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KOSOVO, NON SOLO BALCANI
GLI IRRIDUCIBILI
di
Fausto BILOSLAVO
Sul fronte kosovaro albanese e su quello serbo gruppi armati
si preparano allo scontro. Gli ‘uomini in nero’ dell’Aksh, usati
come spauracchio per accelerare l’indipendenza. Le infiltrazioni
wahhabite. I paramilitari serbi, pronti a marciare sul Kosovo.
P
1.
«
ER ORA IL LORO COMPITO È CONCLUso. Il Kosovo è indipendente e loro non riappariranno se non ci saranno nuovi
problemi», spiega, il giorno dopo la secessione di Priština, Milaim Zeka, l’ambiguo
giornalista che lo scorso autunno ha portato agli onori delle cronache gli «uomini
in nero» dell’Aksh (Armata kombetare shqiptare), l’Armata nazionale albanese.
Bollati come gruppo terroristico fin dalla prima apparizione nel 2003, promettevano sfracelli se non fosse stata concessa l’indipendenza o se i serbi avessero deciso
di opporsi alla secessione degli albanesi del Kosovo con le armi. Al Grand Hotel di
Priština, che negli anni bui di Milošević ospitava Arkan e i suoi tagliagole, Zeka
spiega davanti a una minestrina che lo spauracchio degli «uomini in nero» è servito
a far capire a tutti l’inevitabilità dell’indipendenza del Kosovo. Altrimenti le frange
più estremiste albanesi sarebbero state pronte a imbracciare le armi per ottenerla.
L’operazione di minaccia propagandistica era iniziata il 3 ottobre con un video
girato dallo stesso Zeka e trasmesso dalla televisione di Priština. Una dozzina di
«uomini in nero», armati fino ai denti, si facevano riprendere sulla strada che porta
a Podujevo, una cittadina del Kosovo settentrionale vicina al confine con la Serbia.
«I serbi si preparano a invadere il Kosovo. Abbiamo il diritto di reagire riprendendo le armi, perché la comunità internazionale ha fallito», sosteneva il comandante
mascherato del gruppo. Tutti ostentavano lo stemma giallo e rosso della nuova
formazione, che ricorda da vicino quello dell’Uçk, l’esercito di liberazione del Kosovo protagonista della guerra del 1999 e oggi ufficialmente smobilitato.
Dallo scorso autunno i miliziani in nero sono stati segnalati lungo la frontiera
della Serbia e nella parte albanese di Mitrovica, la grande città del Nord divisa etnicamente in due dal fiume Ibar. «Pattugliano le strade di notte in gipponi nuovi di
zecca e fermano anche i ladri per dimostrare che sono loro a mantenere l’ordine»,
ha raccontato un abitante di Mitrovica. Scritte dell’Aksh si notano anche a Priština
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e nel centro del Kosovo, lungo la strada principale che porta nella zona occidentale presidiata dai soldati italiani di Kfor, la missione della Nato. In altre apparizioni
create ad hoc per la stampa l’Armata nazionale albanese ha propagandato l’arruolamento di 20 nuovi membri nella Drenica, dove storicamente sorse l’Uçk.
La prima apparizione del gruppo armato risale al 2003 con eclatanti azioni di
fuoco, come il tentato sabotaggio della linea ferroviaria nella zona di Zvečan, a
nord-ovest di Mitrovica (città a maggioranza serba). L’allora rappresentante speciale dell’Unmik, Michael Steiner, bollò il gruppo come organizzazione terrorista.
Non è chiaro il collegamento diretto fra il primo Aksh e gli «uomini in nero» del
2007, ma è indubbio che la sigla riappare ogni volta che la tensione in Kosovo sale. Anzi sembra proprio che l’Aksh serva a innalzare la tensione nei momenti di
stallo con la comunità internazionale. Non a caso elementi dell’Aksh hanno partecipato ai disordini del 2004 contro monasteri ed enclave serbe lasciando la loro
firma sui luoghi di culto ortodossi dati alle fiamme. Non si può neppure escludere, anche se rimane a livello di pura ipotesi, che il gruppo armato sia un utile false
flag organizzato a beneficio di altri potentati, magari all’interno della stessa Alleanza atlantica.
