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LE TESTIMONIANZE La donna che vota rappresenta la grande novità della nuova stagione politica che si apre con la fine della guerra. Su questo punto sono d’accordo tutte le forze politiche, ma come vissero le donne questa prima prova? Quali emozioni e quali speranze attraversa chi per la prima volta è chiamata ad esprimere la sua scelta? Il ventaglio delle reazioni è quanto mai variegato e condizionato dalla posizione e dal ruolo che ciascuna riveste. Per offrire un quadro di insieme ho scelto le considerazioni che all’avvenimento dedicano Anna Garofalo, Armida Barelli, Alba de Cespedes, Anna Banti, Maria Bellonci, Paola Masino, Orietta Doria Pamphily, Maria Zevi. Diversi dunque gli osservatori. Anna Garofalo è una giornalista impegnata a partire dal settembre 1944 in Parole di donna, una trasmissione voluta dalle Forze Alleate. «Gli americani – ricorderà – danno grande importanza alle trasmissioni per le donne». Tre volte alla settimana, in ore di grande ascolto, affronta vari temi che riguardano la condizione femminile, ospita intellettuali e rappresentanti delle forze politiche ed esprime le sue opinioni in totale libertà. Libertà che rimpiangerà nel 1948, allorché alcune restrizioni le saranno imposte. Le considerazioni della Garofalo seguono il ritmo degli avvenimenti affrontati nelle trasmissioni: la questione del voto s’intreccia quindi ad altre notizie (la situazione nelle regioni dell’Italia ancora occupata, la Liberazione delle città del nord, la fine della guerra, la difficoltà degli approvvigionamenti ecc.) e alle reazioni delle ascoltatrici colpite dal tono nuovo della trasmissione. Mentre Anna Garofalo è (e rimarrà anche in seguito) una esponente della cosiddetta ‘terza forza’, favorevole al divorzio e alla modernizzazio- 149 ne dei costumi, Armida Barelli è la prestigiosa figura che ha organizzato a partire dal 1919 la Gioventù Femminile di Azione Cattolica. Nel suo racconto troviamo quindi il resoconto tutto politico delle tappe che caratterizzarono la mobilitazione delle organizzazioni di massa cattoliche in seguito all’invito rivolto da Pio XII alle donne di entrare nella vita politica e pubblica in difesa dei valori cristiani. L’udienza del 21 ottobre 1945 e il discorso che il papa rivolse alle diverse associazioni femminili convenute (un «discorso storico» che venne all’epoca radiotrasmesso) sono rievocati con i toni commossi nella testimonianza. Fugato ogni dubbio di rinuncia al proprio incarico su richiesta di Pio XII, la rievocazione di Armida Barelli offre un quadro penetrante del lavoro di propaganda e di educazione politica in cui s’impegnarono dirigenti e socie della Gioventù Cattolica «per far votare e votare bene» le proprie aderenti. Più intima e calibrata sul vissuto individuale la testimonianza fornita da scrittrici come Alba de Céspedes, Anna Banti, Maria Bellonci e Paola Masino, oppure da Orietta Doria Pamphily e Maria Zevi. Nelle loro parole ritroviamo, quindi, non tanto i progetti e le linee programmatiche che erano alla base della mobilitazione dei partiti oppure delle organizzazioni di massa, quanto la segreta emozione di un atto di responsabilità inedito. Le testimonianze di Alba De Céspedes, Anna Banti e Maria Bellonci sono scritte in occasione dell’inchiesta che nel 1946 il numero speciale di “Mercurio” (il “mensile di politica, di lettere, arte e scienze” era stato fondato tre anni prima proprio da Alba De Céspedes) promosse tra scrittori e artisti italiani sulle attività svolte nel corso dell’anno. Difficile per tutte e tre le scrittrici censurare l’evento del loro primo voto limitandosi a dar conto al pari degli intellettuali maschi della sola produzione intellettuale. La loro è la testimonianza più vicina al momento del voto, al pari della lettera scritta alla madre da Venezia da Paola Masino all’indomani del referendum su Monarchia e Repubblica. Al contrario, le testimonianze di Orietta Doria Pamphily e di Maria Zevi sono state sollecitate e raccolte a molti anni di distanza. 150 Prima o poi impareremo a nuotare [...] Si parla del voto alla donna con sempre maggiore insistenza e naturalmente riscappa fuori il discorso della sua immaturità politica, tanto più grave – si dice – in regime di suffragio universale. A fare queste obbiezioni non sono tanto gli uomini dell’Italia liberale che morì con il fascismo e che, comunque, avevano partecipato alla lotta politica, si erano fatte le ossa in un regime parlamentare, ma gli altri, quelli che uomini divennero durante la dittatura e che della democrazia ignorano tutto e non sanno nemmeno muoversi in un clima di libertà. Quale esperienza politica hanno il diritto di rivendicare, in confronto alle donne, coloro che, in maggioranza, obbedirono a Mussolini, quando non ne furono gli apologeti? Potremmo – uomini e donne insieme – confessare la nostra inesperienza e riconoscere che, quando andremo alle urne, ci sentiremo nello stesso modo intimiditi, incerti e commossi. È probabile che le donne saranno ancora più imbarazzate degli uomini, proprio per l’atmosfera di diffidenza che le circonda e chiederanno consiglio a padri e fratelli non perché ne sappiano molto di più ma perché nelle famiglie italiane è molto vivo il timore reverenziale verso il maschio, anche se è un povero diavolo. È probabile che per le prime volte le donne voteranno male, alla cieca, o sulla scia di suggestioni, ma non è escluso che lo stesso possa succedere agli uomini, anche se decidono da soli. Come formare la propria coscienza di cittadino se non esercitandosi, allenandosi al gioco democratico? Come cercar di capire se non con l’azione? I pescatori, quando sono in barca al largo, buttano in mare i figli perché, attraverso i movimenti istintivi che essi fanno per tenersi a galla, imparino a nuotare. Bisognerà dunque buttarsi in acqua, anche se inesperti, senza alcun pescatore che sorvegli le nostre mosse. Prima o poi impareremo a nuotare. [...] Ad un ricevimento offerto dall’ambasciatore degli Stati Uniti, 151 Alexander Kirk, il deputato del Connecticut, Clara Boothe, in visita con altri parlamentari al fronte italiano, ha chiesto al nostro presidente del Consiglio on. Bonomi se alle donne italiane verrà o no concesso il diritto di voto. Il presidente ha risposto di essere personalmente favorevole alla concessione e che appoggerà una legge al riguardo. Nello stesso modo hanno risposto il ministro degli Esteri De Gasperi e il ministro della Giustizia Tupini. Sembra dunque di poter contare su un Gabinetto favorevole. Si possono immaginare le reazioni dell’uomo italiano in ascolto all’idea di incontrare, per ragioni di servizio, una donna con tre galloni sul berretto. [...] La guerra è finita. È difficile in questo momento trovare e pronunziare parole. È la ripugnanza delle frasi fatte, degli aggettivi consunti, della retorica che, durante gli anni servili, inquinò i nostri sentimenti migliori. Il sollievo delle madri di tutto il mondo dà a questo grande giorno la sua nota più umana, più alta. È impossibile concepire sofferenza peggiore di quella che la guerra impone alle donne. La parola pace cade su di loro come una pioggia fresca sull’arsura, come il sonno su chi è stanco. Vuol dire silenzio di armi, salvezza di vite, ritorno dei figli a casa. Si pensa al terribile destino di chi non aspetta più nessuno. Le donne di tutta Europa sono ormai come una sospirata terra d’approdo. Eppure accogliere con tenerezza i reduci e aiutarli a rimontare la china non potrà essere il loro solo compito. Con la nuova coscienza che si è formata in loro negli anni difficili, con i mezzi della democrazia che ora possiedono, dovranno lavorare contro il pericolo di guerre future. Le loro conquiste politiche sono altrettante difese contro la minaccia di venir nuovamente coinvolte in dissennate avventure, di dover sopportare le conseguenze di eventi per cui non furono consultate. Non dovranno mai più dire: «Che cosa possiamo fare noi?» perché questo significherà che non avranno voluto far niente. La lotta di Liberazione sostenuta da uomini e donne nello stesso modo è lì a dimostrare che, di fronte a pericoli, i cittadini sono tutti uguali. L’educazione dei figli spetta in gran parte alle donne, l’opinione pubblica viene formata anche dalle donne, il diritto di voto è stato loro concesso perché ne usino, in piena consapevolezza. Anche le donne che si considerano solo madri e massaie debbono pensare che la vita materiale che si dà ai figli occorre difenderla e che è inutile vegliare un bambino malato, ripararlo dal freddo, togliergli la spina dal piede, per poi accettare che egli vada più tardi a farsi uccidere non si sa perché o perda la fede e la salute nei campi di concentramento. La pace è una lunga costruzione e necessita di una continua vigilanza. Essa è formata dalla fatica e dall’impegno di tutti, è una conquista giornaliera senza inni né fanfare. Non basta rimanere nel cerchio della propria lampada, nell’egoismo dei propri interessi familiari, per dire di aver compiuto il proprio dovere. La guerra è finita, ma non bisogna dimenticare la lezione di quest’ora, occorre contare i morti, gli invalidi, le rovine, i drammi, e fare che il sacrificio non si ripeta. [...] La donna che vota è la grande curiosità di questa prima stagione elettorale nella quale dovremo anche decidere fra Repubblica e Monarchia. Ci aspetta una doppia grande responsabilità ed è inutile nasconderselo, assumendo atteggiamenti disinvolti. Le schede che ci arrivano a casa e che ci invitano con il nostro nome, cognome e paternità a compiere il nostro dovere di cittadini hanno un’autorità silenziosa e perentoria. Le rigiriamo fra le mani e ci sembrano più preziose delle