Rassegna stampa 22 luglio 2016
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Rassegna stampa 22 luglio 2016
RASSEGNA STAMPA di venerdì 22 luglio 2016 SOMMARIO Sono almeno 900 i ragazzi e i giovani che da Venezia sono già partiti o stanno per partire verso la Polonia per vivere i giorni intensi della Giornata Mondiale della Gioventù 2016 che culminerà nell’incontro con Papa Francesco a Cracovia - in particolare presso il “Campus Misericordiae” - dove la sera del 30 luglio si terrà la grande veglia e la mattina del 31 luglio la Messa conclusiva della Gmg 2016. Del gruppo veneziano fanno parte gli oltre 400 giovani che partecipano al pellegrinaggio coordinato dalla Pastorale giovanile diocesana – 135 sono in Polonia già da martedì scorso (foto disponibili su www.facebook.com/pgvenezia) e stanno vivendo in questi giorni vari momenti di incontro con le realtà locali nell’ambito del gemellaggio con la diocesi di Bielsko Biala (in Slesia) mentre tutti gli altri partiranno lunedì prossimo – più altri 450 giovani del Cammino neocatecumenale. I giovani veneziani saranno presto raggiunti anche dal Patriarca Francesco Moraglia che trascorrerà in Polonia l’intera settimana della GMG; in particolare è previsto che viva con loro l’intera giornata di mercoledì 27 luglio (con il passaggio della Porta Santa nel Santuario della Divina Misericordia a Lagiewniki) e probabilmente anche la visita al campo di concentramento di Auschwitz (nel pomeriggio del 26); il Patriarca terrà, inoltre, nei giorni successivi alcune delle catechesi che i Vescovi tradizionalmente rivolgono ai giovani - provenienti dai vari Paesi del mondo - nell’immediata preparazione all’incontro con il Papa. E, come già successo in occasione del convegno ecclesiale di Firenze nel novembre 2015, un gruppo di tre studenti di web marketing e digital communication all'Università Iusve di Mestre seguiranno la GMG polacca in costante diretta sui social network. Il trio - presente a Cracovia dal 25 luglio al 1° agosto offrirà interviste, aggiornamenti e brevi contributi nonché si occuperà della comunicazione digitale per Famiglia Cristiana, gestirà il canale Twitter della Conferenza Episcopale Triveneto e il canale gmg3veneto su Telegram. 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 28 Jesolo, record di visite per l’antico crocifisso di g.ca. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Testimone della divina misericordia di Robert Sarah La prima festa liturgica di santa Maria Maddalena AVVENIRE Pag 2 Carmen e la preparazione della “vittoria certa” di Gianfranco Marcelli L’addio alla co-fondatrice del Cammino Pag 11 Madre Teresa. I poveri sono la nostra gioia di Madre Teresa di Calcutta Pag 11 Santa a 70 anni dalla “seconda chiamata” di Laura Badaracchi CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Cari giovani, siate coraggiosi e non fatevi rubare il futuro di Francesco IL FOGLIO Pag 2 Vocazioni e matrimoni sempre più in calo nella chiesa di Papa Francesco di Roberto Volpi Il declino chiarito dai numeri dell’Annuario Pontificio 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 La madre disconosciuta di Carlo Cardia Genitorialità: deriva giurisprudenziale 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 6 Chi salva Antennatre? di Gianni Favero LA NUOVA Pag 1 L’etica ad Abano e in Veneto di Mario Bertolissi … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Ai moderati ora serve una svolta di Francesco Verderami Il centrodestra Pag 24 Gesti coraggiosi dei musulmani per sconfiggere il terrorismo Una lettera di Luigi Manconi la risposta di Sumaya Abdel Qader AVVENIRE Pag 3 Come sarà l’Italia di domani lo si scopre salendo in montagna di Luca Liverani Anziani, stranieri e sostenibilità. Un laboratorio di coesione Pag 9 Migranti, “raddoppiati i morti in mare” di Viviana Daloiso Bilancio choc per i primi 6 mesi del 2016: 2920 vittime. Ieri l’ennesima strage IL FOGLIO Pag 1 Perché il relativismo culturale dell’occidente presta il fianco all’assolutismo islamista. Parla Stark, gran storico della religione di Giulio Meotti IL GAZZETTINO Pag 1 Il golpe in Turchia, nuovi equilibri e ruolo della Nato di Giulio Sapelli Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 28 Jesolo, record di visite per l’antico crocifisso di g.ca. Jesolo. Un vero record di visite per il crocifisso ritornato nella sua “casa” di Jesolo Paese. La chiesa parrocchiale è gremita di persone tutti i giorni, una processione in visita all’opera cui molti fedeli già attribuiscono un’energia particolare. C’è chi si raccoglie in preghiera davanti al meraviglioso Cristo, chi invoca grazie e miracoli. In poco più di un mese si contano tremila visitatori che sono passati nella chiesa di San Giovanni Battista a Jesolo Paese per ammirare il Crocifisso del XIV secolo in esposizione dal 10 giugno e fino a metà ottobre. Si prevedono di questo passo quasi diecimila visitatori. Si tratta di un’opera d’arte che appartenne alla chiesa di Cavazuccherina, l’antico nome di Jesolo, di cui si era persa traccia. Grazie allo studioso Giuseppe Artesi l’opera è stata ritrovata nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Per iniziativa dell’Associazione culturale monsignor Giovanni Marcato l’opera è stata data in prestito alla città fino al 16 ottobre. «Si tratta di numeri importanti», sottolinea il vicesindaco Roberto Rugolotto, «che confermano la validità di questa scelta alla quale, fin dal primo momento, abbiamo creduto non solo per il suo valore storico, artistico e culturale, ma anche per il suo significato identitario». Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Testimone della divina misericordia di Robert Sarah La prima festa liturgica di santa Maria Maddalena Il 22 luglio, per decisione di Papa Francesco e nell’anno della misericordia, celebriamo santa Maria Maddalena come festa liturgica. Il nuovo prefazio, intitolato De apostolorum apostola (“apostola degli apostoli”), seguendo Rabano Mauro e san Tommaso d’Aquino, presenta la santa amata dal Signore come testis divinae misericordiae (“testimone della divina misericordia”), prima messaggera che annunciò agli apostoli la risurrezione del Signore (cfr. Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, n. 16). Voglio soffermarmi su due atteggiamenti della santa che sono il cuore del nuovo prefazio e dei testi della messa e che possono aiutare tutti i cristiani, uomini e donne, ad approfondire il nostro compito come seguaci di Cristo: l’adorazione e la missione. Nel prefazio si presenta la Maddalena che amò appassionatamente Cristo finché era in vita, lo vide morire sulla croce, lo cercò quando giaceva nel sepolcro e fu la prima ad adorarlo risuscitato dai morti. Il testo mette poi in rilievo che la santa, onorata con la missione di essere apostola degli apostoli, annuncia la buona novella di Cristo vivente agli apostoli, che a loro volta avrebbero diffusa questa notizia fino ai confini della terra. È l’amore ciò che caratterizza la vita di Maria Maddalena. Amore appassionato, come ricordano le due possibili letture della messa: «Ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia» (Cantico dei cantici, 3, 1-2), perché «l’amore del Cristo ci possiede» (2 Corinzi, 5, 14). Un amore che porta a cercare il Signore, come cantano il salmo responsoriale e il prefazio della festa: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata senz’acqua» (Salmi, 63, 2). Per questo, dilexerat viventem e quaesierat in sepulcro iacentem (“lo amò mentre viveva” e “lo cercò quando giaceva nel sepolcro”). Infatti, «si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio» (Giovanni, 20, 1). È l’amore che deve caratterizzare la nostra vita di cristiani, di veri amici di Gesù. Un amore che ci porta a cercare il Signore. È questo l’unico programma valido per la Chiesa, come ricordava Giovanni Paolo II: «Non si tratta, allora, di inventare un “nuovo programma”. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste. È un programma che non cambia col variare dei tempi e delle culture, anche se del tempo e della cultura tiene conto per un dialogo vero e una comunicazione efficace. Questo programma di sempre è il nostro per il terzo millennio» (Novo millenio ineunte, n. 29). Cercare Cristo per amarlo, come fece Maria Maddalena. A questo ci aiutano le parole di Papa Francesco quando ci confida: «Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che egli torni a toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! Dunque, ciò che succede è che, in definitiva, “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo” (1 Giovanni, 1, 3)» (Evangelii gaudium, n. 264). Cercare Cristo per amarlo e darlo agli altri. È il programma per la Chiesa e per ciascuno dei suoi figli. Santa Maria Maddalena cerca il Signore e quando lo trova lo adora. È la prima ad adorare il Signore, come canta il prefazio: quaesierat in sepulcro iacentem, ac prima adoraverat a mortuis resurgentem. Al primo posto, l’adorazione. La Maddalena ci ricorda la necessità di recuperare il primato di Dio e il primato dell’adorazione nella vita della Chiesa e nella celebrazione liturgica. Era questo un obiettivo fondamentale del concilio Vaticano II e continua a esserlo ora. Dio deve occupare il primo posto, ma ciò non si può dare per scontato. Giovanni Paolo II, nel venticinquesimo anniversario della Sacrosanctum concilium, ricordava: «Niente di tutto ciò che facciamo noi nella liturgia può apparire come più importante di quello che invisibilmente, ma realmente fa il Cristo per l’opera del suo Spirito. La fede viva per la carità, l’adorazione, la lode al Padre e il silenzio di contemplazione, saranno sempre i primi obiettivi da raggiungere per una pastorale liturgica e sacramentale» (Vicesimus quintus annus, n. 10). Adorare Dio, come afferma il vescovo di Roma, in «ogni cerimonia liturgica», ciò che «è più importante è l’adorazione» e non «i canti e i riti», per quanto belli: «Tutta la comunità riunita guarda l’altare dove si celebra il sacrificio e adora. Ma io credo, umilmente lo dico, che noi cristiani forse abbiamo perso un po’ il senso dell’adorazione. E pensiamo: andiamo al tempio, ci raduniamo come fratelli, ed è buono, è bello. Ma il centro è lì dov’è Dio. E noi adoriamo Dio» (22 novembre 2013). Il Papa ci domanda: «Tu, io, adoriamo il Signore? Andiamo da Dio solo per chiedere, per ringraziare, o andiamo da lui anche per adorarlo? Che cosa vuol dire allora adorare Dio? Significa imparare a stare con lui, a fermarci a dialogare con lui, sentendo che la sua presenza è la più vera, la più buona, la più importante di tutte» (14 aprile 2013). A mezzo secolo dalla Sacrosanctum concilium è ancora il Pontefice a ricordarci la necessità di dare a Dio il primo posto: «Non serve disperdersi in tante cose secondarie o superflue, ma concentrarsi sulla realtà fondamentale, che è l’incontro con Cristo, con la sua misericordia, con il suo amore e l’amare i fratelli come lui ci ha amato. Un incontro con Cristo che è anche adorazione, parola poco usata: adorare Cristo» (14 ottobre 2013). Maria Maddalena è il primo testimone di questo duplice atteggiamento, adorare Cristo e farlo conoscere. Come dice ancora il prefazio, seguendo il vangelo del giorno: prima adoraverat a mortuis resurgentem, et eam apostolatus officio coram apostolis honoravit ut bonum novae vitae nuntium ad mundi fines perveniret. «Va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto» (Giovanni, 20, 17-18). Si tratta in definitiva di incentrare la nostra vita su Cristo e sul suo Vangelo. Sulla volontà di Dio, spogliandoci dei nostri progetti per poter dire con san Paolo: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Galati, 2, 20). L’apostola degli apostoli, Maria Maddalena esce da se stessa per andare da Cristo con l’adorazione e la missione. In questa stessa linea afferma Papa Francesco: «Questo “esodo” da se stessi è mettersi in un cammino di adorazione e di servizio. Un esodo che ci porta a un cammino di adorazione del Signore e di servizio a lui nei fratelli e nelle sorelle. Adorare e servire: due atteggiamenti che non si possono separare, ma che devono andare sempre insieme. Adorare il Signore e servire gli altri, non tenendo nulla per sé» (8 maggio 2013). AVVENIRE Pag 2 Carmen e la preparazione della “vittoria certa” di Gianfranco Marcelli L’addio alla co-fondatrice del Cammino Sempre, e con chiunque, anche per riconoscimento di chi non l’aveva troppo in simpatia, Carmen Hernández ha praticato quella rara e delicata virtù cristiana chiamata 'parresia': un termine greco di origine filosofica che nella tradizione biblica si traduce con franchezza, sincerità, coraggio nel parlare. Soprattutto nel testimoniare e nell’annunciare la fede. Virtù genuina e non semplice da acquisire, al punto che San Paolo chiedeva agli Efesini di domandarla al Cielo per lui, come dono tipico dell’apostolo. Ma anche virtù delicata, perché a rischio di tracimare trasformandosi in arroganza. Rischio che Carmen riusciva a scansare, grazie in particolare al suo grande amore per la Chiesa, a cominciare da 'Pietro', il Papa. L’annuncio libero e liberante della Buona notizia è sempre stato la sua stella polare, la vocazione alla quale si sentiva chiamata fin da bambina, quando grazie ai missionari gesuiti che passavano numerosi nella Navarra dove viveva la sua famiglia, veniva attratta irresistibilmente dai loro racconti. Al punto, come raccontava, di «aver conosciuto san Francesco Saverio prima ancora di San Paolo». «Senza di lei non ci sarebbe il Cammino neocatecumenale», ha ripetuto per l’ennesima volta ieri Kiko Arguello a Madrid, nella cattedrale dell’Almudena dove si è celebrato il funerale. E davvero il suo zelo, ricordato da papa Francesco nel messaggio di condoglianze, ha contribuito in maniera decisiva al diffondersi dell’opera che, insieme al pittore originario di Leon, senza nessun piano prestabilito, prese le mosse più di 50 anni fa nella baraccopoli miserabile di Palomeras Altas, alla periferia della capitale spagnola. Ma le 30mila comunità sparse in tutto il mondo, che oggi la ricordano con affetto e rimpianto e ieri erano presenti con la preghiera al funerale di popolo a Madrid, le sono debitrici anche di altre preziose eredità. La passione per la Liturgia anzitutto, concepita e coltivata instancabilmente attraverso la conoscenza del Concilio Vaticano II, nel quale riscoprì la centralità del Mistero Pasquale. Così come l’attaccamento alla Scrittura, con la gratitudine ai padri conciliari per aver rimesso nelle mani dei fedeli il tesoro inesauribile della Parola di Dio. Chiunque si è avvicinato al Cammino ha potuto gustare, con sorpresa, la genialità di alcune interpretazioni, tradotte in catechesi memorabili. Allo stesso modo, Carmen ha trasmesso e difeso con decisione, prima ancora della storica visita in Sinagoga di San Giovanni Paolo II, il rispetto e la stima profonda per il popolo ebraico, i nostri 'fratelli maggiori' che lei ebbe modo di conoscere da vicino, vivendo a lungo e in umiltà in Terra Santa all’inizio degli anni 60 del Novecento. Infine, il lascito umanamente e culturalmente forse più importante: la valorizzazione della donna, del suo ruolo nella Chiesa e nella società, per la trasmissione e la difesa della vita, di cui possiede 'la matrice'. Per questo, non si stancava mai di ripeterlo soprattutto alle giovani nelle Gmg, «dalla prima all’ultima pagina della Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse, il demonio non cessa di insidiarla». Questa minaccia, ammoniva, è oggi più incombente che mai. Ma per chi crede come Carmen la vittoria è certa. Pag 11 Madre Teresa. I poveri sono la nostra gioia di Madre Teresa di Calcutta «C’è un’espressione di Madre Teresa che vorrei facesse da sfondo alla mia riflessione: 'Noi non siamo una Ong. Le Ong lavorano per un progetto; noi lavoriamo per Qualcuno'. Perciò, anch’io ripeto spesso che la Chiesa non è una Ong, perché lavora per Cristo e per i poveri nei quali vive Cristo, ci tende la mano, invoca aiuto, chiede il nostro sguardo misericordioso, la nostra tenerezza». Con queste parole papa Francesco in persona inizia la prefazione ad Amiamo chi non è amato (Emi, pagine 92, euro 9,50, in libreria dal 29 luglio), una raccolta di testi inediti di Madre Teresa di Calcutta. Si tratta di due discorsi sul tema «I poveri sono speranza» – il primo a duemila giovani e il secondo a un migliaio di religiose – che la prossima santa (sarà canonizzata il 4 settembre a Roma) pronunciò il 18 ottobre 1973 a Milano, dove il giorno seguente avrebbe partecipato alla prima grande Veglia missionaria italiana, organizzata dal direttore del Centro missionario del Pime, padre Giacomo Girardi, con un grande corteo per le vie della città dal Castello Sforzesco a piazza Duomo. Sempre il 19 ottobre 1973 Madre Teresa fu ricevuta dall’arcivescovo di Milano, cardinale Giovanni Colombo, e dal sindaco Aldo Aniasi, che le consegnò l’«Ambrogino d’oro». Il volume riporta anche la trascrizione del vivace e libero dialogo che la fondatrice delle Missionarie della Carità ebbe con il pubblico. Secondo gli ultimi dati disponibili, il suo Istituto ha oggi 5.305 membri in 758 case distribuite