La guerra raccontata ai bambini. Nota in margine al giudizio di Paride
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La guerra raccontata ai bambini. Nota in margine al giudizio di Paride
La guerra raccontata ai bambini. Nota in margine al giudizio di Paride Claudio Tugnoli Alle nozze della dea Tetide con il mortale Peleo gli dei vennero non solo per portare i doni, ma anche per partecipare al banchetto. Zeus aveva invitato tutti gli dei al matrimonio, tranne Eris, la dea della discordia. Temi, la dea saggia, o, secondo un’altra tradizione, Momo, il biasimo, aveva consigliato Zeus di escludere Eris. In precedenza Momo aveva trattenuto Zeus, che aveva manifestato l’intenzione di distruggere l’umanità con la folgore e le inondazioni. Momo aveva consigliato Zeus di generare Elena e di favorire il matrimonio di Tetide e Peleo: la conseguenza più grave di questi due avvenimenti sarebbe stata l’estinzione della stirpe degli eroi. Eris, per vendicarsi della sua esclusione dal banchetto, gettò in mezzo ai presenti una mela, che, osserva Karóly Kerényi1, sarebbe diventata quasi altrettanto famosa della mela con cui entrò nel mondo il peccato secondo il racconto del Genesi. La mela (sia che provenisse dal giardino delle Esperidi, sia che fosse d’oro) era indirizzata alla più bella con una parola incisa oppure detta soltanto o neppure espressa. Le tre dee più importanti, Era, Atena e Afrodite si lanciarono sulla mela per impadronirsi del dono. La disputa, a questo punto, diventa furiosa e implacabile. Ciascuna delle tre dee desidera per sé la mela che le altre due si contendono. Il desiderio mimetico qui sale di intensità in modo quasi istantaneo, perché ciascuna dea svolge la funzione di mediatore per le altre due. Il confronto mimetico fa sì che il valore della mela appaia assoluto e il suo possesso irrinunciabile. La disputa fu decisa da un mortale con un giudizio che avrebbe portato alla guerra di Troia e alla fine del regno di Micene. Paride fu indicato come giudice dallo stesso re degli dei: Ermes avrebbe portato a Paride la mela insieme alle tre dee. Dopo la nascita del primo figlio Ettore, che avrebbe respinto con successo i greci da Troia, Ecuba, che stava aspettando il secondo figlio, sognò di partorire una fiaccola accesa, il cui fuoco si estendeva su tutta la città. Una Erinni dalle cento braccia portava questo fuoco che, nel sogno, distruggeva la città di Troia. Cassandra consigliò Priamo che il nuovo nato (Paride) fosse ucciso, ma il padre decise di esporlo sul monte Ida, dove fu lasciato. Qui un’orsa lo allattò per cinque giorni, finché lo trovarono dei pastori. Paride divenne così un pastore. Ermes gli fece visita, accompagnato dalle tre dee, 1 K. Kerényi, Gl Dei e glii eroi della Grecia, trad. it. di V. Tedeschi, Garzanti, Milano 1976, vol. II, pp. 324-328. 1 affinché il principe pastore troiano decidesse a quale dea spettava la mela. Paride, tramandano gli antichi poeti e narratori, doveva stabilire quale dea fosse la più bella. La scelta di Paride è del tutto convenzionale, perché intende la bellezza come avvenenza, come qualità erotica: su questo piano Afrodite è insuperabile. Paride in realtà era chiamato a scegliere tra la disciplina in guerra, una vita dedicata all’amore e il regno. Nell’ordine questi erano i doni di Atena, Afrodite ed Era. Le tre dee erano splendenti, rappresentavano tre forme dell’esistenza divina. Paride preferì il dono di Afrodite, il possesso di Elena figlia di Zeus e rifiutò la vittoria e l’eroismo, dono di Atena, e il dominio sull’Asia e sull’Europa, dono di Era. Paride cede alla brama amorosa e dà inizio alla serie di eventi che portano a una guerra distruttiva. Paride si innamora di Elena senza averla mai vista. Afrodite svolge quindi la funzione di mediatore del desiderio di Paride. Rapito dallo splendore di Afrodite, Paride crede che Elena sia almeno pari alla dea che gli insegna a desiderarla con ardore. Paride (discepolo), Afrodite (mediatore) ed Elena (oggetto desiderato) sono i tre vertici del triangolo mimetico. Il mito illustra efficacemente gli aspetti antropologici della guerra. La guerra appare ineluttabile. Infatti il tentativo di sopprimere, con