tessere del pane. È come se dovessimo affidare ad un nuovo amministratore una casa in rovina, con i muri puntellati, le persiane cadenti, le tubature arrugginite. Si spera solo che le fondamenta tengano. Per la prima volta si domanda la nostra opinione. Così avessimo potuto esprimerla quando si trattava di pace e di guerra. Tutte queste croci sparse nei cimiteri, questi invalidi, questi alienati e gli orrori dei 152 153 campi di sterminio sono lì a testimoniare che non potemmo far niente. Da queste sventure, però, è nato il riconoscimento di oggi, che accomuna uomini e donne, alla pari. Prendiamone atto per darci coraggio. [...] L’idea che la Monarchia possa cadere rende molte donne sentimentali. È uno strano fenomeno, tipicamente emotivo, quasi estetico. Un bel re, una bella regina, cari bambini vestiti di bianco. Ci si aggrappa ancora ad un mondo di favole, di ermellini, di cocchi, di diademi. Siamo strangolati dai bisogni materiali, tutto è consunto e sconvolto e c’è chi vorrebbe trattenere in vita i fantasmi di un mondo crollato. Si trascurano le responsabilità storiche, di fronte ad un balcone dove appare una gentile composizione fotografica, degna di Eva Barrett. Del resto, è difficile liberarsi dei miti e imporsi un rigore frutto di ragione. Ci riescono i più forti e coloro che sanno conservare il rancore. I furbi che hanno interesse a presentare la vittoria della Repubblica come un salto nel buio, hanno buon gioco. È un argomento che fa presa sulla gente stanca e apprensiva. Orgia di cartelli elettorali sui muri, fervore di comizi, discussioni accanite nei locali pubblici, ad ogni cantone, in ogni mercato o piazza. È bello veder riprendere vita a un organo anchilosato: il cervello. [...] Lunghissima attesa davanti ai seggi elettorali. Sembra di essere tornate alle code per l’acqua, per i generi razionati. Abbiamo tutti nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome. Stringiamo le schede come biglietti d’amore. Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di donne timorose di stancarsi e molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono fra uomini e donne hanno un tono diverso, alla pari. Sembra di tornare ai tempi del liceo, quando, all’uscita, ci si fermava a discutere di Virgilio e di Omero con i compagni. [...] La modesta percentuale di donne elette in confronto agli uomini offre un elemento di giudizio importante: le elettrici non hanno dato molti voti preferenziali ai candidati del loro stesso sesso, dimostrando piuttosto fiducia verso gli uomini. La cosidetta massoneria femminile ha funzionato poco, in questo caso. Le donne si fidano delle amiche quando confessano un segreto amoroso o una bega familiare, ma non le scelgono come rappresentanti in Parlamento, così come chiamano il dottore e non la dottoressa, quando il bambino è malato, l’avvocato e non l’avvocatessa per le loro cause. Anche questo può spiegarsi con la poca fiducia che le donne hanno in loro stesse – e quindi nelle altre – a causa della situazione di inferiorità in cui sono state tenute per troppo tempo. 154 155 (in Anna Garofalo, L’italiana in Italia, Bari, Editori Laterza, 1956, pp. 22-23; 36-39; 44-45; 109-11) Nessuna esitazione era più possibile Nell’ultimo inverno di guerra 1944-45 passato a Milano tra continui bombardamenti, il Centro nazionale Gioventù Femminile indisse due Settimane di studio sui problemi femminili, nella quale i Professori dell’Università Cattolica e i dirigenti di Azione Cattolica ci illuminarono meglio sui doveri e i diritti politici della donna secondo la dottrina cattolica. A guerra finita, l’8 maggio 1945, cadde la barriera che divideva l’Italia del Nord da quella del Sud, e sapemmo allora che sarebbe stato concesso il voto politico alla donna. Non l’avevamo chiesto, ma poiché gli eventi ci avrebbero messe di fronte ad una realtà, sentimmo la necessità di preparar- ci a partecipare coscientemente alla vita civica. Spiegammo a dirigenti e socie quali erano i principi sociali della Chiesa per esercitare i nostri doveri di cittadine in ordine alla vita politica, amministrativa e sindacale. Ma sorsero anche critiche alla concessione del voto alla donna. Invocai allora dal S. Padre Pio XII la parola autorevole e paterna che ci indicasse la nostra missione al momento presente, chiedemmo a lui la «Magna charta della Donna». E in una lieta mattina d’autunno, il 21 ottobre 1945, una folla femminile, formata da tutte le Associazioni femminili cristiane, gremiva l’aula delle Beatificazioni e pareva dicesse «Siamo qui, Santo Padre, ai Vostri cenni: diteci quello che dobbiamo fare». Erano presenti tutte le massime dirigenti delle varie istituzioni femminili a carattere nazionale: Giovani, Donne, Universitarie di Azione Cattolica, A.C.L.I., C.I.F., Guide, Conferenze di S. Vincenzo, Congregazioni mariane, Madri generali di Ordini religiosi e