in oltre 130 Paesi del mondo; il 4 marzo scorso quattro Missionarie della Carità sono state uccise da un commando di terroristi armati ad Aden, nello Yemen, insieme ad altre dodici persone. Sono riconoscente a Dio di avermi dato questa possibilità di ringraziare ognuno di voi e l’intera città di Milano per quell’amore e quella premura che avete dimostrato attraverso tutti quei missionari che da qui sono venuti ad aiutare la nostra gente in India. Sono molti i missionari di Milano che hanno consacrato e dedicato le loro vite al servizio dei loro fratelli in India e in altre parti del mondo. Le mie suore, le Missionarie della Carità, e così pure i Fratelli Missionari della Carità, hanno offerto le loro vite per portare ai poveri l’amore di Cristo – un amore che si esprime mediante il loro servizio – e per dimostrare loro che Dio li ama. La vita vissuta dalle nostre suore e dai nostri fratelli è il frutto di quell’unione con Dio che nasce dalla preghiera e dalla fedeltà ai voti che hanno professato. La nostra attività, il nostro lavoro, il nostro servizio ai poveri non sono che l’espressione concreta del nostro amore per Dio. Nell’intento di portare un po’ di sollievo alla vita dei poveri, noi scegliamo liberamente di essere poveri come loro, in modo da poter comprendere la loro povertà. La povertà, per noi, è la libertà di servire i più poveri tra i poveri. Abbiamo bisogno della vita di preghiera per essere capaci di vedere Cristo sotto le sembianze del volto sfigurato dei poveri. La vita religiosa che cerchiamo di vivere è intessuta con la vita di Gesù nel Santissimo Sacramento. Cominciamo la giornata con la Messa e la Santa Comunione e la concludiamo con l’adorazione del Santissimo Sacramento. Ogni ora di adorazione ha rafforzato in noi l’amore che abbiamo l’una per l’altra e l’amore verso i poveri. Non soltanto scegliamo di vivere la povertà, ma anche una completa obbedienza, abbandonandoci completamente a Dio per fare la sua volontà, secondo le parole di Gesù: «Sono venuto a fare la volontà del Padre mio». Cristo è stato il primo missionario della carità. Il servizio che offriamo è un lavoro umile tra i più poveri dei poveri. Non riteniamo che sia una perdita di tempo spendere l’intera nostra vita sfamando gli affamati, vestendo gli ignudi, assistendo i malati, dando una casa ai senza tetto, insegnando agli ignoranti, amando chi non è amato, accettando chi non è voluto, perché Gesù ha detto: «Voi l’avete fatto a me». Questo è il motivo per cui in molte zone dell’India abbiamo case per i moribondi e per i malati, ci prendiamo cura di più di 46.000 lebbrosi, abbiamo case per bambini abbandonati e molte altre attività che ci permettono di rimanere in contatto con i più poveri tra i poveri. In molti Paesi fuori dall’India non abbiamo incontrato questa povertà e questa miseria materiali, ma in Europa e in America dedichiamo il nostro servizio a quelli che consideriamo i più poveri tra i poveri spiritualmente, e questi sono coloro che non sono amati, non sono voluti, non sono assistiti, persone che nessuno ama. La malattia più grave, oggigiorno, non è la lebbra o la tubercolosi, ma la solitudine, il sentirsi ignorati, non amati, non voluti. Questa è la causa di tanti disordini, divisioni e guerre che oggi ci affliggono. Ed è per questo che tutti noi, non soltanto noi che portiamo il nome e che cerchiamo di vivere la vita dei missionari della carità, ma anche ciascuno di voi qui presenti e ogni persona nel mondo, tutti dovremmo diventare missionari della carità e portare l’amore di Cristo prima di tutto nella nostra famiglia e poi al vicino, così da estendere la pace in tutto il mondo. Le nostre suore hanno bisogno l’una dell’altra: la vita di comunità è necessaria perché, prima di tutto, dobbiamo saper riconoscere Cristo in ciascuna di noi per poter poi essere capaci di continuare a riconoscerlo nel Povero. Dobbiamo conoscerci profondamente, amarci sinceramente e servirci reciprocamente con generosità e delicatezza. Insieme preghiamo, insieme viviamo, insieme amiamo per essere capaci, come dice san Paolo, di «completare quello che manca alle sofferenze di Cristo». Il nostro pregare insieme è la nostra forza, il nostro lavorare insieme è la nostra gioia e il nostro servire i poveri insieme è la luce che Cristo porta oggi al mondo per mezzo di noi. Lo Spirito della nostra congregazione è un abbandono totale a Dio, una fiducia amorosa l’una nell’altra e una gioia da condividere con tutti. I poveri hanno bisogno di quella gioia che Gesù è venuto a portare nel mondo. Il tema di questo incontro è «I poveri sono speranza». La speranza non è altro che gioia. Quando veramente conosceremo i poveri, potremo sperimentare la gioia che loro sanno donare. Pag 11 Santa a 70 anni dalla “seconda chiamata” di Laura Badaracchi Proprio nel 1973, anno della visita a Milano (e del discorso che pronunciò in quella occasione, pubblicato qui sopra), Madre Teresa di Calcutta decise che le Missionarie della carità – congregazione da lei fondata nel 1950 – facesse ogni giorno un’ora di adorazione eucaristica comunitaria, la sera: «Da quel momento il nostro amore per Gesù è diventato più intimo, il nostro amore reciproco più comprensivo, il nostro amore per i poveri più misericordioso, e abbiamo visto raddoppiare il numero delle vocazioni. È questa una grande sorpresa per me: siamo, infatti tutte e ciascuna molto occupate; abbiamo tante cose da fare per la nostra gente. Eppure quest’ora di adorazione non è un’ora sottratta al lavoro per i poveri. Facciamo tutte le nostre ore di servizio pieno per i poveri. Quest’ora di adorazione trascorsa davanti a Gesù non toglie nulla la nostro servizio». La religiosa, che il prossimo 4 settembre verrà proclamata santa in piazza San Pietro da papa Francesco, è nata il 26 agosto 1910 a Skopje, in Macedonia (allora terra albanese) come Anjezë Gonxhe Bojaxhiu – questo il suo nome di battesimo – e morì il 5 settembre 1997 a Calcutta, dov’è sepolta. San Giovanni Paolo II la beatificò il 19 ottobre 2003, mentre lo scorso 17 dicembre Bergoglio ha riconosciuto un miracolo attribuito alla sua intercessione: si tratta della guarigione avvenuta nel 2008 a Santos, in Brasile, di un uomo con un’infezione virale del cervello. Diciottenne, Madre Teresa era entrata nelle Suore di Loreto, un ramo dell’Istituto della Beata Vergine Maria che aveva alcune missioni in India. Il 24 maggio 1931 professò i voti temporanei prendendo il nome di Maria Teresa, per devozione alla carmelitana santa Teresa di Lisieux. A Calcutta insegnò storia e geografia presso la Saint Mary’s High School del sobborgo di Entally, frequentato soprattutto dalle figlie dei coloni britannici; accanto al collegio cattolico c’era però uno slum che le aprì gli occhi sulle terribili condizioni in cui vivevano le persone senza dimora. Risale al 10 settembre 1946, mentre era in viaggio in treno verso Darjeeling per gli esercizi spirituali, quella che la stessa Madre Teresa definì «la chiamata nella chiamata»: «Quella notte aprii gli occhi sulla sofferenza e capii a fondo l’essenza della mia vocazione. Sentivo che il Signore mi chiedeva di rinunciare alla vita tranquilla all’interno della mia congregazione religiosa per uscire nelle strade a servire i poveri», anzi «i più poveri fra i poveri». Due anni dopo arrivò l’autorizzazione vaticana e lei cominciò a vivere in periferia. Nel marzo 1949 una ex-allieva si unì a lei e l’anno successivo Madre Teresa gettò le basi del nuovo istituto religioso, scegliendo come abito un sari bianco a strisce azzurre, il più economico e con i colori della casta degli intoccabili. Con le consorelle si prese cura di orfani, moribondi, lebbrosi, disabili, malati. Il 26 luglio 1965 a Cocorote, in Venezuela, fu aperta la prima comunità fuori dall’India, seguita da altre sedi in Asia, Africa, America ed Europa. Tra le 124 onorificenze ricevute, il Nobel per la Pace nel 1979 e, nell’aprile 1973 a Londra, la prima edizione del Premio Templeton, il «Nobel delle Religioni». CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Cari giovani, siate coraggiosi e non fatevi rubare il futuro di Francesco C’è un’espressione di Madre Teresa che vorrei facesse da sfondo alla mia riflessione: «Noi non siamo una Ong. Le Ong lavorano per un progetto; noi lavoriamo per Qualcuno». Perciò, anch’io ripeto spesso che la Chiesa non è una Ong, perché lavora per Cristo e per i poveri nei quali vive Cristo, ci tende la mano, invoca aiuto, chiede il nostro sguardo misericordioso, la nostra tenerezza. Rileggendo queste pagine ho pensato di raccogliere alcune