entrare in un’altra
casa provvisoria chiamata mondo.
E già da quella prima volta la nostalgia ci è compagna, tanto che porteremmo con noi, se potessimo, la mobilia, che,
nella fattispecie, è, invece, come si capisce, intrasportabile. Così, di certo, il cambio di casa, anche in età matura e consapevole, resta una sorta di avventura dell’anima e del corpo. Qualsiasi sia la ragione che lo determina. Per intanto, come ho
esperito da poco, la prima impressione è
che, in cerca di consolazione come si è per
il distacco, si crede che i mobili che porterai con te possano in qualche modo lenire
il dolore. In essi, nei mobili, si crede appunto siano conservati dolori, gioie, passioni vissuti nella vecchia abitazione. Non
è così. Certo la scrivania dello studio ha
ancora la polvere dei libri letti, ma senza
la luce che filtra dalla vecchia finestra sul
consueto cortile, la polvere neppure si
vede. È figlia della luce la nostra polvere.
Da orfana, svanisce. E il tavolo della cucina, appena fuori dal guscio autarchico del
suo ambiente, non ha più un odore che sia
uno e, sulle spalle degli extracomunitari
che lo trasportano, appare un oggetto talmente inanimato che mai e poi mai lo puoi
più immaginare ricoperto di cibo.
Claudio Cagnazzo
37
ROCCA 1 MARZO 2006
Rosella
De Leonibus
il coraggio
e la paura
P
rima al calduccio, protetto e sicuro. Poi la sventura, o la scelta, o
l’evento drammatico che rompono
l’equilibrio, spezzano il presente.
Ed ecco che il viaggio comincia. Da
qui in poi non ci sono più pareti,
sponde, cuscini, zuppe calde davanti al
camino. Solo, nel bosco o nel deserto. Oppure anche in mare aperto. Perduto in
mezzo all’ignoto. A confronto con avventure sconosciute, di cui non si conosce
l’esito. Spesso abbandonato dai compagni
di viaggio, talvolta da essi tradito, ripudiato, odiato. Ferito, o anche solo lacero
e affamato, a fronteggiare il buio o la tempesta. Soltanto più tardi arriveranno le
prove da superare, i mostri da combattere, le porte sigillate da aprire, le montagne da scalare, gli animali feroci da domare, a volte perfino una gitarella dalle
parti degli inferi, o una visitina da parte
dei fantasmi.
Disorientato da false mete, sottoposto all’impatto dell’inganno o alla seduzione
delle facili vittorie, delle vie traverse. Ingaggiato nel distinguere gli alleati dai rivali, l’apparenza dalla realtà, tentato dalla
rinuncia quando gli ostacoli si presentano
smisurati.
Stremato dall’attesa, sfidato da poteri
più grandi di lui, sconfitto e depredato,
ma mai del tutto vinto, piange e si dispera, grida aiuto e gli tremano i polsi,
poi raccoglie le ultime forze, fa appello
alle sue ultime risorse interiori, sveglia
il cervello e le gambe e, perdìnci, si dà
da fare.
Poi, se tutto sarà filato liscio, arriverà
anche il conseguimento del tesoro e il lieto fine. Ed ecco che, «bello di gloria e di
sventura», l’eroe giunge alla meta.
il viaggio dell’eroe
Questo che abbiamo tracciato è il paradig38
ma del viaggio dell’eroe: è la trama di quasi tutte le fiabe, è una delle strutture portanti di moltissimi miti, e se da migliaia di
anni l’umanità continua a confrontarsi con
questo tipo di trama, attraversando senza
troppe variazioni la storia, le geografie e
le culture, allora una ragione ci dovrà pur
essere.
Forse questa è una trama universale, forse
ha a che fare con l’identità umana e col
suo sviluppo, la sua costruzione. Con la
realizzazione di sé, di cui il viaggio dell’eroe
è un simbolo potentissimo.
Dove non c’è troppa possibilità di rimanere esattamente dove e come eravamo. E
invece c’è cambiamento, rischio, ricerca di
se stessi fino a livelli molto profondi, e dove
c’è il mettersi in gioco, l’obbedire ad una
spinta interiore di qualità, di messa a frutto delle proprie risorse.
Dove esistono i legami, le relazioni, i condizionamenti familiari e sociali, ma dove
ad un certo punto della propria storia si
deve – ci si trova – si è costretti – si sceglie
– di prendere in mano personalmente il filo
dell’esistenza per tenderlo, districarlo, dipanarlo verso ciò che ancora non possiamo dominare.
È una potentissima metafora del passaggio all’età adulta, quando finalmente ognuno di noi è costretto a prendere atto che
come persona è agente attivo, non più soggetto passivo, delle sue azioni e dei suoi
pensieri. E che la responsabilità verso la
propria esistenza è personale ed inalienabile. E che se fino ad allora siamo stati un
po’ manovrati dalle idee collettive, dall’easy
listening delle abitudini culturali del nostro ambiente, se siamo stati abbagliati da
falsi modelli e da bisogni infantili di sicurezza e protezione, ora è il momento di svegliarsi da questo lungo sonno e scrivere un
nuovo capitolo del viaggio. È questa, in
fondo, la strada dell’individuazione, quel
processo che, passo dopo passo, sconfitta
dopo vittoria, ci trasforma da soggetti inconsapevoli ad esseri umani pienamente
adulti.
solo nella foresta
C’è un passaggio che è, tra gli altri, particolarmente critico.
È il passaggio della foresta. Quando l’eroe
si perde, e si trova solo in un posto inospitale che non riconosce più. Avrebbe voglia
di tornare indietro, ma ha smarrito la strada. Sente bisogno di aiuto, ma non c’è nessuno nei paraggi. E se c’è, non è il caso di
fidarsi. Non sa cosa lo aspetta, né cosa gli
si chiederà. Ho paura, penserà, e se ho già
finito le lacrime e guardo fino in fondo alla
paura, incontrerò i miei fantasmi.
Il primo si chiama ossessione della sicurezza. Il secondo sono le cose che mi han-
no raccontato sul mondo e su di me. Il terzo è la rigidità e l’incapacità di fidarmi un
po’ del caso. Il quarto è il bisogno di evitare ogni frustrazione. Il quinto è la miopia
delle mie risorse, il sesto è il legame alle
abitudini, il settimo è il bisogno ossessivo
di ordine e certezza. L’ottavo è uno dei più
potenti, è la riluttanza a lasciar andare, ad
accettare le perdite, ad accogliere il vuoto,
e anche la riluttanza a lasciarsi andare, a
prendere l’abbrivio. E poi ognuno di noi
ha i suoi fantasmi privati, l’incapacità a
stare soli piuttosto che il terrore del nuovo; una certa ottusità dei sensi, che non
mi permette di vedere attraverso la foschia
che caratterizza l’alba degli eventi, o magari perfino una eccessiva concentrazione
sulle mie disgrazie e sfortune. E sulle colpe degli altri.
È per questo che i fantasmi possono essere affrontati soltanto in solitudine e nei
luoghi di smarrimento. Se restiamo al caldo e al sicuro forse abbiamo una buona
probabilità di non incontrarli mai. E di non
crescere mai. Perché per tenerli lontani dal
nostro cammino saremo semplicemente
costretti a non cominciarlo mai, il viaggio.
Se l’eroe accetta di guardare in faccia i fantasmi delle sue paure, può incontrare la
buona vecchina, o intravedere il fumo del
comignolo di una povera capanna in fondo alla radura. Sono immagini simboliche
delle risorse interiori che cominciano a
presentarsi. L’aiuto insperato, il buon consiglio che all’inizio appare anche assurdo,
o la pausa ristoratrice, sono fortune che
capitano solo a chi non ha evitato di guardare in faccia i propri fantasmi. La dimensione dell’inatteso, della sorpresa, davanti
a questo passaggio della fiaba, ci racconta
che questo è il momento in cui dentro l’anima si attiva qualcosa di nuovo.
Poi ci sono le dure prove da affrontare.
prove, inganni ed alleati
Pazienza, coraggio, sopportazione delle
privazioni e del dolore, generosità, rischio
della vita, apparente assurdità o presunta
impossibilità del compito, sproporzione tra
mezzi e risultati da ottenere, e soprattutto
la capacità di continuare una, due, tre volte, senza sapere quale sarà l’esito. Le prove dell’eroe sono la palestra delle sue nuove – e forse ancora sconosciute – risorse
interiori.
E i mostri da combattere sono i suoi propri, la propria distruttività o ferocia, per
esempio, e i mucchi di grano da separare
39
ROCCA 1 MARZO 2006
COSE DA GRANDI
lo slancio e la meta
Quali sono le mete che ci poniamo, a quali
costi siamo disposti a raggiungerle, quanto ci permettiamo di investirci e a quali
margini di rischio possiamo resistere,
quanto siamo disposti a mediare e ad attendere, quale prezzo siamo pronti a pagare. Dove stanno le nostre priorità in questo momento, quali verità siamo capaci di
dire a noi stessi, quanta strada siamo disposti a fare senza tornare indietro a cer-
ROCCA 1 MARZO 2006
dello stesso Autore
PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO
per i lettori di Rocca
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care di recuperare ciò da cui abbiamo preso commiato.
Ecco un bel set di domande da portare con
sé per affrontare questo passaggio.
Sono domande che chiedono di sviluppare interiormente la dimensione del coraggio.
Allora se l’adolescenza è l’età dell’avventura, delle esplorazioni, dei viaggetti o viaggioni dentro e fuori di se stessi, e poi si
torna alla base e il ventaglio delle possibilità è sempre aperto come all’alba del primo giorno, l’età adulta è l’età del coraggio
e del conseguimento.
La coscienza consapevole di avere davanti
una meta, la sensazione chiara e lucida del
pericolo o della incontrollabilità degli eventi, la percezione di quanto possa diventare
difficile e incerto raggiungere l’obiettivo,
e tuttavia lo slancio attento e generoso. Che
tiene conto delle condizioni in cui lo scopo si potrà realizzare, e di come potrà essere superato il pericolo. Di queste cose è
fatto il coraggio. In equilibrio attimo per
attimo tra la paura e l’assunzione del rischio.
È il coraggio la dimensione dell’età adulta, quella che serve per stare in piedi davanti agli eventi.
Davanti a quelle forze di trasformazione
che emergono impreviste. A volte spuntano da una rottura, da una perdita, e da lì
generano una nuova catena di eventi, prima impensabili, impensati.
Sono il luogo delle verità interne, quando
siamo costretti a raccontarcela tutta e non
possiamo più farci lo sconto. Né chiederlo
agli altri, alla vita. E allora, qui è il fiume,
qui si salta. Comincia una esplorazione
diversa, non più nella dimensione orizzontale del mondo esterno, ma in quella verticale delle nostre capacità straordinarie,
quelle valenze che entrano in campo quando l’ambiente non è più quello conosciuto, quando le garanzie sono scadute. Mentre l’esplorazione verticale procede, se si
sviluppa una tenuta sufficiente si costruisce dentro man mano una nuova zona di
sicurezza, sulla quale appoggiarsi e a cui
fare ritorno, nelle notti buie.
Da lì verrà la forza di continuare, di non
mollare, di non crollare quando il gioco si
fa duro, e l’umiltà di ridefinire il percorso,
la pazienza di ricominciare daccapo. Perché una vita che non si slancia verso qualcosa che è più oltre, è solo una riedizione
infinita dello stesso film e una smisurata
noia.
Rosella De Leonibus
40
FATTI E SEGNI
cari nostri vecchi
Enrico
Peyretti
ene e male – L’amore toglie il male
col perdono. Il male non toglie
l’amore con l’odio. Bene e male non
si equivalgono. Il bene è colpito ma
non è soppresso. Il bene resta, passa oltre, per vie anche invisibili.
Anche il male resiste, si propaga, si radica.
Ma basta un atto buono ed esso svanisce lì,
dove il bene avviene. L’elemosina cancella
molti peccati. Farò altri peccati, ma Dio ricorderà la mia elemosina più dei miei peccati. Se il nostro cuore ci condanna – cioè la
coscienza del male in noi e attorno a noi ci
sovrasta e ci lascia senza risorse – Dio è più
grande del nostro cuore (prima lettera di Giovanni, 3, 20). Il bene ha potere sul male, non
viceversa. Dirai: il mondo ha soppresso Cristo, oppure ha catturato e legato la sua parola, che è lo stesso. Ti dirò: nessuna cattura
e nessun adattamento han potuto far dimenticare Gesù, il suo messaggio sempre altro,
inquietante, imprendibile. Dirai: ma forse
sarà dimenticato; lui stesso si è chiesto se
troverà fede al suo ritorno. Ti dico: è vero!
Tutto ciò che ora possiamo fare è credere al
bene più che al male, e farlo.
B
Come il serpente – Ripara, o Dio, se sei giusto come giurasti a noi, ripara i dolori che
la migliore e la peggiore delle tue creature
infligge agli altri tuoi animali e alla creazione che geme nelle doglie. Come il serpente di quel giardino, noi siamo solamente la più astuta di tutte le fiere. Eppure tu
sei venuto nella nostra specie ingrata e hai
ficcato sete inesausta di te nel nostro cuore
impazzito. Se sei giusto, o Dio, come giurasti, tu devi ora salvare gli animali e la terra
dalle grinfie umane. Adesso tocca a loro il
tuo amore privilegiato e forse sarà meno
sprecato.
Dimenticare – Sì, si dimentica anche Gesù.
Il suo natale, l’ultimo residuo cristiano che
ci restava, avviene ormai senza di lui. Ho
visto nelle vetrine presepi senza alcun riferimento alla sua nascita: campagna d’inverno, capanne e pastori, nessun segno di
lui. Cartelloni pubblicitari incitano alle
spese: «doppio telefonino, doppio natale»
(in inglese, ovviamente). Non angeli scendono a dare annunci, ma Babbinatali cretini si arrampicano per settimane ai balconi come mosche, o come pagliacci. Sem-
brano messi lì per istruire i ladri.
Guerra – Abitiamo case pacifiche, e sulla
parete, con le foto rugginose dei vecchi trapassati, ci sono anche le medaglie che alcuni di loro meritarono facendo la guerra, o
costretti, o anche convinti. Chissà in quale
casa si è pianto, per quella medaglia, e si
conserva un’altra foto ingiallita.
Illusione – Siamo alla frutta! – Ah, beh, c’è
ancora il dolce.
Stupidità – Ogni volta che guarisco da un
raffreddore mi sento di nuovo immortale.
Vecchi – Vediamo i nostri vecchi declinare.
Spesso affondano nella mezza morte, come
chi s’inoltra nella nebbia, o chi, cedendo,
cessa di dibattersi nel gorgo. Sottratti al
cerchio della comunicazione, prigionieri di
una distanza immateriale, energia esaurita
e spenta, ci appaiono scatole vuote, volti
senza persona, diventano per noi condannati che predicono la nostra possibile condanna. Oggetti passivi di cura e di pena,
perduto il discorso umano, sono infanti che
crescono all’indietro, verso il rovescio del
nascere. La loro lunga passione ci pare abbandonata da Dio. Ben più di tre sono le
loro infinite ore di croce. Eppure, essi sono
mistero di sostanza, puramente creduta,
dietro l’impenetrabile apparenza. Anche
nell’estrema decadenza, la vita impedita è
vita umana. Servirli è una inutile pietà, che
forse rivolgiamo a quel che potremo essere
un giorno noi stessi, con orrore. Sono perduti e non perduti, sono lasciati a noi per
prova e ammonimento. Preghiamo che l’ora
del passaggio venga a loro pietosa: che venga sorella e non nemica, come nemico è il
loro stato presente, e che nessun’arte umana prolunghi quella morte spacciandola per
vita. Gli antichi, nella fede, chiamavano
angelo della morte l’ospite sgradito della
casa all’ora di un decesso. Angelo e non demonio è la morte naturale se non è arrestata sulla soglia, se non è negata al corpo che
amavamo, che ora vuol morire, come la sera
si vuol dormire. Cari nostri vecchi già nell’ombra, immagine possibile del mio domani, come prego io per voi la luce nuova,
pregate voi quell’angelo per me, che venga
buono e sollecito, non ladro di coscienza, ma
guida nel passaggio, alla mia ora.
