Scarica la raccolta di poesie - ilNichilista

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Fabio Chiusi
PIANO INCLINATO
A mio padre.
Non porterà nemmeno
La lanterna. Là
Il buio è così buio
Che non c’è oscurità.
- Giorgio Caproni, La lanterna
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Quando il miele colerà dalle vene
noi saremo rapaci nel becco intenti
a portare la tua dolcezza. Ronzeremo nella notte per segnalarci
l'un l'altro l'arrivo, il verso sarà il condotto scuro
dove ci siamo perduti – in esso ci ritroveremo,
“con le mani giunte”, “con la mente impegnata a violare
cose”, “con tutte le frasi su cui abbiamo
sbagliato”. Perché io ti cerco dove sembrano svanire
le consuetudini, io nego la tua morte (perché io cerco
un antidoto, una salvezza) (mai
negare ad un uomo la salvezza) – perché io possa più agilmente
distinguerti da ciò che scompare ritorno al nostro ululato
(il nostro verso) (ricordi?) - rimetto nelle sue mani l'incontro,
l'esito e la destinazione: come lupi affamati (“ancora ti bramo, ancora
di te sono affamato”) abbracciano la preda, a caccia di risposte.
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Tre fili ingannano la morte (non sono tre dee, non si tagliano per morire,
non abbiamo la stessa separazione) (noi possiamo toccarlo,
questa morte possiamo volere) (mai del tutto): ho visto
come li guardi, ho visto come ci guardano – sono tutto quanto abbiamo –
tutta la nostra vitalità. Ed eccoti
sopra la sedia del cielo, il trono del mondo, le macerie
e la nascita di ogni cosa. Tocca a ciascuno di noi
infilarsi tra le braccia quel cavo ed attendere, scalare l'universo
fino a quella sedia, scavare dentro il dolore
per riemergere avvolto a tre fili che spostano l'ago
tre fili che attendono il destino e i tuoi occhi (no, questo
non ti rende grazia) (non è per la grazia)
(questo senso eterno, questa peculiarità) – come vorticano
e insieme si oscurano
- è tutto incomprensibile (resisti) (“ho voglia di alzarmi”, “sono pur sempre
vivo, ho diritto ad alzarmi”) (“non voglio privarti
di me”)?
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Potesse nutrirmi lo spavento, dicevi, un filo di voce
mi avrebbe portato alle pendici del monte Olimpo – non sapevi dire
“Olimpo”, era tutto per te una dannazione. Potessi
viaggiare finché ogni cosa si arrampica alle pendici
fallendo, sceglierei il luogo dove io e il tormento
troviamo casa: la misericordia
che hai lasciato in cima – tutto
pur di averti qui. Perché s'inventa per questi giorni
un'attesa (“non smettere”, “non sperare”, “chiamami”, “ti rispondo”),
perché si vibra con questa parola – speranza – fosse
l'amo delle nostre condanne
per sempre lasciato ai tuoi piedi
a dibattersi.
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Prevale l'istinto, il mormorarsi terribile
(“ce la faremo, ce la faremo”) non ti contempla, non si sottrae
incognita a incognita (non verremo come piani inclinati
a scendere il suolo, scovare il segreto). Tu
segretario del tempo, domestico della pazzia
annota la data di oggi – venti maggio duemilanove (spegni
nel frattempo la sigaretta) (ricordati di omaggiare
il caduto, di avere nel pericolo una fuga infinita) (ricorda ricorda
ricorda) – tu che fragile dei malanni
(ora, si scriva, sul braccio, pietà)
accedi al mio futuro remoto, alle mie coniugazioni
dimmi, in un sussurro, il risultato.
Annoto il pericolo (“scampato”), e delle tue parole
è un mostro che si avvera (“ce la faremo, ce la faremo”).
Di queste frasi è fatto un decesso:
“sono guarito”, “riempio di faglie il mio stomaco”, “ho pena di me”.
Poi tutto è rimorso, e sale la china.
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Ad esempio questa ribellione, questa urgenza:
“cambiare le cose”, “mostrarti sempre disincantato”, “essere il primo
contro il muro” - che significa? Se io lo volessi
saresti forse salvato
(perché di questo si tratta) (vincere la morte)?