riflessioni attorno a cinque parole. La prima parola è preghiera . Madre Teresa ci invita instancabilmente ad attingere alla fonte dell’Amore, Gesù crocifisso e risorto, presente nel sacramento dell’Eucaristia, per poi avere la forza di soccorrerlo nei più poveri tra i poveri, con il cuore pieno di gioia. Madre Teresa iniziava la sua giornata partecipando alla Santa Messa e la chiudeva con l’adorazione a Gesù Sacramento, Amore infinito. Così, diventa possibile trasformare il lavoro in preghiera. Non dimentichiamo mai di avere un piccolo vangelo in tasca, di leggerne una pagina e di entrare anche noi nel racconto che leggiamo. Cerchiamo di entrare nei pensieri e nei sentimenti di Gesù, parliamo con Lui, chiediamo la grazia del Suo Spirito: così diventeremo uomini e donne che hanno il gusto della vita e sapremo donare uno sguardo rinnovato a chi incontriamo. La seconda parola è carità . Significa farsi prossimi alle periferie degli uomini e delle donne che incontriamo ogni giorno, provare compassione per gli ultimi nel corpo e nello spirito - e provare compassione è possibile solo quando il bisogno e le ferite dell’altro vengono accolti nel mio cuore -, farsi testimoni della carezza di Dio per ogni ferita dell’umanità. Tutto ciò è possibile quando ciascuno di noi sta con il Signore Gesù, parla con Lui, si lascia abitare dal Suo Spirito. Così noi saremo capaci di offrire quanto le persone desiderano: la presenza e la vicinanza di Dio misericordia. La terza è misericordia operosa. Potremmo anche dire opere di misericordia corporali e spirituali, cioè prendersi cura di tutto l’uomo e di ogni uomo. Nella Misericordiae vultus, bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia, scrivevo: «È mio vivo desiderio che il popolo cristiano rifletta durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale . Sarà un modo per risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina. La predicazione di Gesù ci presenta queste opere di misericordia perché possiamo capire se viviamo o no come suoi discepoli. Riscopriamo le opere di misericordia corporale : dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale : consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti». Madre Teresa ha fatto di questa pagina di Vangelo la guida della sua vita, la strada verso la santità, e potrebbe diventarlo anche per noi. La quarta parola è famiglia . In essa spicca la figura e la presenza della mamma, e così ne parla in queste pagine Madre Teresa: «Le mamme sono il cuore della casa e sono loro che formano la famiglia, accettando, amando e prendendosi amorosa cura dei loro figli. (...) [Infatti] molte delle sofferenze dei giovani sono causate dalla vita familiare. (...) È la madre che fa della casa un nido d’amore. A volte essere madre può essere un’esperienza veramente ardua, può essere una croce; ma abbiamo con noi la Madonna, la migliore delle mamme, che sempre ci insegna a essere tenere con i nostri figli». Nella famiglia, infatti, impariamo da mamma e papà a sorriderci, a perdonarci, accoglierci, sacrificarci gli uni per gli altri, donare senza pretendere nulla in cambio, pregare e soffrire insieme, gioire e aiutarci reciprocamente. In nessun’altra situazione di vita è possibile vivere come e quanto si vive in una famiglia. E Madre Teresa, in una delle risposte durante gli incontri riportati in questo libro, ci dice: «Voi dovete diventare sempre di più la gioia e la consolazione di Dio, riportando la preghiera nelle vostre famiglie. La famiglia ha bisogno di amore, comunione e arduo lavoro. E questo sarà il dono più grande che potrete offrire alla Chiesa». La quinta parola è giovani. «In modo particolare mi rivolgo a voi giovani! Dicono che l’Albania è il Paese più giovane dell’Europa e mi rivolgo a voi. Vi invito a costruire la vostra esistenza su Gesù Cristo, su Dio: chi costruisce su Dio costruisce sulla roccia, perché Lui è sempre fedele, anche se noi manchiamo di fedeltà (cfr. 2Tm 2,13)». Con queste parole all’Angelus a Tirana, durante la mia visita in Albania, il 21 settembre 2014, mi rivolgevo ai giovani di quella terra. A tutti i giovani chiedo, ora, di non perdere la speranza, di non farsi rubare il futuro, che è nelle loro mani. Rimanete nel Signore e amatevi come Dio vi ama, siate costruttori di ponti per spezzare la logica della divisione, del rifiuto, della paura gli uni degli altri, mettetevi al servizio dei poveri, affrontate con coraggio la vita, che è dono di Dio. Volate alto, come l’aquila simbolo del paese di origine di Madre Teresa! Vi incoraggio a coinvolgere i vostri coetanei; a nutrirvi assiduamente della Parola di Dio aprendo i vostri cuori a Cristo, al Vangelo, all’incontro con Dio, al dialogo fra voi per offrire una testimonianza al mondo intero. Vi benedico con affetto. Vi auguro che queste pagine facciano bene al vostro cuore come hanno fatto bene al mio, mentre invoco pace e misericordia nelle vostre case, nelle vostre famiglie, nella vostra vita. Pace e misericordia invochiamo da Dio, sul mondo intero, per intercessione di Madre Teresa. IL FOGLIO Pag 2 Vocazioni e matrimoni sempre più in calo nella chiesa di Papa Francesco di Roberto Volpi Il declino chiarito dai numeri dell’Annuario Pontificio C'è un dato nell'Annuario Pontificio, edizione 2016, che da solo spiega ogni cosa. Il dato è in verità un indicatore, trattandosi del "potenziale di sostituibilità dei sacerdoti", che è a sua volta il risultato del rapporto tra il numero dei seminaristi maggiori (coloro che frequentano il seminario maggiore per gli studi teologici, in pratica una università di teologia) e quello dei sacerdoti diocesani. Questo indicatore ha un valore di 66 in Africa, 54 in Asia e appena 10 in Europa: un seminarista maggiore ogni 10 sacerdoti. L'indicatore - un autentico dramma per la chiesa - delle mancate vocazioni in occidente (le cose vanno meglio in America ma siamo pur sempre sotto i livelli di guardia) è dunque lì, spiattellato e documentato senza infingimenti dai dati vaticani. Il valore di 10 appare ancora più striminzito se si pensa, peraltro, che in Europa i sacerdoti sono diminuiti di oltre l'8 per cento negli ultimi dieci anni. Dire che la chiesa ha il problema di rievangelizzare il nostro continente è dire poco, perché la chiesa ha anche il problema di come rievangelizzare l'Europa, con quali forze e quali sacerdoti. Non è un caso se sempre più di frequente capita di trovare nelle chiese delle nostre città sacerdoti africani e sudamericani. Ma veniamo all'Italia. Per quanto il nostro rimanga il paese europeo con il più alto numero di sacerdoti rispetto alla popolazione e una più alta partecipazione alla vita della chiesa, la lenta erosione dei livelli di questa partecipazione è evidente. Un'erosione qualitativa, più che quantitativa. Si prendano le donne: fanno segnare tra il 2006 e il 2015 un calo della partecipazione che è di tre volte quello degli uomini. Quante si recano in chiesa almeno una volta alla settimana sono passate dal 40,5 al 34,3 per cento, perdendo 6,2 punti percentuali, contro i 2,4 punti persi dagli uomini. Si prendano i giovani di 14-24 anni. Tra il 2014 e il 2015, quanti di loro si recano in chiesa almeno una volta alla settimana passano da un già mediocre 17 per cento a un ancor più critico 14,4, che è la metà esatta della media generale - stabile nell'anno - attorno al 29 per cento. Calo giovanile del resto più che confermato dalla categoria (non) professionale degli studenti, che sempre tra il 2014 e il 2015 perdono più di 4 punti percentuali, scendendo dal 22 al 17,9 per cento e lasciando sul terreno, in un anno, tra un quinto e un sesto della loro partecipazione religiosa. La partecipazione degli anziani è in lieve aumento, è vero, ma non compensa i vuoti che lasciano le generazioni più giovani e istruite. Il quadro delle criticità si completa coi matrimoni religiosi. Ne hanno parlato in tanti. Ma c'è qualcosa che si deve precisa re. Negli ultimi 14 mesi - il 2015 e i primi due mesi del 2016 - dopo anni di amarezze i matrimoni hanno fatto registrare una ripresa d'un certo spessore: più 9.437 pari a più 4,7 per cento rispetto ai 14 mesi precedenti. Il fatto è che, mentre i matrimoni civili aumentavano di 11.268 unità, quelli religiosi continuavano a flettere di 1.831 unità. Il punto è questo: gli ultimi anni, in cui il numero dei matrimoni religiosi ha fatto registrare cali evidenti, sono stati contrassegnati da una stabilità - se non addirittura da una lieve flessione - degli stessi matrimoni civili. Una sorta di regola, quasi, che stava a significare che i matrimoni civili