Paride, la causa della devastazione preannunciata mediante divinazione, ottiene l’effetto opposto, con un meccanismo di trasformazione nell’opposto che troviamo anche nel mito di Edipo e in altri contesti mitologici. L’uomo non può prevedere le conseguenze delle proprie azioni, sulle quali pesano decisioni e fattori che non sono in suo potere. Ugualmente Paride, preferendo l’amore, non evita la guerra, ma la provoca. In secondo luogo la guerra appare come la conseguenza e l’espressione di una contesa che si rivela assolutamente futile (la mela, il possesso di Elena), perché provocata dall’aspirazione al possesso di oggetti privi di valore intrinseco. Infatti solo la difficoltà di ottenere l’oggetto (la rivalità tra le dee, la lontananza di Elena e il fatto che sia già sposa) ne determina il valore. Il valore dipende dalla desiderabilità, la quale a sua volta aumenta in ragione delle dinamiche di ostacolamento e di frustrazione del desiderio orientato a impadronirsi dell’oggetto. In terzo luogo, il giudizio di Paride evita la guerra tra le dee, ma al prezzo di una guerra più catastrofica. Si vede qui il carattere irrazionale della guerra, che non può essere prevenuta da interventi razionali e consapevoli, da una qualche strategia di risoluzione, come pretende Zeus, ma può essere solo rinviata. Infine la guerra possiede un carattere ludico che rinvia al gioco infantile. I combattimenti rituali degli animali di rado sfociano nell’uccisione del rivale sconfitto da parte del più forte. Il confine tra competizione ludica, (esercizio di confronto, allenamento, simulazione) e scontro realistico (individuazione del nemico, persecuzione, trionfo oppure eliminazione fisica del nemico che osa resistere fino all’ultimo) è impercettibilmente sfumato. Anche la guerra più feroce può manifestare momenti o atteggiamenti “ludici” (la pietà nei confronti del nemico, la cooperazione, il sentimento di umanità per la popolazione il cui territorio è occupato, ecc.). Infatti la guerra 2 comprende sia la minaccia di distruzione, sia la distruzione. Impossibile stabilire un confine netto tra i due atteggiamenti, perché ogni atto di distruzione assume fatalmente anche una connotazione minacciosa (può alludere a un’ulteriore e più grave azione distruttiva, può funzionare come avvertimento per terzi, ecc.). Nella misura in cui è minaccia di distruzione, la guerra è simulazione. Rinviando l’intervento realistico, la simulazione della guerra accoglie in qualche modo le istanze dell’etica e si trasforma in gioco di guerra privo di conseguenze funeste. La minaccia dell’uso della violenza sostituisce la violenza alla quale la minaccia stessa, per ragioni etiche, intende rinunciare. Ma prima o poi le stesse ragioni che hanno suggerito l’adozione della minaccia giustificheranno l’intervento realistico, se l’avvertimento non dovesse funzionare. Così la minaccia del ricorso alla violenza e la violenza sono da una parte opposti e incompatibili, dall’altra intrinsecamente connessi e cooperanti. Il problema preliminare da risolvere è di tipo semantico e riguarda la delimitazione del campo di analisi. Quali attività e quali eventi caratterizzano in senso proprio la guerra? Quali ne sono i tratti distintivi in senso esclusivo? Fame, delitti, spari, esplosioni, bombe, aggressione armata, incendi, prigionieri, campi di concentramento, ecc. non rappresentano di per sé la totalità delle manifestazioni della guerra. Tutti questi eventi si connettono ad altri, di natura diversa, che ne sono per così dire la condizione. Si tratta di vedere se per guerra si intende la somma di un certo numero di caratteristiche o di eventi che, necessariamente, identificano la nozione di guerra, oppure se, prescindendo da questo o quell’aspetto apparentemente determinante, il termine “guerra” non corrisponda a un elemento preciso, la cui presenza o assenza risulta decisiva per la caratterizzazione del fenomeno, e che tuttavia non è riconducibile né alla somma dei caratteri disparati né a uno di questi in particolare. Ogni volta che si affronta il tema della guerra per tracciare un quadro delle condizioni che la preparano, si è costretti ad allargare il campo all’economia, alla politica, all’antropologia, alla psicologia, alla storia. Si dovrebbe capire se, pur ammettendo che la guerra assolva una funzione precisa, non sia possibile attribuire tale funzione anche alla diplomazia o la politica; questa considerazione è molto importante, giacché potrebbe confermare la conclusione che la guerra non sia né necessaria, né inevitabile rispetto ai problemi che, apparentemente, permette di risolvere. Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi – secondo un famoso detto attribuito a von Clausewitz – la politica è quella gestione dei conflitti che fa a meno della guerra. La condanna della guerra non deve nascondere i conflitti che la fanno nascere; non è educativo presentare la guerra come totalmente immotivata, una semplice mostruosità. La guerra dovrà apparire evitabile, ma non incomprensibile perché priva di cause precise. Si dovrà insistere sul fatto che l’uomo è responsabile della violenza che dilaga nel 3 mondo. La rivalità mimetica è all’origine delle contese e dei conflitti insanabili che sfociano nella guerra. La rappresaglia subisce un’escalation che conduce al delitto. Il caso di Caino e Abele, fratelli rivali, è emblematico. Alcuni targumim della Torà aggiungono quello che Caino e Abele si sarebbero detti2. Caino sostiene che il mondo non è stato creato per amore e che nel mondo non c’è alcuna giustizia e alcun giudizio retto. Abele sostiene il contrario e nella lite è colpito a morte. Il racconto biblico è così interpretato come uno scontro sulle questioni fondamentali di tutte le religioni e filosofie. Caino, colpendo a morte Abele, parrebbe fornire una dimostrazione ineccepibile del fatto che la sua posizione è quella giusta, coerente con i fatti. Ma anche Caino aspira alla giustizia, nonostante tutto, altrimenti non colpirebbe a morte Abele. Caino vuole dimostrare di aver ragione, che il trionfo dell’ingiustizia è giusto. Il violento infatti crede solo all’efficacia della violenza. La sua nozione di giustizia è individualistica, esprime il rapporto tra la potenza di un uomo e l’entità delle sue conquiste. Come rendere comprensibile la guerra? Attraverso lo studio del passato e l’analisi circostanziata dei contesti in cui è scoppiata; mediante la comparazione con le società animali, dove si assiste regolarmente a conflitti anche cruenti, nati sul terreno di un confronto che è competizione per il territorio, per il cibo, per la conquista del partner scelto per l’accoppiamento a scopo riproduttivo. La guerra si può rendere comprensibile sia attraverso l’analisi degli scambi commerciali tra stati, in contesti nei quali la pressione commerciale può innescare rivalità e conflitti che si traducono rapidamente in azioni di guerra, sia attraverso lo studio del comportamento umano e della sua matrice aggressiva, che illustra il meccanismo della reciprocità mimetica. Non è possibile comprendere appieno la dinamica bellica senza il concetto di rappresaglia. La rappresaglia non ottiene quasi mai l’interruzione della risposta violenta: l’ultimo colpo, così violento da essere risolutivo, così efficace da chiudere per sempre la bocca alla violenza, in realtà non esiste, giacché nel migliore dei casi la risposta, la rappresaglia, è solo rinviata. Nel frattempo si è depositato un rancore nel cuore del vinto che fornirà l’esca e la giustificazione di una ripresa delle ostilità anche in un futuro molto lontano. La guerra, ogni guerra, è combattuta con l’illusione di sovvertire quelle condizioni che impediscono la pace assoluta; ogni guerra è combattuta, in fondo, con l’intenzione che sia l’ultima. Ma la catena interminabile delle rappresaglie dimostra l’impossibilità di una soluzione definitiva. La guerra è comprensibile solo se viene ricondotta alla responsabilità degli uomini, i soli che possono poi evitarla. Se la guerra fosse inevitabile, sarebbe anche incomprensibile, poiché sarebbe un evento che non dipende da alcuno. Ma se essa è comprensibile (e lo è in ragione della responsabilità diretta che i soggetti umani hanno nel suo 2 G. Stemberger, Ermeneutica ebraica della Bibbia, trad. it. Di V. Gatti, Paideia, Brescia 2000, p. 83. 