❑
41
ROCCA 1 MARZO 2006
COSE
DA
GRANDI
dal loglio sono i nostri pensieri confusi da
analizzare e discernere con cura, le montagne da scalare per andare a prendere
qualcosa di prezioso sono la possibilità di
andare più avanti nella conoscenza di sé,
e scoprire che una umile erba, una semplice fonte, sono in grado di compiere prodigi ci aiuta a ricordare che non c’è in noi
niente che sia troppo banale per essere
prezioso e utile per vivere. Poi ci sono gli
inganni, che l’eroe delle fiabe deve saper
riconoscere, e di solito mostrano le cose
più facili, o più gradevoli, e nascondono
insidie dietro alle apparenze. Non sono
sempre fuori di noi gli inganni. A volte sono
dentro, e sono i più difficili da riconoscere, quando per esempio costruiamo un
magnifico alibi per non fare, o per rinviare, o svalutiamo le mete che ci fa fatica
conseguire, ovvero ci si racconta che sono
impedite dalla presenza di nemici. Se l’eroe
impara a fiutare gli inganni, a non cadere
in trappola, incontra finalmente gli alleati. Spesso nelle fiabe sono animali umili, o
persone in apparenza di poco conto, e allora ci raccontano di come possiamo valorizzare competenze e capacità umili e secondarie. Oppure hanno poteri magici, e
ci fanno fare cose altrimenti impossibili.
Ma arrivano solo quando ne abbiamo sperimentato dolorosamente il bisogno, e solo
a questo punto. Ecco le risorse interne più
potenti, quelle veramente nuove, sviluppate dal confronto con la foresta e le prove
da compiere.
E la meta può essere finalmente conseguita.
Bertrand
Russell
il coraggio delle proprie idee
ROCCA 1 MARZO 2006
Giuseppe
Moscati
G
eniale, brillante, a volte caustico, mai domo. Un intellettuale
di razza, Bertrand Russell.
La stessa biografia del pensatore gallese (1872-1970), tra l’altro
premio Nobel per la Letteratura (1950), è un testamento intellettuale
aperto. Aperto innanzitutto al mondo delle nuove generazioni, che leggendo le sue
pagine e seguendo le sue argomentazioni
hanno la possibilità di confrontarsi con
un rigoroso metodo logico-matematico di
indagine filosofica. Ma allo stesso tempo
anche con una visione del mondo che
prende le mosse da un instancabile interrogarsi – da molti additato come spregiudicato – sui rapporti tra etica e religione,
tra morale tradizionale e scienza, tra ambito del bene politico e sfera della felicità
individuale.
Certo, per chi si dedicasse alla lettura di
Perché non sono cristiano il compito non
sarebbe per nulla facile. A fronte del portato etico-religioso dello scandalo della
croce, a fronte del paradosso/paradigma
del sacrificio di uno per tutti e dell’assunzione in un singolo «di tutti i peccati del
mondo», il lettore si troverebbe dinanzi
le parole – quelle sì caustiche – di un pensatore che non si tira mai indietro, che
non rinuncia mai a pronunciarsi al cospetto di questa o quell’autorità, di questa o
quell’istituzione.
un impegno militante per la pace
Estremamente dinamico, anticonformista, sempre pronto a ripensare criticamen42
te la tradizione educativa, socio-politica,
culturale oltre che quella squisitamente
filosofica. Un intellettuale coraggioso,
Bertrand Russell.
La sua attività è sempre stata frenetica,
vissuta tra mondo universitario, saggistica, dibattiti di politica internazionale e
confronti pubblici su svariate tematiche,
quando aveva occasione di pungolare il
dogmatismo pseudoscientifico e l’autoritarismo religioso, di esporre le sue tesi
‘progressiste’ in materia di morale sessuale, di dire la sua su «educazione e ordine
sociale» o di muoversi con disinvoltura tra
antinomie, assiomi, inferenze e paradossi. Ogni suo intervento è sempre stato caratterizzato da sincerità intellettuale, da
un’estrema chiarezza delle tesi esposte e
da una totale assenza di ipocrisia. Anche
a costo di vedere i suoi libri censurati, di
rimetterci l’insegnamento (a Cambridge,
a New York…) e di finire in carcere come
gli è accaduto durante la I guerra mondiale appena si è dichiarato pacifista o nel
1961 in quanto organizzatore, davanti alla
sede del ministero della Difesa britannico, di un sit-in che richiamava l’attenzione sull’urgenza del disarmo senza condizioni.
Credo significativo partire da qui, da questo suo impegno militante per la pace e
per la fratellanza tra i popoli proprio perché tale aspetto non può essere considerato secondario per «leggere» una figura
come quella di Russell, per interpretare
in profondità le sue innumerevoli battaglie. Battaglie portate avanti per far emergere finalmente la verità sul Vietnam,
battaglie combattute contro l’inquisitorio maccartismo e soprattutto per conquistare la garanzia di un diritto universale alla (ricerca individuale della) felicità.
Da questo spirito di lotta culturale nasce
non a caso il manifesto redatto contro la
bomba atomica, documento fondamentale per la costituzione del Movimento
Pugwash e firmato tra gli altri anche da
Albert Einstein, che di Russell aveva una
stima memorabile ricambiata. E proprio
in virtù dell’atteggiamento di fondo di
Russell nei confronti del mondo, atteggiamento che a mio avviso fa di lui un perfetto nonviolento più che ‘semplice’ pacifista, possiamo riandare al dialogo con il
nostro Aldo Capitini e alla formazione
dello stesso Tribunale Russell, istituito per
denunciare i crimini di guerra e le violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo e
dedicato alla memoria di un grande maestro del nostro tempo. Maestro per il suo
essere lucido lettore delle situazioni di dominio dittatoriale, anche di quelle più
subdole; per la sua originale interpretazione della storia del pensiero occidentale; per il suo elogio di quella libertà che
non scade mai a indifferenza.
la conoscenza come dibattito razionale
Eccezionalmente curioso, dotato di un
grande senso dell’ironia come pure di una
seria e sincera umiltà intellettuale. Un intellettuale leale, Bertrand Russell.
Fin da giovane, vale a dire sin dai tempi
delle sue frequentazioni degli ambienti
che contavano (il Circolo di Bloomsbury, il Trinity College di Cambridge…) e dai
suoi esordi di eco platonica poi superata
con decisione, Russell si è fatto apprezzare come logico, matematico ed epistemologo in genere. Ma questo, credo, soprattutto perché la sua formazione si andava sempre più arricchendo di una capacità davvero originale, quella di assorbire al meglio – per poi rielaborarla e attualizzarla – la lezione dei maestri del
passato, o degli stessi colleghi a lui
contemporanei, sempre accompagnando
la sua critica ad un profondo rispetto per
le posizioni e per le opinioni altrui. Testimonianza preziosa di ciò sono le tante lezioni, più volte ripubblicate, che negli anni ha tenuto da Boston a Pechino,
da Harvard a Los Angeles... Che fossero
classici del pensiero, come Leibniz, op-
pure scienziati dell’epoca, come quel Giuseppe Peano dell’Università di Torino con
cui ebbe un felice, significativo incontro
parigino ad un congresso internazionale
di filosofia (1900), oppure ancora fossero teorie, come quella socio-politica propria della socialdemocrazia tedesca o
quella scientifica della relatività einsteiniana, Russell prima di tutto si poneva
in ascolto e poi ricercava sempre il dialogo costruttivo.
Ecco, dunque, che abbiamo il Russell della «teoria dei tipi» e della «teoria delle descrizioni», del concetto di «sensibilia» e
della «filosofia dell’atomismo logico». Ma
ecco anche, vicino se non dietro a questo
Russell, quello dei fertili e interminabili
colloqui con l’allievo Wittgenstein – che
peraltro egli non seguiva fino alle estreme conseguenze di filosofia del linguaggio –; ecco i suoi L’Abc della relatività e
L’Abc degli atomi ed altre opere a carattere divulgativo; ecco ancora le sue riflessioni sulla perenne incertezza della conoscenza umana.
Ma quei colloqui, quegli scambi di opinioni e quel continuo dibattere su cosa si
intende per conoscenza, che egli vedeva
come una ricerca continua di prove di
quello a cui siamo di volta in volta invitati a credere, forse ci suggeriscono qualcosa di insolito. La storia della scienza e
della filosofia è fatta anche di incontri
informali, magari attorno a un camino e
davanti a una tazza di tè.
«I grandi uomini
non ci hanno mostrato soltanto che
cosa evitare.
Ci hanno anche dimostrato che è nel
potere dell’uomo
creare un mondo
di splendente bellezza e di trascendente gloria»
Bertrand Russell
Giuseppe Moscati
Suggerimenti bibliografici
di B. Russell: Storia della filosofia occidentale,
Longanesi, Milano 1966; Matrimonio e morale,
Longanesi, Milano 1966; La conquista della felicità, Longanesi, Milano 1967; I problemi della
filosofia, Feltrinelli, Milano 1970: Dio e la religione, Newton Compton Roma 1994; Perché
non sono cristiano, Tea, Milano 1997; La visione scientifica del mondo, Laterza, Roma-Bari
2000.
e su B. Russell: R. Shönman (a cura di), B.
Russell filosofo del secolo, Longanesi, Milano
1974; S. Rota Ghibaudi, B. Russel, Franco Angeli, Milano 1985; M. Di Francesco, Introduzione a Russel, Laterza, Roma-Bari ’90; M.
Alcaro, B. Russel, Cultura della Pace, S.
Domenico di Fiesole 1990; A.J. Ayer, B. Russell,
Mondadori, Milano 1992; R. Monk, Russell,
Sansoni, Firenze 1998; C. Senofonte, Scienza,
religione e morale in B. Russell, Vivarium, Napoli 2002.
ROCCA 1 MARZO 2006
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
43
CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE
estremamente complesso cercare
di interpretare un mondo come il
nostro, sempre più precariamente
in bilico tra l’evidenza del meticciato e della mescolanza interculturale e il desiderio di riacciuffare
per i capelli una parvenza di identità forte
e consolatoria. Viviamo, così, scissi tra la
retorica di chi vorrebbe negare la realtà,
evocando un passato mitico in cui inscrivere i grandi valori perduti di matrice cristiana, e l’indifferenza di altri, i quali si
lasciano scivolare addosso la complessità
di un presente, che, inesorabile, ci chiama
a nuove sfide e a ridisegnare i confini con
l’alterità (1). Mentre ci si divide sul significato del termine cultura, poi, si corre il rischio di mettere al rogo ogni tentativo di
dialogo e di mutua comprensione, bollandoli come pericolose attività filo-relativiste. E giù a dire ogni sorta di male contro
il relativismo, demonizzato come una peste culturale di cui avere orrore, senza cercare di posizionare il problema e tentare
di comprendere che il relativismo filosofico non può essere liquidato con frasi da
bar e inteso corrivamente come un’ideologia senza valori e anti-religiosa.
le trappole
ROCCA 1 MARZO 2006
In questo humus culturale, da una parte
stizzito e nevrotico, chiuso ad ogni possibilità di comprensione, radicale e impietoso nei giudizi perentori che riguardano
le altre culture, e, dall’altra, sordo, apatico
e indifferente, innervosito da ogni problematizzazione e da ogni approfondimento,
ha buon gioco chi rilancia idee di un nero
fondamentalismo, di un radicalismo in
grado di tingersi anche di rosso sangue. È
per questo motivo che mi hanno molto
colpito due testi, uno di una scrittrice
ebrea, e l’altro di uno scrittore-giornalista
musulmano, in cui si analizza come sia
possibile, all’interno dei due mondi religiosi di riferimento, cadere nelle trappole dell’integralismo militante e terrorista.
Da un lato, Carl Friedman (2) racconta in
Fuoco sacro la storia di un ragazzo ebreo
olandese, Hans Levie, il quale, vissuto fino
44
all’età di sedici anni in una famiglia aperta e progressista, a poco a poco si chiude
in un mondo a senso unico, fino a lasciare
i genitori per militare tra le fila di un’organizzazione eversiva sionista durante la prima guerra del Golfo. Dall’altro, Khaled
Fouad Allam (3) scrive un’accorata Lettera a un kamikaze, nel tentativo di ricondurre alle ragioni del dialogo e del perdono chi crede che l’unica via per preservare
la Verità sia quella di uccidere, immolandosi. Ciò che accomuna entrambi i testi è
l’esigenza profonda di affermare a chiare
lettere che chi sceglie la violenza pretende
di parlare in nome di tutti, ma non rappresenta che se stesso perché, come sottolinea Allam, «la morte non è mai una vittoria, quando trascina con sé le ombre inquiete della nostra incapacità di capire»
(4), o, come sostiene la Friedman, perché
«è vero che il mondo ha bisogno di luce,
ma non tutti gli ebrei portano la fiaccola,
così come non tutti i portatori di fiaccola
sono ebrei» (5).
fuoco sacro
L’intento della Friedman è proprio quello
di descrivere come si possa scivolare nella
cecità dell’integralismo senza accorgersene
e come sia facile, negli ambienti religiosi,
incoraggiare chi propone idee marmoree e
scoraggiare chi si fa portatore di tesi più
problematiche e dialogiche. Le religioni –
sembra affermare implicitamente la scrittrice olandese – amano molto di più l’intemperanza che il dialogo, nonostante i loro
proclami di pace; stimano maggiormente
chi si propone al mondo con perentoria saldezza come il servo della verità, piuttosto
che incoraggiare chi afferma di aver trovato e smarrito nello stesso istante la verità,
perché ha compreso che ogni certezza trovata è una scheggia di una Verità irriducibile in comodi ragionamenti e in facili sistemazioni del mondo. Il giovane Hans è il
prototipo dell’uomo religioso deteriore,
quello morbosamente avvinghiato alle sue
incrollabili verità: dalle più minuscole, che
riguardano il cibo o il divieto di toccare una
donna perché può essere impura; alle ma-
iuscole, inerenti al prossimo avvento del
Messia preannunciato dai segni naturali
straordinari, quali inondazioni, epidemie,
povertà. Quando poi decide di aderire al
movimento chassidico Chabad, le sue verità si tingono di sfumature politiche: Hebron
è una città ebraica, perché in essa sono situate le tombe dei patriarchi, e i palestinesi
se ne devono andare, perché sono «bugiardi e cani rognosi (6)».
Ciò che il lettore conosce di Hans è filtrato dalla voce narrante, un’amica di famiglia di cui non è mai rivelato il nome, e
che funge da controcanto alle esternazioni farneticanti di Hans: innanzitutto con
la sua storia personale di donna, fatta di
ribellione al dispotismo di un padre, rabbino e integralista, che pretendeva da lei
una vita al servizio di un marito impostole; poi, soprattutto, in quanto credente problematica, che non riesce a non vedere le
contraddizioni del suo mondo religioso e,
nello stesso tempo, non riesce a rinunciare
alla ricerca di Dio. Così, all’amica Thérèse,
sopravvissuta ai campi di sterminio, la quale, commentando la metamorfosi di Hans,
afferma che non sarà mai possibile una convivenza pacifica tra ebrei e musulmani, la
narratrice risponde che questo è già successo, in modi diversi, nei secoli passati, e
cita il caso del poeta, filosofo e rabbino
Hanaghid, che, ebreo, fu nominato visir del
califfo di Granada e capo dell’esercito islamico. Ma, al di là di questo – afferma la
narratrice – se è stato possibile per Thérèse
tornare a vivere in mezzo a persone che si
sono macchiate direttamente o indirettamente, con la loro indifferenza, dei crimini
orrendi della Shoà, «perché non dovrebbe
essere possibile, e anche più facile, vivere
in pace con i palestinesi? (7)».