non riuscivano a recuperare i matrimoni persi della chiesa. Ed ecco che quando finalmente i matrimoni tornano a guadagnare qualcosa è solo merito dei matrimoni civili, che fanno un balzo di quasi il 12 per cento, mentre quelli religiosi perdono un altro 1,7 per cento. Una divergenza di andamenti che accentua oltremisura la crisi del matrimonio religioso, che può ancora vantare un vantaggio su quello civile solo grazie al sud, mentre in tutto il nord e in buona parte del centro è stato già sopravanzato, e non di poco, da quest'ultimo. Questi dunque i fatti, che si prestano a una chiave di lettura che sembra imporsi da sola, come modulata dagli stessi dati. Ma come fare, allora, a non interrogarsi su quella che appare come una contraddizione stridente tra il successo - se vogliamo chiamarlo con un termine d'immediatezza non equivoca - di Francesco come figura e come Papa e l'insuccesso della chiesa che egli rappresenta dal Soglio più alto? In effetti, non ci si può non interrogare su come questo successo personale non riesca a evitare l'evidente declino del cattolicesimo in Europa (e non solo in Europa). Perché il rischio - se oltre a interrogarci non si trova anche qualche risposta o strada più o meno difficilmente spendibile - è proprio questo: che il declino diventi tramonto. Ed è un rischio che si tira dietro altri rischi epocali. Se dieci anni fa quanti andavano in chiesa almeno una volta alla settimana erano quasi il doppio di quanti non ci andavano mai (33,4 per cento contro il 17,2 per cento), oggi il rapporto si è abbassato a 135: 135 persone che vanno in chiesa almeno una volta alla settimana ogni 100 persone che non ci vanno mai. Rapporto, questo, che nel centro Italia s'è già rovesciato - vanno in chiesa almeno una volta alla settimana 95 persone ogni 100 che non ci vanno mai - nel nord si sta avvicinando a grandi passi alla parità (110) e solo al sud fa registrare un fossato che appare incolmabile (240). Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 La madre disconosciuta di Carlo Cardia Genitorialità: deriva giurisprudenziale La Corte di Strasburgo ha condannato la Francia per non avere riconosciuto la paternità di bambini biologicamente figli di uomini francesi che li hanno avuti grazie alla maternità surrogata in India. Non è la prima pronuncia che favorisce, di fatto, la maternità surrogata sostenendo che lo Stato deve rispettare la vita privata delle persone, tutelata dall’art. 8 della Convenzione Europea, secondo l’interpretazione che ne dà la giurisprudenza. Nel 2015, la stessa Corte aveva legittimato il riconoscimento di figli ottenuti con la surroga di maternità, ma che non avevano alcun legame naturale con i genitori (Sent. Paradiso e Campanelli c. Italia). Nel caso di oggi - dal punto di vista giuridico assai complesso - il dato saliente è che la maternità surrogata è considerata illegale in Francia, e tale illegalità è sostanzialmente superata dalla Corte di Strasburgo, che apre di fatto la strada al riconoscimento generalizzato di una pratica che è rifiutata e contestata da molte leggi nazionali e da movimenti e organizzazioni che chiedono in Europa e nel mondo che essa venga respinta a livello internazionale. Siamo di fronte, in altri termini, a un ulteriore intervento della giurisprudenza europea che tende a negare al legislatore nazionale il diritto di intervenire, valutare, dettare norme, in materie centrali come quelle della trasmissione della vita, e, in questo caso, di tutela della dignità della donna che non può essere utilizzata come strumento, materiale e corporeo, per soddisfare desideri ed esigenze altrui. Occorre fare attenzione a questo aspetto, perché da esso deriva la perdita quasi generalizzata di sovranità dello Stato in una materia nella quale devono essere contemperati i diritti di diversi soggetti. Non è in discussione, va detto subito, il diritto primario di tutelare i bambini che nascono in situazioni del tutto nuove rispetto al passato, perché i diritti dei minori sono al vertice dei diritti umani, a livello giuridico e sociale. Sono in discussione, però, altri diritti: quello del bambino a conoscere la verità sulla propria origine e nascita biologica, quindi anche il diritto a conoscere la madre; e il diritto della donna, in ogni parte del mondo, di non essere sottoposta a nuove forme di sottomissione, quasi a servizio di coppie che si trovino in condizioni agiate e riescano a sfruttare il suo stato di sudditanza oggettiva (sociale, economica, psicologica) per un rapporto che genera un figlio, che però poi scompare agli occhi della madre, non può avanzare pretese di affetto, di riconoscimento, di tutela. Ancora una volta colpisce, nella sentenza della Corte, l’assenza di ogni considerazione su questo aspetto cruciale del tema affrontato, quasi che tutto si decida dentro il recinto del rapporto padre-figlio, e del diritto di chi fornisce il seme (padre biologico), ma poi utilizza il corpo altrui per ottenere un risultato che apparterrà a lui, soltanto a lui, cancellando dall’orizzonte la figura e il ruolo della madre. Torna quell’intrico, o viluppo, di ingiustizie, sottomissioni, umiliazioni che la realtà della maternità surrogata presenta agli occhi di tutto il mondo, e che la giurisprudenza dei Paesi ricchi sembra voler ignorare, di fatto legittimandola. E torna proprio in un Paese come la Francia che s’è distinta nei tempi più recenti per la coraggiosa e decisiva battaglia contro la maternità surrogata, organizzata e portata avanti anche da esponenti storiche del femminismo francese, come Sylviane Agacinski, e da personalità di diversa fede e idealità, come Rivka Weinberg, che sottolineano con insistenza lo scandalo di questa pratica perché «compromette la dignità della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usate come merce». Anche importanti documenti di istituzioni collegate al Parlamento europeo, più volte ricordati su 'Avvenire', hanno interpretato e censurato la maternità surrogata come una pratica che umilia la donna e riduce la sua funzione materna a una logica commerciale e a strumento di altri. La sentenza di Strasburgo, infine, pone un problema urgente ai legislatori nazionali, che è quello di impegnarsi per affrontare, in tutti i suoi aspetti una tematica nella quale convergono elementi antropologici e sociali decisivi: il diritto dei minori a conoscere padre e madre, a formarsi e crescere fruendo di una vera doppia genitorialità. E la tutela della dignità della donna, che non può essere ridotta a strumento passivo proprio sul tema della maternità, di cui dovrebbe essere protagonista attiva e felice, anziché strumento da usare e poi abbandonare da parte di uomini, o coppie, che tutto decidono sulla base del proprio 'io', dell’affermazione dell’esclusiva volontà individuale. Sentenze come quella di Strasburgo, oltre a ignorare i diritti essenziali dei minori e della donna, sono frutti dell’oblio di una cultura umanistica che fa del diritto lo strumento per elevare la società, e difendere i diritti di tutti, anziché favorire il diritto del più forte. Non c’è tema come quello della famiglia, e delle nuove generazioni, che richieda una attenzione massima al profilo inter-relazionale tra bambino, padre e madre, alla realtà comunitaria domestica che rifugge dall’individualismo estremo, mentre chiede partecipazione, tutela della dignità di ciascuno, sensibilità massima per la crescita dei minori, i quali attendono tutto dagli adulti, anzitutto padre e madre, perché non hanno ancora niente di proprio. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 6 Chi salva Antennatre? di Gianni Favero San Biagio. (treviso) Antennatre è in agonia e che possa davvero morire non ci si può credere. Perché ci fu un tempo in cui le reti Fininvest ancora non esistevano, solo la Rai poteva trasmettere telegiornali in diretta e l’unica informazione televisiva regionale, a Treviso, giungeva da un attico all’ultimo dei 19 piani di un palazzo fuori mura, in via Pisa, sotto un alto traliccio visibile a decine di chilometri. Potenza dei simboli, tutti pensavano fosse quella l’antenna di Antennatre, ma era di una radio e non c’entrava. Ci fu un tempo in cui le decine di giornalisti passati per quella redazione usavano macchine da scrivere e carta carbone per le copie, nei servizi esterni, se occorreva, si telefonava in studio con i gettoni e le apparecchiature erano così ingombranti che, assieme al cronista, oltre ad un operatore video, nelle Fiat 131 Station Wagon con grande logo sulla portiera saliva sempre anche un altro tecnico per tenere a tracolla un registratore da una decina di chili. Fu in quel tempo che, nella prima e sostanzialmente unica televisione di Treviso, che serviva comunque di telegiornali anche Venezia, Padova e Vicenza, fondata dallo scomparso patron dell’altrettanto scomparsa industria metalmeccanica Berga di Quinto, Renato Bernardi, non c’era un solo contratto di lavoro giornalistico degno di tale nome. Così, in un tempo di poco successivo, nei primi anni ‘90, quando, iscrivendosi al sindacato lo fece notare, una dozzina di redattori si trovò in un batter di ciglio in strada. Un pretore del lavoro ne ordinò il reintegro al quale seguì un nuovo licenziamento e un nuovo reintegro, fino a quando, nel parcheggio di via Pisa, parcheggiò una lunga Mercedes bianca. Camicia con spalline militaresche della stessa tinta ne discese Giorgio Panto e liquidò la cosa a modo suo. Comprò brevi manu la televisione, fece avere un po’ di milioni (di lire) in contanti a chi stava nelle liste sindacali della Fnsi pur di non vederli mai più, e si portò in una nuova bellissima redazione a San Biagio di Callalta tutti i silenziosi rimasti alla finestra. I quali, per inciso, vi arrivarono con un ormai dovuto contratto regolare fatto di contributi, ferie, maternità, ma funziona sempre così. Fiorì poi un tempo molto felice, per Antennatre, durato almeno dieci anni con un editore industriale di successo e stella politica in ascesa, creatore del movimento «Progetto Nordest», giunto a far elegger pure dei consiglieri in Regione. Un tempo di ricchezza di mezzi e di propulsione ideale, di acquisizioni di stazioni in tutte le Tre Venezie, fino al giorno tremendo dell’elicottero. Il 26 novembre del 2006 Panto, alla cloche della macchina infida, precipitò nella laguna di Venezia e quella fu la svolta. Difficile dire, fosse rimasto in vita, quanto il futuro sarebbe stato diverso. La tv passò al figlio, Thomas, che tentò ancora di espandersi ma non riuscì a fare i conti con due fenomeni ineludibili. Il tracollo complessivo dell’economia mondiale dal 2009 in poi e, l’anno dopo, il dannato switch-off. Il digitale terrestre scombinò i telecomandi di chi, da quasi trent’anni, faceva del Tg di Antennatre la preghiera della sera e sparpagliò un’immensa offerta televisiva in un unico grande e confuso panorama orizzontale di centinaia di canali. Ci fu un tempo seguente, perciò, di lenta e resistente decadenza. Giornalisti e tecnici, per conservare il posto, assorbirono anni di cassa integrazione, contratti di solidarietà e riduzione generalizzata dell’orario a part time e oggi, con le carte del concordato preventivo chiesto dall’editore, parlano i numeri. Le perdite accumulate nel 2015 sono di 6,7 milioni, la raccolta pubblicitaria in un anno è scesa da 5 a 3,1 milioni, nel 2014 i debiti verso banche e fornitori erano di 2,8 e 2,7 milioni e i 56 lavoratori avanzano mesi di stipendio. La proposta di affitto di ramo d’azienda di Eu Regional Media, una società riferibile all’inossidabile collettore pubblicitario Roberto Paladin, con assorbimento di metà lavoratori, è sfumata, sembra anche perché la formula non avrebbe consentito la vitale assegnazione dei contributi pubblici per l’editoria e adesso tutto è affidato all’esito di una gara. Il commissario giudiziale, Roberto Cortellazzo Wiel, la bandirà a breve e partirà all’inizio di settembre. Un’altra televisione potrebbe trovare interessante rilevare Antennatre? «Improbabile, quella tv ha una struttura troppo pesante ed è fuori mercato», è il punto di vista di Claudio Cegalin, direttore generale di Tva Vicenza e presidente del Consorzio Reti Nordest (di cui sono soci, oltre ad Antennatre e Tva anche Tele Nuovo e Tele Chiara). Se non è un editore, allora forse può interessare altri imprenditori? «Nessuno sano di mente» sentenzia un noto operatore del Private Equity trevigiano. «A meno che non sia un tycoon che voglia comperarsi una sua vetrina». Magari uno con ambizioni a volte politiche come Fabio Franceschi, presidente di Grafica Veneta? «Non nego che abbiamo chiesto di vedere i conti – ammette – ma in questo momento sono molto impegnato, datemi una quindicina di giorni». Per il direttore responsabile, Domenico Basso, ciò che davvero conta è che l’eventuale compratore sappia cosa fare e non navighi a vista. «Bisogna dare motivazioni forti ai giornalisti, per chi fa questo mestiere il part-time è un concetto incomprensibile. Bisogna mantenere alta la qualità e bisogna mantenere un respiro regionale». Giornalisti che avanzano sei mesi di stipendio e che lavoreranno gratis anche in luglio e agosto. Lo hanno saputo ieri, ma chiudere i Tg significa condannare la tv e chiudere ogni speranza di trovare acquirenti. Panto sostiene che le manifestazioni di interesse non mancano. «Non avrà tutte le armi di un tempo ma Antennatre è pur sempre una piccola macchina da guerra che a più di qualcuno farebbe piacere controllare. Un mio rientro indiretto? Non se ne parla, credo di avere già dato abbastanza». LA NUOVA Pag 1 L’etica ad Abano e in Veneto di Mario Bertolissi I profeti non sono mai andati di moda. Il loro prodotto, la profezia, urta. Se si guarda ai grandi eventi, la profezia consiste in una «rivelazione di un messaggio divino per bocca umana, spesso riguardante il futuro». Se si guarda ai piccoli, minuti eventi di ogni giorno, si può ripiegare su una ben più modesta definizione, che implica l’uso del buon senso. Infatti, che cosa ci voleva per capire che fare la staffetta da sindaco di Montegrotto (due mandati, dieci anni) a sindaco di Abano Terme (due ulteriori mandati), senza alcuna interruzione, avrebbe portato male? Bastava una dose minimale di buon senso, che è mancato a molti. Lo schema più collaudato è il seguente. Qualche grillo parlante segnala un pericolo. Invece di prenderlo sul serio, si minimizza, se non si ironizza. Poi, quando accade il previsto da pochi, imprevisto da molti, apriti cielo! Eppure, l’attuale sindaco di Abano Terme ha primeggiato alle recenti elezioni amministrative, nonostante, per la seconda volta, il buon senso avesse suggerito di lasciarlo a casa. Sarebbe stato meglio per lui già nel 2011. Per lui e per tutti nel 2016. Venerdì 15 luglio, sui quotidiani si poteva leggere: «Claudio umilia le Terme». Il problema vero non è Claudio, ma chi lo ha eletto. L’elettore avrebbe dovuto capire da sé - non serve essere dei geni - che una prolungata, ininterrotta permanenza nella titolarità del medesimo potere può creare collusioni, di cui poi dovrà occuparsi la magistratura. La magistratura giudicante deve risolvere problemi giuridici. Alcuni cittadini-elettori del Comune di Abano Terme ne hanno sollevati taluni nel 2011. Hanno proposto un’azione popolare dinanzi al Tribunale di Padova, alla Corte d’appello di Venezia e alla Cassazione civile di Roma. Hanno perso dovunque. A motivo di una strutturale incapacità di molti nel decifrare eventi nitidissimi. Purtroppo, c’è una propensione invincibile a rifarsi acriticamente al passato, riproponendo sentenze vecchie più di mezzo secolo, che avevano di fronte a sé, ancora vivo, il ricordo di ciò che era stato realizzato dal fascismo: il blocco dell’attività politica. La Repubblica, invece, avrebbe dovuto favorire l’accesso alle cariche pubbliche ed evitare di porre condizioni limitative. Ma - si pensò nel 2011 - possibile che sia consentito fare il sindaco a vita, transitando da un Comune all’altro, anche se l’articolo 51, 2° comma, del decreto legislativo n. 267/2000 stabilisce che «chi ha ricoperto per due mandati consecutivi la carica di sindaco … non è, allo scadere del secondo mandato, immediatamente rieleggibile alle medesime cariche»? Chi amministra la cosa pubblica deve fare in modo - ricorda l’articolo 97 della Costituzione «che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione». Questa regola elementare di buongoverno si attenua nella sua forza, fino a scomparire, quando urta contro ciò che più di ogni altro elemento inquina la rettitudine nell’esercizio delle proprie funzioni: è il conflitto di interessi. Si insinua tra chi governa e chi è governato, provocando collusione. Il potere, quando non è usurpazione, ha bisogno del consenso. Il consenso si ottiene percorrendo la strada maestra della legalità oppure per vie traverse. Nel primo caso, è indispensabile che l’uomo politico metta in conto di andarsene. Nel secondo, utilizzerà ogni “arma” per rimanere in sella. E quando in gioco ci sono interessi di rilevante consistenza economica, che cosa può succedere? Lo accerterà il giudice, ma è il caso di non dimenticare che Abano Terme ha rivotato, nonostante tutto, un candidato a sindaco, da lungo tempo in carica, cui poteva essere regalato un periodo di riposo. Abano Terme, per non dire il Veneto tutto, dovrebbe affrontare un problema cruciale, di cui soltanto qualche voce isolata ha parlato. Riguarda l’etica pubblica e privata. Forse, la questione più delicata riguarda l’etica dei privati, che, nel loro insieme, sembrano aver smarrito l’idea di istituzione. L’istituzione è una società politicamente organizzata in modo civile. Non è civile - è soltanto ipocrita - la società veneta, di allora e di oggi, descritta da Pietro Germi in Signore e Signori! Gente che si dice perbene e non conosce la dignità. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Ai moderati ora serve una svolta di Francesco Verderami Il centrodestra Al sistema politico italiano serve oggi un centrodestra moderno. E al centrodestra serve una guida che lo renda competitivo. Ma serve anche una classe dirigente che sia disposta a rompere gli schemi e sia capace di proporre un progetto di governo. È impensabile tornare alla guida del Paese muovendosi da travet, facendo attenzione al timing e al posizionamento personale, preoccupandosi solo di seguire i dettami di una grammatica che Silvio Berlusconi peraltro aveva accantonato. L’iniziativa di Stefano Parisi potrebbe essere un primo passo in questa direzione. Ma c’è bisogno di assumersi dei rischi senza attendere l’esito del referendum, senza aspettare la data delle elezioni, e soprattutto senza scambiare la propria iniziativa con la conquista del primato nella coalizione. Il problema del centrodestra oggi è l’assenza di un disegno moderato prima ancora che l’assenza di una leadership moderata. È necessario perciò disporre di un vocabolario adeguato alla stagione, diverso rispetto a quello che gli consentì di conquistare in qualche modo anche un primato culturale. Servono nuove parole d’ordine, perché le vecchie - rimaste a lungo inutilizzate - sono state adoperate dal leader del Pd, tradotte in programma di governo o riproposte in un’edizione aggiornata del libro dei sogni, dove c’è addirittura il ponte sullo Stretto. Privato del suo lessico e senza averne ancora un altro, il centrodestra ultimamente si è ridotto a definirsi per negazione, cioè a dire quello che non è. Non è renziano, non è favorevole alla riforma costituzionale, non è d’accordo sull’Europa. Così ha finito per somigliare alla sinistra d’antan, che per trovare una ragione di unità era costretta a ripiegare sull’anti-berlusconismo. Solo presentandosi con un moderno dizionario potrà essere utile al Paese. Perché anche la leadership carismatica del Cavaliere ebbe bisogno del lavoro di filosofi e politologi, che gli fornirono i contenuti da comunicare: «più persona e meno Stato», «più imprenditoria e meno burocrazia», «più sussidiarietà e meno tasse», sono i messaggi che fanno parte di un patrimonio identitario. Non a caso sono ancora molti i cittadini che si definiscono di centrodestra, mentre sono molti di meno gli elettori di centrodestra. Eppure quel bacino di consensi non si è prosciugato, uno studio di Ipsos sulle Amministrative ha rilevato che il centrodestra è avanzato nei consensi, mentre il Pd e persino i Cinque Stelle hanno perso voti. C’è bisogno dunque di un programma non di organizzare ora una leadership, anche perché il consenso e la fiducia evaporano rapidamente. Basti vedere la traiettoria di Matteo Salvini, incapace di incrociare il gradimento degli elettori moderati per i toni che usa non per i temi che solleva, per l’estremizzazione delle soluzioni non per le proposte in sé. Proprio le difficoltà del segretario leghista testimoniano a chi tocchi il compito di elaborare il progetto, sapendo che non è più tempo di conquistare la pancia la testa o il cuore degli elettori, preoccupati piuttosto per il loro futuro, per la loro vita. Per tornare in sintonia con una parte importante dell’opinione pubblica servono nuove parole. Su queste basi si potranno stabilire gerarchie e costruire alleanze capaci di soffocare le pulsioni populiste, prima di lanciare la sfida a Renzi e ai Cinque Stelle, contrapponendo la «competenza» alla «rottamazione» e al «nuovismo», visti dal centrodestra come falsi miti. Riconquistare la terra di mezzo è compito non facile, dato che - anche sul referendum - sono evidenti le spinte contrapposte e le ambiguità del mondo che ruota attorno al Cavaliere. Potrà sembrare paradossale che uno «sconfitto» alle elezioni comunali si proponga per la sfida alle elezioni nazionali, se non fosse che è stato Berlusconi a conferire forza alla sua investitura. Ma già in passato il fondatore del centrodestra ha adottato questa tattica per far emergere - e poi resettare - ambizioni e aspettative, fino ad accompagnare alla porta tutti gli aspiranti successori e riaffermare il suo ruolo. Si vedrà se anche stavolta sarà come le altre volte. Di sicuro per il casting del candidato c’è ancora tempo. Pag 24 Gesti coraggiosi dei musulmani per sconfiggere il terrorismo Una lettera di Luigi Manconi la risposta di Sumaya Abdel Qader Gentile Sumaya Abdel Qader, lo scorso 5 luglio, su suo invito, ho partecipato alla cerimonia di chiusura del mese del Ramadan all’Arena di Milano. Con me c’erano don Giampiero Alberti, in rappresentanza dell’Arcivescovo di Milano, la vicesindaco Anna Scavuzzo, e il giornalista Gad Lerner. In quella circostanza lei, appena eletta consigliere comunale di quella città, ha pronunciato parole di netta condanna del terrorismo islamista e di incondizionata solidarietà per le vittime dell’attentato di Dacca. E allora, all’indomani della strage di Nizza, già questo potrebbe indurla a domandarsi: «Perché mai, ancora una volta, tornare sul tema dello jihadismo, quasi dovessi scontare periodicamente la colpa di un’appartenenza religiosa e dare costanti prove di lealtà? Come se io e chi professa la mia stessa fede dovessimo vivere in una condizione di perenne sospetto e quotidianamente smentirla, assumendo sempre l’onere della prova». In qualche modo, e dolorosamente, è proprio così. E questo, come ha scritto in ultimo Vittorio Emanuele Parsi «non perché i musulmani debbano fornire una “prova speciale” della loro fedeltà ma perché solo grazie al loro aiuto potremo, prima o poi, sconfiggere il mostro del terrorismo islamista». Insomma, a prescindere dalle convinzioni e dalle intenzioni di ciascuno di noi, penso anch’io che si debba offrire e chiedere di più ai musulmani che vivono in Italia. È duro, ovviamente, può apparire pretestuoso e, per certi versi, addirittura offensivo per tanti che professano sinceramente la fede musulmana, pienamente integrati e rispettosi dello stato di diritto: ma ci troviamo in una condizione d’eccezione, che pretende scelte (in questo caso politiche) altrettanto eccezionali. Se, dunque, è comprensibile la reazione di chi si chiede perché mai debba prendere le distanze dall’attentatore di Nizza («cosa mai ho in comune con lui perché me ne debba distinguere?»), ciò nonostante quella dichiarazione di totale estraneità si rivela necessaria. Quell’unico tratto di affinità - l’adesione alla medesima confessione religiosa - è diventato un fattore dirompente e discriminante al punto da imporre a tutti di differenziarsi. In altri termini, si tratta di riconoscere che siamo, tutti, sulla difensiva e che alcune scelte sono imposte da circostanze ostili. Come sempre è accaduto, il terrorismo limita le libertà individuali e collettive e restringe gli spazi di autonomia. Insomma, è una fase, questa, che impone grande senso di responsabilità e scelte mature, che tengano conto dei rapporti di forza e della mentalità diffusa, degli allarmi sociali e degli stereotipi dominanti. Tutto ciò richiede intelligenza e gesti anche coraggiosi. Sono certo che i musulmani italiani sapranno compierli. (Luigi Manconi Presidente della Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani) Caro Senatore, ritengo che chi accusa i musulmani di non dire e di non fare abbastanza o è in cattiva fede o vive una condizione di preoccupazione/paura per cui ha bisogno di essere rassicurato. Sui primi c’è poco da aggiungere, ma sicuramente molto da lavorare. Verso chi vive in uno stato d’ansia, invece, penso che sia giusto che i musulmani continuino a ripetere, e ancora a ripetere, le loro posizioni di condanna e presa di distanza. Perché? Perché le persone esprimono un bisogno primario di sicurezza. Perché dopotutto quei criminali sono musulmani, e ai cittadini bisogna trasmettere messaggi inequivocabili. Certo, comprendo il discorso di chi, tra i musulmani, dice che «i terroristi non hanno a che fare con l’Islam, non sono musulmani»; in principio, lo ribadivo anche io ma ho capito che non è recepito da molti. Per chi ha conoscenza dell’Islam è ovvio che quei criminali non hanno a che fare col messaggio equilibrato di questa religione, ma per chi l’Islam non lo conosce non è affatto scontato. Il terrorismo che subiamo tutti è messo in atto da criminali musulmani che per motivi politici o economici e per tradimento del messaggio dell’Islam cercano di cambiare l’ordine geopolitico ed economico mondiale. Sono dunque musulmani delinquenti che vanno riconosciuti come tali. Anzi, riconoscere e definire bene il nemico aiuta a individuarlo meglio e combatterlo con gli strumenti più adeguati. Per questo sono utili da parte dei musulmani tutte le proposte volte a isolare la radicalizzazione religiosa, specie dei più fragili. Il momento storico chiede uno sforzo in più. Anche per superare un profondo deficit di comunicazione. Cosa fare,dunque? 