4 scatenamento), allora è anche evitabile. Si tratta quindi di incrementare la consapevolezza di tale responsabilità nella scelta e nell’uso dei mezzi ai quali si ricorre per risolvere le controversie a ogni livello. La violenza che la guerra comporta non va delineata come qualcosa di assolutamente distruttivo, di meramente negativo. Se così fosse, sarebbe senza riscatto e lascerebbe solo un orrore inestinguibile e un’angoscia infinita. La violenza della guerra si deve mostrare come lo scatenamento di un meccanismo inesorabile in un processo che si distingue per il suo carattere progressivo; senza dimenticare l’ideale di un rinnovamento profondo del metodo di risoluzione dei conflitti, la guerra sarà illustrata come un processo meccanico (in cui ogni fase contiene le condizioni per il passaggio a quella successiva), ma non deterministico, giacché in qualsiasi momento, soprattutto nelle fasi iniziali, deve essere possibile interromperlo e convertirlo nel suo opposto. Nel mondo migliaia di bambini vivono ogni giorno gli orrori della guerra; altre migliaia prestano servizio militare armati fino ai denti; tra gli uni e gli altri ne muoiono una gran quantità. Noi ci chiediamo se i nostri bambini debbano essere messi al corrente della guerra e delle sua atrocità! Non suona eccessiva già in partenza questa preoccupazione, non è forse ipocrita il timore che la sola notizia dell’orrore possa contaminare per sempre la loro innocenza? I bambini non devono fare alcuno sforzo per comprendere la guerra, certamente non maggiore di quello compiuto dagli adulti per farsi una ragione e superare la perdita dei propri cari, sia essa dovuta a cause belliche oppure no. Molti bambini ovunque sono sottoposti a sfruttamento nei modi più raccapriccianti (prostituzione, accattonaggio, lavoro nero e lavoro minorile, plagio, violenze e intimidazioni, soppressione allo scopo del prelevamento di organi per trapianto, ecc.) e noi abbiamo il buon cuore di chiederci se dobbiamo parlare ai bambini occidentali della guerra e delle sue conseguenze. La risposta è: bisogna parlarne. Bisogna spiegare ai bambini ciò che gli adulti, pur avendolo compreso molte volte, non sono riusciti a tradurre in comportamenti efficaci e generalizzabili. In fondo la guerra in senso tecnico non è peggiore delle altre violenze appena elencate. Sul piano morale e pedagogico il problema di fondo è la responsabilità che ciascuno deve avvertire per ciò che gli accade intorno. Ogni comprensione del male deve tradursi in un comportamento orientato alla sua riduzione. Quando si instaura una progressione di comportamenti il processo tende a diventare ineluttabile solo se i soggetti coinvolti non prendono coscienza delle possibilità che hanno di influenzare il decorso degli eventi. Nei rapporti reciproci i bambini sperimentano tutte le difficoltà che gli adulti risolvono spesso in modo distruttivo. Mauro Corona scrive di essersi trovato nella condizione di un ubriaco che, per vendicarsi di un’offesa subita in osteria nel corso di una lite, corre a casa, prende il fucile da caccia, lo carica a dovere e ritorna all’osteria per uccidere gli avversari, colpevoli di averlo offeso in 5 presenza di una ragazza che gli piaceva. Ma lungo la strada incontra un amico, un cacciatore più anziano che, senza battere ciglio e come prendendo tempo, con calma, gli butta lì una frase: “Torna a casa, sei ancora in tempo” Il protagonista di colpo prende coscienza della sciocchezza che stava per commettere. Si ravvede, guarda l’arma che ha in mano, si vergogna dell’inflessibile determinazione di uccidere che lo possedeva fino a un istante prima. “La rabbia sbollì immediatamente, scrive Corona, ed ebbi paura. Ebbi paura di ciò che avrei potuto fare. Fuggii verso casa, con il terrore che altri, oltre al vecchio cacciatore, potessero vedermi armato”3 La guerra ha un aspetto ludico e uno tragico. La guerra ha la natura della competizione. Non la competizione sportiva, non la competizione regolamentata, ma la competizione priva di regole, portata all’eccesso. Nella guerra i contendenti si sforzano di raggiungere il massimo vantaggio con la minor perdita possibile. Gli uomini sono in lotta per il potere, che è controllo del territorio, garanzia di