Nel 2003 l’allora comandante del Corpo di protezione del Kosovo (Kpc-Tmk),
generale Agim Çeku, veterano dell’Uçk poi diventato primo ministro, accusava
l’Aksh di essere formata da «enveristi provenienti dalla madrepatria di Enver
Hoxha». Il programma politico dell’Aksh, che costituisce l’unica direttiva strategica
conosciuta del gruppo armato, prevede che tutti i territori in cui vivono popolazioni albanesi (Albania, Kosovo, Macedonia, Valle del Preševo nel Sud della Serbia,
Montenegro e Ciamuria, la zona della Grecia settentrionale che confina con il Paese delle aquile) «debbano essere riuniti in un unico grande Stato sovrano». L’obiettivo finale sarebbe una sola nazione monoetnica generalmente indicata come
«Grande Albania».
Sul fenomeno Aksh, soprattutto dalle più recenti apparizioni del 2007, si è lanciato l’autonominato portavoce degli «uomini in nero», Gafurr Adili, che da un ufficio nella capitale albanese ha messo in piedi un sito in cui si trovano video e proclami dei «guerriglieri-terroristi». Adili è ufficialmente il rappresentante della costola
politica dell’Aksh (Fronti per bashkimin kombetar shqiptar, Fbksh) e propugna
l’«unificazione di tutti i territori albanesi» in Montenegro, Serbia, Kosovo e Macedonia. In realtà non è chiaro quale sia il livello di reale collegamento fra Adili e il
gruppo armato. Secondo l’intelligence della Nato «gli uomini in nero» sono qualche
centinaio, ma «si propongono agli occhi della popolazione insoddisfatta come i veri e unici difensori del Kosovo» e delle comunità albanesi nei Balcani.
Tra i possibili motivi dell’esistenza dell’Aksh rimane quello della «mungitura a
oltranza» dei canali di finanziamento della diaspora albanese. Oltre al tentativo, da
parte dei soggetti rimasti esclusi, magari ex combattenti dell’Uçk, di partecipare ai
dividendi della gestione del nascente Stato kosovaro. Secondo fonti kosovare e
internazionali l’Aksh, attraverso la chiamata alla «lotta permanente», beneficia delle donazioni patriottiche degli emigrati. Far parlare sui media degli «uomini in ne-
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ro» serve a presentarsi come elemento credibile, vivo e operativo, che necessita di
finanziamenti.
2. Una presenza significativa dell’Aksh si limita, per ora, al Kosovo e al Nord
della Macedonia, abitato dalla minoranza albanese. Nella provincia secessionista
della Serbia gli «uomini in nero» sono sorti nella regione del Dukagjini-Metohija,
per poi comparire a fini mediatici nella zona a ridosso dell’area di confine con la
Serbia. La regione di Dukagjini, a ridosso dell’Albania, è la roccaforte del capo clan
Ramush Haradinaj, ex primo ministro attualmente sotto processo all’Aia per crimini di guerra. Haradinaj è il leader dell’Alleanza per il futuro del Kosovo (Aak), in
costante lotta di potere con i vertici della Lega democratica (Ldk) e del Partito democratico del Kosovo (Pdk) del primo ministro Hashim Thaçi. In un tentativo di
razionalizzazione ideologica delle compagini kosovare, il clan Haradinaj viene indicato come il «left wing» dello schieramento, ossia l’ala più sensibile ai richiami
«enveriani» provenienti dalla limitrofa Albania.
Un’altra lettura è che nella fase finale, prima dell’indipendenza, l’Aksh sia stato utilizzato dallo stesso Thaçi, con il tacito avallo dei suoi alleati americani, come
«spauracchio» per la comunità internazionale. Una volta proclamata la secessione
il gruppo armato è tornato in naftalina e ci resterà fino a quando non servirà di
nuovo per i «lavori sporchi», come contrastare il piano serbo di boicottaggio delle
istituzioni kosovare.