1- Dare seguito alla proposta delle traduzioni dei sermoni in italiano o del sermone direttamente in italiano (si vedano le esperienze del Coordinamento delle associazioni islamiche a Milano che rende disponibili i sermoni tradotti anche su YouTube, e di Torino, Cuneo, Ravenna, Firenze, Perugia, Colle Val d’Elsa, Brescia, Napoli, Roma ...). 2- Obiettivo culturale fondamentale è il superamento del meccanismo «noi/voi». Ovvero la contabilità dei morti («i nostri»,«i vostri»). Tutte le morti valgono ugualmente. Tutti siamo vittime del terrorismo. Bisogna considerarci un unico noi allargato che insieme rifiuta e contrasta lo jihadismo. 3- Infine è necessario abbandonare le tifoserie da stadio che rivendicano identità in contrapposizione, e invece è urgente trovare luoghi di incontro e scambio. Conoscenza e convivialità. Le moschee, le parrocchie, le librerie, le piazze, e altri luoghi vanno riempiti di iniziative finalizzate a questo intento. La comunicazione diretta ed il contatto umano creano ponti, legami e relazioni forti che rendono più vitale la coesione sociale e la convivenza. Da qui si deve partire. (Sumaya Abdel Qader Consigliera comunale di Milano) AVVENIRE Pag 3 Come sarà l’Italia di domani lo si scopre salendo in montagna di Luca Liverani Anziani, stranieri e sostenibilità. Un laboratorio di coesione Le montagne italiane come un grande laboratorio a cielo aperto per capire come sarà l’Italia tra dieci anni. Non solo da un punto di vista demografico, ma anche dello sviluppo ecosostenibile. Sono indicazioni preziose quelle che emergono dal secondo Rapporto Montagne 2016, che sorvola il Belpaese, innervato da Est a Ovest dalle Alpi e poi – senza soluzione di continuità – dagli Appennini giù fino al profondo Sud. Le aree montane sono il 54% dello Stivale. E allora i monti, da luoghi marginali, possono tornare al centro del sistema di sviluppo, sociale ed economico. Curato dalla Fondazione Montagne Italia – nata dall’intesa tra Uncem e Federbim – il dossier analizza in modo dettagliato – con dati, tabelle, buone pratiche – le realtà che possono indicare una delle vie di uscita dalla crisi. Il campione rappresentativo del settore è basato su 600 interviste effettuate in 312 comuni di 67 province tra aprile e maggio. L’universo di riferimento sono le 608.354 imprese collocate in comuni che l’Istat definisce «totalmente montani». Il 51% sono comuni sopra i 600 metri sul livello del mare. L’analisi del Rapporto racconta innanzitutto di un doppio «flusso di ristrutturazione demografica». D a un lato c’è il tendenziale invecchiamento della popolazione – comunque inferiore alla media nazionale – che è anche un potenziale risorsa, trattandosi di persone che hanno di fronte a loro una lunga prospettiva di vita attiva. L’altro movimento è quello della progressiva presenza di immigrati, che si stanno sostituendo alla manodopera anche nei cicli produttivi importanti. Dal 2007 al 2014, ad esempio, è stato registrato un decremento demografico dello 0,005%, ma secondo il rapporto la popolazione straniera è cresciuta soprattutto nelle terre alte, con picchi nell’Appennino centro-settentrionale e presenze diffuse tra il 10 e il 15% della popolazione locale. Da segnalare che in più del 30% dei comuni montani le imprese a titolare straniero sono aumentate del 10%. E la montagna – com’è noto – ci racconta le buone pratiche dei lavoratori stagionali, che arrivano in Trentino e nell’Alto Adige dalla Slovenia e dai paesi dell’Est per la raccolta delle mele, in Val di Non come in Val Venosta. Una presenza regolare e ben gestita che non muta gli equilibri sociali e soprattutto smentisce chi al Sud dice che caporalato e sfruttamento sono mali inevitabili per la competitività del settore agricolo. Come pure sono stranieri, in gran parte dai Paesi balcanici, la gran parte dei pastori nell’Appennino. Al di là della presenza stagionale, è una tendenza confermata quella dei borghi montani abbandonati da chi è sceso a cercare lavoro in città, lentamente ripopolati dagli stranieri che, non di rado, permettono la ripresa di attività locali. P erché è proprio l’economia l’altro esperimento in corso nel grande 'laboratorio-montagna': declinare lo sviluppo con la sostenibilità ambientale. Una delle buone pratiche raccontate dal dossier è quella della oil free zone nella valle di Primiero e Vanoi, Dolomiti meridionali tra Trentino e provincia veneta di di Belluno. Ovvero un’area che dal punto di vista energetico punta a fare a meno dell’olio combustibile. La produzione di energia è infatti svolta dall’Azienda Consorziale Servizi Municipalizzati, partecipata interamente dal capitale pubblico dei comuni, che sta sostituendo il petrolio con l’energia proveniente dalla risorse del territorio, soprattutto biomasse e acqua, per utilizzare l’idrogeno come sistema di stoccaggio dell’energia prodotta. Le vallate montane insomma come anticipatrici di un percorso di progressiva emancipazione dal basso della logica che passa dal fossile alle rinnovabili. Un percorso che dovrebbe aver trovato il suo completamento nella delega data al Governo per l’introduzione del pagamento di servizi ecosistemici ambientali. In base a questa norma, infatti, l’esecutivo dovrà emanare un decreto che stabilisca il valore ecologico ambientale ecosistemico dell’utilizzo dei beni collettivi. Significa che acqua, aria, suolo, stoccaggio dell’anidride carbonica e bosco diventano risorse quantificabili. Il cui valore deve essere reimpiegato per la tutela, la salvaguardia, la stessa riproduzione del bene. Nevralgico anche il settore dell’agricoltura. Negli ultimi decenni l’abbandono della dura 'agricoltura di sussistenza' per uso e consumo familiare ha portato ovunque sui monti un aumento della superficie boschiva, addirittura raddoppiata negli ultimi 50 anni, arrivando a quasi 11 milioni di ettari, 600 mila in dieci anni, vale a dire un terzo del Paese. Ma i boschi, oltre ad essere una 'trappola' per la CO2, sono una risorsa preziosa rinnovabile di legname. Oggi l’agricoltura in molte aree montuose ha preso strade più competitive, grazie ai consorzi di produttori. E il Rapporto giudica importante il riconoscimento della specificità dell’agricoltura di montagna e lo stanziamento di risorse per il periodo 2015-2020. Ora però viene segnalata la necessità di finalizzare le risorse per investimenti efficaci e infrastrutture adeguate. Il problema ancora una volta sono le «sacche di burocrazia», come le definisce la ricerca, che rendono faticoso l’impiego dei fondi europei per la montagna. Ne è convinto l’onorevole Enrico Borghi, presidente dell’Intergruppo parlamentare per lo Sviluppo della Montagna e Presidente Uncem: «La montagna è il luogo in cui si sperimenta un modello di sviluppo della green economy – ha detto intervenendo alla presentazione del rapporto alla Camera – e ha caratteristiche che fanno sì che si possa costruire un modello sociale di coesione. Il Governo ha dato risposte in termini di risorse e di legislazione specifiche». Da Palazzo Chigi arrivano infatti segnali che fanno sperare in una rinnovata attenzione politica. È quello che assicura il ministro per gli Affari regionali e le autonomie Enrico Costa: «Non più finanziamenti a pioggia, non più 'non-scelte' politiche. Favoriamo e agevoliamo chi ha iniziative – afferma Costa – individuando linee strategiche su cui investire. Lo dice chiaramente il Def, il documento di programmazione economica e finanziaria: sul fondo di sviluppo e coesione serve un percorso tempestivo e vogliamo che un capitolo di questi fondi sia riservato per la montagna». