N°5 – 1 Marzo - Pro Civitate Christiana
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N°5 – 1 Marzo - Pro Civitate Christiana
Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi Il peggio della quindicina Sicurezza energetica Sindacato: Le occasioni perdute Il rapporto mafia-politica La linea scura dei fondamentalismi $# ANNO NUMERO 5 periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Perugia e 2,00 Foibe: Il ricordo A sinistra della sinistra Principio antropico: Teoria scientifica o atto di fede? Babele, propaganda, domino Dire il peccato Banche armate TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE 1 marzo 2006 ISSN 0391 – 108X novità Un nuovo servizio ai lettori. A grande richiesta la raccolta in volume degli articoli più significativi di uno stesso Autore con particolare riferimento alle tematiche più dibattute a livello sociale, etico, politico e religioso Carlo Molari CREDENTI LAICAMENTE NEL MONDO pagg. 168 - E 20,00 RILEVANZA SOCIALE DELLA FEDE IN DIO La speranza nei tempi della disperazione Decadenza della fede, relativismo, religione civile La fede in Dio nella pratica politica Politica e profezia Guai a voi! Secolarizzazione e dialogo interreligioso La nuova Europa: radici e identità Le Chiese in difesa dell’ambiente FEDE E CULTURA Le tracce di Dio nella cultura umana Scienza e trascendenza L’azione di Dio in un contesto evolutivo Creazionisti e neodarwinisti Il contributo di Teilhard de Chardin al problema del Male per i lettori di Rocca e 15 anziché e 20 RICHIEDERE A ROCCA c.p. 94-06081 Assisi e-mail: [email protected] conto corrente postale 15157068 NEL VORTICE DELLA STORIA La crisi della Chiesa Come e perché cambiare Le componenti della conversione Transizioni traumatiche Letture divergenti del Concilio La missione della Chiesa nel mondo attuale Ritrovare l’essenziale I laici nella Chiesa I laici nel mondo Il primato della coscienza Funzioni e limiti del Magistero UOMINI NUOVI L’esperienza religiosa Le emozioni nell’esperienza di fede Cammini di libertà Spiritualità del gratuito Leggi umane e fedeltà alla vita Spiritualità della liberazione 4 6 10 11 13 sommario Libri Rocca 14 17 18 21 22 24 28 31 1 marzo 2006 32 35 5 36 38 41 Ci scrivono i lettori 42 Anna Portoghese Primi Piani Attualità Valentina Balit Notizie dalla scienza 44 Vignette Il meglio della quindicina 47 Raniero La Valle Resistenza e pace Il peggio della quindicina 51 Maurizio Salvi Sicurezza energetica Un problema planetario 52 Romolo Menighetti Oltre la cronaca Foibe 54 Luciano Bertozzi Finanza Una campagna contro le banche armate 57 Romolo Menighetti Parole chiave Mafie 58 Filippo Gentiloni Politica italiana A sinistra della sinistra 58 Davide Romano Criminalità organizzata Il rapporto mafia-politica 59 Fiorella Farinelli Sindacato Le occasioni perdute 59 Oliviero Motta Terre di vetro Altri tempi 60 Pietro Greco Principio antropico Teoria scientifica o atto di fede? 60 Stefano Cazzato Lezione spezzata Ragazzo, dove sei? 61 62 Claudio Cagnazzo Cambiare casa come metafora dell’esistere Rosella De Leonibus Cose da grandi Il coraggio e la paura Enrico Peyretti Fatti e segni Cari nostri vecchi 63 Giuseppe Moscati Maestri del nostro tempo Bertrand Russell Il coraggio delle proprie idee Marco Gallizioli Culture e religioni raccontate La linea scura dei fondamentalismi Carlo Molari Teologia Dio è amore: un itinerario di lettura Adriana Zarri Controcorrente Eppure succede Rosanna Virgili La voce del dissenso Babele, propaganda, dominio Lilia Sebastiani Il concreto dello spirito Dire il peccato Giacomo Gambetti Cinema Per amore o per forza Match Point Roberto Carusi Teatro Vita e morte di Pasolini Renzo Salvi RF&TV Torino 2006 Mariano Apa Arte Alba Michele De Luca Mostre Viaggio alle Alpi Alberto Pellegrino Musica Elegia per giovani amanti Giovanni Ruggeri Siti Internet Ebay.it Riviste/Libri Carlo Timio Rocca schede Paesi in primo piano Bangladesh Nello Giostra Fraternità quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 5 – 1 marzo 2006 $# ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione casella postale 94 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org www.procivitate.museum Telefax 075.812.855 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: Banca Pop. di Spoleto – Assisi Cin: T – ccb n. 2250 – Abi 5704 – Cab 38270 IBAN: IT59T05704382700 0000 000 2250 BIC: BPSPIT3SXXX Quote abbonamento Annuale: Italia e 45,00 Annuale estero e 70,00 Sostenitore: e 100,00 Semestrale: per l’Italia e 26,00 una copia e 2,00 - numeri arretrati e 3,00 spese per spedizione in contrassegno e 5,00 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana ROCCA 1 MARZO 2006 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 14/02/2006 e spedito da Città di Castello il 17/02/2006 4 La vita o i beni economici? Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute Scusatemi se vi scrivo ancora, ma credo che ormai risultiate uno dei pochi punti di riferimento alternativi in questo marasma di ottundimento. Vorrei chiedervi: mi sapreste spiegare come mai i nostri vescovi, nella persona del Cardinale Ruini, o quelli che fanno parte del comitato per la salvaguardia della vita, o tutti gli altri buoni cristiani che scendono in piazza a manifestare contro i pacs o contro l’aborto, (perchè forse per difesa della vita si intende solo tutto ciò che è inerente al sesso o che va contro una morale ipocrita), non hanno avuto il coraggio di dire una sillaba contro la nuova legge sulla legittima difesa che va ad equiparare i beni materiali alla vita di una qualsiasi persona, sia anche questi un ladro o un delinquente? Forse che il mammona evangelico si è impossessato dei nostri cervelli, che non vedono più con chiarezza, quando si tratta di difendere i beni economici? O forse che mettere armi in mano al cittadino e dirgli di farsi giustizia da solo è molto più comodo per uno Stato che non sa più cosa sia la giustizia, per una Chiesa la cui unica giustizia è quella di interessarsi di quanti sgravi fiscali ottenere? So che è una domanda a cui non c’è risposta, ma mi auguro che nasca qualche comitato a difesa di ogni vita. Giovanni Fusco Napoli Tra i miei amici ci sono diverse persone che hanno visto fallire il loro matrimonio e si sono risposati: un amore è morto, un amore è rinato; sono amico anche di persone che vogliono bene ad una persona dello stesso sesso: sia gli uni, sia gli altri amano, si donano, si servono a vicenda, crescono in umanità. La domenica però non sono nella fila per la comunione: non possono perché vogliono bene ad una persona. Anzi, alcuni di loro si sentono completamente non accetti e, pur credenti, hanno lasciato la loro comunità. Cerco di impegnarmi contro la pena di morte e apprezzo tutte le prese di posizione della gerarchia in questo senso. In questi giorni è stata approvata la nuova legge sulla cosiddetta legittima difesa che, a quanto riportato dai giornali, sancisce la non punibilità di chi, per proteggere cose, uccide persone anche solo introdottesi in casa. Negli ultimi tempi i vescovi italiani hanno parlato spesso, anche se io talvolta avrei atteso altre parole. Adesso in presenza di una siffatta legge avranno da dire qualcosa verso chi ama più le cose di una vita umana? So bene che la Chiesa non è la Cei e che anche tanti vescovi dicono anche altre cose. Non chiedo nemmeno una ulteriore ingerenza nella politica che è laica, ma una parola in difesa della vita esistente che vale piú di tutte le cose possibili; una parola perché i cristiani nel loro comportamento vadano oltre questa legge nella loro vita; per dire che, chi la applichi, non ama abbastanza la vita e le persone e quindi che dovrebbe chieder perdono prima di mettersi in fila. Piero Bartalesi Frankfurt/Main Religioni a scuola Ho letto con immenso piacere l’articolo «Ripensare l’insegnamento delle religioni» di Brunetto Salvarani sul n. 2 di Rocca del 15 gennaio 2006. È un problema che mi sta a cuore da tanti anni anche perché sono stata insegnante nelle scuole medie, madre di quattro figli (tutti studenti) e ultimamente volontaria tra persone con problematiche complesse; ultimissimamente un po’ fuori combattimento per età e problemi di salute. Per fortuna mi entusiasmo ancora. Ho provato in passato ad esprimere il mio pensiero ma la mia voce non è una grande voce e i tempi non erano certo maturi (il Concordato era inattaccabile). Ora la situazione sociale richiede assolutamente un orientamento del genere, pena l’analfabetismo religioso (prodotto anche dall’attuale ora di religione) e un accrescersi delle distanze, favorito sicuramente da scuole diverse per ogni Comunità di Fede. Sono fiduciosa che si porti avanti con impegno questo discorso e si lavori per la realizzazione dell’insegnamento nelle scuole di «Storia delle Religioni». Vi ringrazio dell’attenzione e invio cordiali saluti. Clara Pericoli Milano ai lettori GRAZIE! a tutti voi che esprimete la vostra attiva solidarietà con gli abbonamenti sostenitori e con i numerosi abbonamenti semestrali «3 mesi li paghi tu, 3 mesi li paghiamo noi» che fanno conoscere Rocca ad una cerchia più larga di lettori e che ci permettono di proseguire il nostro impegno con una certa tranquillità. E vi diciamo grazie dalle colonne della rivista con questa lettera aperta, poiché siete tanti e non riusciamo a contattarvi personalmente per la gran mole di lavoro che in questo momento stiamo affrontando. Grazie ancora a chi si è ripresentato puntuale al rinnovo dell’abbonamento, dimostrando fedeltà, consenso e sostegno al nostro lavoro. RITARDI Ma non tutto fila liscio e qui ritorna pesante il «problema Poste». Numerose le telefonate che lamentano il mancato arrivo di Rocca, soprattutto da chi ha regalato nuovi abbonamenti. Purtroppo dobbiamo segnalare che ora, ai primi di febbraio, stanno ancora giungendo cedole di versamenti effettuati nell’ultima decade di dicembre e appena adesso cominciano ad arrivare le ricevute relative ai versamenti dei primi di gennaio. Da parte nostra possiamo solo spostare la scadenza dei semestrali (richiesti da gennaio a giugno) al 31 agosto, con inizio dal 1° marzo, in modo da far pervenire i numeri attuali e non arretrati. Forte comunque resta il disagio vostro e nostro. STRINGERE I TEMPI Vi chiediamo cortesemente alcune forme di collaborazione, in modo da recuperare almeno un mese di tempo: inviateci per lettera o fax le vostre richieste (abbonamenti, libri, Cd-rom) accompagnandole con fotocopia della ricevuta di pagamento. Per libri e Cd-rom potete anche eseguire il pagamento al ricevimento, con il bollettino postale che accludiamo nella spedizione, rinunciando al contrassegno che vi comporta un costo aggiuntivo medio di 8 euro, spesa troppo alta rispetto all’importo dovuto. E ANCORA GRAZIE! ROCCA 1 MARZO 2006 Rocca ci scrivono i lettori CI SCRIVONO I LETTORI Per la vostra confortante solidarietà che vi fa sentire a noi più vicini e ci pungola e stimola nella dinamica del confronto e nel non facile cammino della comunicazione e… (continuate voi) la Redazione 5 a cura di ROCCA 1 MARZO 2006 6 Assisi - Giornata di sole, l’11 febbraio, che accende le antiche mura, mentre dalla torre la «campana delle laudi» suona a distesa e il vento agita i gonfaloni dei dodici Comuni annoverati nel territorio della Diocesi di Assisi-Gualdo-Nocera umbra che oggi accoglie il nuovo vescovo. Sobrio e garbato il saluto del Commissario prefettizio Di Prisco a monsignor Domenico Sorrentino; lunga, solenne, partecipata la liturgia nella cattedrale di san Rufino nel corso della quale il neo-vescovo stempera la polemica coi francescani che precedette la sua nomina, risalendo alla sorgente del messaggio di Francesco e commentando il vangelo del giorno – quello della guarigione del lebbroso – proprio alla luce della vita del Santo. La basilica, di cui i turisti non si stancano mai di ammirare la singolare bellezza della facciata, fu il luogo dove Francesco fu battezzato, pregò e predicò. Il Vescovo non si sottrae all’accostamento della parola evangelica a quella pagina di storia che racconta del giovane Francesco il quale al momento della conversione, nella radicale consapevolezza che non c’è amore a Dio senza quello ai fratelli più poveri, si avvicina ai lebbrosi del suo tempo e, vincendo il naturale ribrezzo, bacia il lebbroso. Ci sono icone che i secoli non cancellano, sembra dire il Vescovo: attraverso questo bacio passa la passione per la vita del giovane assisano che poi gli permetterà di intonare il famoso cantico di Frate sole. Nella Bolla di Benedetto XVI di assegnazione della diocesi al vescovo Sorrentino si legge: «Abbiamo cercato con diligenza un pastore di uomini stimato che, seguendo le orme del poverello d’Assisi, sappia d’ora in poi governare quella comunità con fermezza e saggezza». Ora il suo governo sarà da realizzarsi armonizzando la proposta pastorale delle basiliche francescane con quelle della diocesi. C’è poi la promessa del Papa di una visita ad Assisi. Uscendo da san Rufino si è fatto buio, ma in alto c’è la Rocca illuminata, un tempo segno di guerra, dove ora invece si raccolgono le bandiere della pace. Il Vescovo aveva dichiarato irrinunciabile l’impegno cristiano per la pace, definendo Assisi un «laboratorio di pace e di dialogo». Sì, anche di dialogo con le altre religioni, nuovo capitolo della nostra chiesa, inaugurato a san Francesco con l’incontro del 1986, e mai più disatteso in Assisi anche nel piccolo prezioso dialogo delle comunità monastiche di diverse religioni, negli incontri culturali alla Cittadella. Dialogo difficile ma ineludibile. Com’è difficile l’attenzione partecipe ai bisognosi, nuovi e di sempre, mentre il Vescovo ne dà l’esempio visitando, come suo primo atto, i ragazzi non udenti e non vedenti dell’Istituto serafico della città. ATTUALITÀ Mass media diamo voce alla pace Cina giornalisti libertà e inquietudine Diritti umani accuse pesanti a Guantanamo Usa un nuovo muro di Berlino? Sono in tanti a lamentare il deficit pauroso nell’informazione a copertura del mondo della solidarietà e della speranza. Se è vero che c’è tanta carta stampata prodotta proprio da associazioni e realtà variegate dell’impegno sociale e che l’avvento di internet ha sicuramente favorito l’accesso a notizie e approfondimenti su pace e dintorni, è altrettanto vero che queste informazioni non raggiungono il grande pubblico. La Tavola della pace, forte della sua rete di associazione ed enti locali, ha avviato da tempo un percorso in questo senso trovando come grandi alleati la Fesmi (rete di riviste missionarie), altre testate di area (fra queste, Mosaico di Pace di Pax Christi), soprattutto la Federazione Nazionale della Stampa e Usigrai (il Sindacato dei giornalisti del servizio pubblico). In questo percorso viene proposta una tappa molto importante il 10 marzo prossimo. Si tratta di 24 ore dal titolo significativo «Diamo voce alla pace». «Pace e informazione sono due beni fondamentali a rischio – si legge nell’appello di convocazione della giornata –. La pace resta un sogno per miliardi di bambine e bambini, donne e uomini provati dei fondamentali diritti umani. E anche da noi è sempre più in pericolo. L’informazione, sottoposta a pesanti limitazioni e condizionamenti politici ed economici, rischia di essere sempre più scadente e meno libera e indipendente». Scuole e testate locali, gruppi e volontari il 10 marzo sono invitati a mobilitarsi. (Tonio Dell’Olio). Maggiori informazioni sul sito: wwwtavoladella pace.it. La morte, avvenuta il 2 febbraio, del giornalista Wu Xiangu a Taizhou (provincia costiera dello Zhejiang), a causa delle botte inflittegli da alcuni poliziotti furiosi che gli contestavano la pubblicazione di un articolo critico sull’imposizione di tasse locali arbitrarie, è occasione di riflessione su ciò che sta avvenendo in questo momento in Cina. In un momento di transizione economica, ipotizzata come «mercato del secolo», di una diplomazia inseguita dalle cancellerie mondiali, l’informazione del gigante asiatico è attraversata da una profonda crisi. Da alcuni anni sembrava aperta la strada comunicativa a un respiro di libertà, invece il Partito interviene ancora massicciamente perché gli affari interni non si conoscano e non si conoscano nemmeno per esempio, le sanzioni comminate dal partito a chi aderisce a chiese o a gruppi religiosi. Le Monde parla di «regressione» e s’interroga: «dove sono le ricadute del miracolo economico?». Amnesty international, organizzazione per la difesa dei diritti umani, nel suo ultimo rapporto reso noto a Londra il 6 febbraio, relativo alla base americana di Guantanamo a Cuba, giudica che questa prigione condanna «migliaia di persone a una vita di sofferenze, di tormenti e di sospetti». Il rapporto, intitolato «Guantanamo, vite fatte a pezzi», parla di 500 persone, originarie di 35 paesi, detenute nel campo, nei quattro anni dalla sua apertura. Chiede la pubblicazione di un elenco preciso della loro identità e nazionalità e di processare o rilasciare tutti i detenuti nell’isola. Nessuno, stando ad Amnesty, ha beneficiato di una revisione giudiziaria circa la legittimità della propria detenzione. Nove continuano a essere in prigionieri nonostante non siano più ritenuti dal governo statunitense combattenti-nemici. Amnesty denuncia la «tortura» dell’alimentazione forzata attraverso una sonda nasale senza anestesia che sarebbe imposta dalle autorità alle decine dei prigionieri in sciopero della fame. È stato approvato dalla Camera dei deputati, con 239 voti a favore e 182 contro, un progetto di legge sulla riforma dell’immigrazione illegale che prevede la costruzione di un muro lungo 700 miglia che attraverserebbe California, Arizona, New Mexico e Texas per impedire l’ingresso negli Usa dei clandestini. La conferenza episcopale statunitense è estremamente preoccupata per le nuove misure che possono aggravare lo status penale degli immigrati e teme fortemente che la nuova legge metta a repentaglio anche quelli in piena regola. Monsignor Barnes, vescovo di San Bernardino (California) e presidente della Commissione episcopale per i migranti, ha fatto appello al presidente Bush perché si opponga al progetto che ha vari aspetti estremamente punitivi, come quello di vietare, anche ai cittadini statunitensi, di prestare prima assistenza agli stranieri senza permesso legale. Da Philadelphia il cardinale Justin Rigali e da Los Angeles il card. Roger Mahony hanno chiesto al Senato di bocciare la nuova norma. Turchia dialogo e martirio L’uccisione di don Andrea Santoro (nella foto), parroco di Trabzon (Turchia), uomo di dialogo, porta alla luce una personalità mite e insieme ricca di fede coraggiosa: « Il Medio oriente deve essere riabitato – aveva detto in un ritiro due mesi fa – come fu abitato ieri da Gesù : con lunghi silenzi, con umiltà e semplicità di vita, con opere di fede, con miracoli di carità, con la limpidezza inerme della testimonianza, con il dono consapevole della vita». La sua morte porta su due piste: una riguarda la provocazione politico-religiosa e ritiene che l’intento degli istigatori è stato quello di provocare un conflitto tra la religione islamica e quella cristiana, conflitto attualmente immotivato e inesistente in Turchia ma esasperato in tutti gli stati islamici a seguito delle vignette blasfeme pubblicate in Danimarca. Un’altra pista sospetta che il delitto sia legato alla mafia implicata nel traffico di prostitute cristiane provenienti da paesi dell’ex Unione Sovietica, che don Andrea tentava di contrastare. ROCCA 1 MARZO 2006 Assisi l’insediamento del nuovo vescovo Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 7 8 ATTUALITÀ Kenya ai bambini cibo per cani? Germania il centenario di Dietrich Bonhoeffer La beneficenza inutile continua senza interruzione ad inondare i Paesi poveri, accompagnata dal retropensiero: «Siccome non hanno niente che si accontentino di qualsiasi cosa gli mandi». Ma qualcuno ha cominciato a dire basta: è di questi giorni la notizia che il governo del Kenya ha rifiutato una partita di 42 tonnellate di cibo in polvere – seimila razioni, un supplemento nutrizionale utile per sfamare 160 bambini per 60 giorni, secondo le valutazioni della ditta neozelandese offerente – peccato che si trattava di…cibo per cani! Anche se il paese è in ginocchio per una grave siccità e la carestia, «Le persone non sono cani» hanno risposto le autorità di Nairobi. Ma questo è solo l’ultimo, a quanto sappiamo, di una serie di episodi che hanno avuto come teatro altri Paesi africani e/o comunque del Terzo Mondo: si possono citare le migliaia di tonnellate di grano prodotto da piante geneticamente modificate, donate dagli Stati Uniti allo Zimbawe affamato e da questo rifiutate o il latte in polvere inviato in Paesi dov’è un sogno disporre di acqua potabile per diluirlo o ancora i farmaci inutili o scaduti mandati per beneficenza, in realtà per esaurire le eccedenze o per disfarsi di rifiuti costosi da smaltire. «Donare non significa liberare la cantina o la soffitta dalle immondizie» è una frase che possono purtroppo ripetere gli operatori di organizzazioni umanitarie che si vedono recapitare quantità incredibili di cose inutili. Per disfarsene devono impegnare tempo e denaro, sottraendoli proprio a interventi di soccorso che costituiscono la ragion d’essere del loro lavoro. Con numerose iniziative culturali e religiose è stato ricordato il centenario della nascita di Dietrich Bonhoeffer (4 febbraio 1906). Per una analisi del suo pensiero rinviamo i lettori all’articolo di Giuseppe Moscati «Dietrich Bonhoeffer, essere-per-gli-altri» (Rocca, n. 8/2004), mentre vogliamo ricordare alcuni tratti della sua storia che lo collocano oltre che tra i più illuminati teologi del 900 gli ecumenisti, anche nel martirologio cristiano. Pastore luterano, nel saggio dell’aprile 1933 «La Chiesa davanti al problema degli ebrei» fu il primo ad affrontare il tema del rapporto tra la chiesa e la dittatura nazista, sostenendo con forza che la chiesa aveva il dovere di opporsi all’ingiustizia politica. Aderendo alla cosiddetta «chiesa confessante», diresse il seminario clandestino per i pastori delle chiese di Zingst e di Finkenwalde, quest’ultimo seminario poi chiuso dalla Gestapo. La stessa Gestapo bandì Bonhoeffer da Berlino e nel settembre del 1940 gli proibì di predicare. Egli continuò il suo lavoro di insegnante nella clandestinità e nel 1943 si avvicinò a un gruppo di resistenza e cospirazione contro Hitler. La sua attività per aiutare gli ebrei a fuggire dalla Germania lo portò alla carcerazione nel 1943. Dopo un fallito attentato contro Hitler il 20 luglio 1944, Bonhoeffer fu trasferito nella prigione di Berlino, poi nel campo di concentramento di Buchenwald e infine di Flossenburg, dove fu impiccato nudo insieme ad altri cospiratori. Così, l’8 aprile 1945 si compiva il suo destino. «È la fine, per me l’inizio della vita» rispose a chi gli diceva addio, ormai consapevole del cammino a cui l’aveva condotto la grazia a caro prezzo offerta a ogni discepolo di Cristo. New York la morte di Coretta King Si moltiplicano, da tutte le parti del mondo, i commossi omaggi a Coretta King, vedova del pastore Martin Luther King, anche lei figura importante della nonviolenza nella battaglia per i diritti civili dei Neri negli Stati Uniti e nel mondo. Quattro presidenti, i due Bush, Carter e Clinton hanno partecipato ai suoi funerali. G. Bush ha ricordato: «I contributi della signora King alla libertà e all’uguaglianza hanno fatto dell’America una nazione migliore e più umana». Coretta ha avuto un ruolo, spesso nascosto, nel movimento nonviolento durante gli anni 1950-60 quando suo marito – un pastore battista che aveva cominciato la sua missione in una chiesa di Birmingham, in Alabama – divenne simbolo di un movimento sociale profondamente radicato nella religione. Si erano incontrati mentre lei studiava musica e lui compiva gli studi di teologia all’Università di Boston. Lascia ad Atlanta, in Georgia, un Centro, da lei fondato, di educazione non violenta. notizie seminari & convegni Roma. Il Presidente della Repubblica Ciampi ha ricevuto il 2 febbraio il comitato «Salviamo la Costituzione», che lotta per il «no» alla devolution e l’ex Presidente Oscar Luigi Scalfaro che ne è lo sponsor. Scalfaro aveva lamentato più volte a riguardo «il silenzio assordante dei media». (www. salviamolacostituzione.it). Il Cairo. Shenuda III, papa dei Copti egiziani, ha ringraziato il presidente Mubarak per la firma di un decreto che facilita finalmente la costruzione di chiese. I copti rappresentano il 10% dei 73 milioni di abitanti dell’Egitto. Pisa. Alle elezioni del 2009 per la provincia di Pisa an- che gli immigrati (è il primo caso per una simile ammissione in Italia) avranno diritto di voto attivo e passivo. Lo ha stabilito il 1° febbraio una modifica dello Statuto con il voto favorevole dei gruppi della maggioranza (sinistra), che ha sostenuto la necessità di spazi pubblici condivisi. 2-4 marzo. Ancona. Meeting nazionale sul lavoro di strada, organizzato dal Gruppo Abele di Ancona e regione Marche. Sede: Teatro delle Muse. Inf.: laura. [email protected]; tel. 071 222 6115. 3 marzo. Piacenza. Presentazione del progetto pedagogico di teatro interattivo rivolto agli adolescenti dai 15 ai 18 anni «Cosa vuoi da me papà?», curato dal Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti. Nei giorni 13, 14, 15 il progetto sarà a Senigallia (An). Informazioni: tel. 0523 498 594. 3-26 marzo. Palermo. La Provincia regionale di Palermo in collaborazione con la Galleria d’Arte contemporanea della Pro Civitate Christiana di Assisi propongono l’opera del grande artista francese Georges Rouault «Miserere», al Loggiato San Bartolomeo 25. All’inaugurazione, saluto del Presidente Musetto, Presentazione di Augusto Cavadi, Concerto del M° Visconti. Visita guidata da Anna Nabot, direttrice della Galleria d’Arte della Pro civitate Christiana. Informazioni: tel. 091 6682989 / 338 667 1989 / 075 813231; e-mail: [email protected]. [email protected], http:// procivitate.assisi.museum. 6 e 13 marzo. Vercelli. Per il ciclo «L’esperienza del credere oggi», due incontri: il primo sul tema: «Dialogo ecumenico e interreligioso in Europa» (relatori mons. Aldo Giordano e Birgit Wolter); il secondo su: «Credere senza appartenere e appartener senza credere. Le forme dell’adesione religiosa» (Gad Lerner, Beppe del Colle, Maurizio Ambrosiani). Ore 21, Seminario, piazza sant’Eusebio 10, Vercelli. Informazioni: tel. 328 7447376. 6/13/20 marzo. Torino. Tre incontri organizzati dal Gruppo Abele su: «Una legge uguale per pochi. Il diritto penale e gli esclusi: dalla Bossi-Fini alla ex Ciriello, passando per il Fini delle droghe». Sede: Biblioteca Centro studi del Gruppo Abele, c.so Trapani 91/b Torino. Informazioni: Salvatore D’acierno tel.011 384 1053; e-mail [email protected], 7 marzo. Genova. Per il ciclo «Il dialogo tra Dio e l’uomo: In ogni tempo, in ogni luogo» incontro con Brunetto Salvarani, teologo e saggista, sul tema. «Bibbia e cultura». Ore 18 presso la sede del Gruppo Piccapietra, piazza S. Marta 2 (Ingresso Quadrivium). Informazioni: 010 218074/010 216 149. 9 marzo. Padova. Organizzato dalla Cappella Universitaria, Incontro con P. Bartolomeo Sorge S. J. sul tema: «Verso Verona: l’eredità del Vaticano II nel cammino della Chiesa italiana» alle ore 20.45. Informazioni: Cappella universitaria San Massimo, Vicolo san Massimo 2, Padova. 12-19 marzo. Cuneo. Al Palazzo della Provincia VI Edizione della «Mostra internazionale del libro Nord/Sud – Parole fra Continenti». Tema: «la donna e non solo...». La manifestazione prevede anche una serie di dibattiti pubblici, tavole rotonde, incontri con gli studenti. Informazioni: Parole fra Continenti c/o Giustizia e Pace, via Roma 7-12100 Cuneo. 15-17 marzo. Padova. Corso di aggiornamento per insegnanti organizzato presso il liceo Cornaro dall’Associazione laica di cultura biblica «Biblia» sul tema «La parola che unisce e che divide» (ore 15,30-18,30). Informazioni: Prof. Francesco Marin, tel. 049 755695. 19-26 marzo. Strasburgo (Francia). Convegno organizzato dal Consiglio ecumenico giovanile europeo e dal Forum delle organizzazioni giovanili e studentesche musulmane euro- pee sul tema: «Sconfiggere l’islamofobia: promuovere il dialogo e la cooperazione interreligiosa». Informazioni: www.valdesian.org. 23-26 marzo. Assisi. La letteratura dell’emigrazione è il tema del 45° Seminario di Letteratura promosso dalla Biblioteca della Pro Civitate Christiana in collaborazione con l’Università di Perugia. Relazioni di Sebastiano Martelli, Aldo Morace, Francesca Tuscano, Antonio Palermo, Roberto Fedi, Domenico Scarfoglio, Raffaele Nigro, Vincente Gonzàles Martìn, Francesco Durante. Dibattiti, approfondimenti. Informazioni: Biblioteca Pcc, tel. 0758 13 231. 25 marzo e 1 aprile. Pinarella di Cervia (Ra). Pax Christi organizza un corso per insegnanti, animatori, catechisti sul tema: «Educare alla pace» con lo scopo di proporre esperienze formative, idee e strategie comunicative nonviolente: Informazioni: 329 7655582, tel. 0544 987 158. 31 marzo-2 aprile. Asti. «Tov mut: buona è la morte?» è il titolo del convegno nazionale dell’Associazione «Bibilia». Tra i relatori: Giovanni Filoramo, Amos Luzzatto, Ida Zatelli, Piero Stefani, Carlo Molari, Sandro Spinsanti, Luigi Bersani, Paola Borgna, Giuseppe Barbaglio, Paolo De Benedetti. Moderatrice Laura Novati. Inf.: Biblia, Via A.da Settimello 129 – 50040 Settimello (Fi). 