Raccogliere ombre, vendicare
tutto lo sforzo compiuto per raccogliere il male, gettarlo oltre la tua
spada trafitta, scagliarmi contro il guerriero che ha vinto il duello
perché aveva nel folto nascosto
un complice? Non sono sicuro
sarebbe servito a
una spada più nuova, una spada più intatta –
sempre impugno e solamente il mio pensiero
e non basta, tu continui a morire.
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Ci hanno imprigionato (era la tua vicenda) (potevamo forse noi
muoverla?) in mesi scritti d'appendice,
da non vivere davvero – per questo ordine di fuoco
(“spara nel mucchio”, “colpisci
questo avambraccio”, “in alto le mani”)
“consegnati al nemico” - non potevamo che batterci
e per una morte annunciata. Ma da questa prigione hai colto di me
che soltanto impugnando il tuo amore avresti perduto ogni cosa
– e terribile è notare quanto precoce fu la tua analisi,
quanto esatta
la descrizione di ciò che avrei scritto.
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È sempre un usciere la buona novella
- dovrei avvicinarlo al buio, come si avvicina un gatto, lentamente
farmi invisibile e costringerlo a dire, spogliarsi del peso,
incitare alla confessione: “io, oggi
ventuno di maggio (sarebbe la confessione
un giorno qualunque, sempre
un giorno qualunque) riduco me stesso a parola,
voglio svelarne il destino” - condurlo
alla resa. La lotta di chi impara
(forzatamente) l'accettazione, o la lotta (“sono
incredulo”, “ho la tua fede”, “non mi conosco”)
di chi la rinnega, o ancora
l'imbarazzo di trovarsi nel culmine delle parole
con un solo disarmato silenzio.
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E sempre alla guerra (il tuo gesto preferito
la fuga cui non sapevi distrarti)
sempre quel morso vivo d'incomprensione:
ma che un giorno capissi
non che di guerra si può morire, che è delle nostre ultime voci
che risuona il tempo, delle nostre più fragili menzogne
dei nostri amori irrisolti – di questo scrivono gli dèi
quando perdono le tracce
e nell'ultimo atto un giudizio
recuperano sulla nostra eternità. Ho pensato (e congiungo le mani) (e mi sento
imprudente) (e affronto la colpa e il perdono) che sei
vecchio per questo mondo e giovane per il prossimo – che
ti hanno scelto da un luogo di purezza per mischiarti all'errore
e che io, misero cronista della tua e di ogni caduta
io non ho diritto a sorgere (“saranno altre le cadute”, “sarò
io a reggerti”, “io il tuo suolo, la tua terraferma”)
dalle ceneri.
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Servirti sarà infinito (avrà forse il tempo di una
carezza?) (avremo di che
ridere?), ma come infinito è il piacere
- per un attimo appena e poi te ne andrai. È deciso
come congiungersi alla cerimonia, violare il codice allo specchio,
“ho strappato il tuo abito”, “ho veduto sopra le scarpe una macchia”,
“voglio inabissarmi nel tuo corpo” - giungere alla meta
con un compito inseparabile dal raggiungerti (io non ti temo)
(io ti sono fedele). Questa generazione la vivremo insieme,
come un colpo che trapassa due cuori, come un monte
che scala due cieli.
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La percezione infinita delle tue gambe che si affannano
mentre lo specchio rimanda la debolezza di chi ha perduto del
sangue ed ancora – con un colpo di azzardo – prova
una certezza (“ti avrò con me”) (“ancora mie
saranno queste gambe”) (“questa fatica”). Venisse nel malanno
una conoscenza ulteriore, una resistenza che spezza
- non di questa debolezza, di questo pallore fosse attraversato il mondo
ora che scavalchiamo il sole e la terra e in un balzo
vediamo ciò che rimane - “sarei perseguitato dal tuo fallimento”, “ora
il mio destino si lega al tuo, non per amore, non per saggezza
ma perché sia innocente (o ti lasci in essa sospeso) (o ti semplicemente
ricordi del tempo innocente) (averne testimonianza) questo ultimo nostro
traguardo”.