La presenza dell’Aksh in Macedonia è ridotta a nuclei di poche decine di elementi, trascurabili sul piano militare ma pericolosi nell’ottica di una possibile involuzione della crisi provocata dai serbi contro l’indipendenza del Kosovo.
Il 7 novembre 2007 l’operazione di polizia Mountain Storm, condotta da un ingente schieramento di uomini e mezzi, ha sgominato la base operativa dell’Aksh
nell’abitato di Brodec vicino a Tetovo. Durante l’operazione sono state uccise 6
persone e arrestate altre 13, tutti albanesi macedoni. Il ritrovamento di un cospicuo
arsenale di armi ed esplosivi, oltre che di simboli dell’organizzazione terroristica,
ha permesso di collegare il gruppo sgominato agli «uomini in nero» che da mesi
apparivano nel Nord della Macedonia. Lo spessore e le finalità criminali della banda superavano quelle politico-idealistiche, anche se la penetrazione dell’Aksh era
stata documentata da circa un anno da numerose scritte sui cartelli stradali nelle
zone di Tetovo e Gostivar, a maggioranza albanese. Dopo l’Operazione Mountain
Storm sembra che gli «uomini in nero» in Macedonia siano scomparsi, anche se il
gruppo armato rimane un’incognita soprattutto nel caso l’instabilità regionale riprendesse vigore a causa dell’indipendenza del Kosovo. L’Aksh potrebbe sfruttare
la secessione de facto di Mitrovica Nord e delle altre enclave serbe per riaccendere
rivendicazioni territoriali nella Macedonia settentrionale al confine con il Kosovo.
3. Al momento l’Aksh e i movimenti integralisti infiltrati nei Balcani perseguono strade e obiettivi diversi. L’unico aspetto comune è rappresentato da alcuni canali di approvvigionamento delle armi. Sembra infatti che entrambi i movimenti,
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quello politico-militare albanese e quello religioso-estremista musulmano, abbiano
approfittato, fin dal 2003, della disponibilità di alcuni ex membri dell’esercito bosniaco al fine di rimpinguare i relativi arsenali. In tal senso vi sarebbero stati alcuni
contatti per importare armi dalla Bosnia fino al Kosovo e alla Macedonia. I carichi
devono attraversare il Sangiaccato serbo, da Goražde in Bosnia fino a Peć in Kosovo e a Tetovo in Macedonia.
Non è difficile ipotizzare che se lo scontro con i serbi precipitasse le anime irrequiete che flagellano la società albanese musulmana potrebbero trovarsi schierate dalla stessa parte, unite nel motto «il nemico del mio nemico è mio amico». In
passato era già accaduto in Bosnia, quando il battaglione dei mujåhidøn di Zenica
combatteva autonomamente, ma al fianco dei reparti regolari bosniaci ben più laici. Invece il tentativo di infiltrazione di combattenti musulmani tra le file dell’Uçk
era fallito già nel 1998, quando i mujåhidøn, giunti per unirsi «alla lotta di liberazione in nome di Maometto», si arresero all’evidente stato di indifferenza religiosa dei
guerriglieri indipendentisti albanesi.
Il problema è che il fattore Aksh, come è successo negli ultimi mesi di sovraesposizione mediatica, rischia di distogliere l’attenzione da insidie ben più attuali e
pericolose, come quella dei movimenti integralisti islamici, soprattutto di ispirazione wahhabita. Dalla fine dei conflitti in Kosovo e Macedonia (come già prima in
Bosnia) le cellule wahhabite, composte da predicatori e militanti, hanno aumentato silenziosamente ed esponenzialmente la loro presenza e forza nel tessuto delle
società locali. Soprattutto utilizzando il grimaldello economico e culturale. Prima
della disgregazione della Jugoslavia le influenze religiose radicali erano sconosciute. Ora, invece, con circa 3 mila adepti in Kosovo e 500 in Macedonia, i nuovi venuti costituiscono un problema per la stessa società musulmana moderata.