Allo stesso modo, ai tentativi estremi di
Mirjiam, la madre di Hans, di giustificare
le scelte del figlio sostenendo che, in fondo, non fa nulla di male e che la sua ideologia è, alla radice, giusta perché «non si
può redimere il mondo senza estirpare il
male» (8), la narratrice risponde che forse
il mondo non è affatto da redimere e che
sta ad ognuno cercare di cambiare, di porre fine alla violenza, di lottare contro gli
egoismi e contro gli istinti anche giusti di
vendetta per costruire una società migliore. Ma Mirjam, tra la forza della ragione e
la paura di perdere il figlio, rigetta le tesi
dell’amica e le grida che Hans ha almeno
il coraggio di credere in qualcosa, contrariamente alla narratrice stessa che dubita
di tutto. Ciò di cui Mirjam non si rende
conto, tuttavia, è che il dubbio non coincide affatto con una mancanza di coraggio,
ma al contrario è l’espressione di un coraggio all’ennesima potenza, perché comincia sempre con un mettere in discussione se stessi. L’epilogo è necessariamente tragico: Hans finisce con l’uccidere, in
nome di Dio, un sedicenne palestinese; lo
arrestano e subisce la condanna a tre anni
di prigione e a due di cure psichiatriche.
macchine di morte
La sordità che impedisce ad Hans di comprendere le ragioni dell’altro è identica a
quella che, per Allam, rende disumano il
kamikaze, trasformando la persona in una
macchina di morte. Quello che il sedicente shahîd (martire) dimentica è che l’unità
e l’unicità di Dio non possono che manifestarsi, nella storia imperfetta, se non attraverso la molteplicità, come comprova
la Sura V del Corano, al versetto 48: «A
ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre, se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità
Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in
quel che vi ha dato. Gareggiate dunque
nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose
per le quali ora siete in discordia».
La volontà di leggere in maniera ossessiva
e univoca l’insegnamento complesso di Dio,
invece, spinge i fondamentalisti islamici a
rifiutare il dialogo e la ragione, ossia, in ultima istanza, l’humanitas, abbracciando
una logica di violenza. E questa, spesso, si
trasforma in crimine orrendo, un crimine
la cui ombra scura si estende sull’intero
islam, su tutta la umma, la comunità dei
credenti, la cui logica, invece, è totalmente
differente. È nella retorica che celebra un
passato mitico e perduto, incapace di fare i
ROCCA 1 MARZO 2006
Marco
Gallizioli
la linea scura dei fondamentalismi
È
45
ROCCA 1 MARZO 2006
dello stesso Autore
LA RELIGIONE FAI DA TE
il fascino del sacro nel postmoderno
per i lettori di Rocca
e 10,00
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richiedere a [email protected]
46
Il vero interrogativo che deve dilaniare la
coscienza di ogni credente, quindi, non
pretende certo una risposta mortifera, ma,
al contrario, si deve aprire alla speranza e
deve suonare come la ricerca di un passaggio che conduca gli uomini al di là degli egoismi e delle vendette, rendendoli capaci di convivere pacificamente. E – rilancia Allam citando E. Jabès – ognuno deve
riscoprirsi responsabile non tanto e non
solo di se stesso, ma piuttosto della totalità del mondo, di tutto ciò che è concepibile. L’assunzione di quest’ottica solidale non
potrà mai condurre a pensieri di morte,
non determinerà mai la trasformazione
dell’umano in una realtà che tradisce
l’umanità stessa, non potrà mai generare
l’errore di chi, offrendosi alla morte e trasformandosi in uno strumento di distruzione, si considera un martire di Dio.
Ma l’ottica di Jabès, sottoscritta da Allam,
parla anche alle coscienze di chi non è e
non sarà mai kamikaze, e spinge a comprendere che nessuno può tirarsi fuori dal
gioco sporco della storia, perché ogni nostro comportamento compromette il mondo, se nega la speranza, se divide, se crea
ingiustizie, se rimane indifferente. Nessuno, quindi, ebreo, cristiano, musulmano o
laico può ritenersi neutrale e non coinvolto nei processi della storia. A ciascuno
compete l’onere di credere in un mondo
migliore e la volontà di realizzarlo, attivando quello sguardo cosmopolita di cui parla U. Beck, ossia la capacità di guardare
dentro il mondo come se fosse di vetro e
dove le differenze e i contrasti vengono
definiti «(…) a partire dal presupposto che
gli altri sono uguali» (12); un mondo in cui
sia l’odio che l’empatia sono possibili e nel
quale a scegliere fra questi due poli rimane ciascun individuo.
Marco Gallizioli
Note
(1) Cfr. J. Audinet, Il tempo del meticciato,
Queriniana, Brescia 2001, in particolare i capp.
III e VI.
(2) C. Friedman, Fuoco sacro, in Id., L’amante
bigio, Giuntina, Firenze 2001, pp. 43-105.
(3) K.F. Allam, Lettera a un kamikaze, Rizzoli,
Milano 2004.
(4) Ib., p. 15.
(5) C. Friedman, op. cit., p. 73.
(6) Ib., p. 82.
(7) Ib., p. 85.
(8) Ib., p. 89.
(9) K.F. Allam, op. cit., p. 27.
(10) cfr. Ib., p. 76.
(11) Ib., p. 79.
(12) U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci,
Roma 2005, p. 19.
TEOLOGIA
Dio è amore
un itinerario di lettura
Carlo
Molari
I
l giorno 25 di gennaio, a un mese dalla
data della sua pubblicazione (Natale
2005), è stata resa nota la prima Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI. Il
titolo è la breve formula della prima
lettera di Giovanni con cui il documento inizia: Dio è amore (1 Gv. 4,8). È una
articolata riflessione sull’amore cristiano,
come recita il sottotitolo. Lo stesso Papa,
lunedì 23 gennaio, rivolgendosi ai partecipanti a un convegno, promosso dal Pontificio Consiglio «Cor Unum» sul tema «Ma
di tutte più grande è la carità» (1 Cor 13,13),
ha spiegato la ragione della sua scelta. Lo
stimolo gli è venuto dal fatto che oggi di
amore si parla molto, ma troppo spesso in
modo ambiguo e confuso. «La parola amore oggi è così sciupata, così consumata e
abusata che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra», ha detto il
Papa. «Eppure è una parola primordiale,
espressione della realtà primordiale; noi
non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla
e riportarla al suo splendore originario,
perché possa illuminare la nostra vita e
portarla sulla retta via». «È stata questa
consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l’amore come tema della mia prima
Enciclica», dove «i temi ‘Dio’, ‘Cristo’ e
‘Amore’ sono fusi insieme come guida centrale della fede cristiana».
Il documento è breve, 42 paragrafi, ma è
molto denso e chiaro. Nella prima parte
(nn. 2-18) di «indole più speculativa» (n.
1) il Papa vuole mostrare «l’unità dell’amore nella creazione e nella storia della salvezza». Intende cioè chiarire come le «diverse dimensioni» dell’amore esprimano
un’unica dinamica fondamentale, che nasce dall’azione creatrice di Dio, fonte
primigenia e continua del processo di crescita della persona e di sviluppo della specie umana. La seconda parte (nn. 19-42)
di «carattere più concreto» presenta alcu-
ne riflessioni su «l’esercizio ecclesiale del
comandamento dell’amore per il prossimo» (n. 1). L’intenzione esplicitamente dichiarata è di «suscitare nel mondo un rinnovato dinamismo di impegno nella risposta umana all’amore divino» (n. 1).
l’unità dell’amore nella creazione
e nella salvezza
La prima parte prende l’avvio dalla constatazione che al termine «amore» oggi
«annettiamo accezioni del tutto differenti» (n. 2). Questo fatto ha indotto il Papa a
dedicare alcune lucide pagine (nn. 2-8 Un
problema di linguaggio) alla terminologia
dell’amore in particolare ai significati dei
termini greci che costituiscono la radice
di molte parole delle lingue moderne utilizzate per designare l’esperienza dell’amore. I tre termini sono: eros (cui corrisponde il verbo erào), che designa l’amore passionale, in particolare «tra uomo e donna»,
passione, «che non nasce dal pensare e dal
volere, ma in certo qual modo si impone
all’essere umano» (n. 3); filìa (con il verbo
fileo) che indica l’amore di amicizia e di
tenerezza; e agàpe (con il verbo agapào),
che, più raro nella lingua greca, «diventò
l’espressione caratteristica per la concezione biblica dell’amore» (n. 6) e che ha caratterizzato, fin dal Nuovo Testamento,
anche la tradizione cristiana.
L’eros, l’amore passionale, «è come radicato nella natura stessa dell’uomo» (n. 11), e
«offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino» (n. 5). Spesso tuttavia è
stato falsamente divinizzato in se stesso ed
è giunto ad espressioni aberranti. Dalle
degenerazioni che ne sono derivate, è apparso che «l’eros ebbro e indisciplinato,
non è ascesa, «estasi» verso il Divino, ma
caduta, degradazione dell’uomo. Così diventa evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uo47
ROCCA 1 MARZO 2006
CULTURE
E RELIGIONI
RACCONTATE
conti con il presente, che una parte dell’islam si perde; è «nel male oscuro del disagio che crescono gli apprendisti stregoni», quei cattivi maestri che spingono alcuni giovani sfiduciati a leggere il Corano solo
nel segno dell’intransigenza. È nella cecità
che impedisce di vedere il conflitto delle
interpretazioni del Corano che si agita il
virus dell’integralismo violento. «La religione – afferma con la forza di una poesia urgente Allam – invece è anche il cantico delle nostre utopie, ma non si danno utopie
che non siano collettive (9)». La religione,
quindi, è fatta per essere condivisa, per aprire varchi alla speranza e all’altro, per cercare una strada comune sempre e caparbiamente, non per dividere o ingessare la ragione in forme stereotipate e contrarie al
dialogo. Di più: la religione deve spingere
al perdono e non al rilancio della violenza;
deve spezzare la spirale vittima-carnefice e
aprire gli orizzonti di un senso più grande,
in cui si può perdonare senza dimenticare,
per costruire insieme un mondo migliore,
un mondo in cui Dio non venga offeso dalle sue stesse creature (10).
Ogni uomo religioso – sostiene Allam – gioca la sua fede nel rapporto tra la storia e la
verità, cercando di inscrivere la verità della rivelazione nei meandri della storia, perché ogni situazione chiede al credente un
approfondimento della verità, una sua contestualizzazione, un allargamento della capacità di comprensione della verità stessa
e non uno sterile ripiegamento in formule
rinsecchite del passato. Se il grande messaggio dell’Islam è quello di preservare la
vita e di esaltarla (Sura V, 32), allora il kamikaze, foriero di morte e di distruzione,
è l’anti-uomo, è colui che spezza il legame
tra l’umanità e il Creatore. Il mondo nella
sua interezza e l’islam nel particolare – ribadisce con forza lo scrittore – avvertono
oggi più che mai l’esigenza di «nuove parole, di nuovi linguaggi, perché sono in gioco i valori, la capacità di accoglienza, le
identità, la globalizzazione, il dialogo fra
culture, la democrazia e la libertà» (11).
48
diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi
lo cerca» (n. 6). Diventa «estasi, non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi
come cammino, come esodo permanente
dell’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e, proprio così, verso il
ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di
Dio» (n. 6). Anche l’eros perciò «vuole sollevarci ‘in estasi’ verso il Divino, condurci al di
là di noi stessi» (n. 5). «Se non realizza questo processo e non matura «fino alla sua vera
grandezza» (n. 5) l’eros «decade e perde la
sua stessa natura» (n. 7). A questa dinamica
è collegata la fedeltà nel tempo «perché la
sua promessa mira al definitivo: l’amore mira
all’eternità» (n. 6).
Credo sia degna di nota l’assenza completa di ogni riferimento allo stato primitivo
dell’uomo e alle ferite del peccato originale. Soprattutto in un teologo di dichiarata
affinità agostiniana questa assenza è rilevante e consente di sottolineare le positive
valenze dell’eros. Credo si possa dire che
l’inadeguatezza dell’eros come viene descritta provenga dal fatto che nelle sue prime forme istintive esso è incompiuto come
la persona che lo esprime. Resta vero infatti che «questo processo rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai
‘concluso’ e completato, si trasforma nel
corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso» (n. 17). A
questa maturazione il fanciullo e l’adolescente devono essere condotti dall’amore
gratuito dei genitori e degli educatori. Solo
chi è amato gratuitamente è in grado di
giungere alla maturità dell’amore.
la novità dell’agape
In questo processo la scoperta dell’amore
di Dio acquista una funzione fondamentale sia per la crescita delle persone, come
per lo sviluppo di comunità creatrici e
oblative che alimentano l’amore maturo.
Nel cammino dell’amore l’esperienza
biblica è particolarmente istruttiva. «La
fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto
a quell’originario fenomeno umano che è
l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni» (n. 8).
La novità biblica viene ricondotta a due elementi fondamentali: la nuova immagine di
Dio e la corrispondente nuova immagine
dell’uomo. L’immagine di Dio è caratterizzata dall’iniziativa di creare per amore e di
offrire alle sue creature perdono dei peccati: la gratuità quindi e la misericordia.
«L’eros di Dio per l’uomo è insieme totalmente agàpe» (n. 10). Per questo l’amore
che egli suscita nell’uomo assume la forma
di eros, ma poi si sviluppa come agàpe.
L’immagine nuova dell’uomo è quella che
scaturisce dalla complementarità sessuale e in genere dal carattere relazionale della sua crescita: i rapporti sono l’ambito
della sua piena maturazione.
Interessante è notare che Benedetto XVI
parla della novità biblica con riferimento
prioritario all’Antico Testamento. Quanto al
Nuovo egli osserva che la sua «vera novità…
non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti, un realismo inaudito» (n. 12). Egli non
ha interesse a citare le formule giovannee
sul «comandamento nuovo» (Gv 13, 34).
In Gesù acquista rilievo concreto e radicale
l’immagine biblica di Dio e l’immagine dell’uomo chiamato a diventare figlio di Dio.
Le sue parabole della misericordia «non
sono solo parole, ma costituiscono la spiegazione del suo stesso essere ed operare»
(n. 12). Particolarmente il gesto di amore
supremo della croce, quando «amò sino alla
fine» (Gv. 13, 1) appare che Dio «si dona
per rialzare l’uomo e salvarlo, amore, questo, nella sua forma più radicale» (n. 12).
L’Eucaristia, perciò, che è il memoriale del
gesto supremo d’amore di Dio realizzato
in Cristo, «ci attira» come suoi discepoli
«nell’atto oblativo di Gesù... Veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione…
Diventa unione» (n. 13). Unione con Dio
in Cristo e quindi unione con tutti i fratelli
che partecipano dello steso dono. È solo
l’amore di Dio accolto che rende possibile
il tipo nuovo di amore verso i fratelli, che
viene chiamato agàpe. In esso «amore per
Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé. Da ciò si comprende come agàpe
sia ora diventata anche un nome dell’Eucaristia» (n. 14). «Nel «culto» stesso, nella
comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri.
Un’Eucaristia che non si traduca in amore
concretamente praticato è in se stessa
frammentata» (n. 14).
la Chiesa «comunità d’amore»
La riflessione sulla Eucaristia, sacramento dell’intreccio dell’amore di Dio e dei
fratelli, conduce logicamente alla seconda parte, che riguarda l’esercizio ecclesiale dell’amore o «il servizio della carità» delle comunità (n. 19). La pratica dell’amore, infatti, «è anche un compito per
l’intera comunità ecclesiale, e questo a
tutti i suoi livelli»: da quella locale (parrocchie o gruppi), alla quella particolare
(diocesi), «fino alla chiesa universale
nella sua globalità» (n. 20). Fin dall’inizio
della sua storia «l’intima natura della
Chiesa si esprime in un triplice compito:
annuncio della parola (kerygma-martyria),
celebrazione dei sacramenti (leiturgia),
servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e
non possono essere separati l’uno dall’altro» (n. 25).
La «diaconia» della Chiesa, «il servizio dell’amore del prossimo esercitato comunitariamente e in modo ordinato» (n. 21), non
deve essere considerata una semplice «attività di assistenza sociale che si potrebbe
anche lasciare ad altri, ma appartiene alla
sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza» (n. 25). La «diaconia» quindi ha avuto sempre un posto rilevante nelle comunità e si è tradotta in apposite «strutture giuridiche» (n. 23), che
hanno assunto forme diverse lungo i secoli, ma che hanno sempre conservato come
nucleo essenziale il principio della fraternità: «all’interno della comunità dei credenti
non deve esservi una forma di povertà tale
che a qualcuno siano negati i beni necessari per una vita dignitosa» (n. 20); «nella
Chiesa, famiglia di Dio» «non deve esserci
nessuno che soffra per mancanza del necessario» (n. 25). Tutti i bisognosi sono oggetto delle preoccupazioni ecclesiali, anche
«il bisognoso incontrato «per caso» (cfr. Lc
10, 31), chiunque egli sia; per «l’universalità del comandamento dell’amore, vi è però
anche un’esigenza specificamente ecclesiale», secondo «la parola della lettera ai Galati ‘Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede’ (6,10)» (n. 25).