22-25 aprile. Assisi. Convegno organizzato dall’Istituto secolare «Santa Elisabetta d’Ungheria» per giovani in ricerca vocazionale sul tema: «Laici come gli altri ma...». Informazioni: Piccola Fraternità francescana «S. Elisabetta», piazza vescovado 5, 06081 Assisi, tel. 975 812 336, fax 075 816 377; e-mail: [email protected]. ROCCA 1 MARZO 2006 ROCCA 1 MARZO 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 9 ATTUALITÀ Valentina Balit 10 Contro la malaria scende in campo la meteorologia, grazie a sistemi di previsione sempre più sofisticati. Un team di ricercatori inglesi, coordinati da Tim Palmer dello European Centre for Medium Range Weather Forecasts di Reading, ha sviluppato un sistema computerizzato che utilizza i dati climatici per prevedere con cinque mesi di anticipo gli alti e bassi delle epidemie. La notizia è stata pubblicata sulla rivista Nature. Ogni anno più di un milione di persone muoiono a causa della malaria, e l’infezione coinvolge 500 milioni di individui in tutto il mondo. Il 90% dei casi si concentra in Africa, dove le epidemie, pur interessando una piccola percentuale di infezioni, contribuiscono comunque a un significativo aumento delle vittime dovute per lo più a fattori endemici. «Influendo sullo sviluppo del parassita della malaria e sul comportamento delle zanzare che ne sono portatrici», spiegano i ricercatori inglesi, «il clima è un fattore importante da tenere in considerazione per tenere sotto controllo le epidemie. Alti livelli di piovosità portano in genere un aumento dei casi di malaria». Basandosi sull’analisi della piovosità e delle temperature superficiali del mare, fino ad oggi i modelli climatici sono stati in grado di fare previsioni relative al picco della malattia con un mese di anticipo. Il sistema messo a punto dal team inglese combina diversi modelli climatici in un unico programma informatico che fornisce previsioni più accurate fino a cinque mesi prima. I ricercatori lo hanno sperimentato con successo per predire in modo retrospettivo le epidemie del Botswana del 1982 e del 2002. Dati alla mano, i governi e le agenzie non governative potranno decidere meglio come impiegare i sistemi di prevenzione, le medicine, i pesticidi. Palmer spera che il sistema messo a punto potrà essere usato anche per fare previsioni relative ad altre malattie legate al clima come il dengue, il colera e la meningite, o anche in agricoltura, orientando il tipo di colture da far crescere nelle stagioni più piovose. La ricerca è stata finanziata dal progetto europeo Demeter, che prevede lo sviluppo di un insieme unico di modelli meteorologici europei per la stima delle produzioni agrarie in Europa e la diffusione delle malattie endemiche in Africa. da IL MANIFESTO, 1 febbraio da LA REPUBBLICA, 3 febbraio da L’UNITÀ, 9 febbraio da IL CORRIERE DELLA SERA, 4 febbraio da L’UNITÀ, 10 febbraio da LA REPUBBLICA, 1 febbraio da IL CORRIERE DELLA SERA, 7 febbraio ROCCA 1 MARZO 2006 ROCCA 1 MARZO 2006 OCCA 2005 della quindicina previsioni del tempo per combattere la malaria il meglio Scoperto negli Stati Uniti un fattore molecolare alla base di diverse forme comuni di tumori, come quelli che colpiscono seno, polmoni e prostata. La notizia è stata pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. Lo studio, coordinato da Carlo Croce dell’Università dell’Ohio, ha richiamato l’attenzione su un piccolo gruppo di molecole, chiamate microRna, sulla cui azione si fonderebbero alcuni meccanismi di sviluppo comuni a forme tumorali apparentemente molto diverse. Solo negli ultimi anni gli scienziati hanno cominciato a ipotizzare che queste molecole possano avere un ruolo determinante nella regolazione dell’attività dei geni e quindi anche delle neoplasie. I risultati dello studio di Croce, basato sull’analisi del livello di attività dei microRna in più di 500 frammenti di tessuti o di organi colpiti da tumore, sono evidenti: 137 differenti microRna sono espressi in almeno la metà dei tumori considerati e, di questi, 43 si comportano in maniera tale da consentire agli scienziati di distinguere tra tessuti normali e tessuti maligni. Dei 43 microRna, inoltre, circa 21 si rivelano «difettosi» in almeno tre delle neoplasie considerate e l’alterata attività di alcuni di loro è comune a sei differenti tumori. «La scoperta di questo marchio molecolare comune a più tumori è importante», spiega Croce, «perché mostra come molte forme di cancro condividano gli stessi processi genetici. Stringere il cerchio intorno alle molecole di microRna più attive fornisce una guida per orientarsi nella ricerca futura». Sono già in corso esperimenti per ideare nuove strategie di cura che abbiano come mira proprio i microRna: la sperimentazione sugli animali è già cominciata e quella sull’uomo è prevista entro l’anno. Secondo i ricercatori, i microRna potrebbero essere i bersagli d’elezione per una nuova generazione di terapie oncologiche. Il ruolo dei microRna nel cancro potrebbe inoltre rivelare varie sfaccettature: queste molecole, come gli oncogeni, potrebbero promuovere la crescita delle neoplasie, oppure la loro presenza, come fossero geni oncosoppressori, potrebbe essere determinante per prevenire il tumore. Lo stesso microRna, spiega Croce, potrebbe essere troppo abbondante in un tumore e carente in un altro, ovvero avere un ruolo diverso di tumore in tumore. Gli stessi microRna potrebbero per questo essere usati un giorno come trattamenti: se si potessero sostituire microRna danneggiati in alcuni tipi di cancro o eliminare quelli in eccesso in altri, forse si potrebbero preveni- re i primi passaggi che promuovono lo sviluppo di una neoplasia. «Ancora molto lavoro resta da fare», conclude Croce, «ma siamo convinti che questo ambito della ricerca porterà a cure migliori e meno tossiche di quelle oggi disponibili». vignette notizie dalla scienza la «firma molecolare» dei tumori ATTUALITÀ da IL MANIFESTO, 11 febbraio 11 giornate di spiritualità 13-17 aprile il peggio della quindicina PASQUA IN CITTADELLA conversazioni sul Mistero pasquale, fondamento della fede cristiana; liturgie del Triduo; processione cittadina del Cristo morto 28° seminario LA COMUNICAZIONE NELLA COPPIA 28 aprile - 1° maggio per coniugi, fidanzati, operatori sociali e pastorali DIVERSI COME DUE GOCCE D'ACQUA il maschile e il femminile alla prova, oggi venerdì 28 ore 21,15 sabato 29 ore 9,00 9,30 15,30 domenica 30 ore 9,00 9,30 e 15,30 19,00 lunedì 1°/5 ore 9,30 12,00 performance interattiva a cura di Franco Narducci, attore spazio di preghiera animato dai Volontari della Cittadella (in cappella) tavola rotonda: il maschile e il femminile alla prova, oggi Elena BESOZZI, sociologa della conoscenza; Giancarlo BRUNI, biblista; Rosella DE LEONIBUS, psicologa e psicoterapeuta coordinano Donata e Nino DE GIOSA, Volontari della Cittadella la coppia si racconta: testimonianza di Cornelia DELL’EVA e Francesco COMINA filo diretto con i relatori presentazione dei laboratori e dei gruppi di approfondimento spazio di preghiera animato dai Volontari della Cittadella visto da lei, visto da lui: laboratori e gruppi di approfondimento laboratori: Luigi Bovo, psicoanalista: Perché le donne non sanno leggere le cartine e gli uomini non si fermano mai a chiedere? Rosella De Leonibus: Marte e Venere in camera da letto Carmelo Di Fazio, neuropsichiatra: Quali i rischi dell’indifferenziazione? gruppi di approfondimento: Elena Besozzi: in dialogo con i partecipanti Giancarlo Bruni: Ossa delle mie ossa, carne della mia carne (Gen 2,23) Francesco Comina-Cornelia Dell’Eva: casa-lavoro-tempo libero liturgia eucaristica quali nuovi orizzonti? confronto in assemblea con i relatori e gli animatori dei laboratori e dei gruppi pranzo e partenze i relatori: Luigi BOVO, psicoanalista dell’Istituto Aberastury, Perugia; Giancarlo BRUNI, biblista, della Comunità di Bose; Francesco COMINA, editorialista de ‘L’Adige’, Bolzano; Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta, Perugia; Cornelia DELL’EVA, incaricata Stampa all’università di Bolzano; Carmelo DI FAZIO, neuropsichiatra e psicoterapeuta, Busto Arsizio/VA 4° Convegno Terza Età 14-17 maggio PADRI E FIGLI... NEL FLUIRE DELLE GENERAZIONI 'proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato e il germoglio che ti sei coltivato' (Salmo 80, 16) Nella problematicità dei rapporti tra giovani e adulti, come è possibile attuare la trasmissione di cultura per una umanizzazione della società? Le generazioni potrebbero incontrarsi nella comunicazione non secondo uno schema piramidale, oggi improponibile, ma nella convergenza e nell’amore, nella valorizzazione e nella lettura, anche se differenziata, delle proprie esperienze di vita. Nello sviluppo del tema si alterneranno esperti con lezioni e attività laboratoriali. i relatori: Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta; Tonio DELL’OLIO, teologo; Roberto SEGATORI, sociologo; Tullio SEPPILLI, antropologo informazioni - iscrizioni: Cittadella Ospitalità - via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG – tel. 075813231; fax 075812445 e-mail: [email protected] – internet: www.cittadella.org Raniero La Valle D ice Johan Galtung, che è uno «scienziato dei conflitti», che quando c’è una crisi bisogna andare a vedere che cosa è successo prima, anche molto prima, per capire come è sorta e come si può risolvere. Per esempio per capire l’attuale furore dell’Islam egli ricorda che al tempo della prima guerra mondiale l’Inghilterra aveva promesso ai popoli dominati dall’Impero ottomano che, se se ne fossero affrancati, avrebbero ottenuto l’indipendenza; e invece, finito quell’Impero, essi sono stati di nuovo assoggettati in colonie, mandati ed occupazioni militari di altri Imperi. Così è abbastanza ridicola la gran discussione che si è fatta in questi giorni per chiedersi, increduli, se c’è proporzione tra una semplice vignetta pubblicata in un giornale un po’ razzista di un Paese relativamente piccolo e periferico dell’Occidente come la Danimarca, e l’insurrezione delle masse islamiche nel mondo intero, dal Maghreb al Libano, alla Somalia, al Kashmir, all’Indonesia. È evidente che non c’è proporzione. Se quel vignettista pensasse di avere creato lui tutto questo sconquasso, sarebbe affetto da delirio di onnipotenza. Anche tenendo conto dell’atteggiamento anti-iconico dell’Islam, in una civiltà tutta piena di immagini anche i musulmani sono abituati a vedere senza batter ciglio immagini religiose e perfino caricature; certo la satira religiosa non piace a nessuna religione, ma il mondo è il mondo, e anche Rocca pubblica una pagina di vignette in cui talvolta figurano Papa, cardinali e perfino Komeini; e non s’è mai vista alcuna rivolta. Dunque è chiaro che una vignetta di per sé è inadeguata a sommuovere il mondo; a meno che non sia il classico fiammifero che cade su un barile di polvere. E a quel punto diventa del tutto irresponsabile, per l’Occidente, trincerarsi dietro la superiorità del proprio principio della libertà di stampa, rifiutare di presentare le scuse richieste dalla parte comunque offesa, e anzi dare la stura alla ripubblicazione delle stesse vignette o di altre ormai scientemente antislamiche, in nome della democrazia che noi abbiamo e che loro non hanno. Così facendo non solo aggiunge insulto ad offesa, e umiliazione ad umiliazione, ma mentre attacca il fondamentalismo altrui, trasforma un principio di libertà in un feticcio, un idolo, un tabù in casa propria. Quello che bisogna capire è perché in tutto il mondo arabo e islamico si bruciano le ban- diere, si attaccano le ambasciate e si grida contro l’Occidente. Non certo perché sono i governi a sobillare, perché in tal caso non lo farebbero quelli messi su dagli americani; né si tratta solo di fanatici, perché la dimensione di massa del fenomeno non consente questa analisi. Se lo fanno, probabilmente è perché non ne possono più. Una lunga catena di cause, in cui molto hanno giocato la protervia e l’incultura dell’Occidente, ha portato le masse arabe e musulmane ad accumulare un potenziale di rivolta, che può non esplodere solo se trova la via di un’emersione e di una fuoruscita politica. Se ci si chiede ad esempio perché il popolo più moderno e laico del Medio Oriente, quello palestinese, ha votato in massa per Hamas, è facile dire che questa è stata da un lato una risposta alla liquidazione della politica di Arafat da parte di Israele e dell’Occidente, dall’altro è stato il tentativo estremo di esperire la via politica invece della lotta armata prima della archiviazione definitiva delle speranze di avere uno Stato; e che sia in crisi questa speranza è mostrato dal fatto che, proprio nel pieno della collera suscitata dalle vignette, il primo ministro israeliano Olmert ha dichiarato di volersi annettere la Valle del Giordano e tutte le terre occupate dai coloni. Allora la conclusione è molto semplice. Volete lo «scontro di civiltà»? Non ci vuole niente, ed ecco lo avete. L’Italia del resto, sempre zelante, ci era arrivata per prima: fin dal «Nuovo Modello di Difesa» adottato nel 1991 dopo la rimozione del muro di Berlino e la I guerra del Golfo, essa aveva sancito che, venuto meno il comunismo, lo scontro sarebbe stato ormai con l’Islam; si trova scritto infatti in quel documento strategico che il Mediterraneo e il Medio Oriente sarebbero stati il teatro di un «più generale confronto tra una realtà culturale islamica e i modelli di sviluppo del mondo occidentale», e che «il conflitto arabo-israeliano, nella sua contrapposizione tra tutto il mondo arabo da un lato, sia pure con formule e sfumature diverse, ed il nucleo etnico ebraico dall’altro, può essere considerato un’emblematica chiave interpretativa del rapporto Islam-Occidente». L’interpretazione razzista e religiosa del conflitto israelo-palestinese che era in atto e del conflitto futuro tra l’Occidente e il resto del mondo ancora da bonificare, era già seminata lì. Adesso è il momento di rendersi conto dei suoi frutti, e di correre ai ripari. ❑ 13 ROCCA 1 MARZO 2006 Cittadella Ospitalità RESISTENZA E PACE SICUREZZA ENERGETICA Maurizio Salvi n attesa che il Panicum virgatum (una pianta delle graminacee conosciuta in italiano come panico verga) sia in grado di contribuire alla produzione di etanolo a basso costo, come ha assicurato il presidente statunitense George W. Bush nel suo discorso sullo Stato dell’Unione all’inizio di febbraio, la questione della sicurezza energetica è divenuta un autentico incubo per i governi del mondo ed in particolare per quelli, come Usa, Cina, India e Europa, che sono importatori netti di risorse energetiche come petrolio o gas. I imperialismo russo ROCCA 1 MARZO 2006 L’occasione ravvicinata per evocare questo problema si è avuta nel G8 svoltosi sotto presidenza della Russia a Mosca il 10 e 11 febbraio, occasione in cui verbalmente il Ministro delle Finanze russo, Aleksei Kudrin, non ha risparmiato promesse e garanzie di forniture di gas per il futuro al mondo intero. Anche se alla richiesta chiave, quella di ratificare la Carta dell’Energia messa a punto nel 1991 dall’Unione europea (Ue) per il commercio energetico con l’est europeo, ha detto che per il momento Mosca «non era ancora pronta a fare questo passo». Se avesse detto sì al documento, Kudrin avrebbe praticamente rimesso in discussione il monopolio per le esportazioni di cui gode il gigante statale Gazprom, e che di recente il quotidiano britannico The Guardian ha definito stru14 mento di una sorta di «imperialismo energetico». Non diverso comunque da quello in passato esercitato dalle leggendarie ‘Sette Sorelle’ (le più grandi multinazionali petrolifere) ed in certi momenti perfino dall’Opec, l’organizzazione dei Paesi maggiori produttori di petrolio. L’Europa affronterà di nuovo la questione energetica nel Vertice europeo di marzo e Martin Bartenstein, Ministro dell’Economia austriaco – Vienna esercita la presidenza di turno comunitaria – ha sostenuto che «tutta l’Europa deve ripensare la sua politica energetica» puntando «a sicurezza dell’approvvigionamento, diversificazione delle fonti, competitività dei prezzi e possibili strategici investimenti futuri nel settore». sia all’Ucraina, e successivamente il pesante confronto fra Occidente e Iran sui programmi nucleari di Teheran che ha spinto la Repubblica islamica, non solo ad avvertire di volere comunque andare avanti nella ricerca atomica, ma anche a brandire la minaccia di rappresaglie petrolifere. Se a questo poi si volessero aggiungere l’attacco da parte di non meglio definiti ‘movimenti di liberazione’ alle istallazioni della Shell in Nigeria e la decisione del nuovo presidente della Boliva, Evo Morales, di nazionalizzare il settore degli idrocarburi, si percepirà che effettivamente esistono tutti gli elementi per fare di quello in corso un anno di forti tensioni sul pianeta energetico, in particolare per quanto riguarda i prezzi. scenario mutato saltano le regole Le diplomazie erano abituate a destreggiarsi nelle fluttuazioni dei prezzi del petrolio, ma dalla decisione di Washington di invadere l’Iraq, e per la presenza più aggressiva della Cina nello scenario mondiale, la questione è completamente mutata ed oggi sussulti energetici che in passato potevano essere perfettamente controllati, sono invece considerati della massima gravità. E così, per confortare il proverbio per cui ‘il buon giorno si vede dal mattino’, va detto che il 2006 è cominciato con due crisi a sfondo energetico di grande livello: la ‘guerra’ MoscaKiev sul prezzo del gas fornito dalla Rus- A mettere in difficoltà le economie del Nord del mondo vi è anche una lenta ma sempre più chiara presa di distanze dei paesi produttori di idrocarburi dalle regole che fino ad ora hanno governato il commercio di petrolio e gas. Per non parlare poi dei danni incalcolabili che ha causato a paesi come Italia, Germania o Giappone, la decisione di occupare ‘manu militari’ i pozzi petroliferi iracheni, con la scusa ufficiale di volerli preservare «per il bene della democrazia», ma in realtà per assegnarli in gestione alle compagnie multinazionali degli Stati Uniti e degli altri principali Paesi alleati 15 ROCCA 1 MARZO 2006 un problema planetario SICUREZZA ENERGETICA congiuntura senza alternative Gli analisti concordano nel sostenere che l’evento che potrebbe aprire prospettive di grande incertezza a livello mondiale è l’eventuale decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di imporre sanzioni all’Iran per la sua politica nucleare. E David Butter, economista capo della Economist Intelligence Unit, ha di recente osservato in questo ambito che «se la situazione in Iran diventasse più tesa, non sarebbe da escludere per quest’anno un barile di petrolio a 90 dollari». Questo perchè nonostante la disponibilità dell’Arabia saudita ad aumentare la sua produzione fino a undici milioni di barili al giorno (ora è a 9,5 milioni), un’eventuale sospensione delle esportazioni iraniane creerebbero una penuria di 2,5 milioni di barili quotidiani che si aggiungerebbe alla riduzione della produzione del 10% già fatta registrare dagli atti di violenza in Nigeria. Questa emergenza coglie sia i governi sia le stesse imprese del ramo sostanzialente impreparate sulle alternative da studiare cep centro educazione permanente CORSO QUADRIENNALE DI MUSICOTERAPIA Assisi IL CORSO SI ARTICOLA IN: • uno stage residenziale estivo di due settimane ogni anno • un tirocinio di 250 ore dopo la frequenza del 2° anno ROCCA 1 MARZO 2006 REQUISITI DI AMMISSIONE: diploma di scuola secondaria superiore e diploma di Conservatorio o almeno del compimento medio Il CORSO QUADRIENNALE, istituito sin dal 1981, è finalizzato all’acquisizione di competenze musicoterapiche di base, utilizzabili in differenti contesti (educativo-preventivo, riabilitativo, terapeutico e di integrazione sociale). PER INFORMAZIONI E ISCRIZIONI centro educazione permanente Cittadella - 06081 Assisi (PG) tel./fax 075812288 e-mail: [email protected] sito internet: http://www.cittadella.org IN 16 per affrontare questa complessa congiuntura. E non basta osservare, come ha fatto Claude Mandil, direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), che «il problema non è il gas russo, ma Gazprom. E i consumatori occidentali non possono acquistarlo se non passando attraverso una società monopolistica, diretta dal Cremlino». La verità è che il fattore di rischio più evidente ha un carattere economico e riguarda gli insufficienti investimenti nel campo dell’esplorazione-produzione. Secondo una valutazione offerta dal quotidiano Le Monde (14 febbraio 2006), «essa priva i paesi consumatori di cinque milioni di barili al giorno che permetterebbero di compensare una eventuale rottura delle forniture provenienti da Iran, Nigeria o dal Venezuela, che sono i tre paesi a rischio maggiore». Quest’anno la domanda di greggio crescerà, secondo l’Aie, del 2,2%, gli Stati Uniti resteranno i maggiori consumatori (un quarto del totale) mentre la Cina diventerà ancora più vorace, con una crescita di consumo del 6,6%. E agli esperti non è sfuggito il viaggio a Pechino del re Abdallah – il primo di un monarca saudita in territorio cinese – che si è concluso con la firma di un protocollo d’accordo che evoca piani di cooperazione di alto livello nei settori petrolifero, gasifero e minerario. Europa senza strategie Questa realtà spinge gli Usa alla diversificazione degli approvvigionamenti energetici, già avviata anni fa con la creazione di un mercato petrolifero in Asia centrale e in Africa occidentale. Una strategia non adottata invece dall’Europa che è quasi totalmente dipendente per le sue forniture di petrolio da un piccolo gruppo di paesi dell’area mediorientale (Iran, Arabia saudita e Kuwait) che racchiudono riserve per 1.278 miliardi di barili. Ma anche qui esistono dubbi e pericolose ipotesi che, se confermate, potrebbero infiammare i mercati energetici. Dopo i dubbi avanzati da Matthew Simmons, un uomo d’affari texano esperto in questioni petrolifere, sulle riserve reali dell’Arabia saudita, ora il settimanale ‘Petroleum Intelligence Weekly’ punta in direzione del Kuwait le cui riserve di ‘oro nero’, sostiene, potrebbero essere due volte inferiori alle cifre ufficialmente fornite. Maurizio Salvi OLTRE LA CRONACA Romolo Menighetti L Foibe a «Giornata del ricordo delle foibe e dell’esodo degli italiani dalla Venezia Giulia e dall’Istria» intende ricordare i nostri connazionali uccisi in quelle terre, perché fascisti o semplicemente perché italiani, tra il 1943 e il 1945, per mano dei partigiani jugoslavi. Fortemente voluta dalla Destra, è stata istituzionalizzata con legge del 2004 nella giornata del 10 febbraio. Stime di parte italiana fanno ammontare le vittime a 4500. Particolarmente crudele fu il modo con cui furono perpetrati questi crimini: le persone furono gettate, ancora vive in gran parte, nei profondi crepacci carsici, le foibe. La Giornata ricorda anche l’esodo forzato di migliaia di giuliano-dalmati, costretti ad abbandonare case e beni, avendo scelto di voler continuare ad essere italiani. Le foibe sono una brutta pagina per tutti. Per i partigiani jugoslavi autori del massacro. Per i comunisti italiani, che avvolsero nel silenzio tali crimini in quanto pare fossero coinvolti, dalla parte dei carnefici, anche alcuni dei loro. Per il governo italiano, che al fine di non rompere i delicati equilibri della Guerra fredda, rinunciò ad indagare. E soprattutto per i fascisti, in quanto l’intreccio di odi e di atrocità che portò a quelle tragedie ebbe origine dalla politica di Mussolini e dalla successiva invasione militare della Jugoslavia, assieme ai nazisti, nel 1941. Le foibe si configurano come non giustificabile reazione di un’etnia che si vendica nei confronti degli appartenenti ad una nazione che aveva collaborato al tentativo di «pulirla». Conviene perciò, onde meglio capire, tracciare alcune linee di storia. Con il trattato di Rapallo del 1920 vennero assegnati all’Italia alcuni territori della Slovenia e della Croazia. Il governo fascista avviò su questi una politica di italianizzazione forzata della popolazione (divieto dell’uso del serbo-croato, imposizione della lingua italiana negli uffici pubblici e nelle scuole, italianizzazione dei cognomi). Non mancarono, inoltre, scorribande nelle città e nei villaggi per scoraggiare ribellioni. Centinaia furono i processi intentati dai tribunali speciali, molti dei quali finirono con condanne a morte. Nel 1941 la situazione si aggravò con l’aggressione militare nazifascista alla Jugoslavia. Questa portò alla costituzione dello stato fantoccio di Croazia guidato dagli ustascia di Ante Pavelic, che avviò una politica di sanguinaria repressione nei confronti dei serbi. Anche le truppe italiane, nelle zone da loro occupate, si macchiarono di stragi, incendi di villaggi e deportazioni in campi di concentramento, dove altissimo fu il numero dei morti per fame, malattie e sevizie. Si stimano in un milione le vittime della repressione nazifascista (www.ciari.net/foibe). Va ricordato in particolare il lager di Arbe, uno dei tre campi di concentramento gestiti dagli italiani. In esso furono rinchiusi 15000 internati, sottoposti ad un regime di detenzione così duro che vi furono circa 1200 morti, stando ai calcoli di Bodizar Jezernik, storico e preside della facoltà di Lettere all’Università di Lubiana. Il campo di Arbe è stato definito «il più grande cimitero Sloveno». Le stragi compiute dall’esercito italiano in Slovenia demitizzano il mito degli «italiani brava gente», mito che tra l’altro Mussolini detestava, stando a quanto disse in un incontro con i suoi generali a Gorizia, nel luglio 1942: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali, incapaci di essere duri quando occorre» (Riccardo Staglianò, Quando gli italiani uccidevano, in «La Repubblica» 30 ottobre 2003). Secondo il documentario Fascist Legacy (L’eredità del fascismo, regia di Ken Kirby, consulenza storica di Michael Palumbo), prodotto e trasmesso dall’inglese Bbc in due puntate l’1 e l’8 novembre 1989, ma mai trasmesso dalla Rai, i crimini sistematicamente commessi dall’Italia fascista nella costruzione del suo impero, in nome della «superiore civiltà italica» e della «missione civilizzatrice», avrebbero, per difetto, causato la morte di 250.000 jugoslavi, 100.000 greci, 100.000 libici, 300.000 etiopi. Questo dunque è il contesto entro cui inquadrare la tragedia delle foibe. Farne memoria senza strumentalizzazioni è oggi l’unico modo per ricordare quelle vittime dignitosamente. ❑ 17 ROCCA 1 MARZO 2006 intervenuti a Baghdad. FINANZA campagna contro le banche armate 18 I venienti dalla società civile, dalle imprese e dai governi hanno creato i presupposti per la fine dell’apartheid. Anche in Italia ci furono campagne di pressione sulle società presenti nel Paese africano ed in particolare sulle banche, Rocca fece la sua parte annullando la pubblicità di un istituto di credito sulle proprie pagine, rinunciando ad un finanziamento non disprezzabile. controllo attivo dei cittadini Più recentemente, nel 1999 è nata la Campagna sulle banche armate, promossa dalle riviste Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico di pace, per favorire un controllo attivo dei cittadini sulle operazioni di appoggio alle esportazioni di armi e per la fuoriuscita dalle banche da tale attività, peraltro legale e regolamentata dalla legge 185 che disciplina tale settore. La Campagna chiedeva ai cittadini di non chiedere finanziamenti alle predette banche armate. Si trattava di un’azione nonviolenta che invitava a non collaborare con chi aiutava in qualche modo il commercio delle armi. Del resto non è accettabile che i soldi dei cittadini siano utilizzati per creare lutti e rovine con tali vendite, anziché benessere e sviluppo. Un recente convegno romano, organizzato dalla Campagna, è stato il primo mo- le principali banche nell’export di armi chi riarma, chi sta disarmando, le new entry: due trienni a confronto triennio 1999-2001 (valori in milioni di euro) 1999 Unicredito Italiano 644,5 Capitalia 64,9 Banca Intesa 189,0 Banca Nazionale Lavoro 48,6 Gruppo Bancario San Paolo Imi 78,3 Banco Bilbao Vizcaya Argentaria Credit Agricole Indosuez/Calyon Bnp Paribas 32,0 Barclays Bank 1,3 Banco Santander Central Hispano Gruppo Mps 0,9 Arab Banking Corporation 16,2 2000 106,6 357,9 184,8 61,9 21,5 2001 55,6 190,9 78,3 104,6 48,9 46,7 40,2 3,1 27,2 19,7 14,7 Totale 806,7 613,7 452,1 215,1 148,7 46,7 40,2 32,0 28,5 19,7 18,7 16,2 % 33,1 25,2 18,5 8,8 6,1 1,9 1,6 1,3 1,2 0,8 0,8 0,7 Totale 724,3 538,5 279,1 237,4 177,4 151,8 141,2 120,3 87,3 82,1 70,0 53,4 % 27,2 20,2 10,5 8,9 6,7 5,7 5,3 4,5 3,3 3,1 2,6 2,0 triennio 2002-2004 Capitalia Gruppo Bancario San Paolo Imi Banca Nazionale Lavoro Banco Bilbao Vizcaya Argentaria Banca Intesa Unicredito Italiano Banca Antonveneta Credit Agricole Indosuez/Calyon Cassa di Risparmio della Spezia Barclays Bank Société Générale Banca Popolare di Milano 2002 98,4 80,6 137,8 216,0 56,8 99,6 6,9 2003 229,8 91,8 69,7 5,2 97,4 31,9 13,3 2,3 31,3 34,1 22,7 70,0 2004 396,1 366,1 71,6 16,2 23,2 20,2 121,0 120,3 50,9 28,1 53,4 ROCCA 1 MARZO 2006 ROCCA 1 MARZO 2006 Luciano Bertozzi recenti scandali finanziari avranno, probabilmente, anche un riflesso positivo. I risparmiatori stanno prendendo coscienza della necessità di chiedere conto alle banche dell’utilizzo dei propri soldi. Come si è verificato nel settore alimentare a seguito della «mucca pazza», che ha costretto tutti a guardare con molta attenzione cosa si mangia, la stessa situazione si sta verificando per i mercati finanziari. L’esigenza di maggiore trasparenza e di etica pone ciascuno di noi di fronte a scelte importanti: non più la ricerca del massimo profitto, bensì soluzioni che non si traducano in sfruttamento per alcuni. Si aprono nuove prospettive, quindi, per la cosiddetta finanza etica, cioè attività finanziarie finalizzate anche alla responsabilità sociale d’impresa, termine che va tanto di moda ed a cui proprio le banche hanno dedicato tanti convegni. Non bisogna dimenticare che non si parte da zero. In passato sono stati raggiunti importanti risultati, grazie alle pressioni internazionali che hanno spinto il mondo imprenditoriale a disinvestire dal Sud Africa quando il razzismo era imposto per legge. Negli anni ’80, ad esempio, soprattutto in Regno Unito chi utilizzava carte di credito di banche notoriamente finanziatrici del regime sudafricano era visto con riprovazione. Le spinte congiunte pro- Fonte: “Missione oggi” - gennaio 2006 19 la risposta di enti locali ROCCA 1 MARZO 2006 Il punto di vista della Campagna, lo ha sottolineato Carmine Curci direttore di Nigrizia, è quello dei popoli del Sud del mondo che vedono le armi quali strumento della propria oppressione e di sottosviluppo. Rimane la questione di allargare il fronte all’Europa, cioè di un allargamento alla società civile degli altri paesi europei, una sfida inevitabile in tempi di globalizzazione delle economie. Il problema, del resto, interessa anche gli enti locali, le istituzioni più vicine ai cittadini e da questi ultimi eletti. Si stanno moltiplicando Comuni e Province che fra gli elementi di valutazione nella scelta delle banche presso le quali svolgere le proprie attività di riscossione includono anche l’assenza dalla lista delle