Quella wahhabita è una presenza di tutt’altro spessore rispetto all’Aksh. Conta
sull’appoggio di paesi arabi, a cominciare dall’Arabia Saudita, che finanzia ogni genere di attività in sintonia con i suoi princìpi religiosi. Nella Macedonia settentrionale sono spuntati come funghi nuovi minareti, vecchie moschee hanno ricevuto
cospicue donazioni saudite per la ristrutturazione e le attività religiose. Fin dal
1999 le attività di Ong, più o meno dubbie, e investitori istituzionali islamici hanno
creato il presupposto di una profonda infiltrazione all’interno di una società albanese sempre più povera di opportunità economiche. In Macedonia gli emissari degli integralisti hanno stretto importanti alleanze politiche con partiti influenti e radicati sul territorio, utili a fornire una presentabilità di facciata.
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4. Accanto alle schegge armate dell’Aksh rimangono, da non sottovalutare, i
veterani dell’Uçk, soprattutto quelli che non hanno trovato un posto al sole dopo
la guerra contro i serbi del 1999. Abdyl Mushkolaj, rappresentante dei veterani
nella zona di Dukagjin, controllata dal contingente italiano, è un ex comandante
dell’Uçk fedele ad Haradinaj. In fiduciosa attesa del ritorno del capo dall’Aia, l’ex
«colonnello» sostiene di poter mobilitare in qualsiasi momento 10 mila veterani
dell’Esercito di liberazione del Kosovo nella sua zona, mentre i riservisti sarebbe-
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L’ALBANIA DEGLI ”UOMINI IN NERO”
SERBIA
Mitrovica Sud
MONTENEGRO
Podujevo
Pristina
K O S O V O
Podgorica
Presevo
Scutari
Skopje
Tetovo
(Skanderbeg)
Ulcinj
Tirana
M A C E D O N I A
ALBANIA
G R E C I A
Coriza
Popolazione albanese
Ersekë
Capoluoghi di area
dell’Aksh
Dall’1 al 10%
Dall’11 al 30%
Dal 31 al 50%
Zone di visibilità
e di azione dell’Aksh
Argirocastro
Dal 51 all’80%
Dall’81 al 100%
Operazione Mountain Storm
contro l’Aksh (7/11/2007)
Sarandë
Zone a forte impronta greca
Prevesa
Forti minoranze macedoni
Nomi delle “brigate” dell’Aksh
ro 40 mila in tutto il paese. Nell’ufficio di Dečani, dove campeggia un manichino
in mimetica armato di mitragliatrice del teoricamente disciolto Uçk, gli schedari
sotto chiave contengono numeri di telefono e indirizzi dei veterani sempre pronti
alla chiamata alle armi. Il «colonnello» dell’Uçk ha idee allarmanti per la sicurezza
dei monasteri serbi, come quello di Dečani, difeso dai soldati italiani. «Da tempo
chiedo di rimuovere i posti di blocco», sottolinea Mushkolaj, «con l’indipendenza i
vostri soldati devono andarsene dai dintorni del monastero. Ci penseranno la po-
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lizia e l’esercito del Kosovo a garantire la sicurezza sia degli albanesi che dei serbi, monaci e civili».
L’intelligence occidentale stima che siano duemila gli ex combattenti kosovari
pronti a imbracciare le armi. In ogni caso una forza di manovra rilevante e pericolosa che risponde a logiche di clan, oltre che a interessi criminali.
Non è un caso che i veterani si sono visti alle manifestazioni di Vetëvendosje!
(Autodeterminazione!), il movimento senza compromessi fondato da Albin Kurti,
il Casarini del Kosovo. La polizia di Belgrado lo arrestò nel 1999 durante i bombardamenti della Nato contro la Serbia di Milošević. Kurti venne condannato a 15
anni di galera e rilasciato nel 2001 grazie alla pressione internazionale. Da mesi si
trova agli arresti domiciliari, perché in febbraio, durante una protesta che aveva
organizzato contro la missione Onu a Priština, due manifestanti erano rimasti uccisi. Fustigatore dei politici kosovari, accusati di corruzione e interessi criminali,
Kurti non sembra soddisfatto neppure dell’indipendenza, che considera la mera
applicazione del pacchetto Ahtisaari. Non vuole nessuna missione internazionale
in Kosovo e ridurrebbe a una presenza simbolica anche le truppe della Nato. Lo
sostiene un seguito di studenti e di esclusi dai giochi di potere, che vedono come
fumo negli occhi la separazione di fatto della zona Nord a maggioranza serba.