sicurezza, gestione delle fonti di sostentamento e delle fonti energetiche, ecc. Nella maggior parte dei casi un solo oggetto è desiderato da molti, e questo rende inevitabile la rivalità mimetica e il conflitto aperto. La teoria mimetica rende conto della guerra, che va classificata come la forma più organizzata, consapevole e coerente di aggressione determinata dall’escalation dell’imitazione reciproca. A ben guardare, dunque, gli stati tra i quali si scatenano le guerre sono quelli in cui i contendenti sono avvinti dal doppio legame mimetico. Uno dei due è inizialmente il modello amato e odiato, indotto a sua volta ad assumere il proprio discepolo come modello, in un surriscaldamento progressivo della rivalità che si trasforma presto in scontro fisico e lotta aperta per la vita e per la morte. Per avvicinare i bambini alla comprensione del fenomeno guerra si può partire da esperienze fondamentali che essi stessi sono in grado di capire perfettamente. La sfera del gioco è molto importante in questa direzione, perché le attività ludiche applicano con estrema serietà principi e regole del mondo degli adulti a contesti inoffensivi, artificiali o, comunque, virtuali. La distinzione fondamentale tra amico e nemico (che si esprime nei rispettivi atteggiamenti di collaborazione e di ostilità), il controllo del proprio territorio, la penuria di mezzi, la necessità di rispettare e far rispettare regole precise dentro e fuori il gruppo di appartenenza, il conflitto tra individui dovuto a motivi futili (di rivalsa) o riprovevoli (prepotenza, perfidia, ecc.), il diritto incontestabile e universalmente condiviso all’autodifesa. I bambini possono immaginare la guerra come un litigio che coinvolge un numero elevato di contendenti. Nel gioco i bambini prendono coscienza del fatto che la realtà dei rapporti umani è di natura conflittuale e questo dipende dal fatto che inevitabilmente si fanno valere interessi contrastanti. La 3 M. Corona, Gocce di resina, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 2001, p. 38. 6 guerra scatenata per puro esercizio di potere, per ambizione personale di un capo di stato o del gruppo di potere, è insieme compresa dal bambino nella sua dinamica eziologica e condannata senza appello perché in contraddizione con l’insegnamento morale ricevuto. Il bambino vive precocemente questa dissonanza etica tra norme e comportamenti degli adulti. L’obiettivo di un percorso educativo dovrebbe essere quello di collegare la violenza estrema della guerra alla violenza spicciola e poco avvertita della sfera quotidiana. La coscienza di questo rapporto permette di codificare anche le peggiori atrocità come espressione di meccanismi elementari ben noti. Da fatto incommensurabile, non catalogabile, così terribile da indurre un senso di impotenza e la paralisi del pensiero e delle emozioni, la guerra deve diventare un corollario (evitabile) della natura delle relazioni che per lo più si instaurano tra individui e gruppi umani; la guerra non può persistere come fatto indecifrabile da subire o da rimuovere. La guerra, come la morte, va inserita in una cornice che le conferisca un significato e la renda quindi decifrabile; ma, al contrario della morte, non ci sono ragioni sufficienti per presentarla come evento ineluttabile. Contemporaneamente si devono studiare strategie di apprendimento e di approfondimento che consentano di ricomprenderla come alternativa possibile, ma esecrabile e non necessaria, persino anti-economica e rovinosa per tutti. Bisogna costruire modelli esplicativi dei processi in cui si rafforza l’attitudine alla previsione delle conseguenze e degli effetti collaterali delle proprie scelte e decisioni. A questo scopo è indispensabile una certa attitudine, nel docente, a illustrare le interconnessioni strutturali tra condizioni e aspetti di fenomeni diversi: si dovrà quindi mostrare con chiarezza in quali fasi del processo e in quale segmento del sistema la decisione responsabile degli esseri umani può innescare o impedire la catena degli eventi che conducono poi all’esito da tutti esecrato, e che tuttavia, nessuno, a un certo punto, sembra riuscire (o aspirare veramente) ad arrestare. 10.09.2003 7