Il servizio della carità svolto dalla chiesa
nella società ha esercitato un fascino notevole al punto da suscitare emulazioni da
parte di altre religioni e anche di nemici,
come Giuliano l’Apostata (†363) che viene
espressamente citato dal Papa: «I «Galilei»
– così egli diceva – avevano conquistato in
questo modo la loro popolarità. Li si doveva emulare ed anche superare. L’imperatore in questo modo confermava, dunque,
che la carità era una caratteristica decisiva della comunità cristiana» (n. 24). Tutta
la storia della Chiesa è intrecciata dalle
invenzioni dell’amore dei santi (fr. N. 40).
ROCCA 1 MARZO 2006
ROCCA 1 MARZO 2006
TEOLOGIA
mo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende» (n. 4).
La preoccupazione principale del Papa è
mostrare l’unità delle «diverse dimensioni» (n. 8) dell’amore indicate con questi
termini. L’insistenza con cui egli sottolinea
la loro profonda unità ha due ragioni
fondamentali: da una parte la scissione,
che oggi è facile rilevare nelle abitudini
sociali, tra l’esercizio della sessualità guidata dall’eros, e lo sviluppo dell’amore
oblativo; dall’altra la tradizione dualista
che nei secoli scorsi ha condotto anche il
cristianesimo ad essere accusato di avere
«avvelenato» (n. 3 e n. 5) e «distrutto
l’eros»(n. 4) e di essere quindi «avversario
della corporeità» (n. 5). Il Papa riconosce
che «tendenze in questo senso ci sono sempre state», ma tiene a sottolineare che «la
fede cristiana ha considerato l’uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda
sperimentando proprio così ambedue una
nuova nobiltà» (n. 5). Succede però che «di
volta in volta, l’una o l’altra dimensione
può emergere maggiormente» fino a distaccarsi «completamente l’una dall’altra».
Quando ciò accade «si profila una caricatura o in ogni caso una forma riduttiva
dell’amore» (n. 8). Potremmo dire che le
espressioni estreme del dualismo sono:
l’angelismo disincarnato e l’erotismo
autocentrato. Il primo è proprio dell’uomo «che ambisce di essere solo spirito e
vuole rifiutare la carne come eredità soltanto animalesca» (n. 5) perseguende
illusoriamente un amore senza componente corporale. Un amore di questo tipo conduce a quei deserti dello spirito dove non
soffia nessun alito di vita e dove anche i
gesti più nobili sono sterili.
D’altra parte l’erotismo fine a se stesso «priva l’uomo della sua dignità, lo disumanizza»
(n. 5). Il Papa constata che «il modo di esaltare il corpo, a cui oggi assistiamo, è ingannevole. L’eros degradato a puro ‘sesso’ diventa merce, una semplice cosa che si può comprare e vendere, anzi l’uomo stesso diventa
merce» (n. 5). In conclusione l’eros «richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di
purificazioni e di guarigioni» (n. 5) «attraverso le quali l’eros diventa pienamente se
stesso, diventa amore nel pieno significato
della parola» (n. 17), perviene alle forme più
oblative e include «per così dire, l’uomo nella sua interezza» (n. 17). Allora l’amore «diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca
più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato:
Chiesa e politica
Non sono mancate critiche contro lo stile
caritatevole della Chiesa da parte di chi, in
49
50
sona alla vita pubblica» (ib.). È loro missione «configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia,... secondo le rispettive competenze e
sotto la propria responsabilità» (ib.). Anche questa azione deve essere animata dall’amore che si configura quindi come «carità sociale» (n. 29 cita il num. 1939 del
Catechismo della Chiesa Cattolica).
Questa affermazione ha una particolare
importanza perché i fedeli laici secondo
la terminologia invalsa dopo il Concilio
sono quei battezzati che «nella loro misura, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, per la loro
parte compiono, nella chiesa e nel mondo,
la missione propria di tutto il popolo cristiano» (LG. 31). La loro attività politica
quindi non è privata perché è svolta per
compiere la missione della Chiesa nel mondo «secondo le rispettive competenze e
sotto la propria responsabilità» (n. 29). I
laici perciò debbono operare consapevoli
di compiere una missione ecclesiale. La
loro attività è personale ma coinvolge la
loro appartenenza ecclesiale.
le opere di carità
Gli ultimi paragrafi dell’Enciclica presentano alcune strutture caritative sorte in questi
ultimi decenni nel contesto della «situazione generale dell’impegno per la giustizia e
per l’amore nel mondo odierno», e tracciano il «profilo specifico dell’attività caritativa
della chiesa» lo stile interiore che deve caratterizzare l’attività a servizio dell’uomo»
(nn. 30 e 31) in modo che «non si dissolva
nella comune organizzazione assistenziale,
diventandone una semplice variante» (n. 31)
L’attività caritativa della Chiesa deve quindi
rispondere alle necessità concrete della
gente, con vera professionalità, in modo
indipendente da partiti e da ideologie, senza secondi fini di proselitismo, con totale
gratuità. Solo così gli operatori di carità
diventano «testimoni credibili di Cristo»
(n. 31) e svolgono la missione ecclesiale
nel mondo, perché fanno «entrare la luce
di Dio nel mondo» (n. 39).
Il richiamo finale è all’orizzonte teologale
della esistenza cristiana e alla preghiera. L’intreccio di fede, speranza e carità costituisce
infatti la trama essenziale di ogni attività
ecclesiale. L’amore agapico nasce dalla fede
e alimenta la speranza. In questa circolarità,
che riflette il dinamismo intimo della Trinità santa, si sviluppa quella armonia dei rapporti umani e fiorisce quella pace tra i popoli, che oggi è condizione assoluta di sopravvivenza della specie umana.
Carlo Molari
CONTROCORRENTE
eppure succede
A
Adriana
Zarri
ltri, su questo stesso numero di
Rocca, parleranno dell’enciclica.
Io vorrei parlare della quotidianità. Due discorsi che, all’apparenza, sembrano differenti e invece,
in realtà, sono un discorso solo,
modulato su diversi registri. Non quindi
ripetitivi, né contrapposti, né dialettici
ma paralleli, pur senza risultare monocordi.
L’enciclica infatti parla dell’amore di Dio
che si dipana, in forme sempre eguali e
sempre nuove, in tutti i giorni della vita.
La quotidianità è la vita stessa che esprime l’amore in forma laica, nel senso che
non occorre essere credenti per vederne
la diuturna inesausta novità; ma un credente in essa riconosce quell’amore cui
non serve un’enciclica né alcun discorso
pontificio, magisteriale e pastorale per
rendersi evidente, a chi ha occhi di fede.
Perciò potremmo dire che è un’enciclica
laica, in quanto leggibile da tutti, benché ciascuno, in ragione della propria
fede o della propria non credenza, vi scopra spessori diversi di senso o di non senso. Ciò a partire dall’interrogativo («chi
è mai l’uomo perché tu te ne curi?») all’edificazione («poco meno degli angeli
l’hai fatto»), all’assurdità di un’esistenza
che, per chi non ha fede, non ha senso o
ha un senso puramente terrestre e temporale. Tale senso che può ben essere generoso, nell’impegno civile per migliorare un mondo che però resta questo mondo, chiuso in se stesso e nel suo orizzonte temporale senza quella proiezione nell’eterno che al non credente pare utopica e illusoria. Ma è proprio questo senso
che tuttavia egli è tenuto a rispettare
come l’uomo di fede rispetterà un impegno solamente terrestre e pur non privo
di generosità e di dignità.
E riscopriamola, dunque, questa enciclica laica (e pur, per il credente, non priva
di sacralità) rappresentata dalla quotidia-
nità del nostro vivere terrestre, abbia o
non abbia proiezioni assolute: il nostro
viver contingente, fatto di ore e di stagioni, scandite dai nostri meccanici orologi, o dalle solari meridiane, scritte dall’astro diurno, in alcuni antichi muri, a
mezzodì. E l’occasione ci è data da un
fatto di cronaca, anzi da molti fatti che
sono un fatto solo: il dramma di chi non
sa leggere la bellezza e la varietà del quotidiano e, per movimentarlo, commette
gesti assurdi e, non di rado, criminali.
Ragazzi che, forse senza volere, uccidono, gettando sassi giù dai cavalcavia sulle autostrade, gridando di gioia ogni
qualvolta centrano un bersaglio. E una
delle ragazze responsabili ha confessato: «tirare sassi da un cavalcavia vuol dire
che non abbiamo niente dentro». Un giornalista ha commentato: «Colpiscono per
vincere la noia, per riempire il grande
vuoto di un’esistenza dove non succede
niente». A nostra volta commentiamo:
come non succede niente? È forse niente il sole che sorge ogni mattina e ogni
sera tramonta? È niente il cielo, la luna,
le stelle? Gli uomini, gli animali, i bambini che ridono, i cani che abbaiano, i
gatti che ronfano? È niente la collana dei
giorni e delle notti? Avete bisogno di far
succedere qualcosa di straordinario, inedito o addirittura criminale per accorgervi del perenne succedere quotidiano?
Come non succede niente? Succede tutto: basta aver occhi per vederlo. Succede
il giorno, succede la notte con la luna e
le stelle, succede la primavera, l’estate,
l’autunno con le nebbie, l’inverno con la
neve e la polenta gialla sulla mensa. Succede la gente che ride e che piange, che
ama e che odia (purtroppo è un succedere anche quello, sempre meglio del vostro niente). Succede tutto; succede la
vita: questa enciclica laica eppure sacra,
non scritta dal papa ma da Dio.
❑
51
ROCCA 1 MARZO 2006
ROCCA 1 MARZO 2006
TEOLOGIA
determinate circostanze, ha visto nella sua
azione un ostacolo al proseguimento della
giustizia, sia attenuando la coscienza delle
ingiuste disparità fra persone, ceti sociali e
popoli, sia contribuendo, con attività di
supplenza, al mantenimento di situazioni
disordinate, sia soffocando nel loro nascere movimenti e rivolte sociali in nome della nonviolenza o della carità verso tutti.
La parte di verità contenuta in questa critica spinge il Papa a chiarire la distinzione
tra l’azione della chiesa e quella delle strutture politiche preposte alla ricerca della giustizia. La Chiesa è sollecita alle esigenze
della giustizia, ma vi collabora illuminando le coscienze e indicando l’orizzonte della fede, che guida il cammino della giustizia. L’esperienza di fede, infatti, nella sua
«specifica natura di incontro con il Dio vivente» «è una forza purificatrice per la ragione stessa… la libera dai suoi accecamenti e perciò l’aiuta ad essere meglio se stessa» (n. 28). In questo modo la chiesa «vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la
percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in
base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale».
La chiesa perciò sente il dovere di offrire
«il suo contributo specifico», «attraverso la
purificazione della ragione e attraverso la
formazione etica... affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili» (n. 28).
La realizzazione della giustizia, tuttavia,
non spetta alla Chiesa come tale, bensì alle
strutture politiche, che sono appunto ordinate alla difesa dei diritti di tutti i cittadini e alla amministrazione dei beni comuni. Il Papa ricorda un detto di Agostino:
«Uno Stato che non fosse retto secondo
giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri» (n. 28).
A questo scopo egli distingue ciò che compete ai singoli fedeli nell’ambito politico da
ciò che compete alla Chiesa in quanto comunità. A questa come «soggetto direttamente responsabile», «come
opus
proprium», «compito a lei congeniale» appartiene la creazione di strutture caritative,
«come attività organizzata dei credenti»,
perché «corrisponde alla sua natura» (n. 29).
La Chiesa non può essere mai dispensata
dall’esercizio della carità anche perché «non
ci sarà mai una situazione nella quale non
occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l’uomo al di là della giustizia, ha
e avrà sempre bisogno dell’amore» (n. 29).
I fedeli laici, d’altra parte, in quanto cittadini hanno il dovere di «operare per un
giusto ordine della società» (n. 29). «Essi
sono chiamati a partecipare in prima per-
Rosanna
Virgili
Babele
propaganda
dominio
l rapporto tra profezia e potere è talmente vasto e articolato che ci pare il
caso di dedicare a questo aspetto più
di un articolo. Iniziamo con questo
primo intervento – cui ne seguiranno
altri due – che si concentra,
peraltro, non su un testo tratto dai libri
profetici propriamente detti, ma su una
pagina del libro dell’Apocalisse. Una scelta del tutto ortodossa, del resto, dato che
la Rivelazione contenuta in Apocalisse è
una autentica profezia, come recita il prologo: «(…) beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica
le cose che vi sono scritte» (Ap 1,3).
I
la torre di Babele
ROCCA 1 MARZO 2006
Il primo testimone biblico di un autentico
sistema di potere è la torre di Babele (cf.
Gn 11,1-9). Essa doveva essere qualcosa di
strabiliante, plastico simbolo di un impero di onnipotenza, quasi come le torri gemelle di New York! Segno di ricchezza, di
operosità, di intelligenza, di incomparabili capacità tecniche ed ingegneristiche,
nascondeva il progetto di un potere universale.
Esso era motivato da quella che oggi si chiamerebbe promotion, vale a dire: «facciamoci
un nome». E come ogni promotion, anche
la torre tendeva a uno scavalcamento dei
limiti: si trattava, appunto, di una torre la
cui cima urtava il cielo (cf. Gn 11,4). Enzo
Bianchi osserva acutamente che «nome»,
nel Giudaismo è sinonimo eufemistico di
«Dio»; infatti quando un uomo si fa un Dio
– ossia divinizza il proprio interesse e lo sostituisce all’altro uomo – accade ciò che
narra il midrash della torre:
«Divenne così alta che per salire fino alla
cima occorreva un anno intero. Agli occhi
dei costruttori un mattone divenne allora
più prezioso di un essere umano: se un
uomo precipitava e moriva nessuno vi ba52
dava, ma se cadeva un mattone tutti piangevano, perché per sostituirlo sarebbe occorso un anno.
In Babele: «tutta la terra aveva una sola
lingua e le stesse parole» la qualcosa non
significava, però, che tutti i popoli vivessero nella assoluta concordia, piuttosto si
era verificata una contrazione di identità,
si erano ridotte le culture al silenzio, a vantaggio della potenza, della efficienza, della città della torre. Ma Dio dice «no» a una
sola lingua, «no» ad una sola cultura, «no»
ad un solo potere. Dio rifiuta l’unicità e l’appiattimento: moltiplicando le lingue crea
le diversità culturali, la varietà dei popoli
e dei fini.
Ecco perché se nella conclusione di questa storia gli interpreti ebrei e cristiani
hanno visto un castigo, occorre vedervi
piuttosto un gesto divino a favore degli
uomini, divorati dall’ansia del dominio.
la Bestia di Apocalisse
Nel capitolo 13 di Ap troviamo una edizione neotestamentaria della torre di Babele.
Siamo dinanzi a due bestie, così strettamente collegate tra loro da sembrare lo
sdoppiamento di una sola.
La prima viene così descritta:
«Vidi salire dal mare una Bestia che aveva
dieci corna e sette teste, sulle corna dieci
diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo (...) il drago le diede la sua forza, il
suo trono e la sua potenza» (13,1-2).
Essa è inviata dal drago (= il Maligno, cf.
Ap 12), sale dal mare e tradizionalmente
identifica l’Impero Romano che «sale dal
Mediterraneo» e irradia il suo potere proprio attraverso il mare. Il suo intento è la
bestemmia: poiché si pone come un Dio,
pone una sfida a Dio e in ciò sta la bestemmia. C’è un richiamo alle quattro bestie di
Daniele che alludono a quattro regni che
si sono succeduti (Babilonia, i Medi, i Per-
il ministero della propaganda
«Guardatevi dai falsi profeti, i quali si presentano a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci» (Mt 7, 15).
Il contatto del passo evangelico con il nostro è abbastanza esplicito e sembra che
l’autore dell’Apocalisse rielabori liberamen-
te quel testo secondo la sua prospettiva: a
«vesti di pecora» corrispondono le «corna
di agnello»; ai «lupi rapaci» corrisponde il
«drago». Dunque il «drago» è paragonato
ad un falso profeta. A qualcuno, cioè che
usa la parola per ingannare, per affermare
la menzogna. Un abuso che potremmo paragonare alla corruzione ed al plagio calcolato dei mezzi di comunicazione di massa.