Istituti femminili, Nobiltà romana, Sezioni femminili della Democrazia Cristiana, Aiuto cristiano, ecc. La Gioventù Femminile era rappresentata da tutte le dirigenti del Centro nazionale, dalle Delegate regionali, da circa 350 dirigenti venute da ogni parte d’Italia, e da oltre un migliaio di dirigenti parrocchiali e socie. Solennissima fu quella adunanza e magistrale, come sempre, quel discorso, radiodiffuso in tutto il mondo. Il S. Padre richiamò la donna e la giovane ai cardini della vita femminile umana e cristiana, e tracciò poi i doveri particolari della donna e della giovane nell’ora presente: «Due strade ha dinnanzi a sé la donna: o apertamente difende la Chiesa, o si schiera da parte dei suoi nemici. E si schiera da parte dei suoi nemici anche la donna che dimentica l’alta dignità ricevuta da Dio, perché in tal caso tradisce la sua missione. Ma qual’è la sua missione? Molto semplice: quella di essere donna, cioè mantenersi fedele ai compiti che Dio ha affidato alla donna senza invadere il campo dell’uomo. La donna può lavorare a fianco dell’uomo, può essere sua compagna nella vita sociale e politica, sulla cattedra e nell’officina nell’arte e nello sport, purché non dimentichi la sua dignità femminile e la sua missione materna, purché nella casa sia sempre la sapiente regina che guida, governa, educa e diffonde l’amore». Tracciato poi un luminoso binario per la vocazione della giovane: matrimonio o verginità nel mondo o nel chiostro, il S. Padre venne a una descrizione delle condizioni politiche e sociali non favorevoli alla santità della famiglia e alla dignità della giovane. Passò infine ad illustrarci il dovere della nostra partecipazione alla vita politica: «Ora qual’è appunto la conclusione che noi dobbiamo trarre da queste osservazioni? Voi donne e giovani cattoliche dovete mostrarvi ritrose al movimento che vi trascina nella vita pubblica, sociale e politica? Tutt’altro! Voi dovete anzi entrare nella vita sociale e politica. Ogni donna ha il dovere di coscienza di non mantenersi lontana dalla vita pubblica e di entrare in azione nelle forme e nei modi confacenti a ciascuna di voi, appunto per contenere i movimenti che vorrebbero distruggere la vita sociale e familiare, che vorrebbero scalzare le fondamenta di questa vita. E appunto per contenerli, dovete prendere parte attiva a questa vita sociale. E questa collaborazione effettiva all’opera dell’uomo nella vita sociale non altera per nulla il carattere proprio dell’azione normale della donna. Essa collaborerà coll’uomo in tutta la materia in cui si richiede specialmente tatto, finezza, vita interiore. Chi meglio della donna potrà, ad esempio, meglio comprendere ciò che esige la dignità della donna, l’educazione dei giovani e la protezione dei bambini? «In tutta questa materia quanti problemi si presentano alla considerazione dei governanti e dei legislatori! «Nella vostra azione nella vita sociale e politica ha una grande importanza la legislazione dello Stato e l’amministrazione del Comune. Perciò la scheda elettorale è per ogni donna cattolica un mezzo importante per adempiere il suo rigoroso dovere di coscienza, massime nel tempo presente. «La donna non può comprendere che per politica s’intenda la 156 157 dominazione di una classe sopra le altre, le mire egoistiche di un’espansione territoriale ed economica che deve opprimere gli altri; ma sa che una tale politica porterebbe, purtroppo a grave danno della famiglia la quale dovrebbe pagarne le spese a caro prezzo del suo sangue e dei suoi beni. Perciò nessuna donna veramente saggia potrà essere favorevole ad una politica di lotta di classe e di guerra. «Il cammino della donna alle urne elettorali è un cammino di pace. La pace nell’interesse e per il bene della famiglia procederà e progredirà per questa via e non darà il suo voto ad alcuna tendenza la quale voglia imporre o subordinare gli interessi della Nazione, della pace interna ed esteriore dei popoli a brame eccessivamente dannose. «Coraggio dunque, giovani cattoliche, lavorate senza posa, senza lasciarvi mai disturbare o sacrificare o scoraggiare dagli ostacoli e dalle difficoltà. «Siate, sotto lo stendardo di Cristo, sotto la protezione della Madre venerabile Regina Maria Santissima, le restauratrici del focolare, della famiglia e della società, e discendano sopra di voi i favori divini dei quali è pegno la nostra Benedizione Apostolica». La parola del Papa tanto attesa era dunque detta. Nessuna esitazione era più possibile. Ci mettemmo alacramente al lavoro per istruire la Gioventù Femminile e prepararla all’esercizio del voto. Pensavo di non dover dirigere io la prima grande battaglia elettorale della Gioventù Femminile. Infatti di nuovo, avevo pregato il S. Padre di permettermi di cedere le redini della Gioventù Femminile a dirigenti più giovani, e insieme gli avevo esposto il dubbio