cosiddette «banche armate». Fra gli altri casi sono da citare i comuni di Pavia e di Firenze; il comune di 20 Roma è andato anche oltre dotandosi di un regolamento sulle sponsorizzazioni etiche, che dalla fine del 2006 sarà esteso anche alle banche. In altre parole la Capitale non utilizzerà sponsor presenti nel commercio delle armi. Si tratta di un passo concreto che ha visto alleati società civile ed enti locali nella diffusione della cultura della pace. Tali iniziative rappresentano un argine alla militarizzazione della nostra politica estera ed anche dell’economia visto che Finmeccanica sta crescendo in continuazione nel settore militare ed è ormai fra i principali produttori di armi al mondo. Del resto la riconversione produttiva dal militare al civile è una scelta obbligata, anche dal punto di vista economico. problemi nel mondo del lavoro Gli esempi potrebbero continuare, ad ogni modo è da segnalare un ulteriore settore di intervento: gli investimenti dei fondi previdenziali. È dei giorni scorsi l’annuncio che il fondo previdenziale pubblico norvegese Global ha venduto, secondo il Guardian, la propria quota di azioni Finmeccanica oltre che di altre industrie militari americane. Il motivo? Perché l’holding italiana possiede il 25% della società Mdba che è impegnata nella realizzazione di missili nucleari. Com’è noto la legge italiana vieta la partecipazione al nucleare militare. Su questo c’è la smentita da Finmeccanica, ed i sindacati hanno chiesto chiarimenti. I sindacati possono svolgere un ruolo significativo della finanza etica, ad esempio in merito alla previdenza complementare. Proprio le organizzazioni dei lavoratori della Deutsche Bank – ha ricordato il responsabile internazionale dei metalmeccanici Cisl – Alioti, hanno di fatto imposto che gli investimenti del fondo di tale banca non siano indirizzati in azioni di aziende della difesa. Lo stesso problema si è presentato a Cometa, il fondo integrativo contrattuale dei metalmeccanici: i sindacalisti hanno chiesto una cosa analoga ma si sono visti il rifiuto dei rappresentanti di Confindustria, per cui l’iniziativa si è bloccata. I sindacati debbono essere in prima linea nello spezzare il connubio finanza armi: i lavoratori hanno tutto da guadagnare da un mondo in cui le armi siano poste fuori dalla storia. mafie PAROLE CHIAVE Romolo Menighetti e mafie sono organizzazioni, non necessariamente circoscritte territorialmente, in grado di imporre alla maggioranza dei cittadini che vivono entro il loro raggio di azione, norme a proprio vantaggio, quasi sempre con la violenza, in contrasto con le leggi vigenti. Non tutte le forme di illegalità sono mafia. Occorre, infatti, che i soggetti che violano le norme siano in grado di bloccare, in qualche modo, i meccanismi sociali di sanzionamento del comportamento illegale. Presso popolazioni sulle quali il potere centrale cerca di imporre modelli sociali ed economici che sono recepiti come estranei alla propria cultura e tradizione, la mafia può assumere le sembianze di una «resistenza». È il caso della mafia nel Sud Italia dopo l’Unità. Se poi le popolazioni vivono in situazione di povertà, l’illegalità sistematica si può diffondere come conseguenza dello sviluppo insufficiente, della disoccupazione, delle anomalie del mercato del lavoro, della mancanza di una politica economica finalizzata alla giustizia sociale. Per contro le mafie, intese soprattutto come economie illegali, possono anche essere la conseguenza di uno sviluppo economico e sociale secondo il modello della globalizzazione neoliberista. È questo il caso oggi di gran lunga prevalente. Certo, i comportamenti mafiosi, nel passato, hanno avuto origine da vari fattori: ambientali, sociali, antropologici. Erano anche il frutto di culture subalterne, tradizioni familiari, popolari, e anche religiose. Ma il comportamento mafioso si è sviluppato soprattutto entro il solco dell’interesse economico (mafia del feudo, mafia del mattone, mafia della droga), inserendosi parassitariamente là dove i profitti erano cospicui, intessendo alleanze con chiunque, titolare di potere politico economico e sociale, potesse legittimarla, radicarla, rafforzarla. La mafia non ha ideali, né appoggia per sempre una data parte politica. Entro questa logica oggi le mafie trovano nell’economia globale il loro più ampio bacino operativo, anche se non disdegnano il piccolo cabotaggio. La grande facilità con cui i soldi si possono spostare da un capo all’altro del globo, L determinano il passaggio di enormi capitali dall’economia produttiva a quella speculativa, che grazie all’elettronica sorvolano frontiere ed eludono controlli. Si favorisce così la mescolanza tra capitali puliti e non puliti. In questo contesto oggi si sviluppano gli interessi e gli affari delle mafie, le quali si sono trasformate sostanzialmente in un sistema di interessi che si instaura tra l’attività di accumulo di capitali, la criminalità organizzata e i vari poteri politici. I tratti salienti dell’attività mafiosa sono la natura illegale del prodotto (droga, armi), ovvero l’esercizio abusivo di un servizio (protezione), ovvero l’ingiusto accaparramento di attività legali (appalti, commesse). La particolare risorsa su cui le mafie possono contare è la fedeltà – l’omertà – tra i suoi membri e complici. Una fedeltà che è funzione del forte grado di controllo sull’attività dei membri dell’organizzazione criminale, che deve essere assai più forte di quanto non avvenga in una normale impresa legale. Tale controllo è enormemente facilitato dalla pratica della violenza. A questo punto è utile chiedersi quali siano i meccanismi che determinano il consenso nei confronti di organizzazioni che compiono azioni illegali. Una delle principali ragioni sta nella loro capacità di fornire un servizio di controllo e garanzia della «correttezza» delle transazioni. Tale servizio dovrebbe essere reso dallo Stato, titolare del potere di controllo. Là dove lo Stato non è in grado di fornirlo, prosperano le mafie. Questo tipo di «servizio» è deleterio per la società civile, perché l’organizzazione criminale assicura e garantisce solo i suoi membri e non la collettività. Inoltre entrando in competizione con lo Stato, contribuisce a generare sfiducia in esso, innescando così un circolo sempre più vizioso. La lotta alle mafie implica perciò, da un punto di vista sostanziale, un recupero da parte dello Stato di tutte le sue funzioni (garanzia, controllo, giudizio, sanzione, promozione dello sviluppo e della legalità). Sul piano operativo, l’ambito entro il quale esso deve principalmente indagare ed intervenire è oggi quello facente capo al sistema creditizio, diventato lo snodo principale attraverso il quale passa gran parte dell’attività illegale di tipo mafioso. Luciano Bertozzi 21 ROCCA 1 MARZO 2006 FINANZA mento di confronto pubblico fra la società civile e le banche. La proposta lanciata dalla Campagna di un osservatorio permanente su banche ed esportazione di armi, ha raccolto la disponibilità di Capitalia, uno dei principali gruppi di credito italiani. In questo modo banche, sindacati, enti locali e società civile «etica» potrebbero monitorare il fenomeno. Essa ha avuto il merito di tenere alta l’attenzione sul mercato delle armi e i suoi intrecci con il mondo della finanza. «Abbiamo chiesto alle banche chiarezza e trasparenza sulle operazioni di sostegno all’export armiero – ha affermato Giorgio Beretta, coordinatore della Campagna – ed una buona fetta di opinione pubblica ha colto le ragioni del nostro agire e ha sollecitato le banche a modificare i loro comportamenti. In effetti nel corso di questi anni molti istituti hanno fortemente ridimensionato il loro contributo al settore, e in alcuni casi sono usciti completamente dal business delle armi». Infatti il direttore generale di Capitalia, Carmine Lamanda ha affermato che la sua società nel 2005 ha diminuito del 70% l’esposizione nel sostegno al settore delle armi e che la legge 185 del 1990 che regolamenta questo particolare commercio è forte di un buon impianto che va mantenuto intatto. Grazie alle pressioni della Campagna alcuni importanti banche sono uscite o hanno annunciato l’intenzione di uscire da questo business. POLITICA ITALIANA a sinistra della sinistra I gli arrabbiati ROCCA 1 MARZO 2006 Siamo, ormai, alla vigilia delle elezioni politiche, in una fase piuttosto concitata, per non dire drammatica, della nostra vita democratica: è logico, quindi, che le voci «arrabbiate» si facciano sentire anche con una certa aggressività che rasenta la violenza. È anche logico che approfittino delle circostanze offerte dal momento, «ca22 valcando» – come si suol dire – le situazioni più opportune, dal percorso dei treni fra l’Italia e la Francia all’eterno antico problema dell’energia. È anche logico che le forze di sinistra – soprattutto quelle meno «riformiste» – cerchino di cavalcare la protesta, facendola rientrare, per quanto possibile, nella dialettica politica che cerca non tanto lo scontro quanto la vittoria democratica. È quello che in questo periodo sta cercando di fare Bertinotti con Rifondazione. E, a quanto sembra, con un certo successo. Ma il problema rimane. Ancora una volta una quadratura del cerchio. Non ignorare le voci «arrabbiate», ma farle rientrare nell’ambito dei metodi democratici, evitando ogni forma di violenza. al limite tra il legale e l’illegale Non sarà facile. Bisognerà, prima di tutto, riconoscere le loro ragioni. Non si tratta di follie, ma di richieste spesso legittime, ricche di una buona dose di ragionevolezza. Senza riconoscere, invece, i torti: il reato deve rimanere tale se non si vuole veramente sovvertire l’ordine legale e democratico. La violenza va ancora e sempre condannata: non risolve i problemi ma li aggrava. Ma non è facile delineare i confini. Spesso non si tratta di un nero ben distinguibile dal bianco, ma di un grigio: un terreno al limite fra il legale e l‘illegale. Gli stessi mass media sono incerti, talvolta la stessa magistratura. Non serve tagliare con il coltello – come si suol dire – i torti dalle ragioni. Gli uni e le altre abitano quasi sempre da tutte e due le parti. Sono aumentati e la complessità dei problemi e la diffusione delle notizie. Al fondo di tutto, la questione della verità, sempre più condizionata e quindi più lontana, meno a portata di mano del cittadino anche attento, anche bene informato. reciproca collaborazione Allora una sola conclusione è possibile: evitare i giudizi facili e le prese di posizione parziali ed affrettate. Informarsi, comprendere, riconoscere i torti e le ragioni sia dei contestatori che dei contestati. Cercare di inquadrare i singoli episodi in un quadro politico più ampio che tenga conto e della contestazione in atto e di tutti quegli elementi che le stanno alle spalle: storie, capitali, problemi. Anche dal punto di vista dello scontro fra sinistra radicale e sinistra riformista le prossime elezioni saranno significative. In caso di vittoria sarà possibile la reciproca collaborazione? Le premesse permettono una risposta affermativa. Filippo Gentiloni 23 ROCCA 1 MARZO 2006 Filippo Gentiloni nomi sono svariati, ma i gruppi designati, anche se non numerosissimi, rappresentano un problema politico unitario e di una certa importanza. Si parla di no global, ma anche di antagonisti e di contestatori. Il governo preferisce parlare di «anarco insurrezionalisti», mentre nella «sinistra riformista», proprio quella che i contestatori contestano, alcuni, rifacendosi alla storia, parlano di «luddismo culturale». Non è, dunque, una novità. A sinistra della sinistra si schierano gruppi che sono insoddisfatti della sinistra, delle sue mediazioni e dei suoi compromessi: sostengono posizioni più radicali, temono che la sinistra più moderata – «riformista» appunto – finisca assorbita dal centro e quindi da una destra sempre più potente ed egemone. Necessità, quindi, di metodi e strumenti anche al di fuori dei canoni delle democrazie parlamentari. ROCCA 1 MARZO 2006 Davide Romano 24 il rapporto mafia-politica S enza il rapporto con la politica – un rapporto antico che, secondo alcuni storici, inizia con la stessa storia unitaria –, la mafia non sarebbe mafia, ma solo criminalità comune, e di conseguenza per indagarla non ci sarebbe neppure bisogno di una apposita Commissione parlamentare permanente. A che punto è oggi il rapporto tra mafia e politica? Nella cosiddetta Prima Repubblica il rapporto tra mafia e politica era forte e talmente stretto da provocare guasti profondi in parti molto vaste del nostro territorio. Nella generalità dei casi esso era di mediazione perché la politica non sempre esprimeva direttamente una rappresentanza mafiosa; e ciò per la fondamentale ragione che la politica e i partiti erano forti e legittimati di fronte all’opinione pubblica locale e nazionale. Non avevano bisogno di avere propri esponenti che si affiliassero alla mafia e il rapporto era tale che la mafia non era sovraordinata alla politica, ma, al contrario, era la politica ad essere sovraordinata alla mafia. In altre parole, la politica era più forte della mafia, il potere politico era più forte del potere mafioso. Ci sono stati casi clamorosi di grandi mafiosi che, subito dopo la fine del fascismo, furono posti dagli alleati americani alla guida di importanti amministrazioni locali in Sicilia; il più noto fu Calogero Vizzini, nominato sindaco di Villalba. Per rimanere sempre nell’ambito della rappresentanza amministrativa basti ricordare anche il caso di Palermo il cui sindaco Vito Ciancimino, esponente di primo piano della Dc siciliana e, almeno per un certo periodo, della corrente andreottiana. Di recente scomparso, nel novembre 2002, si è portato con sé molti dei segreti mafiosi riguardanti in particolar modo i rapporti tra Cosa nostra siciliana e la politica, le istituzioni, gli affari. E tuttavia, il dato caratterizzante quell’epoca era la grande capacità di mediazione politica, di governo dei rapporti tra mafia e politica evitando sia di renderli eccessivamente conflittuali sia di portarli sino al punto da valicare in modo abnorme una certa rappresentanza diretta. Molti uomini politici dei partiti di governo ricercavano i voti dei mafiosi o erano votati dalla mafia, e non facevano nulla per impedire che ciò accadesse. Ciò poteva sfuggire alla censura della magistratura o incorrere nella volontà del legislatore che non aveva alcuna intenzione di prevedere sanzioni per l’uomo politico che accettava i voti di mafia, ma certo non sfuggiva al senso comune del territorio dove operava l’uomo politico votato dal mafioso; tale circostanza, infatti, era ben nota a tutti. A livello locale, regionale e nelle elezioni politiche per eleggere il parlamento nazionale o quello europeo tale prassi era frequente e diffusa; si può tranquillamente affermare che faceva parte della normalità di ogni campagna elettorale di una zona di mafia. Il cosiddetto voto di scambio era una realtà incontrovertibile. Una dinamica simile si realizzava tra le organizzazioni mafiose ed il territorio nel suo complesso, dal momento che si era venuto a determinare un sistema di relazioni che rendeva forte la sua legittimazione, con una presenza devastante in diversi settori strategici della vita del nostro Paese, con un radicamento più forte in quasi tutte le aree del Mezzogiorno. Per varie ragioni – non ultime il crollo del muro di Berlino che rendeva oramai superfluo l’uso della mafia in funzione anticomunista e l’ascesa in Cosa nostra di Totò Riina il quale voleva ribaltare la dipendenza della mafia dalla politica – quel rapporto via via si andò consumando. Le stragi del ‘92- ‘93 hanno segnato il punto più alto e nel contempo il più forte di una crisi che durava da anni e l’avvio di un nuovo rapporto che, se non si introducono radicali correttivi, rischia di esser più dirompente di quello precedente. la simbiosi Oggi si va profilando un rovesciamento di quell’antico rapporto per arrivare ad una rappresentanza diretta di uomini politici e di spezzoni di partiti direttamente nelle cosche mafiose. C’è il pericolo, molto concreto, basti richiamare alla mente le ultime inchieste giudiziarie, che si arrivi a determinare una simbiosi tra uomo politico e uomo di mafia senza che sia possibile separare e distinguere l’uomo politico dall’uomo di mafia perché le due funzioni sono sussumibili nella stessa persona. Questa tendenza non ha sostituito il voto di scambio perché essa, al momento, non si è affermata dappertutto. Dire che questa tendenza coinvolge tutti i partiti e tutti gli schieramenti è un modo per eludere il problema e per non affrontare le questioni reali che sono squadernate sotto gli occhi di tutti. Non è vero che tutti i partiti sono infiltrati nella stessa misura e non è vero che tutti i partiti si comportano allo stesso modo quando ci sono iscritti o esponenti del partito che risultino coinvolti. Ci sono partiti che sospendono o fanno dimettere i loro iscritti o li espellono, ci sono altri partiti che li coprono o li lasciano nei loro incarichi. Ci sono esponenti di primo piano ed esponenti di secondo piano; e ciò non ha lo stesso peso politico. Affermare che ci penserà la magistratura significa ritornare agli anni cinquanta e sessanta quando questo ritornello serviva a coprire un rapporto collusivo tra mafia e politica i cui esiti disastrosi sono noti; basta citare per tutti il nome di Salvo Lima e il ruolo da lui svolto in Sicilia e a livello nazionale. Si è venuto a determinare un aumento della rappresentanza diretta di uomini politici dentro le organizzazioni mafiose mentre, naturalmente, non è scomparsa la fase della mediazione. Mediazione e rappresentanza diretta non sono in contraddizione, sono solo le facce di una stessa medaglia, quella del rapporto perverso e nel contempo pervasivo tra mafia e politica, tra mafia e potere pubblico. Il dato di fondo, incontrovertibile, è che il rapporto tra mafia e politica è notevolmente aumentato ed ha segnato in modo significativo il periodo compreso in questa legislatura. Come tempo fa ha sottolineato dalle pagine del «Corriere della Sera», con la libertà intellettuale e l’acume che tutti gli riconoscono, il professor Sartori. Il rapporto mafia-politica, quindi, è destinato ad aumentare ulteriormente se i partiti non correranno rapidamente ai ripari. E la recente modifica del sistema elettorale con il ritorno al proporzionale pone 25 ROCCA 1 MARZO 2006 CRIMINALITÀ ORGANIZZATA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA la scelta dei candidati ROCCA 1 MARZO 2006 Da qualche tempo alcuni esponenti politici – di maggioranza e di minoranza – propongono che i partiti si dotino di un codice etico di autoregolamentazione. Attraverso il Codice etico di autoregolamentazione, infatti, i partiti si dovrebbero impegnare ad escludere dalle liste dei candidati al Senato e alla Camera, alle assemblee regionali ed ai consigli provinciali, comunali e circoscrizionali tutti coloro che siano stati condannati anche solo con sentenza di primo grado per una serie ben specificata e delimitata di delitti (tra i quali l’omicidio volontario, le lesioni gravissime, il sequestro di persona, il traffico di droga, l’estorsione, l’usura, i reati di mafia, i casi di concorso nell’associazione mafiosa e di favoreggiamento, la corruzione la concussione, la bancarotta fraudolenta, il falso in bilancio) e, per i reati più gravi tra questi, anche coloro che siano stati rinviati a giudizio. Prescindendo dall’esito finale del giudizio e considerando i coinvolti come innocenti fino a sentenza definitiva, è legittimo che la politica così si tuteli. In tal modo, tra l’altro, si rendono autonomi i partiti dagli esiti giudiziari; sono i partiti che così facendo tutelano se stessi e i propri candidati. Il principio generale da affermare è che i partiti si impegnano a valutare e scegliere candidati esenti da ogni rischio di inquinamento mafioso, tenendo conto di tutte le conoscenze ed informazioni disponibili e che sono ben più ampi e più pregnanti di quelli di un magistrato che potrebbe non arrivare a conoscere alcuni fatti che si apprendono, invece, per altra via, interna alla vita dei partiti. 26 Anche al di là dell’accertamento giudiziario di responsabilità penali, sono i partiti che devono assicurare l’indipendenza e la moralità pubblica di ciascuno degli eletti. Il ripudio della mafia non può risultare soltanto da un’autocertificazione dei candidati, ma dev’essere oggetto di una scelta del partito, che espressamente garantisce per ciascun candidato. L’utilizzo del Codice etico di autoregolamentazione aiuterebbe molto a mettere tutti i partiti in condizione di svolgere una duplice funzione essenziale nel contrastare il rapporto mafia-politica: selezionare adeguatamente la propria classe dirigente e determinare una scelta dei candidati libera dai continui tentativi di «condizionamento mafioso». Ci sono, ad esempio, rapporti consapevoli e devastanti tra boss e politici non sempre sanzionabili penalmente ma tali da essere incompatibili con l’etica pubblica, con i valori di un partito, con la coscienza democratica di un Paese per cui la responsabilità politica può diventare più incisiva prevedendo la non candidatura o la stessa esclusione da un partito. Come è evidente, tale approccio è diverso dal sottoscrivere un generico impegno dei candidati contro la mafia che potrebbe essere sottoscritto anche da Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro ed altri boss o fiancheggiatori per via del fatto noto che chi appartiene o collude con la mafia può pubblicamente disconoscere tale legame. Il Codice etico di autoregolamentazione è, inoltre, un tassello forte del percorso di riforma della politica, che deve coinvolgere il modo di pensare e praticare la politica in una democrazia avanzata che vuole unire legalità e sviluppo e liberarsi dal peso devastante delle mafie. responsabilità politica In questa ottica la responsabilità politica deve ritornare a svolgere una propria funzione. Nel periodo antecedente il «maxi-processo» degli anni ’80 l’azione giudiziaria era debole, spesso assente o persino compiacente e se qualche magistrato usciva dal coro l’isolamento lo colpiva inesorabilmente. Non si dimentichi che Cosa nostra, prima di colpire Falcone e Borsellino, aveva ucciso Scaglione, Costa, Terranova e Chinnici. Il primo «maxi-processo», che ha preso il via nel 1985 e si è concluso nel gennaio del 1992 con la nota sentenza della Cassazione, ha suggellato una lenta ma costante ripresa dell’azione giudiziaria. A questa positiva entrata in scena della responsabilità penale ha corrisposto un lento declino della responsabilità politica. Dal periodo successivo alle stragi del ‘92-‘93 l’iniziativa giudiziaria ha ottenuto risultati inediti per la storia del nostro Paese: centinaia di ergastoli a carico di boss storicamente impuniti oltre al sequestro e confisca dei beni. Anche oggi questa attività continua e, nonostante le enormi difficoltà amministrative e normative che la politica ed il Governo creano nei confronti dell’azione penale contro la mafia e l’intramontato sistema delle collusioni, si continuano a mietere successi di rilevante portata. Nel contempo la responsabilità politica si è ulteriormente affievolita producendo danni incalcolabili alla lotta alle mafie. È nostra profonda convinzione che sono necessari entrambi i livelli di responsabilità. La responsabilità politica, in particolare, deve recuperare terreno e diventare una vera e propria risorsa nella lotta alle mafie. mafia e economia Ma veniamo ad un’altra dimensione decisiva nell’ambito di una moderna azione antimafia in Sicilia: il rapporto mafia-economia. Cercherò qui di essere breve e di affrontare solo un aspetto, di questa questione, che però mi sembra fondamentale perché, come ci ha insegnato Pio La Torre, per fare un’efficace lotta alla mafia bisogna colpirla al portafogli, prima di tutto. Come, durante la sua visita in Sicilia, Cuffaro ricordava a Ciampi, l’Assemblea regionale siciliana ha approvato uno schema di progetto di legge costituzionale da proporre, ai sensi dell’art. 18 dello Statuto, al Parlamento nazionale. Esso contiene varie «Modifiche allo Statuto della Regione», tra le quali un articolo aggiuntivo che testualmente recita: «La Sicilia ripudia la mafia quale fenomeno di violenza contro la libertà della persona e dell’impresa. La Regione promuove e sostiene tutti gli interventi finalizzati alla rimozione delle cause sociali ed economiche riconosciute all’origine del fenomeno criminale». Per inciso, vorrei ricordare che le Camere non l’hanno ancora convertito in legge costituzionale. Ma nel caso fosse approvato, le leggi e gli atti amministrativi della Regione dovranno essere valutati alla luce di questo nuovo principio. Ad esempio, per quel che riguarda gli appalti di opere pubbliche e di servizi nell’ambito della Regione siciliana – che l’ex procuratore Grasso, non molto tempo fa, denunciava l’esser controllati per oltre il 90% da Cosa nostra – dovranno essere introdotte norme più rigorose. Anzitutto, va data vera attuazione alla legge regionale che istituisce le stazioni uniche appaltanti. Anzi, ci si potrebbe spingere oltre e proporre che tutti gli appalti siano gestiti dentro queste ultime e che venga istituito un Osservatorio sugli appalti all’interno del quale lavori un pool interforze in strettissimo collegamento con le Prefetture per monitorare e setacciare le imprese aggiudicatrici con il precipuo scopo, insomma, di «fare le analisi del sangue» a tutte le imprese che si aggiudicano appalti pubblici, tanto per capovolgere una triste affermazione infelicemente pronunziata qualche anno fa. La più diretta conseguenza sarebbe quella che non dovrebbero mai essere stipulati contratti con imprese vincitrici di gare, in caso di accertati gravi elementi che dimostrano la partecipazione di soggetti mafiosi all’attività imprenditoriale, l’abituale mancato rispetto dei contratti di lavoro e dei diritti dei lavoratori, l’esistenza di accordi o forme di cooperazione con imprese mafiose, ovvero l’acquiescenza ad attività estorsive. Vorrei concludere con un’ultima personalissima considerazione. C’è una frase che Paolo Borsellino ebbe a dire una volta: «Un giorno questa terra sarà bellissima». Sono parole che mi girano spesso per la testa e che mi commuovono ogni volta che le rileggo o le sento perché per me sono l’espressione di un amore grandissimo per la nostra regione. Io penso che, senza questo amore, senza la forza di questo sogno coltivato ad occhi aperti e contro ogni speranza, ogni azione di lotta contro Cosa nostra sarebbe una fatica vana. E, allora, credo che l’unico augurio che si possa fare a questo Paese, e ai siciliani in particolare, è che il sogno di Paolo Borsellino diventi presto una felice profezia che si avvera: la nostra terra diventi davvero presto bellissima e finalmente libera dalla mafia. ROCCA 1 MARZO 2006 in capo ai partiti, ancor più che in passato, una responsabilità in più nella scelta dei candidati. Nessuno potrà trincerarsi dietro l’alibi di un tempo affermando che la responsabilità è degli elettori che scelgono gli eletti. Ora gli elettori sono stati espropriati di questa facoltà e non hanno neanche la possibilità di esprimere una loro preferenza per un determinato candidato; possono solo fare una croce sul partito che ha scelto i candidati e che, soprattutto, ha deciso l’ordine che devono avere in lista, ordine che è fondamentale per l’elezione. Davide Romano 27 SINDACATO le occasioni perdute 28 N quando è vietato da leggi e contratti; sugli scioperi dei trasporti urbani che mettono in ginocchio intere aree penalizzando i cittadini e l’economia mentre poco o nessun danno ne deriva alle controparti. Ma a colpire sono sopratutto le analisi della scarsità di effetti positivi di questo frequentissimo ricorso a forme molto dure di lotta, visto che nei trasporti come in altri settori dei servizi e della produzione manufatturiera i lavoratori italiani hanno per lo più salari più bassi che negli altri paesi, rinnovi contrattuali che arrivano sempre in ritardo, condizioni di sicurezza peggiori (in nessun paese ci sono tanti incidenti sul lavoro, anche mortali, come da noi), deboli diritti in termini di formazione continua e di ammortizzatori sociali, nessun servizio efficiente di collocazione e di ricollocazione lavorativa dopo i licenziamenti. Che cosa non va nel modello e nella pratica delle relazioni industriali? Che cosa c’è di inadeguato nella cultura sindacale del conflitto? 