Con i veterani dell’Uck e l’Aksh, che Kurti giustifica considerandoli combattenti
per la libertà e non terroristi, Vetevendosje! potrebbe coagularsi in una forza di
manovra utile a intervenire per far esplodere il braccio di ferro con i serbi.
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5. La prima linea, fra i serbi che non ne vogliono sapere dell’indipendenza del
Kosovo e gli albanesi che l’attendevano da tempo, corre in mezzo a Mitrovica, il capoluogo del Kosovo del Nord, dove la tensione è palpabile. Il «ponte blu» sul fiume
Ibar divide in due la Berlino dei Balcani. Nella parte settentrionale vivono arroccati
30 mila serbi, molti dei quali fuggiti da altre zone del Kosovo a causa delle vendette
albanesi. L’organizzazione paramilitare più strutturata e importante da parte serba
ha il suo quartier generale a Mitrovica Nord e comprende fra i 300 e i 400 uomini,
che in caso di necessità sarebbero ben armati ed equipaggiati. Durante le manifestazioni quotidiane dell’orgoglio serbo contro l’indipendenza del Kosovo sono loro
a garantire l’ordine pubblico e soprattutto un cordone insuperabile all’ingresso del
«ponte blu» per evitare che qualcuno si lanci verso la sponda albanese.
Ufficialmente i giovanottoni nerboruti collegati con radio portatili dell’ultima
generazione fanno parte della Protezione civile di Mitrovica, che risponde al Consiglio nazionale serbo. Quest’ultimo è una specie di autogoverno delle municipalità ancora abitate da una maggioranza serba (attorno alle 80 mila persone su tutto
il territorio). Il Consiglio nazionale serbo che governa Mitrovica Nord ha organizzato piani che prevedono l’evacuazione di donne e bambini, il presidio dell’ospedale e altre misure definite di «autodifesa». Il capo della sicurezza è l’affabile
Nebojša Jović, mentre uno dei leader storici della Mitrovica serba rimane Marko
Jakšić. Durante i negoziati sullo status del Kosovo faceva parte del team serbo.
Jakšić è conosciuto per la sua linea intransigente contraria a qualsiasi concessione
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agli albanesi e favorevole all’uso delle armi per difendere i serbi del Kosovo, soprattutto il suo feudo del Nord. Altri rappresentanti dei serbi locali come il moderato Oliver Ivanović contano poco rispetto al duopolio Jakšić-Jović.
Jakšić ha tirato le fila dell’ammutinamento degli agenti serbi della Kps, la polizia mista kosovara e spinge per azioni di boicottaggio sempre più estreme. In sintonia con il capo della Chiesa ortodossa serba in Kosovo, Artemije, sia Jakšić che
Jović hanno criticato duramente il capo di Stato maggiore delle Forze armate serbe. Il generale Zdravko Ponoš ha escluso l’uso della forza contro l’indipendenza
albanese.
Jakšić è un deputato del Partito democratico del premier serbo dimissionario
Vojislav Koštunica, ma a Mitrovica, grazie all’appoggio della «protezione civile» ha
caldeggiato il voto per Tomislav Nikolić alle elezioni presidenziali del 20 gennaio.
Curioso che l’altra grande enclave serba di Gračanica, appena fuori Priština, appoggiasse invece il moderato e filoeuropeista Boris Tadić, che è stato riconfermato
capo dello Stato. Se Jakšić è l’eminenza grigia dei «duri e puri» di Mitrovica, Jović è
l’abile braccio operativo. I giovanottoni della Protezione civile sono ai suoi ordini.
«Non vogliamo la guerra, ma preferisco morire piuttosto che andarmene e vivere
per sempre da profugo», aveva ribadito Jović poco prima dell’indipendenza. Non si
muove foglia senza che lui lo ordini.