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Le semplicità infinite come il braccio
che ti sorregge (semplicità?) (non si trattava di una prova
ulteriore) (di un'esattezza?): semplice perché
ancora afferra – la scalinata, il portavivande, il poggiolo –
una memoria del mondo che hai avuto
e prosegue. Ma ecco, di nuovo improvvisamente
non è semplice: il braccio è memoria, le scale memoria, le pere
(“gialle”, “mature”, “williams”) memoria – verranno tutte
nel giorno della prova ulteriore, dell'esattezza –
il tuo ultimo indizio, la stoffa con cui tessere nel petto
un diamante di te? Per questo e per ogni altro tempo
osservo il tuo braccio afferrarmi – così,
semplicemente.
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Da quando ho speso le ultime monete per assaggiare la neve
ho saputo la forma del ghiaccio – forma che in te
ho imparato a conoscere e negare (perché sempre di questa fantasia
abbiamo sofferto) (sempre delle tue negazioni) (sempre del tuo lento
discioglierti). Era per questo tremendo sulla lingua,
“due anni ancora”, “due anni soltanto”, “non vedremo dei fiocchi
una fine” - saperti una destinazione impossibile
per la mia struttura, fiocco io stesso, fragile io stesso
e nella fragilità estrema un'ultima condanna:
osservare l'inverno (“ma sempre e comunque due anni
sarebbero i giorni della mia perfezione”) (“i giorni di ciò che al sole rimane”)
e con l'inverno finire.
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Ciò che hai desiderato non conta – sono braci
per un calderone in cui vedo la morte (e in essa
l'amore) (e dopo l'amore
nulla). È stato in questi mesi il mio tornare a te
una cerimonia sacra, con le formule assurde della salvezza
(“prometto”) (“giuro”) vedere l'aprirsi di un mistero, testimoniare
il miracolo – osservarne ogni giorno il ripetersi.
E se in te ho sperato, se in te ho promesso è perché credo a questi miei occhi
(sono a volte come i tuoi, cangianti), credo siano un impasto
della salvezza e del fuoco
i tuoi desideri impigliati nei miei, la nostra memoria
oltre il fumo che emana (“ed è questo, in sostanza,
un miracolo”) intatta.
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Con un vago pallore (bianco è il colore
della resa) (bianco è il tuo ventre che cerca ristoro) (bianco
è tutto il futuro) ti abbandona – e non è sguardo per il tuo corpo,
“sarà una vita indegna della vita”. Verremo noi a combattere, annotare
le nostre sconfitte (“è nato qui”) (“ha toccato questo”) (“fino a te
si estende il nemico”), sacrificare in esse il dolore.
Ma ti prego ridammi i confini, non lasciare
di tutto indistinto candore
il nemico e il fratello – è nella tua resa che si arrende la percezione del momento
in cui ad arrendersi è il nemico, il momento in cui ad infrangersi
è il sole (“con questa tua luce ho illuminato il tuo corpo”) (“quale colore
hai veduto, allora”) (“quale colore ha il sangue, dopo la resa”)
sopra un sole più grande, che ti abbandona.
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Torna per un più assurdo annuncio,
più di quanto annunci (“questo nulla è incurabile”) (“l'intero
universo sarà il mio tatto”) (“ovunque sarai potremo sfiorarci”)
una preghiera di assurdità ulteriore - dopo tutta la speranza
(e a questo punto batterà la pietra) (in questo momento
sarà una briciola il tuo male) il convitto chiude i battenti sopra una notte proibita
e solamente desidero la ribellione
in cui la notte è proibita
ma al desiderio - “ho saputo della mia fine, e non vi è desiderio”, “ho trovato
la chiave per entrarvi ed uscirvi a comando”, “questa fine ha un segreto,
è reversibile”. Dopo tutto il male patito
io ancora ti tengo la mano come potessi in una parola
(“è amore”) (“è attaccamento”) (“serenità”) ritornare dal viaggio.