circa la nostra sede, cioè se conservarla a Milano o trasferirla a Roma. Il S. Padre mi rispose decisamente «Tenga il Centro nazionale a Milano: in questi momenti non si devono fare modificazioni, ed ella, figliola, rimanga al suo posto». Alla mia insistenza alle gravi ragioni che adducevo, egli, dopo avermi ascoltata con paterna bontà, rispose in modo deciso: «Rimanga al suo posto, figliola, almeno per un anno decisivo per l’Italia; obbedisca». In ispirito d’obbedienza, ma anche con grande amore, rimasi per un anno ancora, in quell’anno decisivo per la Patria nostra, alla Presidenza della Gioventù Femminile e con le sorelle del Centro nazionale anziane e giovani, ben assistite dai nostri Revv. Assistenti, lavorammo fervidamente per realizzare il programma grandioso rispondente al desiderio del Vicario di Cristo: «Costruire in Cristo per mezzo di Maria». Tenemmo subito due corsi a Milano e a Roma per dirigenti diocesane e propagandiste in preparazione alle elezioni della Costituente, e poi altri regionali. Preparammo gli schemi per far ripetere i corsi ai Centri diocesani per le propagandiste e le dirigenti di Associazione. Per riuscire a far capire a tutte le socie le parole nuove Democrazia, Costituente, Costituzione, non solo pubblicammo sugli «Squilli» articoli, trafiletti, incitamenti, ma nel marzo 1945 demmo a tutte gratuitamente, come testo della gara di cultura per la parte di Azione Cattolica un catechismo sui doveri sociali della socia di Gioventù Femminile. Tutte le socie impararono così non solo i loro diritti e doveri politici, ma anche quanto era necessario per la propaganda onde far votare e votare bene. Infatti seppero diffondere le idee sociali cristiane in famiglia, nell’ambiente di lavoro, tra parenti, amici, conoscenti e dovunque. Dirigenti e propagandiste furono particolarmente istruite e mobilitate. Ogni Centro Diocesi, ogni Associazione fu visitata; istruita, infiammata. Io pure rientrai a Milano per le elezioni dopo ventisei giorni di continua propaganda. «Ardire e ardore» fu il motto delle elezioni del 2 giugno; preghiera, sacrificio, studio, propaganda, azione, furono richieste ad ogni socia. E fu fatto un lavoro capillare per arrivare dovunque e istruire e incoraggiare. Le lettere che giunsero prima per le elezioni amministrative, 158 159 poi per le elezioni politiche, erano frementi di gioia per la vittoria. Eccone un saggio: «...Volevano che la nostra cittadina diventasse ad ogni costo roccaforte del comunismo. Ce lo hanno scritto in tutti i toni sui muri, ce lo hanno cantato in tutti i plateali comizi fatti a base di anticlericalismo della più bassa lega. Ma essi non hanno trionfato ed è stata cosi grande la nostra gioia ed anche la nostra sorpresa che ci volle del bello e del buono per farcene convinte. Non ti so dire che giornata abbiamo passato nel giorno delle elezioni. Dalle quattro e mezzo del mattino alla mezzanotte non abbiamo avuto un minuto di riposo ma l’organizzazione è riuscita a meravigliare perfino i nostri avversari che, malignando, dicevano che davanti alla sede di qualche sezione sembrava di essere a Lourdes, perché avevamo predisposto servizi e trasporti per gli infermi e gli ammalati. Credo di non aver mai passato giornate cosi intense, mentre solo in fondo al cuore era viva la speranza: «Sacro Cuore ci fidiamo di Te!». Il lunedì a mezzogiorno la speranza divenne radiosa realtà... Una delle nostre è stata la candidata che ha riscosso i maggiori suffragi». Il partito a ispirazione cristiana ebbe il maggior numero dei voti, benché non quella maggioranza assoluta che si è invece ottenuta il 18 aprile 1948. Tuttavia i Deputati cristiani, tra i quali ben 25 provenienti dall’Università Cattolica, e otto deputatesse provenienti dalla Gioventù Femminile di cui due erano ancora dirigenti, seppero ottenere una Costituzione fondamentalmente cristiana. Il 3 giugno ebbi la gioia di essere ricevuta dal S. Padre Pio XII ed egli ebbe la grande bontà di dirmi che aveva saputo del bel lavoro fatto dalla Gioventù Femminile in preparazione alle elezioni politiche: molti Ecc.mi Vescovi glielo avevano detto. (in Armida Barelli, La Sorella Maggiore racconta... Storia della Gioventù femminile di Azione Cattolica dal 1918 al 1948, Milano, Società Editrice di Vita e Pensiero, MCMXLVIII, pp. 440-446) 160 Il bilancio intimo di Alba De Céspedes Venuto il momento di rispondere anch’io alle domande poste da “Mercurio” agli scrittori italiani, mi sorprendo a considerare quanto esse siano indiscrete e come sia difficile rispondere con franchezza. Tuttavia accetto volentieri quest’occasione che mi costringe a tirare quel bilancio intimo dal quale spesso si rifugge per un timore che non si vuol confessare neppure a noi stessi. Poiché, a guardarlo dalla fine del dicembre, ogni anno trascorso appare a tutti, fatalmente, un anno perduto, o speso male. Se