È una interpretazione avvalorata dal fatto
che la seconda bestia in Ap 19, 20 sia chiamata: pseudo profetes, come in Matteo. Il
falso profeta di Ap inganna in modo molto
raffinato: emula la potenza di Cristo, ma –
in verità – per essere strumento di sopraffazione e non di liberazione.
il potere della «doppia» Bestia
«E la potenza della prima bestia,
la mette tutta in atto di fronte a lui
e fa la terra e coloro che hanno casa in essa
che adorino la bestia, quella prima» (v. 12).
Il rapporto tra la prima e la seconda bestia
viene chiarito: la prima possiede la capacità di potere e di influsso, ma è la seconda che permette a tutto questo potere di
attuarsi, «di imporsi», un’opera che la seconda bestia realizza «al cospetto» della
prima: c’è una sfumatura liturgica, dato
che questa espressione («al cospetto di...»)
viene usata normalmente per parlare dello stare dinanzi a Dio, di colui che celebra
atti di culto. Praticamente le due bestie
sono una: la seconda è il braccio propagandistico della prima!
La costruzione grammaticale sottolinea la
presa diretta da parte della seconda bestia
sugli uomini: «fa, forgia la terra e coloro
che la abitano»: indica una azione im-mediata che tende a plasmare le persone, a
plagiarle. Una azione diretta principalmente
agli uomini che però è capace di compromettere anche la terra, poiché la asservisce
ai propri progetti. Mentre la terra appartiene a Dio e deve anch’essa essere liberata
(«geme e soffre nelle doglie del parto» Rm
8,22) la bestia la modella, la soggioga ai
propri scopi di potere e di sfruttamento.
La seconda bestia agisce affinché l’umanità venga persuasa ad adorare la prima bestia: proskineo indica una adorazione soprattutto interiore. Più che da gesti esterni,
l’adorazione della prima bestia è determinata da una convinzione della coscienza che
porta a considerare la prima bestia come
un assoluto e perciò ad assoggettarsi ad
essa. Come non pensare al super potere dei
mezzi di comunicazione, oggi, fuori o dentro le campagne elettorali? (continua)
ROCCA 1 MARZO 2006
LA VOCE DEL DISSENSO
siani, Alessandro Magno) intorno al periodo ellenistico (cf. Dn 7). Probabilmente
l’autore di Ap vuole fondere i quattro imperi mondiali di Daniele in un’unica bestia: una super-potenza politica, militare
ed economica, una potenza «globale», fonte e custode di un «pensiero unico». L’impero romano creava l’effetto di un’unica,
grande potenza davvero schiacciante, benché apparentemente aperta e tollerante.
Dal v. 11 in poi impattiamo, invece, in una
seconda bestia, la quale non sale dal mare,
ma «dalla terra». Appare, perciò, carica di
una minore forza soprannaturale, perché
proviene dagli uomini, dai solchi della storia:
«E vidi un’altra bestia
che saliva dalla terra
e aveva due corna simili all’agnello
e parlava come drago» (13, 11).
Due sono le sue caratteristiche: le corna e la
parola. Per quanto riguarda le prime esse
formano la realtà esteriore, visibile, di una
potenza aggressiva, ma fanno soprattutto
pensare al Cristo che viene descritto con
«sette corna» in Ap 5,6. L’unico altro «agnello» è, infatti, il Cristo, citato come tale per
ben ventotto volte nel libro. Pur nell’apparente somiglianza c’è, tuttavia, la rivelazione di una inferiorità della bestia, la quale
ha solo due corna: un confronto che si colloca sul piano dell’ambiguità e indica che
la bestia cercherà di emulare e competere
col Cristo, nella sua funzione di Salvatore
dal male, nell’ambito storico. Proprio da ciò
deriveranno situazioni di mistificazione, di
sovrapposizione, di inganno.
La seconda caratteristica della seconda
bestia è la parola. Essa le conferisce la sorprendente facoltà del linguaggio che è, invece, dell’uomo. Ma proprio nel parlare la
bestia rivela la sua natura interiore: anch’essa è pasta e strumento del Maligno (=
parla come il «drago»).
Queste ibride caratteristiche creano orrore
e curiosità in chi si trova a contatto con la
bestia. Il lettore deve saper riconoscere ciò
che si nasconde sotto l’apparente veste di
bontà, sotto l’aspetto simile al divino. Egli
deve mettere in moto la sua intelligenza, la
sua capacità di discernere, di «riconoscere
dai frutti» la natura dell’albero.
Rosanna Virgili
53
dire il peccato
ROCCA 1 MARZO 2006
Lilia
Sebastiani
54
ormai un problema pluridecennale della chiesa – già ben avvertibile
ai tempi del Concilio –, e di solito
viene delicatamente chiamato «crisi» del sacramento della Penitenza. Si potrebbe anche parlare di
sparizione progrediente. Insomma un gran
numero di cattolici anche credenti e praticanti (la maggioranza?) ha semplicemente
smesso di confessarsi. E non è affatto in crisi per questo. Tra i giovani il fenomeno è
ancora più vistoso, se si prescinde da certi
eventi spettacolari più in ampiezza che in
profondità, tipo Ggm: possiamo dire che la
confessione viene di fatto abbandonata subito dopo il completamento dell’iniziazione
cristiana
Vi sono certo alcune isole di persistenza del
sacramento anche se, quanto ai motivi è sempre difficile scindere l’esigenza spirituale
dalla devozione e dall’abitudine; e vi sono
certi santuari in cui le confessioni vengono
distribuite massicciamente, come i santini e
i souvenirs; e vi sono certi gruppi cattolici
tradizionalisti, in cui il sacramento funziona a pieno ritmo (non sempre in primo luogo come sacramento, ma anche come controllo della vita intima e spirituale del singolo da parte dei superiori, comunque vengano chiamati). Anche senza volersi pronunciare su ciò che queste persistenze significano, resta comunque il fatto che a confessarsi sono soprattutto persone che, vivendo una
vita di fede regolare, non hanno veramente
bisogno di cambiare rotta. Per loro il sacramento costituisce in sostanza una pia pratica, magari anche una lodevole abitudine all’esame di sé; ma non certo un’esperienza di
riconciliazione: la stessa frequenza con cui
vi ricorrono, e la modesta portata delle mancanze che abitualmente accusano, impediscono di percepirlo esistenzialmente come
un ritorno a Dio.
Certo, per il suo carattere così privato il sacramento sfugge a ogni indagine statistica,
è difficile dire chi si confessa, e quanto e
quando… Non del tutto attendibile la testimonianza dei preti, che di solito ammettono la diminuzione, talvolta con accenti pessimisti e accorati, ma sono un po’ riluttanti
È
quando si tratta di dire, per esempio: in questo mese nessuno mi ha chiesto di confessarsi. Come se temessero di sembrare poco
efficienti, poco edificanti, poco pastori; come
se fosse un po’ colpa loro. Invece in questa
cosa le ‘colpe’ dei confessori, pur se non
mancano, non influiscono molto. Così come
non influiscono più di tanto i meriti di quelli – e ve ne sono – che in questo ministero
portano saggezza, sensibilità umana e un
soffio di Spirito autentico.
tante ragioni…
Perché ci si confessa sempre meno? Crisi di
fede, secolarizzazione imperante? Forse non
solo. Tra coloro che hanno accantonato la
confessione (la chiamiamo così tanto per
intenderci e non dover ripetere ogni volta
«celebrazione auricolare del sacramento
della penitenza») ci sono credenti seri, la cui
vita è eticamente e spiritualmente a livelli
molto alti. Il rifiuto della confessione potrebbe invece essere in rapporto con una consapevolezza più matura ed esigente dell’appartenenza ecclesiale, che non trova più adeguata al proprio cammino personale e comunitario di vita cristiana la confessione a
quattr’occhi, con un prete che talvolta può
essere una persona spirituale e saggia e altre
volte no, di «ogni singolo peccato mortale»,
secondo quanto ancora recita ancora la normativa vigente, come se tra l’altro fosse tanto facile e quotidiano e riconoscibile commettere peccati ‘mortali’ per un credente che
viva sul serio il proprio cammino di fede.
Sono tante le ragioni della cosiddetta «crisi», complesse e spesso convergenti ma anche contraddittorie, più e meno consapevoli, stratificate a diversi livelli. Nell’esistenza
del singolo l’abbandono della penitenza sacramentale non è, di solito, un evento sofferto, e nemmeno programmato. È vissuto
come progressiva disaffezione. In certi casi
può essere accelerato da sgradevoli esperienze vissute con confessori indiscreti; ma non
è questo, come si diceva, il problema principale. Oggi di fatto molti confessori sono validissimi, talvolta autenticamente saggi e illuminati, quantomeno hanno imparato ab-
zato quando gli capita ancora di dover esercitare funzioni per le quali onestamente riconosce di non essere preparato.
Nell’abbandono progressivo della confessione, ma ancor più nella perdita di senso del
peccato, opera anche la progressiva decolpevolizzazione, sempre più largamente attuata, dei comportamenti sessuali che per
tanto tempo hanno costituito il novanta per
cento delle confessioni: autoerotismo, sessualità prematrimoniale o extramatrimoniale, contraccezione…
le paure della chiesa
Il Vaticano II nella Costituzione sulla Liturgia ha manifestato l’esigenza di portare innovazioni nel quarto sacramento, ma la vicenda della penitenza è uno degli ambiti in
cui è più avvertibile la tensione tra rinnovamento e conservazione che caratterizza lo
spirito e le due anime del Concilio, e i risultati non potevano essere felici. Le caute innovazioni sono state quasi azzerate in sede
di applicazione.
Il rinnovamento conciliare introduceva, accanto alla prima forma, che restava quella
privata-auricolare tradizionale (ma che
avrebbe dovuto essere arricchita con una più
ampia e significativa presenza della Scrittura, peraltro rimasta lettera morta quasi sempre), altre due forme per ovviare al problema dell’approccio individualistico e privatistico al sacramento. La seconda forma prevedeva la riconciliazione di più penitenti,
celebrata comunitariamente, ma con accusa e assoluzione individuale; la terza forma,
la riconciliazione di più penitenti con assoluzione collettiva. Di fatto la prudenza della
Curia romana, temendo che la diffusione
della terza forma inducesse a mettere ancor
più da parte la celebrazione individuale della penitenza, ha voluto riservarla a casi di
assoluta necessità, ed è stato ripetutamente
chiarito dal dicastero vaticano competente
che un’affluenza eccezionale di penitenti in
occasione di pellegrinaggi o feste religiose
non costituisce motivo valido. Di fatto si
hanno solo due possibilità di riconciliazione sacramentale, che poi nella sostanza sono
una, perché mantengono la stessa modalità
di confessione e assoluzione individuali: davvero troppo poco, per rinnovare un sacramento che era in piena crisi già quarant’anni fa.
La seconda forma, che molti pastori dichiarano di prediligere, come se fosse l’optimum
e potesse rispondere a tutte le esigenze (quella canonico-disciplinare di preservare a ogni
costo accusa e assoluzione individuale, quella liturgica di una celebrazione più decorosa, meno individualistica e vivificata dalla
Scrittura), nei fatti si rivela un ibrido singolarmente squilibrato, per chi possieda un po’
ROCCA 1 MARZO 2006
IL CONCRETO DELLO SPIRITO
bastanza, quasi tutti, a essere discreti (tanto
da far pensare a una confidenziale raccomandazione diramata dal centro verso la periferia: non siate troppo scoraggianti, altrimenti fuggiranno anche quei pochi che non
sono fuggiti ancora), ma questo non cambia
le cose.
Al livello più epidermico vi è il fatto che confessarsi, ovvero dire i propri peccati, era tradizionalmente umiliante («salutare umiliazione», ovvio!) e oggi, più prosaicamente,
seccante e anche innaturale, per chi non sia
abituato al discernimento e a scrutare la propria interiorità. Può essere disturbante, se
in modo episodico si cerca di andare oltre la
scorza più estrinseca del proprio agire senza che questo costituisca la tappa di un cammino nello Spirito e nella scoperta di sé. E
chi regolarmente si accusa di banalità sempre uguali o quasi, non può non chiedersi:
che senso ha tutto questo?
«Perché devo dire i miei peccati a un prete?» è la domanda classica di qualcuno (che
di solito ha già messo da parte la confessione, quando dice così). Un’altra difficoltà,
meno sciocca di quel che potrebbe apparire
dalla formulazione: che cosa dovrei dirgli?
E questo dubbio adombra un’altra difficoltà, forse a un livello superiore di consapevolezza: quanto dovrei dire, quanto ho detto
finora, è proprio peccato? Con ciò siamo vicini alla difficoltà di fondo, di solito inespressa: che cos’è il peccato?
Da almeno mezzo secolo la gerarchia della
chiesa lamenta la perdita del «senso del peccato», nella quale perdita anzi Pio XII riconosceva il vero peccato dell’epoca presente.
È innegabile che il senso del peccato oggi
sia piuttosto latitante. Ma questo significa
forse che vi fosse un autentico e puro senso
del peccato in altre epoche, solo perché assai più se ne parlava? E quanta parte ha nell’odierna perdita di senso del peccato quella
banalizzazione di esso, quella polverizzazione/identificazione con i ‘peccati’ che la chiesa ha tollerato, anzi tacitamente incoraggiato nelle cosiddette confessioni «di devozione», purché confermasse i fedeli in un’umile dipendenza dal clero?
E senza dubbio vi ha parte anche la progressiva perdita di ruolo del prete nella nostra
società occidentale. Nessuno è più disposto
a guardare al prete come giudice di comportamenti o consigliere esperto in umanità ipso
facto, solo in base al suo ruolo istituzionale:
se si distingue per saggezza e carisma è un
altro discorso (ma ciò potrebbe valere anche per qualcuno che prete non è). Una volta era abbastanza invalso rivolgersi al prete
anche semplicemente per consiglio, oggi chi
ha bisogno di un consiglio in una situazione
difficile tende piuttosto a rivolgersi a chi ha
una più specifica competenza. Talvolta è lo
stesso prete confessore a sentirsi imbaraz-
55
le ragioni della chiesa
Ci piacerebbe dire che è una crisi (calo? eclissi? abbandono?) salutare, ma forse non è
così, potrebbe esserlo ma non è ‘semplicemente’ e direttamente un fatto positivo. Dei
rischi ci sono. Per dirlo in breve, soprattutto
il rischio che, insieme alla pratica discutibile e rivedibile della confessione auricolare,
vada perduta completamente anche l’abitudine a riflettere sulla propria situazione interiore, morale e spirituale, come avviene o
dovrebbe avvenire quando ci si sforza di
mettere in parole in qualche modo gli aspetti che si percepiscono come carenti.
In questo senso veramente la crisi della forma tradizionale della penitenza diventerebbe causa di quella crisi del senso di peccato
di cui costituisce essenzialmente un sintomo.
Vi è il rischio che il senso di peccato (ammesso che qualche epoca lo abbia posseduto autentico e in larga misura, al di là della
paura e dei sensi di colpa artificiosamente
coltivati, cosa di cui dubitiamo), a forza di
rimanere latente e inespresso, finisca di fatto con l’addormentarsi del tutto, o si confonda impastandosi con un vago senso di
inadeguatezza e insoddisfazione, che interessa molto la psicologia ma scarsamente
l’etica, perché di rado chiama in primo piano la coscienza personale.
ascoltare la crisi
ROCCA 1 MARZO 2006
A questo punto dovrebbe venire il «cosa
fare?». Ma, in primis, non lo sappiamo, e in
secondo luogo non sappiamo se sia il caso
di impegnarsi in una battaglia già persa. Le
strategie fin qui attuate hanno avuto esiti
trascurabili, se non controproducenti. Crediamo però che una crisi di questo genere –
se proprio si vuol continuare a parlare di crisi
anziché di eclissi – vada ascoltata, prima ancora che affrontata in qualsiasi modo. Occorre ascoltare, attenti a ciò che la crisi significa.