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Il procedere a piene mani
nell'amore, come un fantoccio nella notte – senza più occhi
per il nemico, senza più tatto per
stringerlo a terra. E io che provavo a scendere fino a te
(camminando) (correndo) (restando immobile)
privo della vista e di una pelle io stesso
per capirti, fare del tuo il mio stesso dolore – io che non capivo
che dentro al tuo abisso c'è posto per uno soltanto,
un sospetto arenato nel cuore (“come una persona ritta e immobile
osserva il passato”) (“come chi per sempre cammina non in suo nome
ma in quello degli altri”) che sia questa la colpa – avermi escluso
da questo tuo abisso come dal cuore si esclude un fantoccio
da terra raccolto.
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Quando guarderemo da un vecchio colore
questo caos senza più tela e il dipinto come una sabbia
nelle nostre mani si sfalda - in esso il tessuto delle nostre
vite sapremo e di quale materia erano fatte
- a quale corrente avremmo potuto appartenere, se appartenere
fosse stato una possibilità. Vedo questo colore mutare nel tuo volto
(“sono più giallo”) (“soffoco un poco, a mangiare”) (“dovrei fare più moto”)
come cambia una prospettiva nei dipinti ingannevoli
cui abbiamo creduto negli ultimi mesi (“graviola”) (“aloe arborescens”)
(“erlotinib”) - tutti piani da cui non si scende, tutte figure
che in te si sovrappongono - e non posso sostare nella bellezza,
lo sguardo è al punto di fuga, noi stessi (senza più tele) (senza più
sabbia) (senza più a nulla appartenere) fuggiamo.
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Come ti avvero
nulla. Come ti posseggo, controcanto e benedizione
del nostro cercarci oltre le frasi (è forse una figura che brilla
oltre noi) (è forse una voglia irraggiungibile) (una veduta)
– potresti domani avere pace?
Oppure non servirebbe a contenerla, materia
che si nutre di te – di questo, purtroppo, ho parlato
e non risponde una voce, non di questo scaffale
dispongo (me ne addoloro) - non posso inverarlo.
Ma se siamo desiderio e preghiera, se miserabili e possenti
per tutta la potenza delle mani
(“potrebbero sostituire il mio corpo”) (“dicono
non servirebbe”) (“cambieranno mai il mio amore
in salvezza?”) appresa da chi con altre, più forti mani ha violato il possibile
lascia sia vero il riposo, vera
la benedizione.
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Questa condizione (buia,
scura nell'abito) di inseguimento parziale: di te
che spegnendoti cerchi e al contempo
chiedi di scappare oltre il tuo fiato, oltre la corsa
che ancora potresti produrre. Mancano giorni
- o forse anni, o forse ancora
il tempo ti conduce senza fermate
all'abisso (veste, in quel caso, l'abito nero di tutti i giorni
che perderemo) (sono cerimonie per ciò che non avrai)
(formule per la memoria e il pianto)? - “l'abisso
che ho chiesto in un gesto è arrivato”, “era troppo l'amore”,
“era troppo ciò che, creando, ho scatenato?”. Mancano
al tramonto e a me un sorriso
si confonde col tracciato esile della tua anima
sopra il buio e il tempo.
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Sempre sfinito dalla tua condizione
- sento il ricordo del tempo calcolare (era forse un giorno
d'estate improvvisa, di quelli che sorprendono
come il tuo male) la vicenda del mio riempire d'impegni l'agenda
e del mio tentare di raccogliere, in poche parole, un senso millenario
per la nostra fragilità (“a me piace far niente”) (“anche tu stessa
ne hai l'abitudine”) (“anche a noi scatta nel cuore un serraglio”)
- e, come ogni volta, il poggiarsi delle maree
e il ritrarsi in dolore, in manchevolezza, il ritirarsi
che portava il tuo nome e lasciava il tuo corpo,
bagnava i passi residui (verso casa) per solamente
risvegliare un più assurdo deserto, fatto dei passi futuri
che ancora avrò tempo di spendere mentre tu (“a volte l'ho desiderato”)
(“a volte ho chiesto l'irrazionale”) (“il definitivo”)
come me, annoti la distanza coperta dai cocci
del calice infranto.
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Viaggeremo nella confusione, tra porte che sbattono e altre
che avanzano memoriali bruciati (sempre tra loro coordinate) (sempre
spazialmente disposte a ventaglio, per raggiungerti la fronte)
di te medesimo – libero come l'arco
infinito, come il libro che si crede mondo?