5 milioni fuori contratto Le cause di questa situazione, che è ormai di questo tipo da non pochi anni – e anche da assai prima del blocco del dia- logo sociale prodotto dal governo Berlusconi – sono numerose, e hanno ovviamente a che fare anche con le caratteristiche del nostro sistema economico-produttivo, ma le domande restano. E, anche se le spiegazioni e le proposte di Ichino non sono sempre convincenti, le sue analisi non cadono mai nel vuoto. È vero che i contratti collettivi nazionali di categoria, il banco di prova del ruolo del sindacato, valgono ormai per non più della metà dei lavoratori occupati, non più di 9 milioni e mezzo (i 6 milioni di dipendenti delle aziende con più di 15 dipendenti e i 3 milioni e mezzo di dipendenti delle amministrazioni pubbliche), mentre per i 3 milioni che lavorano nelle imprese più piccole, per i 2 milioni e forse più di veri e falsi contratti di collaborazione, per chi lavora in nero, per i moltissimi lavoratori anche di imprese medio-grandi del Mezzogiorno sono solo dei pezzi di carta. È vero che il modello contrattuale italiano, che affianca al contratto collettivo nazionale di categoria un secondo livello di contrattazione – quello a livello di azienda o di territorio o di filiera che dovrebbe essere il più importante per il miglioramento dell’organizzazione del lavoro, la con- nessione della retribuzione alla produttività, il rapporto tra la formazione e l’inquadramento professionale – dà qualche risultato solo nelle grandi aziende (quando non sono in difficoltà) ed è un flatus vocis nelle altre. È vero che il sindacato continua a privilegiare la difesa degli occupati e dei posti di lavoro mentre da sempre trascura l’importanza dei servizi di accompagnamento e di inserimento lavorativo per chi è senza lavoro, tant’è che non c’è paese in Europa che ne sia privo come il nostro. Ed è anche vero che la cultura del conflitto, e l’uso spregiudicato dello strumento dello sciopero, questi problemi non li sta risolvendo, e da molto tempo, se non per le categorie che possono paralizzare con poco sforzo servizi essenziali. Il conflitto duro, dunque, è diventato «di destra»? E dove rischia di finire, in un mondo del lavoro ormai nettamente segmentato e in cui cresce la contrattazione individuale tra lavoratori e datore di lavoro, il sindacalismo confederale della «solidarietà», dell’«unità» di tutto il lavoro dipendente? ROCCA 1 MARZO 2006 ROCCA 1 MARZO 2006 Fiorella Farinelli on è la prima volta che quello che scrive Pietro Ichino sul sindacato e sulle relazioni industriali viene accolto da accese discussioni e da polemiche. Succede anche perché il personaggio – professore di diritto del lavoro all’Università Statale di Milano ed editorialista del Corriere della Sera – è figlio diretto di quella cultura e di quel mondo di cui, in ogni articolo, svela i limiti e i fallimenti. Oltre che parlamentare del Pci, infatti, è stato dirigente della Fiom, il combattivo sindacato Cgil dei metalmeccanici, e poi responsabile dei servizi di assistenza legale della Camera del Lavoro di Milano. Ma le reazioni derivano sopratutto dal fatto che, nove volte su dieci, i suoi commenti alle vicende di conflitto sindacale dicono quello che molti non hanno il coraggio di dire, anche a sinistra e nella stessa Cgil. Sono le impietose considerazioni sui comportamenti vertenziali di categorie come quella dei controllori di volo, lavoratori pagati benissimo, meglio che in molti altri paesi europei, e tuttavia perennemente in agitazione; sulle hostess dell’Alitalia che si mettono in malattia a rotazione per potersi astenere dal lavoro anche fallimenti e occasioni perdute Sono domande che interpellano dura29 30 re. E sollecitare lo sviluppo di culture e di relazioni sindacali non solo di tipo conflittuale, ma anche di tipo cooperativo. È vero – riconosce l’autore – che non esiste mai nessuna garanzia a priori di buon funzionamento del gioco di relazioni sindacali diverse da quelle apertamente conflittuali; e sopratutto di un buon funzionamento per entrambe le parti, i cui interessi riguardo alla spartizione dei frutti sono oggettivamente e inevitabilmente contrapposte. «Una cosa però è certa: che il conflitto riduce la ricchezza prodotta mentre la capacità di accordarsi per investire insieme sul futuro – il lavoro da una parte, il capitale dall’altra – costituisce una risorsa competitiva formidabile». Ed è certo anche che «se vogliono tirare fuori l’economia italiana dalle secche in cui si sta arenando, imprenditori e lavoratori devono serrare i ranghi, evitare i costi del conflitto, recuperare al più presto la capacità di elaborare una visione condivisa dei vincoli con cui occorre fare i conti, in modo da potersi accordare su progetti coraggiosi di lungo respiro: fondati su una ripartizione concordata di costi e benefici, oltre che su una solida affidabilità reciproca delle parti, almeno a medio termine». proposte e reazioni È in questo quadro di analisi e di riflessioni che Pietro Ichino avanza anche proposte di modifica del modello contrattuale vigente, collegate al tema della rappresentatività, che potrebbero piacere di più ad alcune sigle sindacali e dispiacere molto invece ad altre. E che hanno infatti già provocato reazioni accese di esperti, politici, opinionisti. Ma, al di là dell’impatto che esse potranno o meno avere sul dibattito in corso su questi temi tra le tre confederazioni sindacali e tra le parti sociali, è indubbio che dall’insieme del lavoro emerge una effettiva situazione di difficoltà e di stallo del movimento sindacale e del dialogo sociale. Che non si può attribuire solo a un contesto politico e istituzionale sfavorevole, che pure ha contato non poco negli ultimi anni, ma che ha anche ragioni interne. È interesse di tutti, e dell’intero paese, che esse possano trovare presto una soluzione. Fiorella Farinelli (1) A che cosa serve il sindacato?, Mondadori, Milano 2006. TERRE DI VETRO altri tempi Oliviero Motta aura è una maestra e questo lo capisci presto: sarà il suo aspetto o la parlata tranquilla che scandisce parola dopo parola. I capelli lunghi raccolti perennemente sopra la testa, gli occhiali cerchiati di metallo e quello sguardo al contempo miope e acuto: agli appassionati di cartoon potrebbe ricordare la nonnina del canarino Titti, così dolce eppure così determinata ad inseguire gatto Silvestro a scopa sguainata... La prima volta che l’ho vista mi ha dato l’idea di un’insegnante elementare un po’ stereotipata: tutta casa e scuola o giù di lì. Ma una cosa in particolare non quadrava: il fatto che conoscesse i nomi di tutti i bambini rom della sua scuola. Non si limitava, insomma, a quelli che frequentavano la sua classe. Sapeva collocare mentalmente ciascuno nel quartiere, in questa piuttosto che in quella area abusiva e conosceva le loro storie, le abitudini, lo stato di salute dei componenti della famiglia. Nomi non agevoli da pronunciare e da memorizzare prendevano forma e sostanza nelle sue parole misurate: diventavano così biografie, vita concreta. Da allora l’ho incrociata un paio di volte l’anno, all’inizio e al termine dell’impegno scolastico; e puntualmente sapeva raccontarmi vicende e rovesci di tutte le famiglie più sconclusionate ed emarginate del quartiere in cui sorge la sua scuola. Nessuna spiegazione in più, tanto meno dichiarazioni di principio o ideologiche: solo notazioni biografiche, cronaca pura condita da una sincera preoccupazione e da una partecipazione ai destini dei bambini più ai margini della scuola. Per saperne qualcosa di più ho chiesto alla sua dirigente scolastica: Laura ha cominciato sette anni fa a prendersi cura dei primi bambini rom arrivati alla scuola. Prima quelli della sua classe, poi progressivamente la ventina di bambini che hanno cominciato a frequentare con alterne fortune le classi delle elementari. Ma non si L è accontentata di seguirli dal punto di vista didattico, ha cominciato a girare tra le roulotte e le baracche per conoscere loro e le famiglie d’origine. Da allora è diventata un punto di riferimento per tutte le piccole grandi necessità della comunità zingara. Un’autorevolezza conquistata scarpinando fuori dalle aule scolastiche, tra il fango e il degrado degli angoli di città. Per cinque anni consecutivi, cascasse il mondo, ogni lunedì mattina si è presa cura anche dell’igiene dei bimbi, docciati per bene e se necessario rivestiti prima di entrare nelle classi; ha cominciato poi a coinvolgere i colleghi ed è diventata un punto di riferimento per tutte le istituzioni impegnate nell’assistenza sociale e nella mediazione culturale, dentro e fuori la scuola. Ha costruito insomma attorno a sé una rete concreta e discreta che senza chiacchiere o proclami ha sostenuto il percorso di integrazione di più di trenta bimbi dentro il tessuto scolastico e civile di una comunità locale. Il tutto senza una parola in pubblico. Il Comune ha cercato invano di attribuirle un riconoscimento per la sua opera di solidarietà concreta ma lei è riuscita sempre a sottrarvisi. Anche la Provincia voleva premiarla ma non c’è stato verso. Persino il giorno in cui è andata in pensione ha marinato il collegio docenti che avrebbe voluto salutarla ufficialmente. Era davvero malata quel giorno? C’è da dubitarne. Questo atteggiamento riservato e schivo ha generato anche qualche perplessità tra chi pensa che la testimonianza pubblica conservi un insostituibile valore educativo e politico. Eppure, a pensarci bene, anche in questo Laura si è rivelata quello che è: semplicemente maestra. Non le ho mai chiesto la motivazione di tanto impegno gratuito. Scommetto che mi avrebbe risposto come Giorgio Perlasca a Enrico Deaglio: «Ma lei, al mio posto, che cosa avrebbe fatto?». Altri tempi. 31 ROCCA 1 MARZO 2006 ROCCA 1 MARZO 2006 SINDACATO mente le più grandi – anzi ormai le uniche – organizzazioni di massa del paese. Che inquietano, e forse disturbano, settori importanti della sinistra sociale e politica. E che tuttavia è difficile rimuovere. Nel suo ultimo libro (1), Pietro Ichino le ripresenta tutte, e butta sul piatto della discussione tra le parti sociali e di quella interna a Cgil, Cisl, Uil una serie di proposte che riguardano sia la modifica del modello delle relazioni industriali sia il superamento della cultura del conflitto. Lo fa, da vecchio sindacalista Fiom, attraverso l’analisi di una vicenda emblematica che riguarda il tormento centrale del sindacato metalmeccanico, il settore auto, la Fiat, lo stabilimento Alfa Romeo di Arese. La vicenda è quella della chiusura di Arese da parte della Fiat, nell’anno 2000, e della contemporanea richiesta da parte della casa automobilistica giapponese Nissan di disporre di un sito in Europa per la produzione di un modello per il mercato comunitario. Perché il sindacato italiano – le parti sociali, lo Stato – allora non candidarono Arese e i suoi duemila operai condannati a perdere il lavoro? Perché si perse l’occasione, afferrata invece dalla Gran Bretagna, di aprire immediatamente una trattativa? Secondo Ichino, non fu perché si temevano, o perché erano scontate, condizioni di lavoro peggiori o precarie (nello stabilimento inglese scelto da Nissan il lavoro è oggi retribuito il doppio di quello italiano, è stabile e qualificato), ma perché il nostro modello contrattuale basato sul contratto nazionale di categoria non consentiva la fuoriuscita da quel quadro dei soli lavoratori di Arese. Il totem dell’uguaglianza avrebbe impedito la soluzione del problema. La cultura del conflitto avrebbe fatto ostacolo a una trattativa pragmatica. L’idea che lo Stato deve mettere in campo proprie strategie e propri investimenti per salvare l’industria nazionale avrebbe congelato ogni iniziativa. Ma ancora oggi, a cinque anni da quella vicenda, Arese non è rinata, e i suoi duemila lavoratori, in un mercato del lavoro vivace come quello dell’area milanese, sono ancora in ballo: perché è il sindacato stesso a non occuparsi del loro reinserimento lavorativo, a non pretendere servizi efficaci di formazione, riconversione professionale, accompagnamento a nuove opportunità di occupazione. Sono questi fallimenti, e queste occasioni perdute, che dovrebbero far riflette- PRINCIPIO ANTROPICO teoria scientifica o atto di fede? P coincidenze cosmiche Questi presupposti sono piuttosto semplici. «È ben noto che ci vuole carbonio per 32 fare dei fisici», notava per esempio, tra il serio e il faceto, il fisico Robert Dicke, nel 1961. La constatazione, per quanto in apparenza banale, ha notevoli implicazioni cosmologiche e filosofiche, oltre che biofisiche. Sia perché i fisici, e un po’ più in generale tutti gli uomini, sono, per dirla con Victor Weisskopf (un fisico), l’occhio attraverso cui l’universo sta imparando a osservare se stesso. Sia perché, per avere del carbonio (e dei fisici), occorre – ci dice il Modello Standard dell’evoluzione cosmica – un universo stabile, lontano dall’equilibrio termico e piuttosto longevo. Di più. Occorre che le interazioni fondamentali tra le particelle elementari, le loro masse e tutta una lunga serie di parametri fisici, astrofisici e cosmologici indipendenti siano, come dicono gli esperti, fine tuned, finemente modulate. Insomma, perché ci siano dei fisici e, un po’ più in generale, degli uomini che lo osservino, occorre che l’universo presenti un novero di coincidenze piuttosto nutrito e niente affatto scontato. Ma poiché il carbonio, i fisici e gli esseri umani in generale esistono, significa che il nostro universo è fine tuned, è finemente modulato. Significa che nel nostro universo si sono avverate quella serie incredibile di coincidenze che, sole, consentono l’esistenza di un essere intelligente capace di osservarlo. Il primo a notare l’esistenza di queste coincidenze cosmiche è stato Paul A. M. Dirac, che ne ha reso conto in una serie di articoli pubblicati tra il 1937 e il 1938. Il fisico inglese di origine francese rilevò che un’intera costellazione di importanti costanti adimensionali, che coinvolgono parametri fondamentali sia in fisica che in cosmologia, come la costante gravitazionale, il rapporto tra l’intensità della forza elettromagnetica e l’intensità della forza gravitazionale, l’età dell’universo in unità atomiche, il numero di nucleoni (protoni e neutroni) presenti nell’universo, sono tutte proporzionali a un medesimo numero: 1039. Dirac osservò anche che queste relazioni non possono essere frutto del caso, ma devono essere la manifestazione di una connessione causale ignota. il principio antropico Nel 1961 Robert Dicke, fisico a Princeton, riprese la riflessione di Dirac e indicò la possibile connessione causale in un nuovo principio: il principio antropico. Le relazioni di Dirac dipendono dal tempo, e quindi non sono valide in ogni momento della storia cosmica. Ma solo in questo preciso momento. E questo preciso momento non è un momento qualsiasi, ma un momento proporzionale alla vita me33 ROCCA 1 MARZO 2006 ROCCA 1 MARZO 2006 Pietro Greco adre George Coyne, direttore della Specola vaticana e già consigliere scientifico influente di Papa Giovanni Paolo II, ha (giustamente) definito quello dell’Intelligent Design un credo religioso e non certo una teoria scientifica. L’Intelligent Design è una visione che pone l’uomo al centro del creato e sostiene che l’intera evoluzione cosmica è sapientemente finalizzata alla sua comparsa. Ma, si chiede e ci chiede un lettore di Rocca, se è questa visione antropocentrica e finalistica dell’universo che propone il Disegno Intelligente, che differenza c’è rispetto a quel principio antropico nato nell’ambiente dei fisici nel tentativo di spiegare, appunto, la presenza umana nella storia e nella legalità cosmica? È una domanda niente affatto banale. Che ci aiuta a capire, in questi tempi confusi, cosa distingue una teoria scientifica da un’ipotesi filosofica e da un credo religioso. Conviene, pertanto, richiamare alla memoria i presupposti del «principio antropico» che, a fasi ricorrenti, fa capolino anche negli ambienti degli scienziati agnostici. due interpretazioni ROCCA 1 MARZO 2006 Robert Dicke lega, dunque, i particolari valori dei parametri fondamentali della fisica all’esistenza dei fisici. O, per evitare fraintendimenti, all’esistenza di un essere intelligente capace di osservare l’universo. Il principio antropico che Dicke propone si presta a una doppia interpretazione. Puntualmente rilevata, nel 1974, dal cosmologo inglese Brandon Carter. La connessione di Dicke può essere interpretata in una forma debole. E potrebbe significare, semplicemente, che viviamo in un universo caratterizzato da questi parametri fisici e non da altri, perché solo in un universo simile potremmo vivere. Questo principio antropico debole non spiega molto ed è persino tautologico. A meno di non dare credito alla ipotesi dei molti mondi. Questa ipotesi, di cui esistono svariate versioni, sostiene che esistono, appunto, molti se non infiniti universi, ciascuno diverso dall’altro. Ciascuno con suoi propri parametri fisici. L’uomo vive in uno di questi universi. Il principio antropico debole, dunque, rileva che tra i diversi universi possibili e osservabili l’uomo è presente solo in quello che ha i parametri «giusti» per consentire alla vita e alla vita intelligente di nascere. C’è tuttavia un’altra interpretazione possibile della connessione rilevata da Dicke. Ed è un’interpretazione forte. È quella, finalistica, secondo cui l’universo è stato progettato e fine tuned, finemente modulato, per consentire la nascita dell’uomo. Un’interpretazione molto ben sintetizzata, nel 1986, da John Barrow e Frank Tipler: 34 «L’universo deve (la sottolineatura è mia, nda) avere le proprietà che consentono alla vita di svilupparsi in una qualche fase della sua storia». Il principio antropico forte prevede dunque un progetto (anche se non necessariamente un progettista) cosmico, finalizzato alla nascita della vita intelligente. E ribalta quel punto di vista copernicano e, ancor più, darwiniano così ben sintetizzato dal biologo Jacques Monod, secondo cui l’uomo non era affatto previsto ed è apparso per caso «nell’immensità indifferente del cosmo». tra fiducia e critiche La fiducia nel principio antropico, sia debole che forte, è tuttora abbastanza diffusa tra gli scienziati. E non solo nella comunità dei cosmologi. La fiducia in una legge della complessità crescente uguale e opposta alla seconda legge della termodinamica, per esempio, non è che una declinazione a uso dei biologi di questo medesimo principio. Tuttavia le critiche che esso solleva sono molte e, spesso, drastiche. C’è chi sostiene, senza mezzi termini, che dietro il principio antropico si nasconda una corrente irrazionalista che tenta di reintrodurre forme di vitalismo o di animismo nell’impresa scientifica, a scapito del pensiero razionale. E c’è chi sostiene, ancora più drasticamente, che è la versione laica di un nuovo creazionismo. A queste critiche, certo non infondate, è possibile accompagnare una critica epistemologica più stretta. E, forse, più pungente. Quello antropico, nella sua versione debole, è un principio che non spiega molto. E nella sua versione forte diventa un principio generale solo a patto di reintrodurre il concetto aristotelico di causa finale nella spiegazione scientifica. Ma a questo punto i fautori del principio antropico forte si assumono un onere non da poco: ribaltare i fondamenti fisici e biologici dell’evoluzione della materia e dimostrare che c’è una legge generale e necessaria in natura che impone alla materia cosmica di evolvere per soddisfare una precisa e non procrastinabile finalità. Inutile dire che di questa legge, in natura, finora non è stata riscontrata traccia alcuna. Cosicché ha ragione il nostro lettore: tra il principio antropico di alcuni fisici laici e l’Intelligent Design di alcuni scienziati e filosofi credenti non c’è poi molta differenza: non sono teorie scientifiche, perché entrambi si basano su un atto di fede. LEZIONE SPEZZATA ragazzo dove sei? Stefano Cazzato L a classe V H è composta da 14 alunni. Pochi ma svogliati. Le bocciature, gli abbandoni, le passerelle, i debiti insaldabili, l’hanno decimata. I sopravvissuti mi raccontano che due ex, Listoni e Giannanzi, si aggirano come fantasmi per l’istituto: hanno più di vent’anni e ripetono per la terza volta il quarto. Che Rossi lavora: precario, flessibile, ma «almeno» lavora. Che Gambali ha fatto il grande passo: dal pedagogico al tecnico. E pare che da quelle parti faccia un figurone. Degli altri si sono perse le tracce. Sono finiti nella fossa comune della mortalità scolastica. Fregandosene della continuità didattica e di altre precedenze, i colleghi, uno dopo l’altro, hanno scaricato la V H che mi è stata assegnata d’ufficio come ultimo arrivato. Me la sono presa. «Il sogno di ogni insegnante. Classe piccola, eterogenea, si lavora bene», mi aveva detto a settembre il vicepreside con un ghigno che non lasciava presagire nulla di buono. Era soprattutto quell’«eterogenea» a sembrarmi ambiguo e sinistro. Poteva significare «gruppo-classe con attitudini e abilità diverse» o, più drammaticamente, «non ci facciamo mancare niente». E infatti la V H sarà anche piccola e eterogenea ma è come un’orda di piraña pronta a sbranarti, se abbassi le difese, e nel paragone, credetemi, si fa un torto ai piraña. Oggi, un’ordinaria giornata di gennaio, cinque persone in classe: il sottoscritto e quattro di loro. Pochissimi e altrove. Sospetto un’assenza di massa (si fa per dire) programmata e non perdo occasione per farlo presente. – E gli altri? Dove sono gli altri? – Ce semo solo noi, professo’, non ce vede, a quelli non je regge la pompa!, risponde Settini – Che c’è, stanno male? – E certo! Speramo che se li porta la cinese, ’na vorta per tutte! – Ragazzi, vi rendete conto che quest’anno ci sono gli esami? È assurdo fare tutte queste assenze strategiche per evitare i compiti e le interrogazioni. Un po’ di impegno, uno sforzo finale… – Macché strategiche, ce sta o non ce sta l’influenza? C’è mezza Roma orizzontale… E poi professò, Serafini ha fatto er pupo, Pigna c’ha il set, Pomiatosky non viene mai e Persichetti c’ha il concerto rock. Già, «regolare», penso. Il fatto è che me ne dimentico e talvolta mi illudo di poter fare una lezione normale, con la classe che prende appunti, fa domande pertinenti, ascolta con attenzione, partecipa al dialogo educativo… «L’interpretazione dei sogni di Freud, ragazzi, ha rivoluzionato il modo di intendere il soggetto… «Secondo Dewey il pensiero ha un carattere adattativo, il pensiero è problem solving… «La teoria del capro espiatorio spiega quanto siano difficili le relazioni umane, come, a volte, si diventi forti coi deboli e deboli coi forti… Ma Serafini ha partorito da due settimane un bimbo di cui la classe va orgogliosa e rientrerà forse a marzo; Pigna è andata a fare la comparsa in un film; Pomiatosky, causa le sue assenze sistematiche, è ormai conosciuto da tutti come «lo spettro»; Persichetti, da alcuni giorni, prova e riprova in palestra due pezzi di Hendrix per la megafesta interscolastica di fine anno. Un po’ in anticipo, per la verità, ma Persichetti è uno che si applica e vede lontano. – E gli altri? – A professò, ce sta l’influeeenza… Richiamato, una volta per tutte, al principio di realtà sto per invitare i restanti piraña a un’opportuna ripetizione del programma, quando l’alunna Maretti, sventolando il libretto delle uscite anticipate, mi fa capire che, tra poco, in classe rimarremo in quattro: il sottoscritto e tre di loro. – Vado via. Viene mio padre a prendermi. – Un principio di influenza anche tu, Maretti? – Peggio, professò, è ’na tragedia, me s’è infettato er piercing all’ombelico! Pietro Greco 35 ROCCA 1 MARZO 2006 PRINCIPIO ANTROPICO dia di una stella. E le stelle sono la fucina che ha prodotto il carbonio e, quindi, i fisici che lo osservano. Detta in altri termini, le coincidenze tra i parametri cosmici non sono casuali. Quei parametri hanno i valori che hanno per consentire all’universo di diventare abbastanza vecchio da contenere i lunghi processi che portano alla vita e alla vita dei suoi osservatori. Se la forza gravitazionale fosse stata solo un po’ più forte o solo un po’ più debole, per esempio, la vita e la vita intelligente in grado di effettuare osservazioni sull’universo non sarebbero mai potute nascere, perché l’evoluzione cosmica sarebbe stata o troppo accelerata o troppo lenta. Insomma, sostiene Robert Dicke: «L’Universo, con i parametri fondamentali da cui dipende, deve essere così com’è per consentire la nascita di un osservatore a un qualche stadio del suo sviluppo». cambiare casa come metafora dell’esistere C sentimenti murati Così ti si mostra subito evidente che misteriosamente ciò che conservava i segreti della tua storia non erano librerie o armadi, ma semplicemente le mura. Sono esse a costruire letteralmente l’identità della tua 36 abitazione. Identità che, se ben strutturata, va a combaciare perfettamente con quella tua e dei tuoi cari. E del gatto. E del canarino. Posto che possano convivere. Le mura dunque conservano e tramandano, tanto che nella nuova casa i tuoi mobili, apparentemente belli e funzionali, sembrano sperduti e senza anima. Eppure il mobiletto intarsiato era la gioia del tinello, tanto che, nella vecchia casa, il quadro in alto a sinistra lo guardava estasiato dal primo giorno in cui lo ha conosciuto. E l’appendiabiti di mogano con gli agganci dorati era il vero padrone di casa, tanto che gli ospiti vi appendevano i cappotti come fossero in chiesa. Silenti e rispettosi. Ma nella nuova casa, niente. Il mobiletto intarsiato sembra ingombrare i movimenti. Un’insidia per le ginocchia. E l’appendiabiti di mogano assomiglia tristemente a quello dimesso della terza B del liceo classico Mariotti, dove almeno il cuore è rimasto però appeso. E dagli a sperare che i cosiddetti facchini si accorgano della bellezza di ciò che trasportano. Dagli a sperare che posino gli occhi sul baule antico e forte, o sul divanetto di pelle nera. Non esistono. Per loro non sono altro che legno e metallo in movimento. Roba pesante. E al massimo li utilizzano per sedervisi dolcemente afflosciati, con il panino in mano e la lattina di birra poggiata sul comodino delle tue notti. Dalla lampada azzurra alla birra scura. Ed è la prima, ti accorgi, che sarebbe tristemente fuori luogo. Insomma è inutile aspettarsi solidarietà dal mondo, cambiare casa è entrare nel limbo della precarietà esistenziale ed estetica. Le tue cose vagano per le strade senza significato per alcuno, se non nei ricordi tuoi e dei i tuoi cari. E prima che riacquistino un senso compiuto sarà necessario che la nuova abitazione li inglobi e li riconosca come degni di lei. Un tempo lunghissimo. mobili in libertà La verità è dunque che se noi siamo depositari di sentimenti, ricordi, emozioni abbiamo bisogno di uno stabile punto di riferimento per esprimerli, a noi e al mondo. Un ambiente circoscritto, riconosciuto, in cui ricomporli e farne omaggio al mondo esterno ed a quello interno. Per questo la nuova casa emoziona, in quanto senti che potrai ricostruire una tua nuova storia, un mondo di significati diversi, ma, allo stesso tempo, stordisce, perché ciò che lasci non ritornerà, è chiuso nelle mura stinte del vecchio appartamento. Comunque esso sia. Ed in fondo è poi questo il senso del nomadismo, soprattutto giovanile. Quel muoversi senza radici. Senza una dimora fissa. Nasce dalla consapevolezza che, se si fugge da una casa ritenuta prigione, non si può costruirne un’altra. È la più grande manifestazione di affetto per un luogo come la propria casa in cui si vorrebbe la perfetta unione tra le cose e gli uomini. Tra l’architettura muraria e quella sentimentale. Si fugge per paura che l’armonia non sia possibile. È un atto d’amore. La paura che i fatti non siano all’altezza dell’idea che li sostiene. Tipico dei giovani. Soprattutto i più sensibili. Per i vecchi invece è diverso. Per loro la casa è proprio la difesa estrema dei sentimenti, che si vestono spesso d’abitudine. E cambiare casa è appunto un rischio sentimentale. Meglio la casa conosciuta, persino magari con i suoi precari equilibri tra le anime dei presenti. Meglio il quotidiano confrontarsi e scontrarsi che l’insidia di nuove stanze sconosciute, dove gli equilibri stabiliti possono alterarsi. Per i vecchi la casa è dunque una sorta di difesa «patologica». Per i giovani spesso una sfida ai sentimenti. In loro sempre estremi. Cambiare casa è per tutto questo anche una avventura del cuore, e ridurlo a mera problematica immobiliare è decisamente sbagliato. Quello spostarsi di cassapanche, tavoli e poltrone è pieno di tale e tante sensazioni da riempire vagoni di camion e non solo quello del semplice trasporto. Tanto che, quando te ne stai seduto precariamente sulla scrivania gettata di sghimbescio sul presunto studio della nuova abitazione, non puoi non domandarti, guardando fuori della finestra, se hai fatto bene. Se era proprio necessario per trovare nuovi spazi, faticare così, fisicamente e soprattutto interiormente. Se in fondo non era meglio dormire con il gatto addosso; con il respiro rumoroso del vecchio padre nitidamente scandito nella notte; con quel bagno misteriosamente sempre occupato, anche quando in casa non c’è nessuno; se infine valeva la pena ripartire di nuovo per l’avventura della vita con questo nuovo abito extralarge chiamato casa. Poi ti consoli, pensando che la vita è sempre così, al confine tra passato e presente. Tra paura e desiderio. Tra rinnovamento e conservazione. E che in fondo cambiare casa non è altro che uno dei tanti modi per coltivare sogni, illusioni e risciacquare l’anima nel fiume della novità. Una metafora insomma del nostro vivere. Anche se, per dirla tutta, decisamente costosa. Ma questa è un’altra storia. Almeno in apparenza. ROCCA 1 MARZO 2006 ROCCA 1 MARZO 2006 Claudio Cagnazzo ambiare casa è nel destino dell’essere umano. Tutti infatti usciamo dal grembo materno, unica casa comune, per entrare in un’altra casa provvisoria chiamata mondo. E già da quella prima volta la nostalgia ci è compagna, tanto che porteremmo con noi, se potessimo, la mobilia, che, nella fattispecie, è, invece, come si capisce, intrasportabile. Così, di certo, il cambio di casa, anche in età matura e consapevole, resta una sorta di avventura dell’anima e del corpo. Qualsiasi sia la ragione che lo determina. Per intanto, come ho esperito da poco, la prima impressione è che, in cerca di consolazione come si è per il distacco, si crede che i mobili che porterai con te possano in qualche modo lenire il dolore. In essi, nei mobili, si crede appunto siano conservati dolori, gioie, passioni vissuti nella vecchia abitazione. Non è così. Certo la scrivania dello studio ha ancora la polvere dei libri letti, ma senza la luce che filtra dalla vecchia finestra sul consueto cortile, la polvere neppure si vede. È figlia della luce la nostra polvere. Da orfana, svanisce. E il tavolo della cucina, appena fuori dal guscio autarchico del suo ambiente, non ha più un odore che sia uno e, sulle spalle degli extracomunitari che lo trasportano, appare un oggetto talmente inanimato che mai e poi mai lo puoi più immaginare ricoperto di cibo. Claudio Cagnazzo 37 ROCCA 1 MARZO 2006 Rosella De Leonibus il coraggio e la paura P rima al calduccio, protetto e sicuro. Poi la sventura, o la scelta, o l’evento drammatico che rompono l’equilibrio, spezzano il presente. Ed ecco che il viaggio comincia. Da qui in poi non ci sono più pareti, sponde, cuscini, zuppe calde davanti al camino. Solo, nel bosco o nel deserto. Oppure anche in mare aperto. Perduto in mezzo all’ignoto. A confronto con avventure sconosciute, di cui non si conosce l’esito. Spesso abbandonato dai compagni di viaggio, talvolta da essi tradito, ripudiato, odiato. Ferito, o anche solo lacero e affamato, a fronteggiare il buio o la tempesta. Soltanto più tardi arriveranno le prove da superare, i mostri da combattere, le porte sigillate da aprire, le montagne da scalare, gli animali feroci da domare, a volte perfino una gitarella dalle parti degli inferi, o una visitina da parte dei fantasmi. Disorientato da false mete, sottoposto all’impatto dell’inganno o alla seduzione delle facili