Due giorni dopo la proclamazione dell’indipendenza una folla inferocita ha
preso d’assalto i posti di frontiera dell’Onu con la Serbia nel Nord del Kosovo, per
dimostrare che almeno una parte della provincia ribelle era ancora «unita» a Belgrado. A coordinare la colonna di serbi infuriati, che hanno incendiato tutto prima
dell’arrivo delle truppe americane, c’era una vecchia conoscenza delle battaglie sul
ponte di Mitrovica, che divide la città fra serbi e albanesi. Alto, muscoloso, con la
mascella squadrata viene chiamato da tutti Pagi. In realtà si chiama Slavogub Jović
ed è il fratello di Nebojša Jović. Un chiaro segnale che gli incidenti erano organizzati e probabilmente avevano ottenuto il tacito appoggio di Belgrado. Fra i manifestanti serbi c’erano anche dei poliziotti in divisa della Kps. Secondo fonti della Nato sarebbero almeno un migliaio gli agenti del Mup, il ministero dell’Interno di
Belgrado, infiltrati nelle enclave serbe in Kosovo o arruolati nella Kps. Gente addestrata, che si è già ammutinata agli ordini di Priština e nel caso di scontri si coordinerebbe con le unità di autodifesa serbe come quella di Mitrovica.
6. Tomislav Nikolić guida gli ultranazionalisti del Partito radicale, la prima formazione nel parlamento di Belgrado, e sogna che i paracadutisti russi si lancino
sul Kosovo. Il presidente del partito è Vojislav Šešelj, in galera all’Aia con l’accusa
di essere stato uno degli ideologi della pulizia etnica nella sanguinosa guerra dell’ex Jugoslavia. Nikolić sa che i sogni non si avverano quasi mai e quindi sta già organizzando, secondo fonti riservate a Belgrado, una grande marcia contro l’indipendenza del Kosovo. L’obiettivo è mobilitare fra le 10 e le 20 mila persone, compresi i riservisti dell’esercito che hanno combattuto in Kosovo e i paramilitari che si
sono distinti sui fronti balcanici degli anni Novanta. La marcia dovrebbe puntare
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sulle frontiere settentrionali dell’ex provincia a maggioranza albanese. Se i manifestanti le superassero lo scontro con le truppe della Nato sarebbe inevitabile.
I veterani sono molto forti a Niš e nel Sud della Serbia, in particolare a Raška e
a Prokuplje, a pochi chilometri dal confine kosovaro. Per ora si sono limitati a manifestazioni di protesta indossando le uniformi da combattimento, ma senza usare le
armi. I veterani sono una mina innescata perché di fatto abbandonati dal governo
serbo. Molti non ricevono neppure la pensione minima e senza reali speranze per il
futuro risultano facilmente manovrabili. Un nocciolo duro fra i 500 e gli 800 uomini
si starebbe già organizzando. In tutta la Serbia si stanno tenendo riunioni più o meno clandestine per una mobilitazione anche paramilitare contro l’indipendenza di
Priština. L’ultima, in ordine di importanza, è stata organizzata il 25 febbraio a
Kruševac. Dopo una messa ortodossa un centinaio di partecipanti hanno discusso
di come creare una sorta di organizzazione paramilitare da impiegare in Kosovo.
Anche a Novi Sad, capoluogo della Vojivodina, nel Nord della Serbia, la situazione potrebbe diventare esplosiva. La città ha raddoppiato il numero dei suoi abitanti dopo l’esodo dei serbi dalla Krajina e dal Kosovo. Molti giovani delle famiglie
sfollate dichiarano di essere pronti a imbracciare le armi per il Kosovo, ma manca
al momento un’organizzazione seria e strutturata che li inquadri. Molti giovani erano stati irretiti dai proclami della Guardia dello zar Lazar – il re serbo ucciso nel
1389 in Kosovo durante la famosa battaglia contro i turchi. «Ci riprenderemo con la
forza le nostre terre. Nessun albanese sopravviverà, li sgozzeremo tutti uno per
uno», ha delirato per settimane Hadži Andrej Milić, un teologo che si è autopromosso «generale». Il fondatore della Guardia ha fatto proseliti in Serbia e nelle enclave serbe in Kosovo, ma la milizia sarebbe solo una cortina fumogena propagandistica, che dalle parole non è passata ai fatti.
Però in tutta la Serbia, ma soprattutto in Vojvodina, stanno aumentando gli attacchi contro le minoranze. A cominciare dagli albanesi, ma vengono intimiditi anche i gorani. Quest’ultimi sono originari musulmani della zona kosovara di Prizren,
che però parlano serbo e hanno subìto la vendetta albanese dopo il 1999. I gorani
e gli albanesi gestiscono soprattutto panetterie e bar, che sono finite nel mirino dei
violenti in diverse città.
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7. «Chi non salta albanese è…» va per la maggiore alle manifestazioni contro
l’indipendenza del Kosovo, ma non mancano slogan da macelleria balcanica come
«Ammazza, ammazza l’albanese così spariscono per sempre dalla Terra». A Mitrovica, come all’ambasciata Usa data alle fiamme nella capitale serba, sventolavano le
bandiere russe e quelle nere dei cetnici con il teschio e le tibie incrociate. Le parole d’ordine dello stendardo dei partigiani monarchici sono: «Credo in Dio» e «Onore
o morte».
Il 21 febbraio a Belgrado è scoppiata la guerriglia urbana con un bilancio di
130 feriti, compresi 52 poliziotti, e un morto. Si chiamava Zoran Vujović ed era un
profugo serbo dal Kosovo trasferito con la famiglia a Novi Sad. Il suo corpo carbonizzato l’hanno trovato al primo piano dell’ambasciata americana presa d’assalto
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da frange estreme di una grande manifestazione di protesta contro l’indipendenza
di Priština, che ha raccolto in piazza almeno 250 mila persone. Anche altre ambasciate hanno fatto le spese della serata di guerriglia a parte quella italiana dove i
manifestanti hanno lasciato solo uno striscione scritto nella nostra lingua: «Ieri il
Duce oggi D’Alema». Il giorno stesso il governo italiano aveva riconosciuto il nuovo Stato del Kosovo.
L’esplosione di violenza è stata organizzata e pilotata, nonostante sembrasse
frutto di una furia spontanea e improvvisa. Nelle tasche dei circa 200 manifestanti
fermati sono stati trovati alcuni volantini con la mappa del centro di Belgrado e dei
cerchietti attorno agli obiettivi da colpire, come l’ambasciata americana. In prima
linea c’erano gli ultrà delle squadre di calcio, a cominciare dai tifosi violenti del
Vojvodina calati da Novi Sad. Si tratta di una squadra di calcio gestita da manager
molto vicini al Partito radicale di Nikolić.
Gli ultrà delle curve sono un serbatoio storico degli odi balcanici. Accanto agli
hooligan del Vojvodina c’erano i delije (Stella Rossa), che significa «coraggiosi» assieme ai grobari, ovvero i «becchini» del Partizan. Sugli spalti sono acerrimi rivali,
ma durante le manifestazioni di piazza si alleano per sfasciare tutto come è accaduto a Belgrado. La Stella Rossa è il club calcistico che ha avuto il più alto numero
di dirigenti arrestati per collusione con la mafia balcanica. La tifoseria estrema è
sempre stata legata alle tragiche vicende dell’ex Jugoslavia. Ai tempi di Tito la Stella Rossa era la squadra di riferimento dei poliziotti, il Partizan dell’esercito.
Il capo dei tifosi più famoso è stato Željko Raznatović, il famigerato Arkan, che
significava «immortale», eliminato da una sventagliata di mitra nel 2000 in un grande albergo di Belgrado. La scintilla della disgregazione jugoslava scoppiò nel 1990
proprio con la partita fra la Dinamo di Zagabria, di Zvonimir Boban, e la Stella
Rossa di Belgrado, sfociata in una zuffa. Arkan arruolò i tifosi più violenti nel suo
corpo paramilitare: le Tigri che in Croazia e Bosnia si macchiarono di massacri. Nel
1996 Arkan acquistò grazie a uno strano avvocato italiano, Giovanni di Stefano, la
squadra di calcio Obilić, che stravinse in casa ma fu messa al bando dai campionati
europei.