anche qualcosa si è fatto, è pur sempre meno di quanto si sperava di fare. A chi lavora si presentano subito, ostili e accusatrici, tutte le ore perdute, vuote, inutili. E un rimorso acuto ci stringe, un freddo brivido, una improvvisa fretta che ci suggerisce: non c’è più molto tempo, non c’è più molto tempo. Eppure è spesso da queste ore inutili, rubate al nostro lavoro, che si trae la storia di ogni anno e il sugo della nostra vita. Ore in cui, senza volerlo, noi ci esprimiamo meglio e più esplicitamente di quanto non ci si esprima, volutamente, a tavolino. Sì che, giunti alla fine di dicembre, io debbo forse riconoscere che l’avvenimento più importante dell’anno è stato per me una certa mattinata trascorsa, in due, al Palatino, se ancora me ne rimane tutta la luce negli occhi. Né posso passare sotto silenzio il giorno che chiuse una lunga e difficile avventura, e cioè il giorno delle elezioni. Era quella un’avventura incominciata molti anni fa, prima dell’armistizio, del 25 luglio, il giorno – avevo poco più di vent’anni – in cui vennero a prendermi per condurmi in prigione. Ero accusata di aver detto liberamente quel che pensavo. Da allora fu come se un’altra persona abitasse in me, segreta, muta, nascosta, alla quale non era neppure permesso di respirare. È stata sì, un’avventura umiliante e penosa. Ma con quel segno in croce sulla scheda mi pareva di aver disegnato uno di quei fregi che sostituiscono la parola fine. Uscii, poi, liberata e giovane, come quando, 161 ci si sente i capelli ben ravviati sulla fronte. In quanto al mio lavoro esso si riassume, quest’anno, nella lunga dimestichezza che ho avuto con due donne chiamate Alessandra ed Eleonora. Non ho stampato libri, né racconti ma ho vissuto per tutto l’anno dal mattino alla sera, con queste due donne che sono le interpreti del mio nuovo romanzo: «Dalla parte di lei». Lei, è Alessandra. E mi ha seguito ovunque come vuole il suo carattere che è ostinato e paziente. Mi pare finanche di aver vissuto in Prati, quest’anno, dove Alessandra ed Eleonora hanno fissato la loro abitazione. Nel 1946, inoltre, ho iniziato alcune nuove amicizie. Le amicizie, alla mia età, sono fatti rari e importanti e perciò mi pare doveroso menzionarle. (in Il 1946 di Alba de Céspedes, in Processo al 1946, numero speciale di “Mercurio”, p. 140) più storico ancora. Ma già, non sono, tutti i racconti di costume anteriore, parte della storia? E si sa come ci si rassegna male a che un segno della storia, anche umile, perisca. Rinascono, dunque, lentamente, un po’ stravolti, permalosi, dispettosi, come ragazzi rubati alla morte. E può essere che restituirli alla vita sia una mia illusione: ma ad altro, per ora, non mi riesce di pensare. Quanto al ‘46 e a quel che di «importante» per me, ci ho visto e ci ho sentito, dove mai ravvisarlo se non in quel due giugno che, nella cabina di votazione, avevo il cuore in gola e avevo paura di sbagliarmi fra il segno della repubblica, e quello della monarchia? Forse solo le donne possono capirmi: e gli analfabeti. Era un giorno bellissimo, si votava in vista di un giardino dove i bambini giocavano fra i grandi che, calmi e sorridenti, aspettavano, senza impazienza, di entrare. Una riunione civilissima; e gli elettori eran tutti di campagna, mezzadri e manovali. Quando i presentimenti neri mi opprimono penso a quel giorno, e spero. (in Il 1946 di Anna Banti, in Processo al 1946, numero speciale di “Mercurio”, p. 174) Il 2 giugno di Anna Banti È sempre raccapricciante parlare di sé: e figuriamoci quando sia per dar prova di atti che possono sembrare ostinato attaccamento ai propri mezzi, a un mondo segretamente immaginato. Pure a questo devo ridurmi se, rispondendo al cortese invito di “Mercurio”, voglio sinceramente render conto del mio lavoro in quest’anno e in quello che lo precedette: perché attendere alla ricostruzione di due libri manoscritti, bruciati nelle macerie di Borgo San Jacopo, può valermi un tale sospetto. Così è, purtroppo; ma del peccato di presunzione mi assolverà chi ha provato cosa voglia dire far dipendere le proprie giornate, una dopo l’altra, dal colore di una immagine che esprime e spiega la vita: dall’umore del proprio personaggio insomma. Erano due lunghe narrazioni, due romanzi: e se l’uno poteva dirsi in superficie e grosso modo, storico, l’altro, affidato a vesti contemporanee, era 162 Il momento di smarrimento di Maria Bellonci Anche per me, come per tutti gli scrittori, e come per tutti quelli che sono avvezzi a mettere continuamente sé stessi al paragone delle cose, gli avvenimenti più importanti dì quest’anno 1946 sono fatti interiori; ma è un fatto interiore – e come – quello del 2 giugno quando di sera, in una cabina di legno povero e con in mano un lapis e due schede mi trovai all’improvviso di fronte a me, cittadino. Confesso che mi mancò il cuore e mi venne l’impulso di fuggire. Non che non avessi un’idea sicura, anzi; ma mi 163 parvero da rivedere tutte le ragioni che mi avevano portato a quest’idea, alla quale mi pareva quasi di non aver diritto perché non abbastanza ragionata, coscienziosa, pura. Mi parve di essere solo in quel momento immessa in una corrente limpida di verità; e il gesto che stavo per fare, e che avrebbe avuto una conseguenza diretta mi sgomentava. Fu un momento di smarrimento: lo risolsi accettandolo, riconoscendolo; e la mia idea ritornò mia, come rassicurandomi. Sta uscendo in questi giorni da Mondadori un mio nuovo libro, Segreti dei Gonzaga; scritto in questi anni confusi e tremendi, ne porta il segno: ma appunto per questo mi è sembrato giusto lasciarlo com’è, affidato alle sue ragioni. Sto preparando altro lavoro, si capisce: mi piacciono i lavori grossi che mi danno garanzia di vivere un lungo tempo mio in un clima inventato da me, costante e segreto: Fine degli Este è appunto una promessa di questa qualità; ma forse prima scriverò un libro che mi affascina e che s’intitolerà I commedianti, dove vorrei raccontare il romanzo della primissima commedia dell’arte, nei passaggi tra le varie corti del Cinque e Seicento, e rispecchiare l’umanità dei personaggi di corte nell’umanità dei personaggi di teatro. Può anche essere che mi esca dalla penna un altro libro al quale penso molto; ma questo è davvero un segreto. (in Il 1946 di Maria Bellonci, in Processo al 1946, numero speciale di “Mercurio”, p. 172) Il desiderio di vedere e sentire di Paola Masino Mamma grandissima, io lo sapevo che tu avresti votato per la Repubblica, non era possibile che fossero riusciti a renderti scema. Tutti i motivi che ti hanno detto per combattere la Repubblica, non sono motivi ma baggianate e sono le baggianate che si ripetevano in tutta Italia. 164 Meno male che ce l’abbiamo fatta lo stesso, ma è triste vedere come la gente è sciocca quando è in buona fede e malvagia quando lo è in cattiva [...]. Io non faccio che sognare Roma o Milano ma non vedo proprio come si farà a spostare questa casa. I fornitori veneziani mi fanno prendere la bile ogni giorno perché non si muovono per nessuna ragione e quando tu vai a gridare ti rispondono «Che vuole a Venezia fanno tutti così». Come li odio! [...] Cara mamma che voglia avrei di essere lì a girare e vedere e sentire; qua nessuno si occupa di nulla e trovi gente come la Luciana che ha votata per la monarchia perché non aveva che scegliere e non le è nemmeno venuto in mente di non votare o dare scheda bianca. Questa è la coscienza della maggior parte delle donne italiane. Ne sento un’altra per la strada che dice: «Io oggi mi sono arrabbiata a casa mia perché ieri mi avevano detto che votavano per la monarchia e allora anch’io ho votato per la monarchia. Poi vado a casa e mia mamma ha votato per la repubblica. A me la repubblica è più simpatica e se me lo diceva prima che anche lei votava la repubblica io manco me lo sognavo di votare per la monarchia!» Che vuoi farci? Bisogna pensare che sono tanti anni che questa gente è disabituata a pensare: il male è che credono di saper pensare e giudicano e criticano E meno che babbo aveva sempre ragione. Ancora devo vedere che si sia sbagliato una volta. Da quando predicava, dopo il venticinque luglio, che il fascismo sarebbe tornato a galla, e quando diceva male del re. Io soffro davvero molto di non essere su un campo di battaglia più vivo di questo. Qui disprezzo troppo tutti per mettermi a parlare di politica. [...] da Venezia 10 giugno 1946 (in Paola Masino, Io Massimo e gli altri. Autobiografia di una figlia del secolo, Milano, Rusconi, 1995, pp. 133-135) 165 ore avanzando lentamente su per una scala piccola, ovale e rapida, ma era fantastico! Orietta Doria Pamphily (Nasce nel 1922, segue il padre al confino, dal 1942 è volontaria presso l’Ospedale maggiore di Malta e presso l’ufficio del Vaticano per la ricerca dei prigionieri e dei dispersi, fondatrice dell’AGI, Associazione dei giovani esploratori italiani) [...] Infine l’indescrivibile gioia della Liberazione. L’euforia dell’arrivo degli alleati il 4 giugno ’44 è un’emozione che non si dimentica e neanche l’entusiasmo di quel magnifico periodo quando, benché ancora affamati, malvestiti, privi di acqua, luce, gas, telefono, riscaldamento, posta e trasporti eravamo felici perché eravamo liberi di pensare e di forgiare il nostro futuro paese, perché ognuno di noi, nel suo piccolo, poteva contribuire alla ricostruzione. Ci sentivamo anche in dovere di farlo pensando a tante persone coraggiose che avevano contribuito alla nostra liberazione, senza purtroppo sopravvivere per vederla. Per i primi quattro mesi ho lavorato come segretaria al Comando Alleato poi sono passata alle Donne Cattoliche Inglesi, lavorando a tempo pieno in un posto di ristoro per soldati britannici, 9 mesi