Rifiutando di confrontarsi con il fenomeno
nella sua effettiva consistenza e nelle sue
cause, la chiesa si ritrova anche in questo
scavalcata e lasciata indietro da una storia
che procede sempre più in fretta, incurante
dei tempi tradizionalmente lunghi della saggezza ecclesiastica; e non sono state elabo56
rate (né potevano esserlo) delle soluzioni, al
di là delle solite esortazioni che lasciano il
tempo che trovano: esortazioni ai fedeli affinché si confessino, o ai preti affinché siano generosamente disponibili in orari comodi per i fedeli che avessero l’idea di confessarsi…
Non crediamo che si possano o si debbano
ricercare soluzioni volte a ‘incrementare’ la
confessione auricolare. Quello che semmai
si dovrebbe incrementare, cioè far crescere,
soprattutto nella qualità, è la riflessione etica in positivo, in modo tale da favorire lo
sviluppo di un cristianesimo adulto e da favorire il dialogo in termini etici con il mondo.
È anche importante favorire gli incontri di
preghiera incentrati sulla conversione permanente e sul discernimento, da vivere come
occasione stimolante e gioiosa di approfondire le proprie motivazioni e la direzione del
proprio viaggio nella vita. E occorre avvalorare la presenza della Scrittura nel momento penitenziale.
Gesù ha posto la conversione al centro del
proprio messaggio, come risposta umana al
dono di Dio, ma alla confessione dei peccati
non sembra aver dato importanza: la confessione del peccato appare talvolta implicita e silenziosa, altre volte nemmeno ben presente alla mente di chi viene perdonato. In
certi casi (pensiamo a Zaccheo) segue il perdono, come un effetto, non lo precede come
una condizione necessaria.
Stemperare la prassi della confessione privata e avvalorare la celebrazione penitenziale
comunitaria avrebbe anche un importante
significato ecumenico ai fini del riavvicinamento con le chiese riformate, come fu detto anche in un documento (L’unità davanti a
noi) pubblicato nel 1984 dalla Commissione congiunta cattolico-luterana.
Nessun sacramento nella chiesa è tanto cambiato quanto la penitenza, nei modi della
celebrazione: il modo che ci è familiare risale al Medio Evo e nei primi secoli era sconosciuto. Sarebbe tanto improponibile un cambiamento reale, coraggioso, che venga incontro alle esigenze spirituali e all’evoluzione
culturale dei nostri contemporanei? Esigenze ed evoluzione non vanno sempre e solo
in cerca di cose più ‘facili’, ma soprattutto di
un vissuto cristiano adulto propositivo e ricco di senso.
Forse si dovrebbe anche riscoprire, in modo
adatto alle esigenze del nostro tempo, e non
necessariamente clericalizzato, quella che
una volta si chiamava la direzione spirituale. Ma questo è un altro discorso. Forse ci
torneremo un’altra volta.
Lilia Sebastiani
CINEMA
Giacomo Gambetti
M
atch Point è il film
più recente di
Woody Allen (naturalmente sono suoi anche soggetto e sceneggiatura, con molti riferimenti a varia letteratura), questa volta girato – ed è una
assoluta novità – non nell’amata e familiare Manhattan, ma a Londra. L’ambiente scenografico londinese del film di oggi è comunque assai simile alla
consueta Manhattan cinematografica di Allen. Diremo piuttosto che c’è una
sorpresa, nella filosofia del
racconto: per la prima volta, messa da parte la psicanalisi, Allen sostiene che
è il «Caso» il vero arbitro
della vita e di ciò che a ciascuna persona succede. Il
simbolo di questa teoria è
una pallina da tennis che,
toccando la rete, può cadere di qua o di là del campo
dei due giocatori, cambiando così il valore del
«punto» («match point»,
oppure no). Ma, assai prima di Allen, due grandi
registi, lontanissimi fra
loro, René Clair e Krzysztof Kieslowski, nelle
loro teorie e con le loro
opere hanno fortemente
sostenuto il valore spesso
decisivo – vita o morte –
del Caso. Non sappiamo se
Woody Allen conosca le
opere dei due registi (rispettivamente anni ’30’40- ’50- ’60-, e ’80- ’90 del
secolo scorso, Francia e
Polonia): ma, perché no?
Match Point segue in ogni
modo una sua strada, prettamente legata al suo regista. Del resto, anche il valore – diciamo – simbolico del gioco del tennis (una
volta a te, una volta a me)
era già stato ampiamente
sostenuto e illustrato da
Michelangelo Antonioni in
Zabriskie Point.
La storia del film è, nella
sostanza, quella del giovane Chris, insegnante di tennis e nulla più, cui tocca
per allievo il coetaneo
Per amore o per forza
Match Point
Tom, ricco rampollo di una
famiglia di alta borghesia,
con sorella Chloe, madre e
padre, quest’ultimo assai
ricco, generoso e di buon
carattere. Con un arrivismo apparentemente casuale, Chris si introduce
sempre più nella famiglia.
Di lui si innamora Chloe,
ma lui si innamora di Nola,
bella e seducente ragazza
americana, fidanzata di
Tom. Il film va avanti a lungo sviluppando sempre più
queste sue basi iniziali; ma
poi prende una forse inattesa e forzata accelerazione nella parte finale. Tom
lascia Nola e sposa una
brava londinese. Anche
Chris, che nel frattempo,
naturalmente, fa molta carriera nelle società del padre
di lei, sposa Chloe, semplice, buona e affezionata. Ma
la relazione tutta passionale fra Chris e Nola, che precedeva il matrimonio, continua, fino al punto che
Nola aspetta un figlio, quel
figlio che anche Chloe vorrebbe e che il matrimonio
tarda a darle. Per concludere, Chris prende di nascosto un fucile da caccia
dalla ricca armeria del suocero, inventa un abile e cinico marchingegno e finisce con l’uccidere Nola.
C’è naturalmente un’inchiesta della polizia, ma la
messinscena di Chris sembra funzionare. Un giorno
però un detective fa cadere in contraddizione Chris
sull’avere egli conosciuto o
no Nola e... sorpresa sorpresa, gli mostra un diario
ritrovato, in cui Nola ha
scritto in ogni particolare
tutta la loro storia, nomi,
cognomi, indirizzi. Chris
ovviamente non può non
confessare la relazione con
lei, ma altrettanto ovviamente nega l’omicidio (di
cui d’altronde non ci sono
prove a suo carico). E chiede al detective che tale sua
infedeltà non sia rivelata
alla moglie e alla famiglia.
Il detective non è del tutto
convinto dell’innocenza di
Chris, però alla fine l’innocenza di Chris è ufficializzata: la pallina del tennis è
caduta al di là della rete, il
punto vale a favore (chi
scrive non è del tutto d’accordo sulla non importanza delle qualità personali,
e quindi sul valore assoluto del Caso: infatti, anche
Chris mette molta abilità
personale e malefica intelligenza per raggiungere il
proprio scopo).
Il film, piuttosto, ha un
andamento, come si è accennato, irregolare. È
estremamente calibrato,
sottilmente documentato
e lineare, per i primi tre
quarti, così come è troppo accelerato e sovrapposto per il rimanente. E non
manca in noi un lieve dub-
bio di qualche autobiografismo, da parte del regista,
stando alle cronache (con
un leggero disagio nello
spettatore, non abituato nei
film di Allen a scene di così
aperta evidenza sessuale,
disagio che – ci si perdòni –
sfiora il ridicolo all’apparire nel finale delle «ombre»
delle vittime, in una «irrazionale» inquadratura del
«razionalissimo» Allen).
Ma c’è sicuramente, in Match Point, grande raffinatezza, c’è un uso quanto mai
preciso e ragionato della
macchina da presa: in tutta
la lunga prima parte, ad
esempio la macchina non
abbandona quasi mai il primo piano o al massimo il
piano medio, vuole i personaggi a propria completa disposizione.
Come quasi sempre nei film
di Woody Allen (che qui non
recita), gli attori sono strumenti evidenti e duttili nelle mani del regista; non devono avere speciale personalità ma essere funzionali,
anche fisicamente, ai rispettivi personaggi. A parte
Scarlett Johansson, gli altri
sono tanto pressoché sconosciuti quanto utili. E diciamo che non a caso Chris e
Tom hanno figure fisiche
molto simili e quasi si confondono: sono, a ben guardare, le due facce di un medesimo personaggio.
È da mettere in speciale evidenza che il commento musicale non è, questa volta,
ispirato alla storia del jazz,
ma quasi tutto e clamorosamente di opera lirica italiana (di cui Chris e Tom
sono entrambi appassionati), con molte grandi «romanze» della verdiana Traviata (Nola?), cantate tutte
(o quasi) dalla voce unica,
storica, fondamentale, luminosa, inimitabile di Enrico Caruso.
Corretto, ci sembra, tecnicamente, il doppiaggio, ma
troppo scolastico: i dialoghi
e le voci sono da scuola di
dizione o poco più.
❑
57
ROCCA 1 MARZO 2006
IL
CONCRETO
DELLO
SPIRITO
di sensibilità celebrativa: c’è molta sproporzione tra la solennità della prima parte, quella comunitaria, che però si riduce a una ‘premessa’, e la seconda parte in cui la preparazione solenne e corale sfocia (o abortisce) in
un’accusa individuale dei peccati anche più
frettolosa e insignificante del solito.
RF&TV
ARTE
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Mariano Apa
Vita e morte di Pasolini
ROCCA 1 MARZO 2006
D
ell’insolito spettacolo ‘na specie decada-vere lunghissimo, ideato e interpretato
da Fabrizio Gifuni, mi
aveva colpito la dichiarazione con cui il giovane
attore ne aveva parlato
ricevendo il Premio Hystrio 2005 proprio per
questa opera teatrale.
Assistendo alla sua rappresentazione – nel corso di una variegata rassegna di interventi spettacolari e culturali per il
trentesimo anniversario
dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini – ho capito
quello che Fabrizio Gifuni voleva dire. Parlava
infatti (nonostante le sue
recenti affermazioni
come protagonista del
film La meglio gioventù
nonché nei panni di De
Gasperi nella biografia
televisiva dello statista)
dell’entusiasta ansia di
tornare a questo suo lavoro teatrale.
Difatti lo sta ancora portando in tournée e nell’esito notevolissimo si ritrova tutto il suo impegno come uomo di teatro.
Dei famosi scritti di tema
politico e soprattutto sociale del poeta friulano
Gifuni si è avvalso nel
suo montaggio. E li espone – nella prima parte
dello spettacolo – con
convinta adesione, guardando in faccia uno per
uno gli spettatori tra cui
si aggira, evidenziandone
il carattere sofferto e riflessivo. Quindi senza soluzione di continuità
ecco – dopo i tanti interrogativi aperti dei quali,
a trent’anni di distanza,
si colgono meglio gli straordinari accenti profetici – il colpo di scena. Abbandonati gli abiti del
laico e critico testimone
58
del mondo a lui contemporaneo, Pasolini/Gifuni
– in completa nudità allegoricamente sacrificale
– va ad indossare quelli di
chi lo uccise. Il quale parla in prima persona tramite i versi in romanesco
composti da Giorgio Somalvico, di sorprendente
violenza e raffinata perfezione metrica. Acchittato
nel candido abito dell’expischello di periferia che
della sua vittima non conosce neppure il nome
(tanto che lo confonde
con Petrolini), Gifuni
passa dalla pacata asserzione dei più forti «credo» pasoliniani al monologo allucinato e crudo
del suo carnefice, tra sussurri e grida, scatti e balzi che lo portano in tormentato giro per la scena.
Il suggestivo trapasso
drammaturgico da un clima all’altro – diretto con
apprezzabile linearità registica da Giuseppe Bertolucci – giustifica quel
che spesso Gifuni stesso
ha detto di questo suo
spettacolo citando Dottor
Jekyll e Mister Hyde.
Un’opera teatrale, la sua,
capace di efficace coinvolgimento e che tuttavia
non cede a moduli scontati né a contingenti facilonerie, in toccante sintonia con le traduzioni dello stesso Pasolini della
tragedia classica laddove
esse sottolineano un terribile fato non soprannaturale ma tutto disumanamente umano.
A Milano la rassegna in
cui lo spettacolo di Gifuni è stato replicato per
una decina di sere si è
svolta tra le spoglie strutture architettoniche del
Palazzo della Ragione, in
Piazza dei Mercanti.
❑
Torino 2006
S
eguire dal teleschermo la cerimonia
d’apertura dei Giochi
olimpici è un po’ come essere rimandati alle origini, ormai remote, della Tv. Era accaduto per le Olimpiadi di
Sidney e per quelle di Atene:
«Radiofonia e televisione –
recitano i Dizionari sociologici a tema – hanno svolto entrambi, all’origine, un’attività celebrativa e imbonitoria.
Le prime radiotrasmissioni
furono dedicate alle elezioni
presidenziali statunitensi del
1920 e al match pugilistico
Dempsey-Carpentier del
1921. Le prime teletrasmissioni furono dedicate, in Usa,
alla Fiera mondiale di New
York del 1939».
Torino 2006, per le Olimpiadi invernali, non ha fatto eccezione, con una serata inaugurale a forte caratterizzazione pro-televisiva che ha inserito in quella narrazione del
mondo condivisa che è la Tv
medesima, un attraversamento progressivo di situazioni, simboli, emozioni e figure che, in parte (e forse)
sono davvero gli elementi
identificativi del mondo italiano nella sua storicità, ma
che, soprattutto, rappresentano quel che sian ridotti a
desiderare come radice, dopo
che le realtà che ne erano alle
origini risultano perdute in
vortici contemporanei senza
qualità.
La «rude razza pagana» (operaia) non poteva mancare di
un richiamo nella Torino
(già) industriale: e Yuri Chechi – un po’ sovietico sin nel
nome – è stato collocato ad
evocarla in figura di Vulcano post-moderno posto a battere – a pieno schermo – una
gran fuoco d’incudine. E tra
cronologie e anacronismi,
l’Ulisse di Dante Alighieri è
stato scandito mentre si sfogliavano librone cartografie
remote; il medioevo s’è richiamato con le sbandierate
dei (già) liberi comuni; il te-
atro delle corti ha sommato
in scena Rinascimento e
Barocco, con magnificenza
di costumi, il futurismo
(scelta coraggiosa degli organizzatori) ha sorretto il
tema del teatro di danza,
qualitativo ma difficile da
rendere sullo schermo dall’interno di quella situazione scenica. Come poi, quasi
in apertura, una figura atletica gigante è stata costruita sul ghiaccio dall’accostarsi di pattinatori, così, quasi
in chiusura, non è mancato
il comporsi della figura, resa
in acrobazia verticale, di
una colomba della pace. Su
tanto sfondo, la retorica ha
potuto essere persin contenuta: intanto entravano le
squadre e le bandiere nazionali e la bandiera olimpica
sostenuta da otto donne di
diversa notorietà.
E la Tv faceva la sua parte
portando a pieno schermo
– buona la regia: poche davvero le incertezze – danze
acrobatiche e Ferrari rombanti, Veneri modelle e una
bimba (una caduta questa)
a cantar l’inno di Mameli.
Una serata da apprezzare,
dunque? Al di là di quel tanto di inevitabilmente celebrativo ed imbonitorio, certamente sì. Di buona qualità comunicativa, oltre tutto:
una delle pochissime, in stagione, di RaiDue.
Il fatto che, ora, tutta la Tv
sia diventata un gigantesco,
e talora disdicevole, parco
dei divertimenti per passare il tempo rendendosi partecipi di stranezze, facendosi leggere le carte in diretta
o seguendo le performance
della donna/uomo cannone
elevata/o ad opinionista...
non toglie, infatti, che la Tv
stessa, in alcuni momenti
(già questo fa differenza)
possa configurarsi come un
Luna Park nel quale addentrasi con qualche indulgenza: per il Luna Park, per sé
stessi e per chi ne cura la
messa in scena.
❑
MOSTRE
Michele De Luca
Alba
T
ra il Monferrato e le
Langhe, tra Cuneo e
Torino, Alba riposa
guardando la cortina delle
belle Alpi Cozie con le valli
del Po, della Varaita, della
Maira. In questa geografia
le strade sono continui incroci tra possibilità infinite
a disegnare i luoghi della
frontiera, quale analogica
frontiera dallo spazio al
tempo attraversando, tra
secoli e altri secoli, il rincorrersi e confondersi di poetiche e capaci linguaggi a
nominare i misteri del nostro pellegrinaggio sui bordi dell’esistenza che si può
indicare, se pur con facile
retorica, autentica frontiera disposta tra il nulla e il
tutto.
È un pensiero laico che discende da Rosmini e Gobetti a informare la metodica
di queste ricerche che riconduce al natio borgho
l’opera trafugata e scomparsa: «Napoleone e il Piemonte. Capolavori ritrovati»,
con le opere che il barone
Dominique Vivant Denon,
per conto di Napoleone,
aveva fatto prelevare nei
luoghi conquistati dalle armate. Si tratta ovvero di ricondurre al vissuto antropologico, della cultura di
quel particolare territorio
in quella data cronologia, la
storia dell’opera in quanto
documento di civiltà; e il
tutto rivoltando la deleteria
ideologia del «territorio»,
uccidendo la compiacenza
psicologistica dell’estetismo
per i così detti «primitivi»,
impalando alla sommità
del disincanto la falsità del
«Ritorno nostalgico» per
assicurarsi la verità del respiro europeo proprio in
quel viaggiare nella storia e
nella geografia del continente Europa alla ricerca
sempre, ieri con Napoleone oggi con l’Euro, di se
stessa Europa. Si deve alla
lungimiranza della Fondazione Ferrero e alla intelli-
genza storico critica di Giovanni Romano con la Soprintendenza piemontese, con
Carla Enrica Spantigati la
riuscita di un progetto che
onora l’Italia e l’Europa legando idealmente questa
mostra, con la precedente
programmazione ad Alba (
da «Macrino d’Alba» del 2001
ai «Tesori dal Marchesato Paleologo» del 2003, e il volume sul Giuseppe Vernazza –
a cura di Lucetta Levi – e il
Convegno sulla «Fortuna dei
Primitivi»), alle parigine
esposizioni del 2004: «Primitifs francais» e «Le dévoilement de la couleur», là dove
ci si interroga sul medesimo
tema del tempo storico che
scorre di contro ad una bergsoniana durata che nella coscienza fa vivere un «tempo
senza tempo» (per ricordare
l’intuizione di Zeri – «arte
senza tempo» – sulla nascita
dell’arte sacra).
Il pregevole volume della Artistica editrice di Savigliano,
per la cura di Bruno Ciliento e Massimo Caldara, documenta benissimo la mostra
e il lavoro svoltosi tra archivi e biblioteche, e sembra di
poter ancora ascoltare i racconti dell’abate Giuseppe Incisa e di rileggere, dal Lanzi
al Cavalcaselle, quelle Storie
dell’arte che hanno costruito il corpo vivo di un indagare umanistico, aristocratico e dunque popolare, del
fare storia dell’arte anche
quale speranza farmaceutica a ritemprare e proprio
guarire il corpo malato della italica fanciulla Italia: e
così mai è stata più sincera
e vera l’affermazione che la
presidente della Fondazione
Ferrero, Maria Franca Ferrero, scrive nella sua presentazione: «Mostra che il Presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi ha voluto porre sotto il Suo Alto
Patronato: riconoscimento
che ci onora e per il quale lo
ringraziamo profondamente».
❑
Viaggio alle Alpi
R
iapre a Torino, dopo
oltre due anni di lavori di risistemazione, il Museo Nazionale della Montagna «Duca degli
Abruzzi», con una mostra
che ci propone un viaggio
ormai definitivamente «perduto» nelle Alpi, di cui rimane ora soltanto un’immagine variopinta ed accattivante, ma anche densa di
nostalgia per una favola che
può affascinarci ora soltanto attraverso antiche fotografie, oppure attraverso
quei manifesti che parlavano dai muri delle città europee a cavallo tra Otto e
Novecento. È in questo periodo, infatti, che la catena
alpina conosce un nuovo
tipo di approccio, che non
è più quello di eruditi e di
scienziati, ma quello, prima
d’élite e poi sempre più «di
massa», dei turisti.
Siamo alle origini del turismo alpino, favorito dalla
modernizzazione che accompagna il nuovo secolo,
un fenomeno di costume
che coincide con una più
larga possibilità di raggiungere i luoghi di montagna, con strade ferrate e
corriere postali che vengono a sostituire le carrozze,
e di accedere a vette e sommità con funicolari, cremagliere, funivie; nascono
grandi e confortevoli alberghi, per villeggiare d’estate
e praticare d’inverno lo sci.
Per incrementare questo
nuovo fermento turistico
un ruolo di primissimo piano ebbe la grafica pubblicitaria, che allora si chiamava ancora réclame.
Chi di pubblicità certamente si intendeva, e cioè
Armando Testa, presentando oltre quindici anni fa la
mostra «Le montagne della pubblicità», presso lo
stesso museo, ebbe a scrivere che «i manifesti apparsi negli anni precedenti all’arrivo del marketing e della fotografia – cioè prima
della metà degli anni Cinquanta – sono più sognanti
e fantasiosi, meno legati
alla legge imperativa della
vendita», e che i cartellonisti «erano bravissimi grafici ma non erano dei pubblicitari veri e propri»; anche per questo le loro opere, che certo includevano
un «messaggio» invitante al
potenziale consumatore,
sono sopravvissute alle ditte e ai prodotti che reclamizzavano, come autentico
risultato di creatività e di
fantasia, oltre che come testimonianza di atmosfere
irripetibili e di quello che
usa chiamarsi «immaginario collettivo» di epoche che
appaiono tanto lontane.
La mostra propone un’ampia scelta di manifesti, curata da Annibale Salsa, tutti provenienti dalla collezione del museo, che fanno ripercorrere un godibilissimo
itinerario tra incantevoli paesaggi, gustosi bozzetti, alpeggi e strapiombi, svolazzanti pattinatrici e paffute
valligiane. Ma la mostra è
anche un «viaggio» nel lavoro grafico di veri artisti,
come Otto Berner, Henry
Tanconville, Gustav Jahn,
Depero, Roger Broders, Jacomo Muller, Geo Dorival,
Robert Bernhard, Herbert
Leupin, Gino Boccasile, ma
anche di tanti, non meno
bravi, rimasti anonimi. ❑
59
ROCCA 1 MARZO 2006
TEATRO
SITI INTERNET
Alberto Pellegrino
Ebay.it
C
ROCCA 1 MARZO 2006
L
’opera Elegia per giovani amanti di Hans
Werner Henze, composta nel 1959-1961 su libretto di W. Hugh Auden
e di Chester Kallman, ha
costituito il «fiore all’occhiello» della Stagione lirica 2005/2006 del Teatro
delle Muse di Ancona, in
quanto rappresenta un
esempio di opera contemporanea dove un nuovo
linguaggio musicale si
fonde con un testo di alto
valore poetico.
In un piccolo albergo delle Alpi austriache, vive nel
1910 un microcosmo
umano, che ruota intorno
al poeta Gregor Mittenhofer, un vero demone dell’arte pronto a sacrificare
tutto al suo egoismo di superuomo decadente. Nell’albergo vive Hilda Mack,
una donna resa pazza dal
dolore, che aspetta da
quarant’anni il ritorno del
marito morto il giorno
delle nozze sul Monte
Hammerhorn.
Mittenhofer, che ha al seguito la segretaria Carolina von Kirchestetten, il
medico
personale
Wilhelm Reischmann e la
giovanissima amante Elizabeth Zimmer, frequenta
l’albergo per trarre ispirazione dalle visioni e dai
folli discorsi di Hilda. La
vita si svolge in un clima
di subdola e angosciosa
nevrosi, ma questo precario equilibrio si spezza
con l’arrivo del figlio del
dottore, Toni, che s’innamora di Elizabeth, la quale lo ricambia con altrettanta passione. Il ritrovamento del corpo del marito, fa recuperare ad Hilda la ragione, per cui il
poeta perde d’un colpo la
giovane amante e l’anzia-
60
Luigi Bovo
Giovanni Ruggeri
Elegia per giovani amanti
na visionaria.
Di fronte all’amore dei giovani Mittenhofer recita la
parte del grande poeta afflitto da una tristezza senile e finge di benedire la
loro unione con paterna
nobiltà, anzi annuncia di
voler scrivere un poema intitolato I giovani amanti,
chiedendo a loro in cambio
solo una stella alpina.
I due giovani vanno sulla
montagna, mentre una
guida alpina annuncia l’arrivo di una bufera di neve,
ma Mittenhofer dice che
nessuno è salito sull’Hammerhorn, rendendosi responsabile di un duplice
omicidio; quindi si reca in
un teatro di Vienna per declamare la sua Elegia per
giovani amanti, chiuso nella sua solitaria follia artistica.
L’Elegia per giovani amanti
è stata diretta dal M°
Lothar Koenings ed eseguita da un ottimo cast internazionale formato da
Davide Damiani, Elizabeth
Laurence, Isolde Siebert,
Ruth Rosique, Johan Bellemer e Roberto Abbondanza.
La regia, le scene e i costumi di Pier Luigi Pizzi hanno conferito allo spettacolo le consuete, magiche atmosfere con un impianto
scenico dal fascino austero, allusivo del clima di angoscia e di torbidi sentimenti che incombe sull’intera opera.
❑
onvinti, come siamo, che una delle
principali funzioni di
Internet sia quella di essere
un servizio che semplifichi,
faciliti e ottimizzi le pratiche
e le necessità della vita quotidiana, segnaliamo con piacere un anniversario che riguarda il più grande sito italiano (e mondiale) di aste
on-line. Ha infatti appena
compiuto 5 anni (venne
fondato nel febbraio 2001)
www.ebay.it, struttura italiana nata dalla filiazione
del colosso americano
www.ebay.com (attivo negli
Usa dal settembre 1995) e a
buon diritto definibile come
la più grande piazza virtuale per la compravendita di
qualsivoglia oggetto, aperta
e accessibile a tutti, tanto per
la vendita quanto per gli acquisti. Data la responsabilità insita nel trattare questo
o quell’argomento, ci permettiamo per una volta di
premettere una valutazione
molto personale: siamo di
coloro che, abituati diciamo
così un po’ «all’antica», hanno esitato a lungo prima di
apprezzare convenientemente la funzione delle aste
on-line, volendo testarne (in
definitiva) l’affidabilità delle transazioni, a livello tanto di prodotti quanto di sicurezza di pagamento. Ebbene, una prolungata e prudente micro-esperienza personale, oltre a voluminosi
dati di macro-mercato, ci
induce a segnalare oggi
eBay.it come valido strumento di servizio in questo
ambito specifico.
Di che si tratta, in pratica?
Il sito si presenta come
un’enorme vetrina, ripartita per generi, dove chiunque può mettere in vendita (e cercare per l’acquisto)
di tutto: oggetti tecnologici o prodotti artigianali, libri o dischi, viaggi o veicoli, strumenti musicali o
prodotti tipici… insomma
proprio di tutto. L’oggetto
può essere messo in vendi-
LIBRI
RIVISTE
ta a prezzo fisso oppure
con un meccanismo
d’asta, che parte da un
prezzo fissato dal venditore e che, entro il periodo
di tempo precisamente determinato e segnalato dal
sito, può conoscere tutti i
rialzi e rilanci che gli utenti vorranno. Una previa registrazione e un sistema di
valutazione della transazione attestano l’affidabilità del venditore, mentre
il sistema di pagamento è
affidato o ad un sistema sicuro gestito dallo stesso
eBay.it (si tratta di PayPal,
società Usa specializzata
nelle transazioni economiche, che a livello mondiale
ha finora movimentato
operazioni per un controvalore di 27,5 miliardi di
dollari), oppure ad altre
procedure che venditore e
acquirente possono privatamente concordare (contrassegno, bonifico bancario, vaglia postale, Poste
Pay ecc.).
Ogni mese sono 6 milioni e
200 mila i visitatori unici
che in Italia vanno su
eBay.it, dove – tanto per
dare un’idea – viene venduta un’auto o moto ogni 10
minuti, un orologio ogni tre
minuti e mezzo, un cellulare ogni minuto così come
un pezzo d’arte, un fumetto ogni 54 secondi, un Dvd
ogni 36 secondi, mentre a
livello mondiale – divertente e insieme impressionante saperlo – sono stati venduti persino un jet privato
per quasi 5 milioni di dollari o un call center con 76
postazioni telefoniche ed
informatiche.
Il ritornello, scontato ma
utile da ricordare, è sempre
quello: Internet, quando è
costruito e strutturato su
parametri di funzionalità e
sicurezza, è una formidabile risorsa. Ricca come è ricco l’immenso paesaggio
umano (non c’è dubbio: finito e precario...).
❑
Carlo e Rita Brutti (a cura di)
La psicoanalisi che viene, Coscienza e Affetto
Ediz. Eidon, Perugia 2005, pp. 232
Il secondo numero de La
psicoanalisi che viene è una
attività dell’Istituto di Psicosomatica Psicoanalitica
Aberastury di Perugia,
presso il quale si svolge
anche una Scuola quadriennale di specializzazione riconosciuta dal Ministero Istruzione Università e Ricerca.
La finalità è quella di fornire strumenti di ricerca al
servizio di una psicoanalisi che non evita l’impatto
con le difficoltà drammatiche che contrassegnano
la nostra fase storica e che
allo stesso tempo conserva
la fiducia di una crescita
umana in senso positivo.
Coscienza e Affetto presenta l’interesse della psicoanalisi per il fecondo procedere di alcuni settori scientifici, senza però svendere
l’autonomia metodologica
e la specificità delle sue
tradizioni culturali. Scrive
L. Chiozza, che di questo
orientamento è l’ispiratore
e il promotore: «L’Epistemologia che emerge dalla
Biologia, dalla Fisica e dalle Matematiche avalla il
pensiero che ogni scienza
concettuale (che si tratti
della geometria euclidea,
del concetto chimico di valenza, dell’organizzazione
orbitale degli elettroni dell’atomo, della teoria delle
supercorde, della forma di
una cellula cerebrale colorata con i sali d’argento o
della struttura di un glomerulo renale) è una rappresentazione che mantiene un certo grado di concordanza con le esperienze realizzate, ma non è la
realtà stessa» (p. 160). E i
curatori del libro, Carlo e
Rita Brutti, possono a loro
volta aggiungere: «Abbiamo tentato di mettere in
evidenza che l’aver enfatizzato la scoperta dell’inconscio senza la correlata deconnessione di psichico/
cosciente, ha avuto come
conseguenza l’inquadra-
mento della scoperta freudiana in una epistemologia
dualista. Anche oggi, infatti, si può rilevare che il pensiero psicoanalitico più
consensuale permane in
questa epistemologia che,
ad esempio, condivisa con
le neuroscienze, ne media
l’incontro e l’auspicata integrazione. Tale operazione, salutata da psicoanalisti e da neuroscienziati
come il ritorno di Freud all’alveo della ‘vera scienza’,
ci appare un preoccupante segnale della decadenza
della psicoanalisi» (p. 23).
Non è possibile rendere
conto, nemmeno in forma
succinta, del contenuto dei
lavori degli Autori (Gustavo Chiozza, Luis Chiozza,
Filippo Mignini, Raimon
Panikkar, Viktor von
Weizsäcker, oltre ai curatori). Sono tutte ricerche
svolte con grande impegno
e ampio corredo critico ed
esposte, aggiungerei, con
attenzione comunicativa
in modo che il lettore e
possa seguire, non dico
agevolmente, perché si
tratta di itinerari inediti e
ne senta il bisogno di ulteriori sviluppi e quindi di fecondi riscontri critici. Vorrei però far emergere l’importanza e la portata delle
teorie conoscitive su cui «la
psicoanalisi che viene» sta
misurandosi, sottolineandone la modalità di consapevolezza propositiva che
costringe a prendere posizione al riguardo.
Luis Chiozza, che è all’origine di questo orientamento teorico, che si fonda sul
pensiero di Freud e lo ha
profondamente rinnovato
sotto l’aspetto metapsicologico, metastorico e metodologico, non esita ad affermare che la «questione
ultima», il to be or not to be
di Shakespeare, è cambiata: «non si radica nell’essere, che è antico, ma nel patico potere: potere o non
potere» (p. 158).
❑
Angelo Del Boca
Italiani brava gente?
Neri Pozza, Vicenza
2005, pp. 318
Gianmaria Zamagni
La teologia delle religioni di Hans Küng
Edb, Bologna 2005, pp. 129
È un libro necessario, che
spazza, in tempi di revisionismo, ogni sorta di
autoassoluzione dei periodi più bui della storia
italiana degli ultimi 150
anni. Oggi che molti, grazie anche ai post fascisti
al potere, cercano di riscrivere la storia a modo
loro l’opera di Del Boca
squarcia il velo di oblio.
L’Autore, che per decenni
ha combattuto contro il
muro di gomma del mancato riconoscimento delle nostre colpe coloniali,
documenta ancora una
volta i tanti orrori perpetrati in Africa e non solo.
Dall’utilizzo dei gas ufficialmente riconosciuto
solo nel 1996, 60 anni
dopo il loro utilizzo, alla
politica di sterminio operata in Cirenaica (Libia)
per eliminare la guerriglia, alla pulizia etnica
operata in Slovenia dal
fascismo. L’Autore elenca
una lunga serie di crimini di cui si sono macchiati
i nostri militari non solo
durante il fascismo ma
anche prima. A differenza delle altre potenze che
non si sono nascoste dietro al dito di un comportamento «diverso», appunto «italiani brava gente» che non ha alcun fondamento storico, gli italiani hanno costruito grazie a questo mito un immaginario collettivo che
ci vede assai meno responsabili di altri.In una
fase di razzismo e xenofobia dilagante è sacrosanto riconoscere le nostre responsabilità per
realizzare una società basata sul multiculturalismo.
Il volume – che, esplicitandolo, segue un itinerario ben
preciso che dalla questione
della salvezza dei non cristiani giunge sino alla discussione sull’etica mondiale – affronta tutta una serie di tematiche proprie del pensiero
künghiano, ma al contempo
strettamente relazionabili al
panorama del dialogo fede/
ragione. Il confronto con il
laico è sempre dietro l’angolo, come è ovvio, quando Zamagni tratta di cristianesimo
autentico e di secolarizzazione; l’indagine non scade mai
a mera ripetizione delle tesi
di Küng, tende piuttosto a
dialogare, appunto, con le
implicazioni di ordine etico,
filosofico nonché socio-politico di quelle tesi, di quelle
pagine che in particolare tra
il 1964 e il 1990 il teologo si è
trovato spesso a dover difendere con energia intellettuale ed eccezionale tenacia.
Ecco la dialettica interreligiosa o meglio intrareligiosa;
ecco la progettualità di un’etica che non rimuove la realtà
della globalizzazione, ma che
anzi da essa muove per accostarsi il più possibile alle persone che scopriamo – ognuna diversa e ognuna con la
propria identità aperta – dietro le sigle, sotto alle categorie, nel rovescio delle istituzioni, tra le pieghe delle comunità; ecco, ancora, un’approssimazione ‘adulta’ alla
trascendenza che prende le
mosse da una «teologia in
cammino» e, forse soprattutto, capitinianamente da un
sentimento religioso dal basso. Resta peraltro aperto l’interrogativo sull’effettiva «veracità» dell’essere cristiani
affermata da un Küng perentorio (cfr., p. es., pp. 60-62)
sulla scorta del nucleo sostanziale di incondizionatezza
della fede, come del resto rimangono aperte le polemiche
sulla produzione di un teologo decisamente scomodo.
Luciano Bertozzi
Giuseppe Moscati
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ROCCA 1 MARZO 2006
MUSICA
Bangladesh
ROCCA 1 MARZO 2006
S
tato dell’Asia meridionale, situato nel
subcontinente indiano, il Bangladesh è delimitato da ovest a est dall’India, a sud-est dal Myanmar,
e a sud si affaccia sul Golfo
del Bengala. Estendendosi
sul delta del Gange, dove i
geografi d’Europa durante
il medioevo ritenevano si situasse il paradiso, il Bengala, intorno al XVI secolo,
era stimato la zona più ricca di tutto il subcontinente. La storia della regione
si articola su un avvicendarsi di imperi indiani, di disordini interni e di scontri
fra buddhismo e hinduismo. A tutto ciò si aggiunse un’irresistibile ondata di
islam che travolse l’India
settentrionale verso la fine
del XII secolo. Con l’arrivo
dei portoghesi, già nel XV
secolo, la dinastia dei moghul subì un profondo declino. Costretti ad abbandonare il Paese nel 1633 a
causa dell’opposizione locale, i portoghesi lasciarono il posto agli inglesi che,
attraverso la Compagnia
delle Indie Orientali, governarono il Bengala, creando
una struttura sociale ben
organizzata e centri di commercio di altissimo rilievo.
La presenza dei britannici,
da una parte costituì un sollievo per la minoranza hindu che collaborava con gli
inglesi, dall’altra rappresentò una catastrofe per i
musulmani che si rifiutavano di collaborare, fomentando continui disordini.
Nel 1947 l’India conseguì
l’indipendenza, ma gli atavici contrasti di carattere
religioso esistenti tra musulmani e hindu, spinsero
gli inglesi a dividere il
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subcontinente. Il Bengala
Orientale assunse il nome di
Pakistan Orientale, amministrato però dal Pakistan Occidentale, con il quale aveva
ben poco in comune, fatta
eccezione per il credo musulmano. Le eterne disuguaglianze dettero così vita a un
sentimento di nazionalismo
bengalese che assunse ben
presto le vesti di una lotta
per l’indipendenza. Con la
vittoria del partito nazionalista della Lega Awami nelle
elezioni politiche del 1971, il
Bangladesh proclamò unilateralmente l’indipendenza. Il
Pakistan, nell’intento di placare la ribellione, inviò delle
truppe. Ne seguì una delle
guerre più brevi e più sanguinarie dell’era contemporanea. L’esercito del Pakistan
occupò tutte le principali città, usò il napalm contro i villaggi e uccise un numero elevatissimo di persone. Gli abitanti del Bangladesh definirono tali attacchi come un
vero tentativo di genocidio.
Quando l’aeronautica pakistana sferrò un attacco preventivo contro le forze indiane, la guerra diventò di ampia portata, sebbene si concluse in soli undici giorni
con l’ufficializzazione dell’indipendenza del Bangladesh. La forte crisi economica e sociale che sperimentò
il Paese, sommata alla mancanza di una classe dirigente, sfociò in una serie di colpi di stato e assassinii a carattere politico. Nel 1978 il
popolarissimo generale
Ziaur Rahman salì al potere, assicurando al Paese un
periodo di relativa stabilità
e di ripresa economica. Ma
in un nuovo colpo di stato
Ziaur fu assassinato e nel
1982 il generale Hussein
Muhammed Ershad assunse la presidenza, instaurando un regime violento e corrotto. Le continue rivolte popolari che si susseguirono
nel corso degli anni Ottanta
indussero Ershad a dimettersi e nel febbraio 1990 l’elezione a primo ministro di
Begum Khaleda Zia, la vedova di Ziaur Rahman, sancì il
ritorno a un sistema parlamentare. La fragile economia del Paese, sconvolta anche da un devastante ciclone che nel 1991 uccise
120.000 vittime, ondate migratorie di musulmani che
sfuggivano alle persecuzioni
birmane, persistenti scioperi contro il governo e una
profonda crisi politica portarono alla nomina di Hasina Wajed, figlia di Mujibur
Rahman, il primo leader a
governare il Paese subito
dopo l’indipendenza. Verso
la fine degli anni Novanta,
una serie di inondazioni hanno causato centinaia di morti e un milione di senza tetto,
devastando le regioni sud-occidentali. Nell’ottobre 2001 le
elezioni politiche hanno decretato la vittoria di Khaleda
Zia, che è tornata a ricoprire
la carica di primo ministro.
Popolazione: la quasi totalità della popolazione, costituita da 144 milioni di abitanti, è rappresentata da
bengalesi, mentre le minoranze etniche appartengono
alla stirpe dei mongoli. Uno
dei più gravi problemi che
attanaglia il Paese è la presenza di pericolose quantità
di arsenico nelle acque del
sottosuolo. La Banca Mondiale stima che circa 35 milioni di persone siano a rischio di avvelenamento.
Religione: dopo Indonesia e
Pakistan, il Bangladesh è la
FRATERNITÀ
Nello Giostra
terza nazione musulmana al
mondo per popolazione.
L’Islam è praticato da circa
l’85% degli abitanti, per la
maggior parte sunniti. Non
mancano tuttavia fedeli induisti, mentre sono esigue le
rappresentanze di confessione buddhista o cristiana.
Economia: il Bangladesh è
uno dei paesi più poveri al
mondo e si colloca al terzo
posto nella classifica mondiale per numero di popolazione povera. Il Paese è ormai da anni fortemente dipendente dagli aiuti dei programmi di sviluppo finanziati da Stati Uniti, Giappone,
Banca Asiatica dello Sviluppo e Banca Mondiale. Attualmente la nazione si regge
prevalentemente su un’economia agricola, le industrie
sono ancora poche e solo da
qualche tempo il Paese ha
dato inizio all’esportazione
del pesce. Rilevante è la presenza di legname pregiato
(sudari, gewa e teak).
Situazione politica e relazioni internazionali: dal 20
agosto 2005, giorno dell’esplosione di 350 bombe
nelle strade, nelle sedi di alcuni tribunali e nelle vicinanze di importanti edifici
governativi, il Paese è teatro di una feroce e violenta
guerriglia, alimentata da
gruppi di fondamentalisti
islamici, che rivendicano la
nascita di una repubblica
islamica, fondata sull’applicazione della Sharia, la legge fondamentale dell’Islam. L’India accusa il
Paese di fornire appoggio
e campi di addestramento
ai ribelli musulmani in lotta per l’indipendenza del
Kashmir. Continuano nel
frattempo gli scontri a fuoco sul confine tra India e
Bangladesh. Si sono intensificati i legami con gli Stati Uniti, grazie all’aiuto offerto dal governo bengalese per combattere il terrorismo internazionale, attraverso la concessione delle proprie basi militari.
Carlo Timio
Un’altra tempesta
Vi scrivo perché un’altra
tempesta si sta accanendo
sulla famiglia di Vincenzo.
Dopo la sofferta esperienza del figlio trentenne che
da sette anni è in cura per
un tumore al testicolo e
pare si stia volgendo per il
bene, ora è la moglie che è
in ansia per un brutto tumore alla mammella. È già stata operata e tutti speriamo
che il male sia stato preso
in tempo. Questa brutta sorpresa ha scombussolato
nuovamente la famiglia anche sul piano economico. Le
spese sono tante e aumentano mentre Vincenzo lavora sempre saltuariamente e
la moglie, che lavora come
sarta, ora non potrà più
chissà fino a quando... C’è
bisogno di un aiuto perché
ora comincia la radioterapia e deve tutti i giorni partire dal paese per l’ospedale più vicino che dista diversi chilometri. Vi assicuro che questa famiglia sta
vivendo tale situazione nel
silenzio e con grande dignità. Un grazie sentito e
sincero per tutto il bene
che i vostri cari amici fanno e un ricordo costante
alla preghiera. Don V. S.
Filtri per purificare l’acqua
L’India fa progressi eppure
in questo angolo remoto di
questa nazione ci sono ancora moltissimi che cercano di sopravvivere non
avendo cibo da mangiare e
neanche un rifugio. Questa
gente è piena di malattie e
tormentata dal cambio del
tempo. Avendo una parrocchia vasta in estensione è
molto difficile raggiungere
i villaggi sparsi in remote
colline e valli dove nessun
veicolo può arrivare. Noi
missionari cerchiamo di
fare il nostro meglio per
aiutarli offrendo loro la
possibilità di andare a scuola, di vestirsi e di curarsi.
Dobbiamo scavare pozzi in
alcuni villaggi dove regna la
«Ogni volta che avete fatto qualcosa
a uno dei più piccoli di
questi miei fratelli
lo avete fatto a me» Matteo 25, 40
malaria dovuta all’acqua
inquinata... bevendo acqua
sporca si prendono il tifo,
malattie alla pelle e i loro
piccoli guadagni vengono
spesi per medicinali e dottori. La gente beve l’acqua
dei pozzi che causa malattie perché è acqua raccolta
durante la stagione delle
piogge... Stiamo progettando di scavare dei pozzi con
tubi che vanno molto in
profondità in tre villaggi
dove la malaria è diffusissima e dare loro dei filtri
per purificare l’acqua e berla tranquillamente. Ogni
filtro costa 100 euro... Le
spese per questa povera
gente sono infinite. I villaggi sono lontani dalla missione; con la jeep ci vuole
mezz’ora per raggiungerne
alcuni e tre o quattro ore di
cammino per altri. Le strade sono tortuose o non ci
sono affatto e la jeep è molto vecchia; dovremmo cambiarla, ma i soldi non ci
sono. Cari Rocchigiani, so
che le richieste sono troppe, ma vi assicuriamo che
ogni centesimo ricevuto va
a beneficio della gente del
posto. Preghiamo sempre
per tutti. Grazie. Padre K.J.
carietà, lavori occasionali,
collaborazioni interinali,
per lungo tempo è stata
analoga a quella di altri
miei corregionali. Non
avrei mai osato chiedere, se
le già poche fonti di sostentamento non fossero state
ulteriomente intaccate dalle spese sostenute per la
malattia di mia moglie, sottoposta ad un delicato intervento chirurgico agli occhi. Come se non bastasse,
a causa dell’avverso destino, al primo intervento ne
è succeduto un secondo in
ragione di un errore commesso in quello precedente. Agli innumerevoli viaggi è seguito un periodo di
permanenza a Roma dove
mia moglie è stata operata
la seconda volta. Il disagio
derivante dalle spese sostenute per il soggiorno mi ha
indotto a prendere la decisione di ricorrere agli amici di «Fraternità». Mi vergogno di questo, ma sono
costretto e confido nel vostro buon cuore e nella ben
nota vostra generosità. Siete l’ancora di salvezza per
quelle persone che, come
me, altro non hanno se non
la speranza. B.V.
Costretto a vivere con l’indigenza
Ha tradito le sue promesse
Mi rivolgo a «Fraternità» a
causa delle ristrettezze economiche che da qualche
tempo affliggono la mia famiglia. Ho 40 anni e vivo
con mia moglie e mio figlio
in un paesino della Calabria. Purtroppo da tempo
immemorabile la mia regione offre esigue possibilità occupazionali, al punto che chi non si rassegna
ad intraprendere la via dell’emigrazione è spesso costretto a convivere con l’indigenza. La mia situazione
economica, segnata da pre-
Sono il Parroco di Rosaria
e confermo quanto è già di
vostra conoscenza. Si è sposata alcuni anni fa con un
giovane che, tradendo tutte le sue promesse, ha ripreso a drogarsi e ora si trova
in una comunità terapeutica, duro a redimersi. Ha
due figli di dodici e tre anni
che sta allevando da sola
con immensi sacrifici.
Dopo esserle stato imposto
lo sfratto per morosità, con
forza e determinazione è
riuscita ad ottenere una
casa dal comune. Cono-
scendo la vostra sensibilità
e quella preziosa dei Rocchigiani chiedo vivamente
di darle una mano. Emerge dal suo volto una velatura marcata di tristezza
che deriva dalla penosa situazione in cui vive. Questa famiglia ha bisogno di
tutto. Qualche volta viene
aiutata dalla mamma già
abbastanza povera. In questa zona del sud è tanto difficile trovare un lavoro, tanto più per Rosaria moglie
di un tossicodipendente.
Ogni aiuto può essere preziosissimo! Vi assicuro che
il caso è meritevole. Prometto preghiere. Don F.S.
Siamo arrivati a marzo. Acqua, vento e temporali sono
frequenti in questo mese,
ma il freddo, il terribile
freddo che ha fatto tanto
patire i poveri è passato.
Tante sono state le lettere
supplichevoli arrivate a
«Fraternità» e le offerte dei
nostri Rocchigiani sono
state provvidenziali. Anche
gli indumenti di lana arrivati sono serviti a riscaldare bambimi, ammalati e
persone tormentate dal
freddo ancor più che dalla
fame. Quante benedizioni
essi hanno invocato sui loro
benefattori. Ora dobbiamo
volgere la nostra attenzione verso altre richieste che
ci arrivano sempre numerose. Siamo sicuri che i benefattori non li dimenticheranno. Confessiamo di essere un po’ preoccupati perché in questo periodo le offerte sono un po’ ridotte,
ma comprendiamo molto
bene le difficoltà economiche che coinvolgono tutti.
Noi siamo sempre fiduciosi perché conosciamo bene
la generosità di quanti seguono la nostra rubrica.
Grazie di cuore.
Si possono inviare offerte
con assegni bancari, vaglia
postali o tramite c.c.p. n.
10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana –
06081 Assisi.
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ROCCA 1 MARZO 2006
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
rocca
schede
occa
nella crisi
attuale
non rassegnati
ma con lucidità
e coraggio