Permettimi di aprirli tra le tue mani
ora che sei disposto a generazioni ulteriori (“e guardo
la pace del prato”) (come potesse contenerti)
(sciocco) – permetti che in essi conduca un gesto d'amore
sopra il tuo amore ultimo, che spinge nell'odio la vita, che
della vita stessa è rifiuto, incapace com'è di amarti così
(“la mia ribelle”), (“la mia caduta”) interamente.
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Serve alle reni questo ritorno (“mescolando
tutti quanti gli intenti si può forse ottenere
un prolungamento biennale, una estrema
carezza”), a biasimare il tempo e volere
- volere interamente questo tempo perduto
insieme alla morte. Rialza la testa (ancora una madre
può versarti sulla fronte parole di pace) (anche adesso che ti sacrifico
per rialzare io stesso lo sguardo) (per volere io stesso
una madre e una pace) – c'è tutto il costato che duole, e un costone
di pietra (il cielo), inamovibile, impossibilmente legato al tuo sguardo
(come un riflesso di te che mi osservi) (come io stesso
ti osservo). Vorrei come un santo affermare che ogni mistero
si svela, che ogni cosa appaia ha un riflesso – che di esperienza
è fatta la morte, che anch'essa (improvvisamente)
si supera.
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Giuramenti talmente forti da nasconderti
nell'avvenire, pensare a come sia scomparso il cemento da terra,
il tuo sangue invece che vita portasse dolore - a come più spesso
desidero. Fosse un un campanile o un tetto
a smettere – non la breccia
ma il suo affossarsi: fossimo noi esploratori di un suono
che svanisce, non spettatori di un'eco infinita (altro che unici,
noi siamo uno ed ognuno) (uno nel suo senso numerale)
(categorico). Anche il male ha un pianto, un impegno
(un giuramento)? Anche il suo sangue ha bisogno di bagnare le porte
che sfonda? Anche il suo suono (dolcemente) si assenta?
Perché ho bisogno di portare la fede in quel luogo,
portare in quel luogo (se esiste) l'avvenire.
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Sopra un vetro scorrono le tue mani
(sopra un tetto che luccica) (sopra tegole che riflettono il passato).
Sopra il nostro vuoto. Come tutto si incrina
quando la carne diventa carne, quando i sogni diradano
materia anch'essi, materia che si spezza, quando
tutto dirada e non resta che una chiara visione
(“pallido spavento”) (“perché non chiami”) (“oggi potresti forse
interrompere”) - un vento che muove fantasmi di noi tra le stanze,
un'ombra che assurdamente vince allo specchio, che assurdamente
ci toglie l'un l'altro la vista. Un giorno ti ho visto insultato dal tuo
stesso amore (tu con pochi, leggerissimi passi, hai lasciato
la stanza) – e mi incrocia nel rimando
questa ferocia e il mondo intero.
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I mondi a noi opposti – realissime costruzioni
senza concordia, divorano il corpo che a tutto si oppone.
E che sempre annientano,
(la misura della distanza, il colore del pigiama, la minestra
torrida nel pentolone) pugile che suona le fortezze
- e noi, arresi ai suoi vertici, ad attendere dal basso il nemico.
Sono stato per anni nel secolo delle finzioni, ma è bastato il tuo volto
(il tuo dissenso) (la tua identità) per spogliarmi,
il tuo volto che arrende ogni pretesa, ogni progetto e conseguenza
è bastato a toccarmi, il tuo corpo ha finalmente mostrato
il vero.
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Finché ho sperato, ho scritto: per innamorarmi del ricordo,
sostituirlo al corpo. Quando ha ceduto,
allora non ho potuto più scrivere
- sarebbe stato come consegnarti a un'eternità che giorno dopo giorno
ti negava (e consegnarti alla bugia e alla menzogna) (al male
estremo) (al non redento).
Ora sono capace di dimenticarti, abbandonare le menzogne
sul tuo male, calamite attratte da poli opposti – tu
nella purezza, io sopraffatto dallo sforzo di impedire
che la storia, per qualche osceno motivo, ti ricordi
ti celebri, e cambi.
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Nota: Queste e altre poesie sono in cerca di un editore. Chi fosse interessato mi può contattare
all'indirizzo mail [email protected].
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