vittorie, delle vie traverse. Ingaggiato nel distinguere gli alleati dai rivali, l’apparenza dalla realtà, tentato dalla rinuncia quando gli ostacoli si presentano smisurati. Stremato dall’attesa, sfidato da poteri più grandi di lui, sconfitto e depredato, ma mai del tutto vinto, piange e si dispera, grida aiuto e gli tremano i polsi, poi raccoglie le ultime forze, fa appello alle sue ultime risorse interiori, sveglia il cervello e le gambe e, perdìnci, si dà da fare. Poi, se tutto sarà filato liscio, arriverà anche il conseguimento del tesoro e il lieto fine. Ed ecco che, «bello di gloria e di sventura», l’eroe giunge alla meta. il viaggio dell’eroe Questo che abbiamo tracciato è il paradig38 ma del viaggio dell’eroe: è la trama di quasi tutte le fiabe, è una delle strutture portanti di moltissimi miti, e se da migliaia di anni l’umanità continua a confrontarsi con questo tipo di trama, attraversando senza troppe variazioni la storia, le geografie e le culture, allora una ragione ci dovrà pur essere. Forse questa è una trama universale, forse ha a che fare con l’identità umana e col suo sviluppo, la sua costruzione. Con la realizzazione di sé, di cui il viaggio dell’eroe è un simbolo potentissimo. Dove non c’è troppa possibilità di rimanere esattamente dove e come eravamo. E invece c’è cambiamento, rischio, ricerca di se stessi fino a livelli molto profondi, e dove c’è il mettersi in gioco, l’obbedire ad una spinta interiore di qualità, di messa a frutto delle proprie risorse. Dove esistono i legami, le relazioni, i condizionamenti familiari e sociali, ma dove ad un certo punto della propria storia si deve – ci si trova – si è costretti – si sceglie – di prendere in mano personalmente il filo dell’esistenza per tenderlo, districarlo, dipanarlo verso ciò che ancora non possiamo dominare. È una potentissima metafora del passaggio all’età adulta, quando finalmente ognuno di noi è costretto a prendere atto che come persona è agente attivo, non più soggetto passivo, delle sue azioni e dei suoi pensieri. E che la responsabilità verso la propria esistenza è personale ed inalienabile. E che se fino ad allora siamo stati un po’ manovrati dalle idee collettive, dall’easy listening delle abitudini culturali del nostro ambiente, se siamo stati abbagliati da falsi modelli e da bisogni infantili di sicurezza e protezione, ora è il momento di svegliarsi da questo lungo sonno e scrivere un nuovo capitolo del viaggio. È questa, in fondo, la strada dell’individuazione, quel processo che, passo dopo passo, sconfitta dopo vittoria, ci trasforma da soggetti inconsapevoli ad esseri umani pienamente adulti. solo nella foresta C’è un passaggio che è, tra gli altri, particolarmente critico. È il passaggio della foresta. Quando l’eroe si perde, e si trova solo in un posto inospitale che non riconosce più. Avrebbe voglia di tornare indietro, ma ha smarrito la strada. Sente bisogno di aiuto, ma non c’è nessuno nei paraggi. E se c’è, non è il caso di fidarsi. Non sa cosa lo aspetta, né cosa gli si chiederà. Ho paura, penserà, e se ho già finito le lacrime e guardo fino in fondo alla paura, incontrerò i miei fantasmi. Il primo si chiama ossessione della sicurezza. Il secondo sono le cose che mi han- no raccontato sul mondo e su di me. Il terzo è la rigidità e l’incapacità di fidarmi un po’ del caso. Il quarto è il bisogno di evitare ogni frustrazione. Il quinto è la miopia delle mie risorse, il sesto è il legame alle abitudini, il settimo è il bisogno ossessivo di ordine e certezza. L’ottavo è uno dei più potenti, è la riluttanza a lasciar andare, ad accettare le perdite, ad accogliere il vuoto, e anche la riluttanza a lasciarsi andare, a prendere l’abbrivio. E poi ognuno di noi ha i suoi fantasmi privati, l’incapacità a stare soli piuttosto che il terrore del nuovo; una certa ottusità dei sensi, che non mi permette di vedere attraverso la foschia che caratterizza l’alba degli eventi, o magari perfino una eccessiva concentrazione sulle mie disgrazie e sfortune. E sulle colpe degli altri. È per questo che i fantasmi possono essere affrontati soltanto in solitudine e nei luoghi di smarrimento. Se restiamo al caldo e al sicuro forse abbiamo una buona probabilità di non incontrarli mai. E di non crescere mai. Perché per tenerli lontani dal nostro cammino saremo semplicemente costretti a non cominciarlo mai, il viaggio. Se l’eroe accetta di guardare in faccia i fantasmi delle sue paure, può incontrare la buona vecchina, o intravedere il fumo del comignolo di una povera capanna in fondo alla radura. Sono immagini simboliche delle risorse interiori che cominciano a presentarsi. L’aiuto insperato, il buon consiglio che all’inizio appare anche assurdo, o la pausa ristoratrice, sono fortune che capitano solo a chi non ha evitato di guardare in faccia i propri fantasmi. La dimensione dell’inatteso, della sorpresa, davanti a questo passaggio della fiaba, ci racconta che questo è il momento in cui dentro l’anima si attiva qualcosa di nuovo. Poi ci sono le dure prove da affrontare. prove, inganni ed alleati Pazienza, coraggio, sopportazione delle privazioni e del dolore, generosità, rischio della vita, apparente assurdità o presunta impossibilità del compito, sproporzione tra mezzi e risultati da ottenere, e soprattutto la capacità di continuare una, due, tre volte, senza sapere quale sarà l’esito. Le prove dell’eroe sono la palestra delle sue nuove – e forse ancora sconosciute – risorse interiori. E i mostri da combattere sono i suoi propri, la propria distruttività o ferocia, per esempio, e i mucchi di grano da separare 39 ROCCA 1 MARZO 2006 COSE DA GRANDI lo slancio e la meta Quali sono le mete che ci poniamo, a quali costi siamo disposti a raggiungerle, quanto ci permettiamo di investirci e a quali margini di rischio possiamo resistere, quanto siamo disposti a mediare e ad attendere, quale prezzo siamo pronti a pagare. Dove stanno le nostre priorità in questo momento, quali verità siamo capaci di dire a noi stessi, quanta strada siamo disposti a fare senza tornare indietro a cer- ROCCA 1 MARZO 2006 dello stesso Autore PSICOLOGIA DEL QUOTIDIANO per i lettori di Rocca e 15,00 anziché e 20,00 richiedere a [email protected] c.c.p. 15157068 care di recuperare ciò da cui abbiamo preso commiato. Ecco un bel set di domande da portare con sé per affrontare questo passaggio. Sono domande che chiedono di sviluppare interiormente la dimensione del coraggio. Allora se l’adolescenza è l’età dell’avventura, delle esplorazioni, dei viaggetti o viaggioni dentro e fuori di se stessi, e poi si torna alla base e il ventaglio delle possibilità è sempre aperto come all’alba del primo giorno, l’età adulta è l’età del coraggio e del conseguimento. La coscienza consapevole di avere davanti una meta, la sensazione chiara e lucida del pericolo o della incontrollabilità degli eventi, la percezione di quanto possa diventare difficile e incerto raggiungere l’obiettivo, e tuttavia lo slancio attento e generoso. Che tiene conto delle condizioni in cui lo scopo si potrà realizzare, e di come potrà essere superato il pericolo. Di queste cose è fatto il coraggio. In equilibrio attimo per attimo tra la paura e l’assunzione del rischio. È il coraggio la dimensione dell’età adulta, quella che serve per stare in piedi davanti agli eventi. Davanti a quelle forze di trasformazione che emergono impreviste. A volte spuntano da una rottura, da una perdita, e da lì generano una nuova catena di eventi, prima impensabili, impensati. Sono il luogo delle verità interne, quando siamo costretti a raccontarcela tutta e non possiamo più farci lo sconto. Né chiederlo agli altri, alla vita. E allora, qui è il fiume, qui si salta. Comincia una esplorazione diversa, non più nella dimensione orizzontale del mondo esterno, ma in quella verticale delle nostre capacità straordinarie, quelle valenze che entrano in campo quando l’ambiente non è più quello conosciuto, quando le garanzie sono scadute. Mentre l’esplorazione verticale procede, se si sviluppa una tenuta sufficiente si costruisce dentro man mano una nuova zona di sicurezza, sulla quale appoggiarsi e a cui fare ritorno, nelle notti buie. Da lì verrà la forza di continuare, di non mollare, di non crollare quando il gioco si fa duro, e l’umiltà di ridefinire il percorso, la pazienza di ricominciare daccapo. Perché una vita che non si slancia verso qualcosa che è più oltre, è solo una riedizione infinita dello stesso film e una smisurata noia. Rosella De Leonibus 40 FATTI E SEGNI cari nostri vecchi Enrico Peyretti ene e male – L’amore toglie il male col perdono. Il male non toglie l’amore con l’odio. Bene e male non si equivalgono. Il bene è colpito ma non è soppresso. Il bene resta, passa oltre, per vie anche invisibili. Anche il male resiste, si propaga, si radica. Ma basta un atto buono ed esso svanisce lì, dove il bene avviene. L’elemosina cancella molti peccati. Farò altri peccati, ma Dio ricorderà la mia elemosina più dei miei peccati. Se il nostro cuore ci condanna – cioè la coscienza del male in noi e attorno a noi ci sovrasta e ci lascia senza risorse – Dio è più grande del nostro cuore (prima lettera di Giovanni, 3, 20). Il bene ha potere sul male, non viceversa. Dirai: il mondo ha soppresso Cristo, oppure ha catturato e legato la sua parola, che è lo stesso. Ti dirò: nessuna cattura e nessun adattamento han potuto far dimenticare Gesù, il suo messaggio sempre altro, inquietante, imprendibile. Dirai: ma forse sarà dimenticato; lui stesso si è chiesto se troverà fede al suo ritorno. Ti dico: è vero! Tutto ciò che ora possiamo fare è credere al bene più che al male, e farlo. B Come il serpente – Ripara, o Dio, se sei giusto come giurasti a noi, ripara i dolori che la migliore e la peggiore delle tue creature infligge agli altri tuoi animali e alla creazione che geme nelle doglie. Come il serpente di quel giardino, noi siamo solamente la più astuta di tutte le fiere. Eppure tu sei venuto nella nostra specie ingrata e hai ficcato sete inesausta di te nel nostro cuore impazzito. Se sei giusto, o Dio, come giurasti, tu devi ora salvare gli animali e la terra dalle grinfie umane. Adesso tocca a loro il tuo amore privilegiato e forse sarà meno sprecato. Dimenticare – Sì, si dimentica anche Gesù. Il suo natale, l’ultimo residuo cristiano che ci restava, avviene ormai senza di lui. Ho visto nelle vetrine presepi senza alcun riferimento alla sua nascita: campagna d’inverno, capanne e pastori, nessun segno di lui. Cartelloni pubblicitari incitano alle spese: «doppio telefonino, doppio natale» (in inglese, ovviamente). Non angeli scendono a dare annunci, ma Babbinatali cretini si arrampicano per settimane ai balconi come mosche, o come pagliacci. Sem- brano messi lì per istruire i ladri. Guerra – Abitiamo case pacifiche, e sulla parete, con le foto rugginose dei vecchi trapassati, ci sono anche le medaglie che alcuni di loro meritarono facendo la guerra, o costretti, o anche convinti. Chissà in quale casa si è pianto, per quella medaglia, e si conserva un’altra foto ingiallita. Illusione – Siamo alla frutta! – Ah, beh, c’è ancora il dolce. Stupidità – Ogni volta che guarisco da un raffreddore mi sento di nuovo immortale. Vecchi – Vediamo i nostri vecchi declinare. Spesso affondano nella mezza morte, come chi s’inoltra nella nebbia, o chi, cedendo, cessa di dibattersi nel gorgo. Sottratti al cerchio della comunicazione, prigionieri di una distanza immateriale, energia esaurita e spenta, ci appaiono scatole vuote, volti senza persona, diventano per noi condannati che predicono la nostra possibile condanna. Oggetti passivi di cura e di pena, perduto il discorso umano, sono infanti che crescono all’indietro, verso il rovescio del nascere. La loro lunga passione ci pare abbandonata da Dio. Ben più di tre sono le loro infinite ore di croce. Eppure, essi sono mistero di sostanza, puramente creduta, dietro l’impenetrabile apparenza. Anche nell’estrema decadenza, la vita impedita è vita umana. Servirli è una inutile pietà, che forse rivolgiamo a quel che potremo essere un giorno noi stessi, con orrore. Sono perduti e non perduti, sono lasciati a noi per prova e ammonimento. Preghiamo che l’ora del passaggio venga a loro pietosa: che venga sorella e non nemica, come nemico è il loro stato presente, e che nessun’arte umana prolunghi quella morte spacciandola per vita. Gli antichi, nella fede, chiamavano angelo della morte l’ospite sgradito della casa all’ora di un decesso. Angelo e non demonio è la morte naturale se non è arrestata sulla soglia, se non è negata al corpo che amavamo, che ora vuol morire, come la sera si vuol dormire. Cari nostri vecchi già nell’ombra, immagine possibile del mio domani, come prego io per voi la luce nuova, pregate voi quell’angelo per me, che venga buono e sollecito, non ladro di coscienza, ma guida nel passaggio, alla mia ora. ❑ 41 ROCCA 1 MARZO 2006 COSE DA GRANDI dal loglio sono i nostri pensieri confusi da analizzare e discernere con cura, le montagne da scalare per andare a prendere qualcosa di prezioso sono la possibilità di andare più avanti nella conoscenza di sé, e scoprire che una umile erba, una semplice fonte, sono in grado di compiere prodigi ci aiuta a ricordare che non c’è in noi niente che sia troppo banale per essere prezioso e utile per vivere. Poi ci sono gli inganni, che l’eroe delle fiabe deve saper riconoscere, e di solito mostrano le cose più facili, o più gradevoli, e nascondono insidie dietro alle apparenze. Non sono sempre fuori di noi gli inganni. A volte sono dentro, e sono i più difficili da riconoscere, quando per esempio costruiamo un magnifico alibi per non fare, o per rinviare, o svalutiamo le mete che ci fa fatica conseguire, ovvero ci si racconta che sono impedite dalla presenza di nemici. Se l’eroe impara a fiutare gli inganni, a non cadere in trappola, incontra finalmente gli alleati. Spesso nelle fiabe sono animali umili, o persone in apparenza di poco conto, e allora ci raccontano di come possiamo valorizzare competenze e capacità umili e secondarie. Oppure hanno poteri magici, e ci fanno fare cose altrimenti impossibili. Ma arrivano solo quando ne abbiamo sperimentato dolorosamente il bisogno, e solo a questo punto. Ecco le risorse interne più potenti, quelle veramente nuove, sviluppate dal confronto con la foresta e le prove da compiere. E la meta può essere finalmente conseguita. Bertrand Russell il coraggio delle proprie idee ROCCA 1 MARZO 2006 Giuseppe Moscati G eniale, brillante, a volte caustico, mai domo. Un intellettuale di razza, Bertrand Russell. La stessa biografia del pensatore gallese (1872-1970), tra l’altro premio Nobel per la Letteratura (1950), è un testamento intellettuale aperto. Aperto innanzitutto al mondo delle nuove generazioni, che leggendo le sue pagine e seguendo le sue argomentazioni hanno la possibilità di confrontarsi con un rigoroso metodo logico-matematico di indagine filosofica. Ma allo stesso tempo anche con una visione del mondo che prende le mosse da un instancabile interrogarsi – da molti additato come spregiudicato – sui rapporti tra etica e religione, tra morale tradizionale e scienza, tra ambito del bene politico e sfera della felicità individuale. Certo, per chi si dedicasse alla lettura di Perché non sono cristiano il compito non sarebbe per nulla facile. A fronte del portato etico-religioso dello scandalo della croce, a fronte del paradosso/paradigma del sacrificio di uno per tutti e dell’assunzione in un singolo «di tutti i peccati del mondo», il lettore si troverebbe dinanzi le parole – quelle sì caustiche – di un pensatore che non si tira mai indietro, che non rinuncia mai a pronunciarsi al cospetto di questa o quell’autorità, di questa o quell’istituzione. un impegno militante per la pace Estremamente dinamico, anticonformista, sempre pronto a ripensare criticamen42 te la tradizione educativa, socio-politica, culturale oltre che quella squisitamente filosofica. Un intellettuale coraggioso, Bertrand Russell. La sua attività è sempre stata frenetica, vissuta tra mondo universitario, saggistica, dibattiti di politica internazionale e confronti pubblici su svariate tematiche, quando aveva occasione di pungolare il dogmatismo pseudoscientifico e l’autoritarismo religioso, di esporre le sue tesi ‘progressiste’ in materia di morale sessuale, di dire la sua su «educazione e ordine sociale» o di muoversi con disinvoltura tra antinomie, assiomi, inferenze e paradossi. Ogni suo intervento è sempre stato caratterizzato da sincerità intellettuale, da un’estrema chiarezza delle tesi esposte e da una totale assenza di ipocrisia. Anche a costo di vedere i suoi libri censurati, di rimetterci l’insegnamento (a Cambridge, a New York…) e di finire in carcere come gli è accaduto durante la I guerra mondiale appena si è dichiarato pacifista o nel 1961 in quanto organizzatore, davanti alla sede del ministero della Difesa britannico, di un sit-in che richiamava l’attenzione sull’urgenza del disarmo senza condizioni. Credo significativo partire da qui, da questo suo impegno militante per la pace e per la fratellanza tra i popoli proprio perché tale aspetto non può essere considerato secondario per «leggere» una figura come quella di Russell, per interpretare in profondità le sue innumerevoli battaglie. Battaglie portate avanti per far emergere finalmente la verità sul Vietnam, battaglie combattute contro l’inquisitorio maccartismo e soprattutto per conquistare la garanzia di un diritto universale alla (ricerca individuale della) felicità. Da questo spirito di lotta culturale nasce non a caso il manifesto redatto contro la bomba atomica, documento fondamentale per la costituzione del Movimento Pugwash e firmato tra gli altri anche da Albert Einstein, che di Russell aveva una stima memorabile ricambiata. E proprio in virtù dell’atteggiamento di fondo di Russell nei confronti del mondo, atteggiamento che a mio avviso fa di lui un perfetto nonviolento più che ‘semplice’ pacifista, possiamo riandare al dialogo con il nostro Aldo Capitini e alla formazione dello stesso Tribunale Russell, istituito per denunciare i crimini di guerra e le violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo e dedicato alla memoria di un grande maestro del nostro tempo. Maestro per il suo essere lucido lettore delle situazioni di dominio dittatoriale, anche di quelle più subdole; per la sua originale interpretazione della storia del pensiero occidentale; per il suo elogio di quella libertà che non scade mai a indifferenza. la conoscenza come dibattito razionale Eccezionalmente curioso, dotato di un grande senso dell’ironia come pure di una seria e sincera umiltà intellettuale. Un intellettuale leale, Bertrand Russell. Fin da giovane, vale a dire sin dai tempi delle sue frequentazioni degli ambienti che contavano (il Circolo di Bloomsbury, il Trinity College di Cambridge…) e dai suoi esordi di eco platonica poi superata con decisione, Russell si è fatto apprezzare come logico, matematico ed epistemologo in genere. Ma questo, credo, soprattutto perché la sua formazione si andava sempre più arricchendo di una capacità davvero originale, quella di assorbire al meglio – per poi rielaborarla e attualizzarla – la lezione dei maestri del passato, o degli stessi colleghi a lui contemporanei, sempre accompagnando la sua critica ad un profondo rispetto per le posizioni e per le opinioni altrui. Testimonianza preziosa di ciò sono le tante lezioni, più volte ripubblicate, che negli anni ha tenuto da Boston a Pechino, da Harvard a Los Angeles... Che fossero classici del pensiero, come Leibniz, op- pure scienziati dell’epoca, come quel Giuseppe Peano dell’Università di Torino con cui ebbe un felice, significativo incontro parigino ad un congresso internazionale di filosofia (1900), oppure ancora fossero teorie, come quella socio-politica propria della socialdemocrazia tedesca o quella scientifica della relatività einsteiniana, Russell prima di tutto si poneva in ascolto e poi ricercava sempre il dialogo costruttivo. Ecco, dunque, che abbiamo il Russell della «teoria dei tipi» e della «teoria delle descrizioni», del concetto di «sensibilia» e della «filosofia dell’atomismo logico». Ma ecco anche, vicino se non dietro a questo Russell, quello dei fertili e interminabili colloqui con l’allievo Wittgenstein – che peraltro egli non seguiva fino alle estreme conseguenze di filosofia del linguaggio –; ecco i suoi L’Abc della relatività e L’Abc degli atomi ed altre opere a carattere divulgativo; ecco ancora le sue riflessioni sulla perenne incertezza della conoscenza umana. Ma quei colloqui, quegli scambi di opinioni e quel continuo dibattere su cosa si intende per conoscenza, che egli vedeva come una ricerca continua di prove di quello a cui siamo di volta in volta invitati a credere, forse ci suggeriscono qualcosa di insolito. La storia della scienza e della filosofia è fatta anche di incontri informali, magari attorno a un camino e davanti a una tazza di tè. «I grandi uomini non ci hanno mostrato soltanto che cosa evitare. Ci hanno anche dimostrato che è nel potere dell’uomo creare un mondo di splendente bellezza e di trascendente gloria» Bertrand Russell Giuseppe Moscati Suggerimenti bibliografici di B. Russell: Storia della filosofia occidentale, Longanesi, Milano 1966; Matrimonio e morale, Longanesi, Milano 1966; La conquista della felicità, Longanesi, Milano 1967; I problemi della filosofia, Feltrinelli, Milano 1970: Dio e la religione, Newton Compton Roma 1994; Perché non sono cristiano, Tea, Milano 1997; La visione scientifica del mondo, Laterza, Roma-Bari 2000. e su B. Russell: R. Shönman (a cura di), B. Russell filosofo del secolo, Longanesi, Milano 1974; S. Rota Ghibaudi, B. Russel, Franco Angeli, Milano 1985; M. Di Francesco, Introduzione a Russel, Laterza, Roma-Bari ’90; M. Alcaro, B. Russel, Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1990; A.J. Ayer, B. Russell, Mondadori, Milano 1992; R. Monk, Russell, Sansoni, Firenze 1998; C. Senofonte, Scienza, religione e morale in B. Russell, Vivarium, Napoli 2002. ROCCA 1 MARZO 2006 MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO 43 CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE estremamente complesso cercare di interpretare un mondo come il nostro, sempre più precariamente in bilico tra l’evidenza del meticciato e della mescolanza interculturale e il desiderio di riacciuffare per i capelli una parvenza di identità forte e consolatoria. Viviamo, così, scissi tra la retorica di chi vorrebbe negare la realtà, evocando un passato mitico in cui inscrivere i grandi valori perduti di matrice cristiana, e l’indifferenza di altri, i quali si lasciano scivolare addosso la complessità di un presente, che, inesorabile, ci chiama a nuove sfide e a ridisegnare i confini con l’alterità (1). Mentre ci si divide sul significato del termine cultura, poi, si corre il rischio di mettere al rogo ogni tentativo di dialogo e di mutua comprensione, bollandoli come pericolose attività filo-relativiste. E giù a dire ogni sorta di male contro il relativismo, demonizzato come una peste culturale di cui avere orrore, senza cercare di posizionare il problema e tentare di comprendere che il relativismo filosofico non può essere liquidato con frasi da bar e inteso corrivamente come un’ideologia senza valori e anti-religiosa. le trappole ROCCA 1 MARZO 2006 In questo humus culturale, da una parte stizzito e nevrotico, chiuso ad ogni possibilità di comprensione, radicale e impietoso nei giudizi perentori che riguardano le altre culture, e, dall’altra, sordo, apatico e indifferente, innervosito da ogni problematizzazione e da ogni approfondimento, ha buon gioco chi rilancia idee di un nero fondamentalismo, di un radicalismo in grado di tingersi anche di rosso sangue. È per questo motivo che mi hanno molto colpito due testi, uno di una scrittrice ebrea, e l’altro di uno scrittore-giornalista musulmano, in cui si analizza come sia possibile, all’interno dei due mondi religiosi di riferimento, cadere nelle trappole dell’integralismo militante e terrorista. Da un lato, Carl Friedman (2) racconta in Fuoco sacro la storia di un ragazzo ebreo olandese, Hans Levie, il quale, vissuto fino 44 all’età di sedici anni in una famiglia aperta e progressista, a poco a poco si chiude in un mondo a senso unico, fino a lasciare i genitori per militare tra le fila di un’organizzazione eversiva sionista durante la prima guerra del Golfo. Dall’altro, Khaled Fouad Allam (3) scrive un’accorata Lettera a un kamikaze, nel tentativo di ricondurre alle ragioni del dialogo e del perdono chi crede che l’unica via per preservare la Verità sia quella di uccidere, immolandosi. Ciò che accomuna entrambi i testi è l’esigenza profonda di affermare a chiare lettere che chi sceglie la violenza pretende di parlare in nome di tutti, ma non rappresenta che se stesso perché, come sottolinea Allam, «la morte non è mai una vittoria, quando trascina con sé le ombre inquiete della nostra incapacità di capire» (4), o, come sostiene la Friedman, perché «è vero che il mondo ha bisogno di luce, ma non tutti gli ebrei portano la fiaccola, così come non tutti i portatori di fiaccola sono ebrei» (5). fuoco sacro L’intento della Friedman è proprio quello di descrivere come si possa scivolare nella cecità dell’integralismo senza accorgersene e come sia facile, negli ambienti religiosi, incoraggiare chi propone idee marmoree e scoraggiare chi si fa portatore di tesi più problematiche e dialogiche. Le religioni – sembra affermare implicitamente la scrittrice olandese – amano molto di più l’intemperanza che il dialogo, nonostante i loro proclami di pace; stimano maggiormente chi si propone al mondo con perentoria saldezza come il servo della verità, piuttosto che incoraggiare chi afferma di aver trovato e smarrito nello stesso istante la verità, perché ha compreso che ogni certezza trovata è una scheggia di una Verità irriducibile in comodi ragionamenti e in facili sistemazioni del mondo. Il giovane Hans è il prototipo dell’uomo religioso deteriore, quello morbosamente avvinghiato alle sue incrollabili verità: dalle più minuscole, che riguardano il cibo o il divieto di toccare una donna perché può essere impura; alle ma- iuscole, inerenti al prossimo avvento del Messia preannunciato dai segni naturali straordinari, quali inondazioni, epidemie, povertà. Quando poi decide di aderire al movimento chassidico Chabad, le sue verità si tingono di sfumature politiche: Hebron è una città ebraica, perché in essa sono situate le tombe dei patriarchi, e i palestinesi se ne devono andare, perché sono «bugiardi e cani rognosi (6)». Ciò che il lettore conosce di Hans è filtrato dalla voce narrante, un’amica di famiglia di cui non è mai rivelato il nome, e che funge da controcanto alle esternazioni farneticanti di Hans: innanzitutto con la sua storia personale di donna, fatta di ribellione al dispotismo di un padre, rabbino e integralista, che pretendeva da lei una vita al servizio di un marito impostole; poi, soprattutto, in quanto credente problematica, che non riesce a non vedere le contraddizioni del suo mondo religioso e, nello stesso tempo, non riesce a rinunciare alla ricerca di Dio. Così, all’amica Thérèse, sopravvissuta ai campi di sterminio, la quale, commentando la metamorfosi di Hans, afferma che non sarà mai possibile una convivenza pacifica tra ebrei e musulmani, la narratrice risponde che questo è già successo, in modi diversi, nei secoli passati, e cita il caso del poeta, filosofo e rabbino Hanaghid, che, ebreo, fu nominato visir del califfo di Granada e capo dell’esercito islamico. Ma, al di là di questo – afferma la narratrice – se è stato possibile per Thérèse tornare a vivere in mezzo a persone che si sono macchiate direttamente o indirettamente, con la loro indifferenza, dei crimini orrendi della Shoà, «perché non dovrebbe essere possibile, e anche più facile, vivere in pace con i palestinesi? (7)». Allo stesso modo, ai tentativi estremi di Mirjiam, la madre di Hans, di giustificare le scelte del figlio sostenendo che, in fondo, non fa nulla di male e che la sua ideologia è, alla radice, giusta perché «non si può redimere il mondo senza estirpare il male» (8), la narratrice risponde che forse il mondo non è affatto da redimere e che sta ad ognuno cercare di cambiare, di porre fine alla violenza, di lottare contro gli egoismi e contro gli istinti anche giusti di vendetta per costruire una società migliore. Ma Mirjam, tra la forza della ragione e la paura di perdere il figlio, rigetta le tesi dell’amica e le grida che Hans ha almeno il coraggio di credere in qualcosa, contrariamente alla narratrice stessa che dubita di tutto. Ciò di cui Mirjam non si rende conto, tuttavia, è che il dubbio non coincide affatto con una mancanza di coraggio, ma al contrario è l’espressione di un coraggio all’ennesima potenza, perché comincia sempre con un mettere in discussione se stessi. L’epilogo è necessariamente tragico: Hans finisce con l’uccidere, in nome di Dio, un sedicenne palestinese; lo arrestano e subisce la condanna a tre anni di prigione e a due di cure psichiatriche. macchine di morte La sordità che impedisce ad Hans di comprendere le ragioni dell’altro è identica a quella che, per Allam, rende disumano il kamikaze, trasformando la persona in una macchina di morte. Quello che il sedicente shahîd (martire) dimentica è che l’unità e l’unicità di Dio non possono che manifestarsi, nella storia imperfetta, se non attraverso la molteplicità, come comprova la Sura V del Corano, al versetto 48: «A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre, se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia». La volontà di leggere in maniera ossessiva e univoca l’insegnamento complesso di Dio, invece, spinge i fondamentalisti islamici a rifiutare il dialogo e la ragione, ossia, in ultima istanza, l’humanitas, abbracciando una logica di violenza. E questa, spesso, si trasforma in crimine orrendo, un crimine la cui ombra scura si estende sull’intero islam, su tutta la umma, la comunità dei credenti, la cui logica, invece, è totalmente differente. È nella retorica che celebra un passato mitico e perduto, incapace di fare i ROCCA 1 MARZO 2006 Marco Gallizioli la linea scura dei fondamentalismi È 45 ROCCA 1 MARZO 2006 dello stesso Autore LA RELIGIONE FAI DA TE il fascino del sacro nel postmoderno per i