ad Ancona, (allora la prima grossa base dietro la Linea Gotica), 4 mesi a Roma e 4 alla Cecchignola nel Campo base e di addestramento della Polizia Militare Britannica. […] Serbo un magnifico ricordo di quel periodo, del cameratismo, dell’aiuto reciproco, del buon umore, e del senso di umorismo in circostanze difficili. Tornata poi a casa e alla vita civile vennero le elezioni. Compilare le liste elettorali dev’essere stato un compito immane. Se non erro le ultime elezioni erano state nel ’29 e noi eravamo nel ’46 con la popolazione di Roma più o meno raddoppiata nel frattempo. Mi ricordo l’emozione di andare a votare, la prima volta per noi donne. La nostra sede era la sezione del Visconti distaccata a Palazzo Altieri, facemmo la fila, pigiati come sardine, per diverse 166 (in Donne a Roma 1943-45. Memorie di un indomabile cura per la vita, a cura di Simona Lunadei, Roma, Edizione Cooperativa Libera Stampa, 1996, pp. 62-64) Maria Zevi (Laureata in fisica, comunista, partecipa alla Resistenza, nel dopoguerra ha insegnato matematica prima nelle scuole e in seguito nella Facoltà di Architettura) […] Finalmente venne la Liberazione. Dopo i primi entusiasmi e la felicità per la libertà riconquistata, la vita riprendeva con fatica. La luce e il gas continuavano ad essere erogati poche ore al giorno, così l’acqua; i mezzi di trasporto non funzionavano (da tempo andavamo in bicicletta). La vita insomma era tutt’altro che facile. Gli americani spadroneggiavano. Intanto gli uomini erano ritornati e le donne dovevano lasciare il loro lavoro e ritornare a casa, accanto ai figli e ai fornelli. Non c’era più fascismo e antifascismo, c’era da ricomporre nuovamente i nuclei familiari e gli uomini volevano riprendere le redini. Per la seconda volta (la prima era stata nel primo dopoguerra) le donne dovevano riprendere un ruolo subalterno, dovevano essere sottomesse all’autorità maschile. I partiti di sinistra collaboravano a questa “restaurazione” e nel PCI si formavano gruppi separati di donne, perché all’ora di cena dovevano stare a casa. Io nel frattempo mi ero sposata e avevo un bimbo da allattare: avevo sempre fame e anche il bambino, malgrado la fine della guerra la liberazione mi sembrava molto lontana […]. Poi venne il voto alle donne che io consideravo un atto 167 dovuto. Ero più interessata ad un’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne, fondata sull’autonomia femminile. Quando si avvicinava il giorno delle votazioni e si profilò il pericolo di una vittoria monarchica, ricordando quello che avevamo sofferto per colpa del re e di Mussolini, non ci furono più per me né marito né figli, e tutto il giorno ero in strada a far comizi volanti, per spiegare perché doveva vincere la Repubblica. Io non avevo mai visto un seggio elettorale, ma neanche molti uomini miei coetanei, visto che il regime fascista aveva abolito le consultazioni elettorali. Quando deposi la prima scheda della mia vita nell’urna elettorale ebbi una grande emozione. Fu allora che mi sentii veramente liberata. (in Donne a Roma 1943-45. Memorie di un indomabile cura per la vita, a cura di Simona Lunadei, Roma, Edizione Cooperativa Libera Stampa, 1996, pp. 68-69) 168 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Sulla figura di Anna Maria Mozzoni nel quadro delle battaglie risorgimentali e dell’emancipazionismo nell’Italia liberale indispensabile Franca Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia 1848-1892, Torino, Einaudi, 1963. F. Pieroni Bortolotti ha anche pubblicato i principali scritti di Anna Maria Mozzoni, da La donna e i suoi rapporti sociali del 1864 agli interventi più legati all’attualità e al dibattito politico del tempo, in La liberazione della donna, Roma, Mazzotta, 1975. La figura di Salvatore Morelli è stata ricostruita da Ginevra Conti Odorisio in Salvatore Morelli (1824-1880). Emancipazionismo e democrazia nell’Ottocento europeo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992. Per l’azione di John Stuart Mill, si veda oltre al testo The Subjecton of Women, a cura di Nadia Urbinati, Torino, Einaudi, 2001, l’Autobiografia, Roma-Bari, Laterza, 1976, in cui ricorda la sua azione parlamentare in favore dell’estensione del suffragio alle donne. Una ampia selezione dei progetti di legge e altri documenti attinenti che arriva fino ai giorni nostri è in Donne e Diritto. Due secoli di legislazione. 1796-1986, a cura di Agata A. Cappiello, Elena Marinucci, Giacomo F. Reich, Laura Remiddi, 2 voll., Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1988. Indispensabili guide all’interpretazione delle proposte di legge in rapporto alla condizione femminile sono fornite da Maria Vittoria Ballestrero, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Bologna, Il Mulino, 1979, e Diana Vincenzi Amato, La famiglia e il diritto, in Storia della famiglia, a cura 169