Dopo la morte di Arkan la tifoseria violenta non si è fermata, continuando a
scendere in piazza anche contro Milošević. Oggi gli ultrà vengono manovrati dagli
ultranazionalisti.
Secondo la polizia serba la tifoseria più pericolosa è l’United Force dell’Fc
Rad, una squadra dei sobborghi di Belgrado retrocessa in serie B. Questo gruppo
di hooligan è diventato famoso per aver difeso Veselin Šljivančanin, ex ufficiale
dell’Esercito jugoslavo, ritenuto responsabile di crimini di guerra a Vukovar (uccisione di 194 fra civili e paramilitari a Ovčara, dopo la caduta della Stalingrado
croata). Nel 2003 la polizia serba lo arrestò, ma gli ultrà dell’Fc Rad difesero per
ore il nascondiglio del loro «eroe» con azioni di guerriglia urbana.
8. Oltre agli hooligan, le frange più organizzate in piazza sono composte dai
militanti di Obraz (Onore) e dai neonazisti del Nacionalni Stroj (Ordine nazionale).
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«Avete strappato il cuore della nostra nazione riconoscendo la cosiddetta indipendenza del Kosovo. L’Italia ha sempre avuto buoni rapporti con i serbi, ma da oggi
non possiamo più essere amici. Ci avete tradito». Non ha peli sulla lingua Mladen
Obradović, il giovane capoccia di Obraz. Alle pareti della piccola sede fra Novi
Beograd e Zemun, roccaforte dei radicali, sono appese le foto del generale Ratko
Mladić, ricercato per crimini di guerra commessi in Bosnia. Durante gli incidenti
delle ultime settimane contro l’indipendenza del Kosovo i militanti di Obraz portavano in giro anche un’immagine di Milorad Ulemek, il famigerato Legija. L’ex capo
dei Berretti rossi, i paramilitari un tempo pretoriani di Milošević, oggi sconta una
lunga pena per l’assassinio nel 2003 di Zoran Djindjić, il premier serbo. Legija ha
fatto sapere dal carcere che se venisse rilasciato, assieme ai suoi accoliti, ci penserebbe lui a sistemare il Kosovo. «Per noi Mladić e Karadžić [ex leader politico dei
serbi di Bosnia] non sono criminali, ma eroi che hanno solo difeso il popolo serbo.
Vogliamo che il governo di Belgrado la smetta di consegnare i serbi al tribunale
dell’Aia», sostiene Obradović. I contatti tra la Chiesa ortodossa e l’organizzazione
clerico-fascista esistono ancora, anche se meno forti che in passato, ai tempi del
fondatore Nebojša Krstić, morto in un incidente stradale nel 2001.
Il Nacionalni Stroj fa invece parte della rete internazionale neonazista Stormfront. Il leader degli skinhead e naziskin serbi è Goran Dadidović. Nonostante le
condanne fa proseliti soprattutto all’università di Novi Sad e nelle scuole superiori
sia in Vojvodina che a Belgrado. Gli stessi radicali prendono le distanze dai neonazisti. Il sindaco di Novi Sad, Maja Gojković, pur ultranazionalista, ha dichiarato che
le sembra incredibile un raduno neonazista in una città che aveva sofferto tremendamente durante la seconda guerra mondiale.
Il numero dei simpatizzanti dell’estrema destra è incerto, ma durante le manifestazioni il gruppo Onore e i neonazisti sono i più organizzati e temibili. Negli ultimi incidenti a Belgrado hanno cercato di colpire pure i giornalisti serbi, soprattutto quelli della radio e televisione B 92, considerati troppo vicini all’Occidente.
Il problema è che sull’affronto del Kosovo indipendente si sta allargando il
solco politico, all’interno della Serbia, fra i filorussi e gli europeisti. La crisi di governo è oramai scoppiata. In vista delle elezioni parlamentari anticipate si temono
scontri, anche armati, fra le diverse «milizie» che i partiti stanno coltivando non solo
per le manifestazioni contro l’indipendenza di Priština.
(hanno collaborato Stefano Giantin, Ivo Marussi e Alberto Taddeo)
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