lettori di Rocca e 10,00 anziché e 13,00 richiedere a [email protected] 46 Il vero interrogativo che deve dilaniare la coscienza di ogni credente, quindi, non pretende certo una risposta mortifera, ma, al contrario, si deve aprire alla speranza e deve suonare come la ricerca di un passaggio che conduca gli uomini al di là degli egoismi e delle vendette, rendendoli capaci di convivere pacificamente. E – rilancia Allam citando E. Jabès – ognuno deve riscoprirsi responsabile non tanto e non solo di se stesso, ma piuttosto della totalità del mondo, di tutto ciò che è concepibile. L’assunzione di quest’ottica solidale non potrà mai condurre a pensieri di morte, non determinerà mai la trasformazione dell’umano in una realtà che tradisce l’umanità stessa, non potrà mai generare l’errore di chi, offrendosi alla morte e trasformandosi in uno strumento di distruzione, si considera un martire di Dio. Ma l’ottica di Jabès, sottoscritta da Allam, parla anche alle coscienze di chi non è e non sarà mai kamikaze, e spinge a comprendere che nessuno può tirarsi fuori dal gioco sporco della storia, perché ogni nostro comportamento compromette il mondo, se nega la speranza, se divide, se crea ingiustizie, se rimane indifferente. Nessuno, quindi, ebreo, cristiano, musulmano o laico può ritenersi neutrale e non coinvolto nei processi della storia. A ciascuno compete l’onere di credere in un mondo migliore e la volontà di realizzarlo, attivando quello sguardo cosmopolita di cui parla U. Beck, ossia la capacità di guardare dentro il mondo come se fosse di vetro e dove le differenze e i contrasti vengono definiti «(…) a partire dal presupposto che gli altri sono uguali» (12); un mondo in cui sia l’odio che l’empatia sono possibili e nel quale a scegliere fra questi due poli rimane ciascun individuo. Marco Gallizioli Note (1) Cfr. J. Audinet, Il tempo del meticciato, Queriniana, Brescia 2001, in particolare i capp. III e VI. (2) C. Friedman, Fuoco sacro, in Id., L’amante bigio, Giuntina, Firenze 2001, pp. 43-105. (3) K.F. Allam, Lettera a un kamikaze, Rizzoli, Milano 2004. (4) Ib., p. 15. (5) C. Friedman, op. cit., p. 73. (6) Ib., p. 82. (7) Ib., p. 85. (8) Ib., p. 89. (9) K.F. Allam, op. cit., p. 27. (10) cfr. Ib., p. 76. (11) Ib., p. 79. (12) U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005, p. 19. TEOLOGIA Dio è amore un itinerario di lettura Carlo Molari I l giorno 25 di gennaio, a un mese dalla data della sua pubblicazione (Natale 2005), è stata resa nota la prima Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI. Il titolo è la breve formula della prima lettera di Giovanni con cui il documento inizia: Dio è amore (1 Gv. 4,8). È una articolata riflessione sull’amore cristiano, come recita il sottotitolo. Lo stesso Papa, lunedì 23 gennaio, rivolgendosi ai partecipanti a un convegno, promosso dal Pontificio Consiglio «Cor Unum» sul tema «Ma di tutte più grande è la carità» (1 Cor 13,13), ha spiegato la ragione della sua scelta. Lo stimolo gli è venuto dal fatto che oggi di amore si parla molto, ma troppo spesso in modo ambiguo e confuso. «La parola amore oggi è così sciupata, così consumata e abusata che quasi si teme di lasciarla affiorare sulle proprie labbra», ha detto il Papa. «Eppure è una parola primordiale, espressione della realtà primordiale; noi non possiamo semplicemente abbandonarla, ma dobbiamo riprenderla, purificarla e riportarla al suo splendore originario, perché possa illuminare la nostra vita e portarla sulla retta via». «È stata questa consapevolezza che mi ha indotto a scegliere l’amore come tema della mia prima Enciclica», dove «i temi ‘Dio’, ‘Cristo’ e ‘Amore’ sono fusi insieme come guida centrale della fede cristiana». Il documento è breve, 42 paragrafi, ma è molto denso e chiaro. Nella prima parte (nn. 2-18) di «indole più speculativa» (n. 1) il Papa vuole mostrare «l’unità dell’amore nella creazione e nella storia della salvezza». Intende cioè chiarire come le «diverse dimensioni» dell’amore esprimano un’unica dinamica fondamentale, che nasce dall’azione creatrice di Dio, fonte primigenia e continua del processo di crescita della persona e di sviluppo della specie umana. La seconda parte (nn. 19-42) di «carattere più concreto» presenta alcu- ne riflessioni su «l’esercizio ecclesiale del comandamento dell’amore per il prossimo» (n. 1). L’intenzione esplicitamente dichiarata è di «suscitare nel mondo un rinnovato dinamismo di impegno nella risposta umana all’amore divino» (n. 1). l’unità dell’amore nella creazione e nella salvezza La prima parte prende l’avvio dalla constatazione che al termine «amore» oggi «annettiamo accezioni del tutto differenti» (n. 2). Questo fatto ha indotto il Papa a dedicare alcune lucide pagine (nn. 2-8 Un problema di linguaggio) alla terminologia dell’amore in particolare ai significati dei termini greci che costituiscono la radice di molte parole delle lingue moderne utilizzate per designare l’esperienza dell’amore. I tre termini sono: eros (cui corrisponde il verbo erào), che designa l’amore passionale, in particolare «tra uomo e donna», passione, «che non nasce dal pensare e dal volere, ma in certo qual modo si impone all’essere umano» (n. 3); filìa (con il verbo fileo) che indica l’amore di amicizia e di tenerezza; e agàpe (con il verbo agapào), che, più raro nella lingua greca, «diventò l’espressione caratteristica per la concezione biblica dell’amore» (n. 6) e che ha caratterizzato, fin dal Nuovo Testamento, anche la tradizione cristiana. L’eros, l’amore passionale, «è come radicato nella natura stessa dell’uomo» (n. 11), e «offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino» (n. 5). Spesso tuttavia è stato falsamente divinizzato in se stesso ed è giunto ad espressioni aberranti. Dalle degenerazioni che ne sono derivate, è apparso che «l’eros ebbro e indisciplinato, non è ascesa, «estasi» verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Così diventa evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uo47 ROCCA 1 MARZO 2006 CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE conti con il presente, che una parte dell’islam si perde; è «nel male oscuro del disagio che crescono gli apprendisti stregoni», quei cattivi maestri che spingono alcuni giovani sfiduciati a leggere il Corano solo nel segno dell’intransigenza. È nella cecità che impedisce di vedere il conflitto delle interpretazioni del Corano che si agita il virus dell’integralismo violento. «La religione – afferma con la forza di una poesia urgente Allam – invece è anche il cantico delle nostre utopie, ma non si danno utopie che non siano collettive (9)». La religione, quindi, è fatta per essere condivisa, per aprire varchi alla speranza e all’altro, per cercare una strada comune sempre e caparbiamente, non per dividere o ingessare la ragione in forme stereotipate e contrarie al dialogo. Di più: la religione deve spingere al perdono e non al rilancio della violenza; deve spezzare la spirale vittima-carnefice e aprire gli orizzonti di un senso più grande, in cui si può perdonare senza dimenticare, per costruire insieme un mondo migliore, un mondo in cui Dio non venga offeso dalle sue stesse creature (10). Ogni uomo religioso – sostiene Allam – gioca la sua fede nel rapporto tra la storia e la verità, cercando di inscrivere la verità della rivelazione nei meandri della storia, perché ogni situazione chiede al credente un approfondimento della verità, una sua contestualizzazione, un allargamento della capacità di comprensione della verità stessa e non uno sterile ripiegamento in formule rinsecchite del passato. Se il grande messaggio dell’Islam è quello di preservare la vita e di esaltarla (Sura V, 32), allora il kamikaze, foriero di morte e di distruzione, è l’anti-uomo, è colui che spezza il legame tra l’umanità e il Creatore. Il mondo nella sua interezza e l’islam nel particolare – ribadisce con forza lo scrittore – avvertono oggi più che mai l’esigenza di «nuove parole, di nuovi linguaggi, perché sono in gioco i valori, la capacità di accoglienza, le identità, la globalizzazione, il dialogo fra culture, la democrazia e la libertà» (11). 48 diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca» (n. 6). Diventa «estasi, non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dell’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e, proprio così, verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (n. 6). Anche l’eros perciò «vuole sollevarci ‘in estasi’ verso il Divino, condurci al di là di noi stessi» (n. 5). «Se non realizza questo processo e non matura «fino alla sua vera grandezza» (n. 5) l’eros «decade e perde la sua stessa natura» (n. 7). A questa dinamica è collegata la fedeltà nel tempo «perché la sua promessa mira al definitivo: l’amore mira all’eternità» (n. 6). Credo sia degna di nota l’assenza completa di ogni riferimento allo stato primitivo dell’uomo e alle ferite del peccato originale. Soprattutto in un teologo di dichiarata affinità agostiniana questa assenza è rilevante e consente di sottolineare le positive valenze dell’eros. Credo si possa dire che l’inadeguatezza dell’eros come viene descritta provenga dal fatto che nelle sue prime forme istintive esso è incompiuto come la persona che lo esprime. Resta vero infatti che «questo processo rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai ‘concluso’ e completato, si trasforma nel corso della vita, matura e proprio per questo rimane fedele a se stesso» (n. 17). A questa maturazione il fanciullo e l’adolescente devono essere condotti dall’amore gratuito dei genitori e degli educatori. Solo chi è amato gratuitamente è in grado di giungere alla maturità dell’amore. la novità dell’agape In questo processo la scoperta dell’amore di Dio acquista una funzione fondamentale sia per la crescita delle persone, come per lo sviluppo di comunità creatrici e oblative che alimentano l’amore maturo. Nel cammino dell’amore l’esperienza biblica è particolarmente istruttiva. «La fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni» (n. 8). La novità biblica viene ricondotta a due elementi fondamentali: la nuova immagine di Dio e la corrispondente nuova immagine dell’uomo. L’immagine di Dio è caratterizzata dall’iniziativa di creare per amore e di offrire alle sue creature perdono dei peccati: la gratuità quindi e la misericordia. «L’eros di Dio per l’uomo è insieme totalmente agàpe» (n. 10). Per questo l’amore che egli suscita nell’uomo assume la forma di eros, ma poi si sviluppa come agàpe. L’immagine nuova dell’uomo è quella che scaturisce dalla complementarità sessuale e in genere dal carattere relazionale della sua crescita: i rapporti sono l’ambito della sua piena maturazione. Interessante è notare che Benedetto XVI parla della novità biblica con riferimento prioritario all’Antico Testamento. Quanto al Nuovo egli osserva che la sua «vera novità… non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti, un realismo inaudito» (n. 12). Egli non ha interesse a citare le formule giovannee sul «comandamento nuovo» (Gv 13, 34). In Gesù acquista rilievo concreto e radicale l’immagine biblica di Dio e l’immagine dell’uomo chiamato a diventare figlio di Dio. Le sue parabole della misericordia «non sono solo parole, ma costituiscono la spiegazione del suo stesso essere ed operare» (n. 12). Particolarmente il gesto di amore supremo della croce, quando «amò sino alla fine» (Gv. 13, 1) appare che Dio «si dona per rialzare l’uomo e salvarlo, amore, questo, nella sua forma più radicale» (n. 12). L’Eucaristia, perciò, che è il memoriale del gesto supremo d’amore di Dio realizzato in Cristo, «ci attira» come suoi discepoli «nell’atto oblativo di Gesù... Veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione… Diventa unione» (n. 13). Unione con Dio in Cristo e quindi unione con tutti i fratelli che partecipano dello steso dono. È solo l’amore di Dio accolto che rende possibile il tipo nuovo di amore verso i fratelli, che viene chiamato agàpe. In esso «amore per Dio e amore per il prossimo sono ora veramente uniti: il Dio incarnato ci attrae tutti a sé. Da ciò si comprende come agàpe sia ora diventata anche un nome dell’Eucaristia» (n. 14). «Nel «culto» stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri. Un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata» (n. 14). la Chiesa «comunità d’amore» La riflessione sulla Eucaristia, sacramento dell’intreccio dell’amore di Dio e dei fratelli, conduce logicamente alla seconda parte, che riguarda l’esercizio ecclesiale dell’amore o «il servizio della carità» delle comunità (n. 19). La pratica dell’amore, infatti, «è anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli»: da quella locale (parrocchie o gruppi), alla quella particolare (diocesi), «fino alla chiesa universale nella sua globalità» (n. 20). Fin dall’inizio della sua storia «l’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della parola (kerygma-martyria), celebrazione dei sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro» (n. 25). La «diaconia» della Chiesa, «il servizio dell’amore del prossimo esercitato comunitariamente e in modo ordinato» (n. 21), non deve essere considerata una semplice «attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza» (n. 25). La «diaconia» quindi ha avuto sempre un posto rilevante nelle comunità e si è tradotta in apposite «strutture giuridiche» (n. 23), che hanno assunto forme diverse lungo i secoli, ma che hanno sempre conservato come nucleo essenziale il principio della fraternità: «all’interno della comunità dei credenti non deve esservi una forma di povertà tale che a qualcuno siano negati i beni necessari per una vita dignitosa» (n. 20); «nella Chiesa, famiglia di Dio» «non deve esserci nessuno che soffra per mancanza del necessario» (n. 25). Tutti i bisognosi sono oggetto delle preoccupazioni ecclesiali, anche «il bisognoso incontrato «per caso» (cfr. Lc 10, 31), chiunque egli sia; per «l’universalità del comandamento dell’amore, vi è però anche un’esigenza specificamente ecclesiale», secondo «la parola della lettera ai Galati ‘Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede’ (6,10)» (n. 25). Il servizio della carità svolto dalla chiesa nella società ha esercitato un fascino notevole al punto da suscitare emulazioni da parte di altre religioni e anche di nemici, come Giuliano l’Apostata (†363) che viene espressamente citato dal Papa: «I «Galilei» – così egli diceva – avevano conquistato in questo modo la loro popolarità. Li si doveva emulare ed anche superare. L’imperatore in questo modo confermava, dunque, che la carità era una caratteristica decisiva della comunità cristiana» (n. 24). Tutta la storia della Chiesa è intrecciata dalle invenzioni dell’amore dei santi (fr. N. 40). ROCCA 1 MARZO 2006 ROCCA 1 MARZO 2006 TEOLOGIA mo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende» (n. 4). La preoccupazione principale del Papa è mostrare l’unità delle «diverse dimensioni» (n. 8) dell’amore indicate con questi termini. L’insistenza con cui egli sottolinea la loro profonda unità ha due ragioni fondamentali: da una parte la scissione, che oggi è facile rilevare nelle abitudini sociali, tra l’esercizio della sessualità guidata dall’eros, e lo sviluppo dell’amore oblativo; dall’altra la tradizione dualista che nei secoli scorsi ha condotto anche il cristianesimo ad essere accusato di avere «avvelenato» (n. 3 e n. 5) e «distrutto l’eros»(n. 4) e di essere quindi «avversario della corporeità» (n. 5). Il Papa riconosce che «tendenze in questo senso ci sono sempre state», ma tiene a sottolineare che «la fede cristiana ha considerato l’uomo sempre come essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così ambedue una nuova nobiltà» (n. 5). Succede però che «di volta in volta, l’una o l’altra dimensione può emergere maggiormente» fino a distaccarsi «completamente l’una dall’altra». Quando ciò accade «si profila una caricatura o in ogni caso una forma riduttiva dell’amore» (n. 8). Potremmo dire che le espressioni estreme del dualismo sono: l’angelismo disincarnato e l’erotismo autocentrato. Il primo è proprio dell’uomo «che ambisce di essere solo spirito e vuole rifiutare la carne come eredità soltanto animalesca» (n. 5) perseguende illusoriamente un amore senza componente corporale. Un amore di questo tipo conduce a quei deserti dello spirito dove non soffia nessun alito di vita e dove anche i gesti più nobili sono sterili. D’altra parte l’erotismo fine a se stesso «priva l’uomo della sua dignità, lo disumanizza» (n. 5). Il Papa constata che «il modo di esaltare il corpo, a cui oggi assistiamo, è ingannevole. L’eros degradato a puro ‘sesso’ diventa merce, una semplice cosa che si può comprare e vendere, anzi l’uomo stesso diventa merce» (n. 5). In conclusione l’eros «richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni» (n. 5) «attraverso le quali l’eros diventa pienamente se stesso, diventa amore nel pieno significato della parola» (n. 17), perviene alle forme più oblative e include «per così dire, l’uomo nella sua interezza» (n. 17). Allora l’amore «diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell’amato: Chiesa e politica Non sono mancate critiche contro lo stile caritatevole della Chiesa da parte di chi, in 49 50 sona alla vita pubblica» (ib.). È loro missione «configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia,... secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità» (ib.). Anche questa azione deve essere animata dall’amore che si configura quindi come «carità sociale» (n. 29 cita il num. 1939 del Catechismo della Chiesa Cattolica). Questa affermazione ha una particolare importanza perché i fedeli laici secondo la terminologia invalsa dopo il Concilio sono quei battezzati che «nella loro misura, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano» (LG. 31). La loro attività politica quindi non è privata perché è svolta per compiere la missione della Chiesa nel mondo «secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità» (n. 29). I laici perciò debbono operare consapevoli di compiere una missione ecclesiale. La loro attività è personale ma coinvolge la loro appartenenza ecclesiale. le opere di carità Gli ultimi paragrafi dell’Enciclica presentano alcune strutture caritative sorte in questi ultimi decenni nel contesto della «situazione generale dell’impegno per la giustizia e per l’amore nel mondo odierno», e tracciano il «profilo specifico dell’attività caritativa della chiesa» lo stile interiore che deve caratterizzare l’attività a servizio dell’uomo» (nn. 30 e 31) in modo che «non si dissolva nella comune organizzazione assistenziale, diventandone una semplice variante» (n. 31) L’attività caritativa della Chiesa deve quindi rispondere alle necessità concrete della gente, con vera professionalità, in modo indipendente da partiti e da ideologie, senza secondi fini di proselitismo, con totale gratuità. Solo così gli operatori di carità diventano «testimoni credibili di Cristo» (n. 31) e svolgono la missione ecclesiale nel mondo, perché fanno «entrare la luce di Dio nel mondo» (n. 39). Il richiamo finale è all’orizzonte teologale della esistenza cristiana e alla preghiera. L’intreccio di fede, speranza e carità costituisce infatti la trama essenziale di ogni attività ecclesiale. L’amore agapico nasce dalla fede e alimenta la speranza. In questa circolarità, che riflette il dinamismo intimo della Trinità santa, si sviluppa quella armonia dei rapporti umani e fiorisce quella pace tra i popoli, che oggi è condizione assoluta di sopravvivenza della specie umana. Carlo Molari CONTROCORRENTE eppure succede A Adriana Zarri ltri, su questo stesso numero di Rocca, parleranno dell’enciclica. Io vorrei parlare della quotidianità. Due discorsi che, all’apparenza, sembrano differenti e invece, in realtà, sono un discorso solo, modulato su diversi registri. Non quindi ripetitivi, né contrapposti, né dialettici ma paralleli, pur senza risultare monocordi. L’enciclica infatti parla dell’amore di Dio che si dipana, in forme sempre eguali e sempre nuove, in tutti i giorni della vita. La quotidianità è la vita stessa che esprime l’amore in forma laica, nel senso che non occorre essere credenti per vederne la diuturna inesausta novità; ma un credente in essa riconosce quell’amore cui non serve un’enciclica né alcun discorso pontificio, magisteriale e pastorale per rendersi evidente, a chi ha occhi di fede. Perciò potremmo dire che è un’enciclica laica, in quanto leggibile da tutti, benché ciascuno, in ragione della propria fede o della propria non credenza, vi scopra spessori diversi di senso o di non senso. Ciò a partire dall’interrogativo («chi è mai l’uomo perché tu te ne curi?») all’edificazione («poco meno degli angeli l’hai fatto»), all’assurdità di un’esistenza che, per chi non ha fede, non ha senso o ha un senso puramente terrestre e temporale. Tale senso che può ben essere generoso, nell’impegno civile per migliorare un mondo che però resta questo mondo, chiuso in se stesso e nel suo orizzonte temporale senza quella proiezione nell’eterno che al non credente pare utopica e illusoria. Ma è proprio questo senso che tuttavia egli è tenuto a rispettare come l’uomo di fede rispetterà un impegno solamente terrestre e pur non privo di generosità e di dignità. E riscopriamola, dunque, questa enciclica laica (e pur, per il credente, non priva di sacralità) rappresentata dalla quotidia- nità del nostro vivere terrestre, abbia o non abbia proiezioni assolute: il nostro viver contingente, fatto di ore e di stagioni, scandite dai nostri meccanici orologi, o dalle solari meridiane, scritte dall’astro diurno, in alcuni antichi muri, a mezzodì. E l’occasione ci è data da un fatto di cronaca, anzi da molti fatti che sono un fatto solo: il dramma di chi non sa leggere la bellezza e la varietà del quotidiano e, per movimentarlo, commette gesti assurdi e, non di rado, criminali. Ragazzi che, forse senza volere, uccidono, gettando sassi giù dai cavalcavia sulle autostrade, gridando di gioia ogni qualvolta centrano un bersaglio. E una delle ragazze responsabili ha confessato: «tirare sassi da un cavalcavia vuol dire che non abbiamo niente dentro». Un giornalista ha commentato: «Colpiscono per vincere la noia, per riempire il grande vuoto di un’esistenza dove non succede niente». A nostra volta commentiamo: come non succede niente? È forse niente il sole che sorge ogni mattina e ogni sera tramonta? È niente il cielo, la luna, le stelle? Gli uomini, gli animali, i bambini che ridono, i cani che abbaiano, i gatti che ronfano? È niente la collana dei giorni e delle notti? Avete bisogno di far succedere qualcosa di straordinario, inedito o addirittura criminale per accorgervi del perenne succedere quotidiano? Come non succede niente? Succede tutto: basta aver occhi per vederlo. Succede il giorno, succede la notte con la luna e le stelle, succede la primavera, l’estate, l’autunno con le nebbie, l’inverno con la neve e la polenta gialla sulla mensa. Succede la gente che ride e che piange, che ama e che odia (purtroppo è un succedere anche quello, sempre meglio del vostro niente). Succede tutto; succede la vita: questa enciclica laica eppure sacra, non scritta dal papa ma da Dio. ❑ 51 ROCCA 1 MARZO 2006 ROCCA 1 MARZO 2006 TEOLOGIA determinate circostanze, ha visto nella sua azione un ostacolo al proseguimento della giustizia, sia attenuando la coscienza delle ingiuste disparità fra persone, ceti sociali e popoli, sia contribuendo, con attività di supplenza, al mantenimento di situazioni disordinate, sia soffocando nel loro nascere movimenti e rivolte sociali in nome della nonviolenza o della carità verso tutti. La parte di verità contenuta in questa critica spinge il Papa a chiarire la distinzione tra l’azione della chiesa e quella delle strutture politiche preposte alla ricerca della giustizia. La Chiesa è sollecita alle esigenze della giustizia, ma vi collabora illuminando le coscienze e indicando l’orizzonte della fede, che guida il cammino della giustizia. L’esperienza di fede, infatti, nella sua «specifica natura di incontro con il Dio vivente» «è una forza purificatrice per la ragione stessa… la libera dai suoi accecamenti e perciò l’aiuta ad essere meglio se stessa» (n. 28). In questo modo la chiesa «vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale». La chiesa perciò sente il dovere di offrire «il suo contributo specifico», «attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica... affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili» (n. 28). La realizzazione della giustizia, tuttavia, non spetta alla Chiesa come tale, bensì alle strutture politiche, che sono appunto ordinate alla difesa dei diritti di tutti i cittadini e alla amministrazione dei beni comuni. Il Papa ricorda un detto di Agostino: «Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri» (n. 28). A questo scopo egli distingue ciò che compete ai singoli fedeli nell’ambito politico da ciò che compete alla Chiesa in quanto comunità. A questa come «soggetto direttamente responsabile», «come opus proprium», «compito a lei congeniale» appartiene la creazione di strutture caritative, «come attività organizzata dei credenti», perché «corrisponde alla sua natura» (n. 29). La Chiesa non può essere mai dispensata dall’esercizio della carità anche perché «non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l’uomo al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell’amore» (n. 29). I fedeli laici, d’altra parte, in quanto cittadini hanno il dovere di «operare per un giusto ordine della società» (n. 29). «Essi sono chiamati a partecipare in prima per- Rosanna Virgili Babele propaganda dominio l rapporto tra profezia e potere è talmente vasto e articolato che ci pare il caso di dedicare a questo aspetto più di un articolo. Iniziamo con questo primo intervento – cui ne seguiranno altri due – che si concentra, peraltro, non su un testo tratto dai libri profetici propriamente detti, ma su una pagina del libro dell’Apocalisse. Una scelta del tutto ortodossa, del resto, dato che la Rivelazione contenuta in Apocalisse è una autentica profezia, come recita il prologo: «(…) beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte» (Ap 1,3). I la torre di Babele ROCCA 1 MARZO 2006 Il primo testimone biblico di un autentico sistema di potere è la torre di Babele (cf. Gn 11,1-9). Essa doveva essere qualcosa di strabiliante, plastico simbolo di un impero di onnipotenza, quasi come le torri gemelle di New York! Segno di ricchezza, di operosità, di intelligenza, di incomparabili capacità tecniche ed ingegneristiche, nascondeva il progetto di un potere universale. Esso era motivato da quella che oggi si chiamerebbe promotion, vale a dire: «facciamoci un nome». E come ogni promotion, anche la torre tendeva a uno scavalcamento dei limiti: si trattava, appunto, di una torre la cui cima urtava il cielo (cf. Gn 11,4). Enzo Bianchi osserva acutamente che «nome», nel Giudaismo è sinonimo eufemistico di «Dio»; infatti quando un uomo si fa un Dio – ossia divinizza il proprio interesse e lo sostituisce all’altro uomo – accade ciò che narra il midrash della torre: «Divenne così alta che per salire fino alla cima occorreva un anno intero. Agli occhi dei costruttori un mattone divenne allora più prezioso di un essere umano: se un uomo precipitava e moriva nessuno vi ba52 dava, ma se cadeva un mattone tutti piangevano, perché per sostituirlo sarebbe occorso un anno. In Babele: «tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole» la qualcosa non significava, però, che tutti i popoli vivessero nella assoluta concordia, piuttosto si era verificata una contrazione di identità, si erano ridotte le culture al silenzio, a vantaggio della potenza, della efficienza, della città della torre. Ma Dio dice «no» a una sola lingua, «no» ad una sola cultura, «no» ad un solo potere. Dio rifiuta l’unicità e l’appiattimento: moltiplicando le lingue crea le diversità culturali, la varietà dei popoli e dei fini. Ecco perché se nella conclusione di questa storia gli interpreti ebrei e cristiani hanno visto un castigo, occorre vedervi piuttosto un gesto divino a favore degli uomini, divorati dall’ansia del dominio. la Bestia di Apocalisse Nel capitolo 13 di Ap troviamo una edizione neotestamentaria della torre di Babele. Siamo dinanzi a due bestie, così strettamente collegate tra loro da sembrare lo sdoppiamento di una sola. La prima viene così descritta: «Vidi salire dal mare una Bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo (...) il drago le diede la sua forza, il suo trono e la sua potenza» (13,1-2). Essa è inviata dal drago (= il Maligno, cf. Ap 12), sale dal mare e tradizionalmente identifica l’Impero Romano che «sale dal Mediterraneo» e irradia il suo potere proprio attraverso il mare. Il suo intento è la bestemmia: poiché si pone come un Dio, pone una sfida a Dio e in ciò sta la bestemmia. C’è un richiamo alle quattro bestie di Daniele che alludono a quattro regni che si sono succeduti (Babilonia, i Medi, i Per- il ministero della propaganda «Guardatevi dai falsi profeti, i quali si presentano a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci» (Mt 7, 15). Il contatto del passo evangelico con il nostro è abbastanza esplicito e sembra che l’autore dell’Apocalisse rielabori liberamen- te quel testo secondo la sua prospettiva: a «vesti di pecora» corrispondono le «corna di agnello»; ai «lupi rapaci» corrisponde il «drago». Dunque il «drago» è paragonato ad un falso profeta. A qualcuno, cioè che usa la parola per ingannare, per affermare la menzogna. Un abuso che potremmo paragonare alla corruzione ed al plagio calcolato dei mezzi di comunicazione di massa. È una interpretazione avvalorata dal fatto che la seconda bestia in Ap 19, 20 sia chiamata: pseudo profetes, come in Matteo. Il falso profeta di Ap inganna in modo molto raffinato: emula la potenza di Cristo, ma – in verità – per essere strumento di sopraffazione e non di liberazione. il potere della «doppia» Bestia «E la potenza della prima bestia, la mette tutta in atto di fronte a lui e fa la terra e coloro che hanno casa in essa che adorino la bestia, quella prima» (v. 12). Il rapporto tra la prima e la seconda bestia viene chiarito: la prima possiede la capacità di potere e di influsso, ma è la seconda che permette a tutto questo potere di attuarsi, «di imporsi», un’opera che la seconda bestia realizza «al cospetto» della prima: c’è una sfumatura liturgica, dato che questa espressione («al cospetto di...») viene usata normalmente per parlare dello stare dinanzi a Dio, di colui che celebra atti di culto. Praticamente le due bestie sono una: la seconda è il braccio propagandistico della prima! La costruzione grammaticale sottolinea la presa diretta da parte della seconda bestia sugli uomini: «fa, forgia la terra e coloro che la abitano»: indica una azione im-mediata che tende a plasmare le persone, a plagiarle. Una azione diretta principalmente agli uomini che però è capace di compromettere anche la terra, poiché la asservisce ai propri progetti. Mentre la terra appartiene a Dio e deve anch’essa essere liberata («geme e soffre nelle doglie del parto» Rm 8,22) la bestia la modella, la soggioga ai propri scopi di potere e di sfruttamento. La seconda bestia agisce affinché l’umanità venga persuasa ad adorare la prima bestia: proskineo indica una adorazione soprattutto interiore. Più che da gesti esterni, l’adorazione della prima bestia è determinata da una convinzione della coscienza che porta a considerare la prima bestia come un assoluto e perciò ad assoggettarsi ad essa. Come non pensare al super potere dei mezzi di comunicazione, oggi, fuori o dentro le campagne elettorali? (continua) ROCCA 1 MARZO 2006 LA VOCE DEL DISSENSO siani, Alessandro Magno) intorno al periodo ellenistico (cf. Dn 7). Probabilmente l’autore di Ap vuole fondere i quattro imperi mondiali di Daniele in un’unica bestia: una super-potenza politica, militare ed economica, una potenza «globale», fonte e custode di un «pensiero unico». L’impero romano creava l’effetto di un’unica, grande potenza davvero schiacciante, benché apparentemente aperta e tollerante. Dal v. 11 in poi impattiamo, invece, in una seconda bestia, la quale non sale dal mare, ma «dalla terra». Appare, perciò, carica di una minore forza soprannaturale, perché proviene dagli uomini, dai solchi della storia: «E vidi un’altra bestia che saliva dalla terra e aveva due corna simili all’agnello e parlava come drago» (13, 11). Due sono le sue caratteristiche: le corna e la parola. Per quanto riguarda le prime esse formano la realtà esteriore, visibile, di una potenza aggressiva, ma fanno soprattutto pensare al Cristo che viene descritto con «sette corna» in Ap 5,6. L’unico altro «agnello» è, infatti, il Cristo, citato come tale per ben ventotto volte nel libro. Pur nell’apparente somiglianza c’è, tuttavia, la rivelazione di una inferiorità della bestia, la quale ha solo due corna: un confronto che si colloca sul piano dell’ambiguità e indica che la bestia cercherà di emulare e competere col Cristo, nella sua funzione di Salvatore dal male, nell’ambito storico. Proprio da ciò deriveranno situazioni di mistificazione, di sovrapposizione, di inganno. La seconda caratteristica della seconda bestia è la parola. Essa le conferisce la sorprendente facoltà del linguaggio che è, invece, dell’uomo. Ma proprio nel parlare la bestia rivela la sua natura interiore: anch’essa è pasta e strumento del Maligno (= parla come il «drago»). Queste ibride caratteristiche creano orrore e curiosità in chi si trova a contatto con la bestia. Il lettore deve saper riconoscere ciò che si nasconde sotto l’apparente veste di bontà, sotto l’aspetto simile al divino. Egli deve mettere in moto la sua intelligenza, la sua capacità di discernere, di «riconoscere dai frutti» la natura dell’albero. Rosanna Virgili 53 dire il peccato ROCCA 1 MARZO 2006 Lilia Sebastiani 54 ormai un problema pluridecennale della chiesa – già ben avvertibile ai tempi del Concilio –, e di solito viene delicatamente chiamato «crisi» del sacramento della Penitenza. Si potrebbe anche parlare di sparizione progrediente. Insomma un gran numero di cattolici anche credenti e praticanti (la maggioranza?) ha semplicemente smesso di confessarsi. E non è affatto in crisi per questo. Tra i giovani il fenomeno è ancora più vistoso, se si prescinde da certi eventi spettacolari più in ampiezza che in profondità, tipo Ggm: possiamo dire che la confessione viene di fatto abbandonata subito dopo il completamento dell’iniziazione cristiana Vi sono certo alcune isole di persistenza del sacramento anche se, quanto ai motivi è sempre difficile scindere l’esigenza spirituale dalla devozione e dall’abitudine; e vi sono certi santuari in cui le confessioni vengono distribuite massicciamente, come i santini e i souvenirs; e vi sono certi gruppi cattolici tradizionalisti, in cui il sacramento funziona a pieno ritmo (non sempre in primo luogo come sacramento, ma anche come controllo della vita intima e spirituale del singolo da parte dei superiori, comunque vengano chiamati). Anche senza volersi pronunciare su ciò che queste persistenze significano, resta comunque il fatto che a confessarsi sono soprattutto persone che, vivendo una vita di fede regolare, non hanno veramente bisogno di cambiare rotta. Per loro il sacramento costituisce in sostanza una pia pratica, magari anche una lodevole abitudine all’esame di sé; ma non certo un’esperienza di riconciliazione: la stessa frequenza con cui vi ricorrono, e la modesta portata delle mancanze che abitualmente accusano, impediscono di percepirlo esistenzialmente come un ritorno a Dio. Certo, per il suo carattere così privato il sacramento sfugge a ogni indagine statistica, è difficile dire chi si confessa, e quanto e quando… Non del tutto attendibile la testimonianza dei preti, che di solito ammettono la diminuzione, talvolta con accenti pessimisti e accorati, ma sono un po’ riluttanti È quando si tratta di dire, per esempio: in questo mese nessuno mi ha chiesto di confessarsi. Come se temessero di sembrare poco efficienti, poco edificanti, poco pastori; come se fosse un po’ colpa loro. Invece in questa cosa le ‘colpe’ dei confessori, pur se non mancano, non influiscono molto. Così come non influiscono più di tanto i meriti di quelli – e ve ne sono – che in questo ministero portano saggezza, sensibilità umana e un soffio di Spirito autentico. tante ragioni… Perché ci si confessa sempre meno? Crisi di fede, secolarizzazione imperante? Forse non solo. Tra coloro che hanno accantonato la confessione (la chiamiamo così tanto per intenderci e non dover ripetere ogni volta «celebrazione auricolare del sacramento della penitenza») ci sono credenti seri, la cui vita è eticamente e spiritualmente a livelli molto alti. Il rifiuto della confessione potrebbe invece essere in rapporto con una consapevolezza più matura ed esigente dell’appartenenza ecclesiale, che non trova più adeguata al proprio cammino personale e comunitario di vita cristiana la confessione a quattr’occhi, con un prete che talvolta può essere una persona spirituale e saggia e altre volte no, di «ogni singolo peccato mortale», secondo quanto ancora recita ancora la normativa vigente, come se tra l’altro fosse tanto facile e quotidiano e riconoscibile commettere peccati ‘mortali’ per un credente che viva sul serio il proprio cammino di fede. Sono tante le ragioni della cosiddetta «crisi», complesse e spesso convergenti ma anche contraddittorie, più e meno consapevoli, stratificate a diversi livelli. Nell’esistenza del singolo l’abbandono della penitenza sacramentale non è, di solito, un evento sofferto, e nemmeno programmato. È vissuto come progressiva disaffezione. In certi casi può essere accelerato da sgradevoli esperienze vissute con confessori indiscreti; ma non è questo, come si diceva, il problema principale. Oggi di fatto molti confessori sono validissimi, talvolta autenticamente saggi e illuminati, quantomeno hanno imparato ab- zato quando gli capita ancora di dover esercitare funzioni per le quali onestamente riconosce di non essere preparato. Nell’abbandono progressivo della confessione, ma ancor più nella perdita di senso del peccato, opera anche la progressiva decolpevolizzazione, sempre più largamente attuata, dei comportamenti sessuali che per tanto tempo hanno costituito il novanta per cento delle confessioni: autoerotismo, sessualità prematrimoniale o extramatrimoniale, contraccezione… le paure della chiesa Il Vaticano II nella Costituzione sulla Liturgia ha manifestato l’esigenza di portare innovazioni nel quarto sacramento, ma la vicenda della penitenza è uno degli ambiti in cui è più avvertibile la tensione tra rinnovamento e conservazione che caratterizza lo spirito e le due anime del Concilio, e i risultati non potevano essere felici. Le caute innovazioni sono state quasi azzerate in sede di applicazione. Il rinnovamento conciliare introduceva, accanto alla prima forma, che restava quella privata-auricolare tradizionale (ma che avrebbe dovuto essere arricchita con una più ampia e significativa presenza della Scrittura, peraltro rimasta lettera morta quasi sempre), altre due forme per ovviare al problema dell’approccio individualistico e privatistico al sacramento. La seconda forma prevedeva la riconciliazione di più penitenti, celebrata comunitariamente, ma con accusa e assoluzione individuale; la terza forma, la riconciliazione di più penitenti con assoluzione collettiva. Di fatto la prudenza della Curia romana, temendo che la diffusione della terza forma inducesse a mettere ancor più da parte la celebrazione individuale della penitenza, ha voluto riservarla a casi di assoluta necessità, ed è stato ripetutamente chiarito dal dicastero vaticano competente che un’affluenza eccezionale di penitenti in occasione di pellegrinaggi o feste religiose non costituisce motivo valido. Di fatto si hanno solo due possibilità di riconciliazione sacramentale, che poi nella sostanza sono una, perché mantengono la stessa modalità di confessione e assoluzione individuali: davvero troppo poco, per rinnovare un sacramento che era in piena crisi già quarant’anni fa. La seconda forma, che molti pastori dichiarano di prediligere, come se fosse l’optimum e potesse rispondere a tutte le esigenze (quella canonico-disciplinare di preservare a ogni costo accusa e assoluzione individuale, quella liturgica di una celebrazione più decorosa, meno individualistica e vivificata dalla Scrittura), nei fatti si rivela un ibrido singolarmente squilibrato, per chi possieda un po’ ROCCA 1 MARZO 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO bastanza, quasi tutti, a essere discreti (tanto da far pensare a una confidenziale raccomandazione diramata dal centro verso la periferia: non siate troppo scoraggianti, altrimenti fuggiranno anche quei pochi che non sono fuggiti ancora), ma questo non cambia le cose. Al livello più epidermico vi è il fatto che confessarsi, ovvero dire i propri peccati, era tradizionalmente umiliante («salutare umiliazione», ovvio!) e oggi, più prosaicamente, seccante e anche innaturale, per chi non sia abituato al discernimento e a scrutare la propria interiorità. Può essere disturbante, se in modo episodico si cerca di andare oltre la scorza più estrinseca del proprio agire senza che questo costituisca la tappa di un cammino nello Spirito e nella scoperta di sé. E chi regolarmente si accusa di banalità sempre uguali o quasi, non può non chiedersi: che senso ha tutto questo? «Perché devo dire i miei peccati a un prete?» è la domanda classica di qualcuno (che di solito ha già messo da parte la confessione, quando dice così). Un’altra difficoltà, meno sciocca di quel che potrebbe apparire dalla formulazione: che cosa dovrei dirgli? E questo dubbio adombra un’altra difficoltà, forse a un livello superiore di consapevolezza: quanto dovrei dire, quanto ho detto finora, è proprio peccato? Con ciò siamo vicini alla difficoltà di fondo, di solito inespressa: che cos’è il peccato? Da almeno mezzo secolo la gerarchia della chiesa lamenta la perdita del «senso del peccato», nella quale perdita anzi Pio XII riconosceva il vero peccato dell’epoca presente. È innegabile che il senso del peccato oggi sia piuttosto latitante. Ma questo significa forse che vi fosse un autentico e puro senso del peccato in altre epoche, solo perché assai più se ne parlava? E quanta parte ha nell’odierna perdita di senso del peccato quella banalizzazione di esso, quella polverizzazione/identificazione con i ‘peccati’ che la chiesa ha tollerato, anzi tacitamente incoraggiato nelle cosiddette confessioni «di devozione», purché confermasse i fedeli in un’umile dipendenza dal clero? E senza dubbio vi ha parte anche la progressiva perdita di ruolo del prete nella nostra società occidentale. Nessuno è più disposto a guardare al prete come giudice di comportamenti o consigliere esperto in umanità ipso facto, solo in base al suo ruolo istituzionale: se si distingue per saggezza e carisma è un altro discorso (ma ciò potrebbe valere anche per qualcuno che prete non è). Una volta era abbastanza invalso rivolgersi al prete anche semplicemente per consiglio, oggi chi ha bisogno di un consiglio in una situazione difficile tende piuttosto a rivolgersi a chi ha una più specifica competenza. Talvolta è lo stesso prete confessore a sentirsi imbaraz- 55 le ragioni della chiesa Ci piacerebbe dire che è una crisi (calo? eclissi? abbandono?) salutare, ma forse non è così, potrebbe esserlo ma non è ‘semplicemente’ e direttamente un fatto positivo. Dei rischi ci sono. Per dirlo in breve, soprattutto il rischio che, insieme alla pratica discutibile e rivedibile della confessione auricolare, vada perduta completamente anche l’abitudine a riflettere sulla propria situazione interiore, morale e spirituale, come avviene o dovrebbe avvenire quando ci si sforza di mettere in parole in qualche modo gli aspetti che si percepiscono come carenti. In questo senso veramente la crisi della forma tradizionale della penitenza diventerebbe causa di quella crisi del senso di peccato di cui costituisce essenzialmente un sintomo. Vi è il rischio che il senso di peccato (ammesso che qualche epoca lo abbia posseduto autentico e in larga misura, al di là della paura e dei sensi di colpa artificiosamente coltivati, cosa di cui dubitiamo), a forza di rimanere latente e inespresso, finisca di fatto con l’addormentarsi del tutto, o si confonda impastandosi con un vago senso di inadeguatezza e insoddisfazione, che interessa molto la psicologia ma scarsamente l’etica, perché di rado chiama in primo piano la coscienza personale. ascoltare la crisi ROCCA 1 MARZO 2006 A questo punto dovrebbe venire il «cosa fare?». Ma, in primis, non lo sappiamo, e in secondo luogo non sappiamo se sia il caso di impegnarsi in una battaglia già persa. Le strategie fin qui attuate hanno avuto esiti trascurabili, se non controproducenti. Crediamo però che una crisi di questo genere – se proprio si vuol continuare a parlare di crisi anziché di eclissi – vada ascoltata, prima ancora che affrontata in qualsiasi modo. Occorre ascoltare, attenti a ciò che la crisi significa. Rifiutando di confrontarsi con il fenomeno nella sua effettiva consistenza e nelle sue cause, la chiesa si ritrova anche in questo scavalcata e lasciata indietro da una storia che procede sempre più in fretta, incurante dei tempi tradizionalmente lunghi della saggezza ecclesiastica; e non sono state elabo56 rate (né potevano esserlo) delle soluzioni, al di là delle solite esortazioni che lasciano il tempo che trovano: esortazioni ai fedeli affinché si confessino, o ai preti affinché siano generosamente disponibili in orari comodi per i fedeli che avessero l’idea di confessarsi… Non crediamo che si possano o si debbano ricercare soluzioni volte a ‘incrementare’ la confessione auricolare. Quello che semmai si dovrebbe incrementare, cioè far crescere, soprattutto nella qualità, è la riflessione etica in positivo, in modo tale da favorire lo sviluppo di un cristianesimo adulto e da favorire il dialogo in termini etici con il mondo. È anche importante favorire gli incontri di preghiera incentrati sulla conversione permanente e sul discernimento, da vivere come occasione stimolante e gioiosa di approfondire le proprie motivazioni e la direzione del proprio viaggio nella vita. E occorre avvalorare la presenza della Scrittura nel momento penitenziale. Gesù ha posto la conversione al centro del proprio messaggio, come risposta umana al dono di Dio, ma alla confessione dei peccati non sembra aver dato importanza: la confessione del peccato appare talvolta implicita e silenziosa, altre volte nemmeno ben presente alla mente di chi viene perdonato. In certi casi (pensiamo a Zaccheo) segue il perdono, come un effetto, non lo precede come una condizione necessaria. Stemperare la prassi della confessione privata e avvalorare la celebrazione penitenziale comunitaria avrebbe anche un importante significato ecumenico ai fini del riavvicinamento con le chiese riformate, come fu detto anche in un documento (L’unità davanti a noi) pubblicato nel 1984 dalla Commissione congiunta cattolico-luterana. Nessun sacramento nella chiesa è tanto cambiato quanto la penitenza, nei modi della celebrazione: il modo che ci è familiare risale al Medio Evo e nei primi secoli era sconosciuto. Sarebbe tanto improponibile un cambiamento reale, coraggioso, che venga incontro alle esigenze spirituali e all’evoluzione culturale dei nostri contemporanei? Esigenze ed evoluzione non vanno sempre e solo in cerca di cose più ‘facili’, ma soprattutto di un vissuto cristiano adulto propositivo e ricco di senso. Forse si dovrebbe anche riscoprire, in modo adatto alle esigenze del nostro tempo, e non necessariamente clericalizzato, quella che una volta si chiamava la direzione spirituale. Ma questo è un altro discorso. Forse ci torneremo un’altra volta. Lilia Sebastiani CINEMA Giacomo Gambetti M atch Point è il film più recente di Woody Allen (naturalmente sono suoi anche soggetto e sceneggiatura, con molti riferimenti a varia letteratura), questa volta girato – ed è una assoluta novità – non nell’amata e familiare Manhattan, ma a Londra. L’ambiente scenografico londinese del film di oggi è comunque assai simile alla consueta Manhattan cinematografica di Allen. Diremo piuttosto che c’è una sorpresa, nella filosofia del racconto: per la prima volta, messa da parte la psicanalisi, Allen sostiene che è il «Caso» il vero arbitro della vita e di ciò che a ciascuna persona succede. Il simbolo di questa teoria è una pallina da tennis che, toccando la rete, può cadere di qua o di là del campo dei due giocatori, cambiando così il valore del «punto» («match point», oppure no). Ma, assai prima di Allen, due grandi registi, lontanissimi fra loro, René Clair e Krzysztof Kieslowski, nelle loro teorie e con le loro opere hanno fortemente sostenuto il valore spesso decisivo – vita o morte – del Caso. Non sappiamo se Woody Allen conosca le opere dei due registi (rispettivamente anni ’30’40- ’50- ’60-, e ’80- ’90 del secolo scorso, Francia e Polonia): ma, perché no? Match Point segue in ogni modo una sua strada, prettamente legata al suo regista. Del resto, anche il valore – diciamo – simbolico del gioco del tennis (una volta a te, una volta a me) era già stato ampiamente sostenuto e illustrato da Michelangelo Antonioni in Zabriskie Point. La storia del film è, nella sostanza, quella del giovane Chris, insegnante di tennis e nulla più, cui tocca per allievo il coetaneo Per amore o per forza Match Point Tom, ricco rampollo di una famiglia di alta borghesia, con sorella Chloe, madre e padre, quest’ultimo assai ricco, generoso e di buon carattere. Con un arrivismo apparentemente casuale, Chris si introduce sempre più nella famiglia. Di lui si innamora Chloe, ma lui si innamora di Nola, bella e seducente ragazza americana, fidanzata di Tom. Il film va avanti a lungo sviluppando sempre più queste sue basi iniziali; ma poi prende una forse inattesa e forzata accelerazione nella parte finale. Tom lascia Nola e sposa una brava londinese. Anche Chris, che nel frattempo, naturalmente, fa molta carriera nelle società del padre di lei, sposa Chloe, semplice, buona e affezionata. Ma la relazione tutta passionale fra Chris e Nola, che precedeva il matrimonio, continua, fino al punto che Nola aspetta un figlio, quel figlio che anche Chloe vorrebbe e che il matrimonio tarda a darle. Per concludere, Chris prende di nascosto un fucile da caccia dalla ricca armeria del suocero, inventa un abile e cinico marchingegno e finisce con l’uccidere Nola. C’è naturalmente un’inchiesta della polizia, ma la messinscena di Chris sembra funzionare. Un giorno però un detective fa cadere in contraddizione Chris sull’avere egli conosciuto o no Nola e... sorpresa sorpresa, gli mostra un diario ritrovato, in cui Nola ha scritto in ogni particolare tutta la loro storia, nomi, cognomi, indirizzi. Chris ovviamente non può non confessare la relazione con lei, ma altrettanto ovviamente nega l’omicidio (di cui d’altronde non ci sono prove a suo carico). E chiede al detective che tale sua infedeltà non sia rivelata alla moglie e alla famiglia. Il detective non è del tutto convinto dell’innocenza di Chris, però alla fine l’innocenza di Chris è ufficializzata: la pallina del tennis è caduta al di là della rete, il punto vale a favore (chi scrive non è del tutto d’accordo sulla non importanza delle qualità personali, e quindi sul valore assoluto del Caso: infatti, anche Chris mette molta abilità personale e malefica intelligenza per raggiungere il proprio scopo). Il film, piuttosto, ha un andamento, come si è accennato, irregolare. È estremamente calibrato, sottilmente documentato e lineare, per i primi tre quarti, così come è troppo accelerato e sovrapposto per il rimanente. E non manca in noi un lieve dub- bio di qualche autobiografismo, da parte del regista, stando alle cronache (con un leggero disagio nello spettatore, non abituato nei film di Allen a scene di così aperta evidenza sessuale, disagio che – ci si perdòni – sfiora il ridicolo all’apparire nel finale delle «ombre» delle vittime, in una «irrazionale» inquadratura del «razionalissimo» Allen). Ma c’è sicuramente, in Match Point, grande raffinatezza, c’è un uso quanto mai preciso e ragionato della macchina da presa: in tutta la lunga prima parte, ad esempio la macchina non abbandona quasi mai il primo piano o al massimo il piano medio, vuole i personaggi a propria completa disposizione. Come quasi sempre nei film di Woody Allen (che qui non recita), gli attori sono strumenti evidenti e duttili nelle mani del regista; non devono avere speciale personalità ma essere funzionali, anche fisicamente, ai rispettivi personaggi. A parte Scarlett Johansson, gli altri sono tanto pressoché sconosciuti quanto utili. E diciamo che non a caso Chris e Tom hanno figure fisiche molto simili e quasi si confondono: sono, a ben guardare, le due facce di un medesimo personaggio. È da mettere in speciale evidenza che il commento musicale non è, questa volta, ispirato alla storia del jazz, ma quasi tutto e clamorosamente di opera lirica italiana (di cui Chris e Tom sono entrambi appassionati), con molte grandi «romanze» della verdiana Traviata (Nola?), cantate tutte (o quasi) dalla voce unica, storica, fondamentale, luminosa, inimitabile di Enrico Caruso. Corretto, ci sembra, tecnicamente, il doppiaggio, ma troppo scolastico: i dialoghi e le voci sono da scuola di dizione o poco più. ❑ 57 ROCCA 1 MARZO 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO di sensibilità celebrativa: c’è molta sproporzione tra la solennità della prima parte, quella comunitaria, che però si riduce a una ‘premessa’, e la seconda parte in cui la preparazione solenne e corale sfocia (o abortisce) in un’accusa individuale dei peccati anche più frettolosa e insignificante del solito. RF&TV ARTE Roberto Carusi Renzo Salvi Mariano Apa Vita e morte di Pasolini ROCCA 1 MARZO 2006 D ell’insolito spettacolo ‘na specie decada-vere lunghissimo, ideato e interpretato da Fabrizio Gifuni, mi aveva colpito la dichiarazione con cui il giovane attore ne aveva parlato ricevendo il Premio Hystrio 2005 proprio per questa opera teatrale. Assistendo alla sua rappresentazione – nel corso di una variegata rassegna di interventi spettacolari e culturali per il trentesimo anniversario dell’uccisione di Pier Paolo Pasolini – ho capito quello che Fabrizio Gifuni voleva dire. Parlava infatti (nonostante le sue recenti affermazioni come protagonista del film La meglio gioventù nonché nei panni di De Gasperi nella biografia televisiva dello statista) dell’entusiasta ansia di tornare a questo suo lavoro teatrale. Difatti lo sta ancora portando in tournée e nell’esito notevolissimo si ritrova tutto il suo impegno come uomo di teatro. Dei famosi scritti di tema politico e soprattutto sociale del poeta friulano Gifuni si è avvalso nel suo montaggio. E li espone – nella prima parte dello spettacolo – con convinta adesione, guardando in faccia uno per uno gli spettatori tra cui si aggira, evidenziandone il carattere sofferto e riflessivo. Quindi senza soluzione di continuità ecco – dopo i tanti interrogativi aperti dei quali, a trent’anni di distanza, si colgono meglio gli straordinari accenti profetici – il colpo di scena. Abbandonati gli abiti del laico e critico testimone 58 del mondo a lui contemporaneo, Pasolini/Gifuni – in completa nudità allegoricamente sacrificale – va ad indossare quelli di chi lo uccise. Il quale parla in prima persona tramite i versi in romanesco composti da Giorgio Somalvico, di sorprendente violenza e raffinata perfezione metrica. Acchittato nel candido abito dell’expischello di periferia che della sua vittima non conosce neppure il nome (tanto che lo confonde con Petrolini), Gifuni passa dalla pacata asserzione dei più forti «credo» pasoliniani al monologo allucinato e crudo del suo carnefice, tra sussurri e grida, scatti e balzi che lo portano in tormentato giro per la scena. Il suggestivo trapasso drammaturgico da un clima all’altro – diretto con apprezzabile linearità registica da Giuseppe Bertolucci – giustifica quel che spesso Gifuni stesso ha detto di questo suo spettacolo citando Dottor Jekyll e Mister Hyde. Un’opera teatrale, la sua, capace di efficace coinvolgimento e che tuttavia non cede a moduli scontati né a contingenti facilonerie, in toccante sintonia con le traduzioni dello stesso Pasolini della tragedia classica laddove esse sottolineano un terribile fato non soprannaturale ma tutto disumanamente umano. A Milano la rassegna in cui lo spettacolo di Gifuni è stato replicato per una decina di sere si è svolta tra le spoglie strutture architettoniche del Palazzo della Ragione, in Piazza dei Mercanti. ❑ Torino 2006 S eguire dal teleschermo la cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici è un po’ come essere rimandati alle origini, ormai remote, della Tv. Era accaduto per le Olimpiadi di Sidney e per quelle di Atene: «Radiofonia e televisione – recitano i Dizionari sociologici a tema – hanno svolto entrambi, all’origine, un’attività celebrativa e imbonitoria. Le prime radiotrasmissioni furono dedicate alle elezioni presidenziali statunitensi del 1920 e al match pugilistico Dempsey-Carpentier del 1921. Le prime teletrasmissioni furono dedicate, in Usa, alla Fiera mondiale di New York del 1939». Torino 2006, per le Olimpiadi invernali, non ha fatto eccezione, con una serata inaugurale a forte caratterizzazione pro-televisiva che ha inserito in quella narrazione del mondo condivisa che è la Tv medesima, un attraversamento progressivo di situazioni, simboli, emozioni e figure che, in parte (e forse) sono davvero gli elementi identificativi del mondo italiano nella sua storicità, ma che, soprattutto, rappresentano quel che sian ridotti a desiderare come radice, dopo che le realtà che ne erano alle origini risultano perdute in vortici contemporanei senza qualità. La «rude razza pagana» (operaia) non poteva mancare di un richiamo nella Torino (già) industriale: e Yuri Chechi – un po’ sovietico sin nel nome – è stato collocato ad evocarla in figura di Vulcano post-moderno posto a battere – a pieno schermo – una gran fuoco d’incudine. E tra cronologie e anacronismi, l’Ulisse di Dante Alighieri è stato scandito mentre si sfogliavano librone cartografie remote; il medioevo s’è richiamato con le sbandierate dei (già) liberi comuni; il te- atro delle corti ha sommato in scena Rinascimento e Barocco, con magnificenza di costumi, il futurismo (scelta coraggiosa degli organizzatori) ha sorretto il tema del teatro di danza, qualitativo ma difficile da rendere sullo schermo dall’interno di quella situazione scenica. Come poi, quasi in apertura, una figura atletica gigante è stata costruita sul ghiaccio dall’accostarsi di pattinatori, così, quasi in chiusura, non è mancato il comporsi della figura, resa in acrobazia verticale, di una colomba della pace. Su tanto sfondo, la retorica ha potuto essere persin contenuta: intanto entravano le squadre e le bandiere nazionali e la bandiera olimpica sostenuta da otto donne di diversa notorietà. E la Tv faceva la sua parte portando a pieno schermo – buona la regia: poche davvero le incertezze – danze acrobatiche e Ferrari rombanti, Veneri modelle e una bimba (una caduta questa) a cantar l’inno di Mameli. Una serata da apprezzare, dunque? Al di là di quel tanto di inevitabilmente celebrativo ed imbonitorio, certamente sì. Di buona qualità comunicativa, oltre tutto: una delle pochissime, in stagione, di RaiDue. Il fatto che, ora, tutta la Tv sia diventata un gigantesco, e talora disdicevole, parco dei divertimenti per passare il tempo rendendosi partecipi di stranezze, facendosi leggere le carte in diretta o seguendo le performance della donna/uomo cannone elevata/o ad opinionista... non toglie, infatti, che la Tv stessa, in alcuni momenti (già questo fa differenza) possa configurarsi come un Luna Park nel quale addentrasi con qualche indulgenza: per il Luna Park, per sé stessi e per chi ne cura la messa in scena. ❑ MOSTRE Michele De Luca Alba T ra il Monferrato e le Langhe, tra Cuneo e Torino, Alba riposa guardando la cortina delle belle Alpi Cozie con le valli del Po, della Varaita, della Maira. In questa geografia le strade sono continui incroci tra possibilità infinite a disegnare i luoghi della frontiera, quale analogica frontiera dallo spazio al tempo attraversando, tra secoli e altri secoli, il rincorrersi e confondersi di poetiche e capaci linguaggi a nominare i misteri del nostro pellegrinaggio sui bordi dell’esistenza che si può indicare, se pur con facile retorica, autentica frontiera disposta tra il nulla e il tutto. È un pensiero laico che discende da Rosmini e Gobetti a informare la metodica di queste ricerche che riconduce al natio borgho l’opera trafugata e scomparsa: «Napoleone e il Piemonte. Capolavori ritrovati», con le opere che il barone Dominique Vivant Denon, per conto di Napoleone, aveva fatto prelevare nei luoghi conquistati dalle armate. Si tratta ovvero di ricondurre al vissuto antropologico, della cultura di quel particolare territorio in quella data cronologia, la storia dell’opera in quanto documento di civiltà; e il tutto rivoltando la deleteria ideologia del «territorio», uccidendo la compiacenza psicologistica dell’estetismo per i così detti «primitivi», impalando alla sommità del disincanto la falsità del «Ritorno nostalgico» per assicurarsi la verità del respiro europeo proprio in quel viaggiare nella storia e nella geografia del continente Europa alla ricerca sempre, ieri con Napoleone oggi con l’Euro, di se stessa Europa. Si deve alla lungimiranza della Fondazione Ferrero e alla intelli- genza storico critica di Giovanni Romano con la Soprintendenza piemontese, con Carla Enrica Spantigati la riuscita di un progetto che onora l’Italia e l’Europa legando idealmente questa mostra, con la precedente programmazione ad Alba ( da «Macrino d’Alba» del 2001 ai «Tesori dal Marchesato Paleologo» del 2003, e il volume sul Giuseppe Vernazza – a cura di Lucetta Levi – e il Convegno sulla «Fortuna dei Primitivi»), alle parigine esposizioni del 2004: «Primitifs francais» e «Le dévoilement de la couleur», là dove ci si interroga sul medesimo tema del tempo storico che scorre di contro ad una bergsoniana durata che nella coscienza fa vivere un «tempo senza tempo» (per ricordare l’intuizione di Zeri – «arte senza tempo» – sulla nascita dell’arte sacra). Il pregevole volume della Artistica editrice di Savigliano, per la cura di Bruno Ciliento e Massimo Caldara, documenta benissimo la mostra e il lavoro svoltosi tra archivi e biblioteche, e sembra di poter ancora ascoltare i racconti dell’abate Giuseppe Incisa e di rileggere, dal Lanzi al Cavalcaselle, quelle Storie dell’arte che hanno costruito il corpo vivo di un indagare umanistico, aristocratico e dunque popolare, del fare storia dell’arte anche quale speranza farmaceutica a ritemprare e proprio guarire il corpo malato della italica fanciulla Italia: e così mai è stata più sincera e vera l’affermazione che la presidente della Fondazione Ferrero, Maria Franca Ferrero, scrive nella sua presentazione: «Mostra che il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha voluto porre sotto il Suo Alto Patronato: riconoscimento che ci onora e per il quale lo ringraziamo profondamente». ❑ Viaggio alle Alpi R iapre a Torino, dopo oltre due anni di lavori di risistemazione, il Museo Nazionale della Montagna «Duca degli Abruzzi», con una mostra che ci propone un viaggio ormai definitivamente «perduto» nelle Alpi, di cui rimane ora soltanto un’immagine variopinta ed accattivante, ma anche densa di nostalgia per una favola che può affascinarci ora soltanto attraverso antiche fotografie, oppure attraverso quei manifesti che parlavano dai muri delle città europee a cavallo tra Otto e Novecento. È in questo periodo, infatti, che la catena alpina conosce un nuovo tipo di approccio, che non è più quello di eruditi e di scienziati, ma quello, prima d’élite e poi sempre più «di massa», dei turisti. Siamo alle origini del turismo alpino, favorito dalla modernizzazione che accompagna il nuovo secolo, un fenomeno di costume che coincide con una più larga possibilità di raggiungere i luoghi di montagna, con strade ferrate e corriere postali che vengono a sostituire le carrozze, e di accedere a vette e sommità con funicolari, cremagliere, funivie; nascono grandi e confortevoli alberghi, per villeggiare d’estate e praticare d’inverno lo sci. Per incrementare questo nuovo fermento turistico un ruolo di primissimo piano ebbe la grafica pubblicitaria, che allora si chiamava ancora réclame. Chi di pubblicità certamente si intendeva, e cioè Armando Testa, presentando oltre quindici anni fa la mostra «Le montagne della pubblicità», presso lo stesso museo, ebbe a scrivere che «i manifesti apparsi negli anni precedenti all’arrivo del marketing e della fotografia – cioè prima della metà degli anni Cinquanta – sono più sognanti e fantasiosi, meno legati alla legge imperativa della vendita», e che i cartellonisti «erano bravissimi grafici ma non erano dei pubblicitari veri e propri»; anche per questo le loro opere, che certo includevano un «messaggio» invitante al potenziale consumatore, sono sopravvissute alle ditte e ai prodotti che reclamizzavano, come autentico risultato di creatività e di fantasia, oltre che come testimonianza di atmosfere irripetibili e di quello che usa chiamarsi «immaginario collettivo» di epoche che appaiono tanto lontane. La mostra propone un’ampia scelta di manifesti, curata da Annibale Salsa, tutti provenienti dalla collezione del museo, che fanno ripercorrere un godibilissimo itinerario tra incantevoli paesaggi, gustosi bozzetti, alpeggi e strapiombi, svolazzanti pattinatrici e paffute valligiane. Ma la mostra è anche un «viaggio» nel lavoro grafico di veri artisti, come Otto Berner, Henry Tanconville, Gustav Jahn, Depero, Roger Broders, Jacomo Muller, Geo Dorival, Robert Bernhard, Herbert Leupin, Gino Boccasile, ma anche di tanti, non meno bravi, rimasti anonimi. ❑ 59 ROCCA 1 MARZO 2006 TEATRO SITI INTERNET Alberto Pellegrino Ebay.it C ROCCA 1 MARZO 2006 L ’opera Elegia per giovani amanti di Hans Werner Henze, composta nel 1959-1961 su libretto di W. Hugh Auden e di Chester Kallman, ha costituito il «fiore all’occhiello» della Stagione lirica 2005/2006 del Teatro delle Muse di Ancona, in quanto rappresenta un esempio di opera contemporanea dove un nuovo linguaggio musicale si fonde con un testo di alto valore poetico. In un piccolo albergo delle Alpi austriache, vive nel 1910 un microcosmo umano, che ruota intorno al poeta Gregor Mittenhofer, un vero demone dell’arte pronto a sacrificare tutto al suo egoismo di superuomo decadente. Nell’albergo vive Hilda Mack, una donna resa pazza dal dolore, che aspetta da quarant’anni il ritorno del marito morto il giorno delle nozze sul Monte Hammerhorn. Mittenhofer, che ha al seguito la segretaria Carolina von Kirchestetten, il medico personale Wilhelm Reischmann e la giovanissima amante Elizabeth Zimmer, frequenta l’albergo per trarre ispirazione dalle visioni e dai folli discorsi di Hilda. La vita si svolge in un clima di subdola e angosciosa nevrosi, ma questo precario equilibrio si spezza con l’arrivo del figlio del dottore, Toni, che s’innamora di Elizabeth, la quale lo ricambia con altrettanta passione. Il ritrovamento del corpo del marito, fa recuperare ad Hilda la ragione, per cui il poeta perde d’un colpo la giovane amante e l’anzia- 60 Luigi Bovo Giovanni Ruggeri Elegia per giovani amanti na visionaria. Di fronte all’amore dei giovani Mittenhofer recita la parte del grande poeta afflitto da una tristezza senile e finge di benedire la loro unione con paterna nobiltà, anzi annuncia di voler scrivere un poema intitolato I giovani amanti, chiedendo a loro in cambio solo una stella alpina. I due giovani vanno sulla montagna, mentre una guida alpina annuncia l’arrivo di una bufera di neve, ma Mittenhofer dice che nessuno è salito sull’Hammerhorn, rendendosi responsabile di un duplice omicidio; quindi si reca in un teatro di Vienna per declamare la sua Elegia per giovani amanti, chiuso nella sua solitaria follia artistica. L’Elegia per giovani amanti è stata diretta dal M° Lothar Koenings ed eseguita da un ottimo cast internazionale formato da Davide Damiani, Elizabeth Laurence, Isolde Siebert, Ruth Rosique, Johan Bellemer e Roberto Abbondanza. La regia, le scene e i costumi di Pier Luigi Pizzi hanno conferito allo spettacolo le consuete, magiche atmosfere con un impianto scenico dal fascino austero, allusivo del clima di angoscia e di torbidi sentimenti che incombe sull’intera opera. ❑ onvinti, come siamo, che una delle principali funzioni di Internet sia quella di essere un servizio che semplifichi, faciliti e ottimizzi le pratiche e le necessità della vita quotidiana, segnaliamo con piacere un anniversario che riguarda il più grande sito italiano (e mondiale) di aste on-line. Ha infatti appena compiuto 5 anni (venne fondato nel febbraio 2001) www.ebay.it, struttura italiana nata dalla filiazione del colosso americano www.ebay.com (attivo negli Usa dal settembre 1995) e a buon diritto definibile come la più grande piazza virtuale per la compravendita di qualsivoglia oggetto, aperta e accessibile a tutti, tanto per la vendita quanto per gli acquisti. Data la responsabilità insita nel trattare questo o quell’argomento, ci permettiamo per una volta di premettere una valutazione molto personale: siamo di coloro che, abituati diciamo così un po’ «all’antica», hanno esitato a lungo prima di apprezzare convenientemente la funzione delle aste on-line, volendo testarne (in definitiva) l’affidabilità delle transazioni, a livello tanto di prodotti quanto di sicurezza di pagamento. Ebbene, una prolungata e prudente micro-esperienza personale, oltre a voluminosi dati di macro-mercato, ci induce a segnalare oggi eBay.it come valido strumento di servizio in questo ambito specifico. Di che si tratta, in pratica? Il sito si presenta come un’enorme vetrina, ripartita per generi, dove chiunque può mettere in vendita (e cercare per l’acquisto) di tutto: oggetti tecnologici o prodotti artigianali, libri o dischi, viaggi o veicoli, strumenti musicali o prodotti tipici… insomma proprio di tutto. L’oggetto può essere messo in vendi- LIBRI RIVISTE ta a prezzo fisso oppure con un meccanismo d’asta, che parte da un prezzo fissato dal venditore e che, entro il periodo di tempo precisamente determinato e segnalato dal sito, può conoscere tutti i rialzi e rilanci che gli utenti vorranno. Una previa registrazione e un sistema di valutazione della transazione attestano l’affidabilità del venditore, mentre il sistema di pagamento è affidato o ad un sistema sicuro gestito dallo stesso eBay.it (si tratta di PayPal, società Usa specializzata nelle transazioni economiche, che a livello mondiale ha finora movimentato operazioni per un controvalore di 27,5 miliardi di dollari), oppure ad altre procedure che venditore e acquirente possono privatamente concordare (contrassegno, bonifico bancario, vaglia postale, Poste Pay ecc.). Ogni mese sono 6 milioni e 200 mila i visitatori unici che in Italia vanno su eBay.it, dove – tanto per dare un’idea – viene venduta un’auto o moto ogni 10 minuti, un orologio ogni tre minuti e mezzo, un cellulare ogni minuto così come un pezzo d’arte, un fumetto ogni 54 secondi, un Dvd ogni 36 secondi, mentre a livello mondiale – divertente e insieme impressionante saperlo – sono stati venduti persino un jet privato per quasi 5 milioni di dollari o un call center con 76 postazioni telefoniche ed informatiche. Il ritornello, scontato ma utile da ricordare, è sempre quello: Internet, quando è costruito e strutturato su parametri di funzionalità e sicurezza, è una formidabile risorsa. Ricca come è ricco l’immenso paesaggio umano (non c’è dubbio: finito e precario...). ❑ Carlo e Rita Brutti (a cura di) La psicoanalisi che viene, Coscienza e Affetto Ediz. Eidon, Perugia 2005, pp. 232 Il secondo numero de La psicoanalisi che viene è una attività dell’Istituto di Psicosomatica Psicoanalitica Aberastury di Perugia, presso il quale si svolge anche una Scuola quadriennale di specializzazione riconosciuta dal Ministero Istruzione Università e Ricerca. La finalità è quella di fornire strumenti di ricerca al servizio di una psicoanalisi che non evita l’impatto con le difficoltà drammatiche che contrassegnano la nostra fase storica e che allo stesso tempo conserva la fiducia di una crescita umana in senso positivo. Coscienza e Affetto presenta l’interesse della psicoanalisi per il fecondo procedere di alcuni settori scientifici, senza però svendere l’autonomia metodologica e la specificità delle sue tradizioni culturali. Scrive L. Chiozza, che di questo orientamento è l’ispiratore e il promotore: «L’Epistemologia che emerge dalla Biologia, dalla Fisica e dalle Matematiche avalla il pensiero che ogni scienza concettuale (che si tratti della geometria euclidea, del concetto chimico di valenza, dell’organizzazione orbitale degli elettroni dell’atomo, della teoria delle supercorde, della forma di una cellula cerebrale colorata con i sali d’argento o della struttura di un glomerulo renale) è una rappresentazione che mantiene un certo grado di concordanza con le esperienze realizzate, ma non è la realtà stessa» (p. 160). E i curatori del libro, Carlo e Rita Brutti, possono a loro volta aggiungere: «Abbiamo tentato di mettere in evidenza che l’aver enfatizzato la scoperta dell’inconscio senza la correlata deconnessione di psichico/ cosciente, ha avuto come conseguenza l’inquadra- mento della scoperta freudiana in una epistemologia dualista. Anche oggi, infatti, si può rilevare che il pensiero psicoanalitico più consensuale permane in questa epistemologia che, ad esempio, condivisa con le neuroscienze, ne media l’incontro e l’auspicata integrazione. Tale operazione, salutata da psicoanalisti e da neuroscienziati come il ritorno di Freud all’alveo della ‘vera scienza’, ci appare un preoccupante segnale della decadenza della psicoanalisi» (p. 23). Non è possibile rendere conto, nemmeno in forma succinta, del contenuto dei lavori degli Autori (Gustavo Chiozza, Luis Chiozza, Filippo Mignini, Raimon Panikkar, Viktor von Weizsäcker, oltre ai curatori). Sono tutte ricerche svolte con grande impegno e ampio corredo critico ed esposte, aggiungerei, con attenzione comunicativa in modo che il lettore e possa seguire, non dico agevolmente, perché si tratta di itinerari inediti e ne senta il bisogno di ulteriori sviluppi e quindi di fecondi riscontri critici. Vorrei però far emergere l’importanza e la portata delle teorie conoscitive su cui «la psicoanalisi che viene» sta misurandosi, sottolineandone la modalità di consapevolezza propositiva che costringe a prendere posizione al riguardo. Luis Chiozza, che è all’origine di questo orientamento teorico, che si fonda sul pensiero di Freud e lo ha profondamente rinnovato sotto l’aspetto metapsicologico, metastorico e metodologico, non esita ad affermare che la «questione ultima», il to be or not to be di Shakespeare, è cambiata: «non si radica nell’essere, che è antico, ma nel patico potere: potere o non potere» (p. 158). ❑ Angelo Del Boca Italiani brava gente? Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 318 Gianmaria Zamagni La teologia delle religioni di Hans Küng Edb, Bologna 2005, pp. 129 È un libro necessario, che spazza, in tempi di revisionismo, ogni sorta di autoassoluzione dei periodi più bui della storia italiana degli ultimi 150 anni. Oggi che molti, grazie anche ai post fascisti al potere, cercano di riscrivere la storia a modo loro l’opera di Del Boca squarcia il velo di oblio. L’Autore, che per decenni ha combattuto contro il muro di gomma del mancato riconoscimento delle nostre colpe coloniali, documenta ancora una volta i tanti orrori perpetrati in Africa e non solo. Dall’utilizzo dei gas ufficialmente riconosciuto solo nel 1996, 60 anni dopo il loro utilizzo, alla politica di sterminio operata in Cirenaica (Libia) per eliminare la guerriglia, alla pulizia etnica operata in Slovenia dal fascismo. L’Autore elenca una lunga serie di crimini di cui si sono macchiati i nostri militari non solo durante il fascismo ma anche prima. A differenza delle altre potenze che non si sono nascoste dietro al dito di un comportamento «diverso», appunto «italiani brava gente» che non ha alcun fondamento storico, gli italiani hanno costruito grazie a questo mito un immaginario collettivo che ci vede assai meno responsabili di altri.In una fase di razzismo e xenofobia dilagante è sacrosanto riconoscere le nostre responsabilità per realizzare una società basata sul multiculturalismo. Il volume – che, esplicitandolo, segue un itinerario ben preciso che dalla questione della salvezza dei non cristiani giunge sino alla discussione sull’etica mondiale – affronta tutta una serie di tematiche proprie del pensiero künghiano, ma al contempo strettamente relazionabili al panorama del dialogo fede/ ragione. Il confronto con il laico è sempre dietro l’angolo, come è ovvio, quando Zamagni tratta di cristianesimo autentico e di secolarizzazione; l’indagine non scade mai a mera ripetizione delle tesi di Küng, tende piuttosto a dialogare, appunto, con le implicazioni di ordine etico, filosofico nonché socio-politico di quelle tesi, di quelle pagine che in particolare tra il 1964 e il 1990 il teologo si è trovato spesso a dover difendere con energia intellettuale ed eccezionale tenacia. Ecco la dialettica interreligiosa o meglio intrareligiosa; ecco la progettualità di un’etica che non rimuove la realtà della globalizzazione, ma che anzi da essa muove per accostarsi il più possibile alle persone che scopriamo – ognuna diversa e ognuna con la propria identità aperta – dietro le sigle, sotto alle categorie, nel rovescio delle istituzioni, tra le pieghe delle comunità; ecco, ancora, un’approssimazione ‘adulta’ alla trascendenza che prende le mosse da una «teologia in cammino» e, forse soprattutto, capitinianamente da un sentimento religioso dal basso. Resta peraltro aperto l’interrogativo sull’effettiva «veracità» dell’essere cristiani affermata da un Küng perentorio (cfr., p. es., pp. 60-62) sulla scorta del nucleo sostanziale di incondizionatezza della fede, come del resto rimangono aperte le polemiche sulla produzione di un teologo decisamente scomodo. Luciano Bertozzi Giuseppe Moscati 61 ROCCA 1 MARZO 2006 MUSICA Bangladesh ROCCA 1 MARZO 2006 S tato dell’Asia meridionale, situato nel subcontinente indiano, il Bangladesh è delimitato da ovest a est dall’India, a sud-est dal Myanmar, e a sud si affaccia sul Golfo del Bengala. Estendendosi sul delta del Gange, dove i geografi d’Europa durante il medioevo ritenevano si situasse il paradiso, il Bengala, intorno al XVI secolo, era stimato la zona più ricca di tutto il subcontinente. La storia della regione si articola su un avvicendarsi di imperi indiani, di disordini interni e di scontri fra buddhismo e hinduismo. A tutto ciò si aggiunse un’irresistibile ondata di islam che travolse l’India settentrionale verso la fine del XII secolo. Con l’arrivo dei portoghesi, già nel XV secolo, la dinastia dei moghul subì un profondo declino. Costretti ad abbandonare il Paese nel 1633 a causa dell’opposizione locale, i portoghesi lasciarono il posto agli inglesi che, attraverso la Compagnia delle Indie Orientali, governarono il Bengala, creando una struttura sociale ben organizzata e centri di commercio di altissimo rilievo. La presenza dei britannici, da una parte costituì un sollievo per la minoranza hindu che collaborava con gli inglesi, dall’altra rappresentò una catastrofe per i musulmani che si rifiutavano di collaborare, fomentando continui disordini. Nel 1947 l’India conseguì l’indipendenza, ma gli atavici contrasti di carattere religioso esistenti tra musulmani e hindu, spinsero gli inglesi a dividere il 62 subcontinente. Il Bengala Orientale assunse il nome di Pakistan Orientale, amministrato però dal Pakistan Occidentale, con il quale aveva ben poco in comune, fatta eccezione per il credo musulmano. Le eterne disuguaglianze dettero così vita a un sentimento di nazionalismo bengalese che assunse ben presto le vesti di una lotta per l’indipendenza. Con la vittoria del partito nazionalista della Lega Awami nelle elezioni politiche del 1971, il Bangladesh proclamò unilateralmente l’indipendenza. Il Pakistan, nell’intento di placare la ribellione, inviò delle truppe. Ne seguì una delle guerre più brevi e più sanguinarie dell’era contemporanea. L’esercito del Pakistan occupò tutte le principali città, usò il napalm contro i villaggi e uccise un numero elevatissimo di persone. Gli abitanti del Bangladesh definirono tali attacchi come un vero tentativo di genocidio. Quando l’aeronautica pakistana sferrò un attacco preventivo contro le forze indiane, la guerra diventò di ampia portata, sebbene si concluse in soli undici giorni con l’ufficializzazione dell’indipendenza del Bangladesh. La forte crisi economica e sociale che sperimentò il Paese, sommata alla mancanza di una classe dirigente, sfociò in una serie di colpi di stato e assassinii a carattere politico. Nel 1978 il popolarissimo generale Ziaur Rahman salì al potere, assicurando al Paese un periodo di relativa stabilità e di ripresa economica. Ma in un nuovo colpo di stato Ziaur fu assassinato e nel 1982 il generale Hussein Muhammed Ershad assunse la presidenza, instaurando un regime violento e corrotto. Le continue rivolte popolari che si susseguirono nel corso degli anni Ottanta indussero Ershad a dimettersi e nel febbraio 1990 l’elezione a primo ministro di Begum Khaleda Zia, la vedova di Ziaur Rahman, sancì il ritorno a un sistema parlamentare. La fragile economia del Paese, sconvolta anche da un devastante ciclone che nel 1991 uccise 120.000 vittime, ondate migratorie di musulmani che sfuggivano alle persecuzioni birmane, persistenti scioperi contro il governo e una profonda crisi politica portarono alla nomina di Hasina Wajed, figlia di Mujibur Rahman, il primo leader a governare il Paese subito dopo l’indipendenza. Verso la fine degli anni Novanta, una serie di inondazioni hanno causato centinaia di morti e un milione di senza tetto, devastando le regioni sud-occidentali. Nell’ottobre 2001 le elezioni politiche hanno decretato la vittoria di Khaleda Zia, che è tornata a ricoprire la carica di primo ministro. Popolazione: la quasi totalità della popolazione, costituita da 144 milioni di abitanti, è rappresentata da bengalesi, mentre le minoranze etniche appartengono alla stirpe dei mongoli. Uno dei più gravi problemi che attanaglia il Paese è la presenza di pericolose quantità di arsenico nelle acque del sottosuolo. La Banca Mondiale stima che circa 35 milioni di persone siano a rischio di avvelenamento. Religione: dopo Indonesia e Pakistan, il Bangladesh è la FRATERNITÀ Nello Giostra terza nazione musulmana al mondo per popolazione. L’Islam è praticato da circa l’85% degli abitanti, per la maggior parte sunniti. Non mancano tuttavia fedeli induisti, mentre sono esigue le rappresentanze di confessione buddhista o cristiana. Economia: il Bangladesh è uno dei paesi più poveri al mondo e si colloca al terzo posto nella classifica mondiale per numero di popolazione povera. Il Paese è ormai da anni fortemente dipendente dagli aiuti dei programmi di sviluppo finanziati da Stati Uniti, Giappone, Banca Asiatica dello Sviluppo e Banca Mondiale. Attualmente la nazione si regge prevalentemente su un’economia agricola, le industrie sono ancora poche e solo da qualche tempo il Paese ha dato inizio all’esportazione del pesce. Rilevante è la presenza di legname pregiato (sudari, gewa e teak). Situazione politica e relazioni internazionali: dal 20 agosto 2005, giorno dell’esplosione di 350 bombe nelle strade, nelle sedi di alcuni tribunali e nelle vicinanze di importanti edifici governativi, il Paese è teatro di una feroce e violenta guerriglia, alimentata da gruppi di fondamentalisti islamici, che rivendicano la nascita di una repubblica islamica, fondata sull’applicazione della Sharia, la legge fondamentale dell’Islam. L’India accusa il Paese di fornire appoggio e campi di addestramento ai ribelli musulmani in lotta per l’indipendenza del Kashmir. Continuano nel frattempo gli scontri a fuoco sul confine tra India e Bangladesh. Si sono intensificati i legami con gli Stati Uniti, grazie all’aiuto offerto dal governo bengalese per combattere il terrorismo internazionale, attraverso la concessione delle proprie basi militari. Carlo Timio Un’altra tempesta Vi scrivo perché un’altra tempesta si sta accanendo sulla famiglia di Vincenzo. Dopo la sofferta esperienza del figlio trentenne che da sette anni è in cura per un tumore al testicolo e pare si stia volgendo per il bene, ora è la moglie che è in ansia per un brutto tumore alla mammella. È già stata operata e tutti speriamo che il male sia stato preso in tempo. Questa brutta sorpresa ha scombussolato nuovamente la famiglia anche sul piano economico. Le spese sono tante e aumentano mentre Vincenzo lavora sempre saltuariamente e la moglie, che lavora come sarta, ora non potrà più chissà fino a quando... C’è bisogno di un aiuto perché ora comincia la radioterapia e deve tutti i giorni partire dal paese per l’ospedale più vicino che dista diversi chilometri. Vi assicuro che questa famiglia sta vivendo tale situazione nel silenzio e con grande dignità. Un grazie sentito e sincero per tutto il bene che i vostri cari amici fanno e un ricordo costante alla preghiera. Don V. S. Filtri per purificare l’acqua L’India fa progressi eppure in questo angolo remoto di questa nazione ci sono ancora moltissimi che cercano di sopravvivere non avendo cibo da mangiare e neanche un rifugio. Questa gente è piena di malattie e tormentata dal cambio del tempo. Avendo una parrocchia vasta in estensione è molto difficile raggiungere i villaggi sparsi in remote colline e valli dove nessun veicolo può arrivare. Noi missionari cerchiamo di fare il nostro meglio per aiutarli offrendo loro la possibilità di andare a scuola, di vestirsi e di curarsi. Dobbiamo scavare pozzi in alcuni villaggi dove regna la «Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei più piccoli di questi miei fratelli lo avete fatto a me» Matteo 25, 40 malaria dovuta all’acqua inquinata... bevendo acqua sporca si prendono il tifo, malattie alla pelle e i loro piccoli guadagni vengono spesi per medicinali e dottori. La gente beve l’acqua dei pozzi che causa malattie perché è acqua raccolta durante la stagione delle piogge... Stiamo progettando di scavare dei pozzi con tubi che vanno molto in profondità in tre villaggi dove la malaria è diffusissima e dare loro dei filtri per purificare l’acqua e berla tranquillamente. Ogni filtro costa 100 euro... Le spese per questa povera gente sono infinite. I villaggi sono lontani dalla missione; con la jeep ci vuole mezz’ora per raggiungerne alcuni e tre o quattro ore di cammino per altri. Le strade sono tortuose o non ci sono affatto e la jeep è molto vecchia; dovremmo cambiarla, ma i soldi non ci sono. Cari Rocchigiani, so che le richieste sono troppe, ma vi assicuriamo che ogni centesimo ricevuto va a beneficio della gente del posto. Preghiamo sempre per tutti. Grazie. Padre K.J. carietà, lavori occasionali, collaborazioni interinali, per lungo tempo è stata analoga a quella di altri miei corregionali. Non avrei mai osato chiedere, se le già poche fonti di sostentamento non fossero state ulteriomente intaccate dalle spese sostenute per la malattia di mia moglie, sottoposta ad un delicato intervento chirurgico agli occhi. Come se non bastasse, a causa dell’avverso destino, al primo intervento ne è succeduto un secondo in ragione di un errore commesso in quello precedente. Agli innumerevoli viaggi è seguito un periodo di permanenza a Roma dove mia moglie è stata operata la seconda volta. Il disagio derivante dalle spese sostenute per il soggiorno mi ha indotto a prendere la decisione di ricorrere agli amici di «Fraternità». Mi vergogno di questo, ma sono costretto e confido nel vostro buon cuore e nella ben nota vostra generosità. Siete l’ancora di salvezza per quelle persone che, come me, altro non hanno se non la speranza. B.V. Costretto a vivere con l’indigenza Ha tradito le sue promesse Mi rivolgo a «Fraternità» a causa delle ristrettezze economiche che da qualche tempo affliggono la mia famiglia. Ho 40 anni e vivo con mia moglie e mio figlio in un paesino della Calabria. Purtroppo da tempo immemorabile la mia regione offre esigue possibilità occupazionali, al punto che chi non si rassegna ad intraprendere la via dell’emigrazione è spesso costretto a convivere con l’indigenza. La mia situazione economica, segnata da pre- Sono il Parroco di Rosaria e confermo quanto è già di vostra conoscenza. Si è sposata alcuni anni fa con un giovane che, tradendo tutte le sue promesse, ha ripreso a drogarsi e ora si trova in una comunità terapeutica, duro a redimersi. Ha due figli di dodici e tre anni che sta allevando da sola con immensi sacrifici. Dopo esserle stato imposto lo sfratto per morosità, con forza e determinazione è riuscita ad ottenere una casa dal comune. Cono- scendo la vostra sensibilità e quella preziosa dei Rocchigiani chiedo vivamente di darle una mano. Emerge dal suo volto una velatura marcata di tristezza che deriva dalla penosa situazione in cui vive. Questa famiglia ha bisogno di tutto. Qualche volta viene aiutata dalla mamma già abbastanza povera. In questa zona del sud è tanto difficile trovare un lavoro, tanto più per Rosaria moglie di un tossicodipendente. Ogni aiuto può essere preziosissimo! Vi assicuro che il caso è meritevole. Prometto preghiere. Don F.S. Siamo arrivati a marzo. Acqua, vento e temporali sono frequenti in questo mese, ma il freddo, il terribile freddo che ha fatto tanto patire i poveri è passato. Tante sono state le lettere supplichevoli arrivate a «Fraternità» e le offerte dei nostri Rocchigiani sono state provvidenziali. Anche gli indumenti di lana arrivati sono serviti a riscaldare bambimi, ammalati e persone tormentate dal freddo ancor più che dalla fame. Quante benedizioni essi hanno invocato sui loro benefattori. Ora dobbiamo volgere la nostra attenzione verso altre richieste che ci arrivano sempre numerose. Siamo sicuri che i benefattori non li dimenticheranno. Confessiamo di essere un po’ preoccupati perché in questo periodo le offerte sono un po’ ridotte, ma comprendiamo molto bene le difficoltà economiche che coinvolgono tutti. Noi siamo sempre fiduciosi perché conosciamo bene la generosità di quanti seguono la nostra rubrica. Grazie di cuore. Si possono inviare offerte con assegni bancari, vaglia postali o tramite c.c.p. n. 10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi. 63 ROCCA 1 MARZO 2006 paesi in primo piano Carlo Timio rocca schede occa nella crisi attuale non rassegnati ma con lucidità e coraggio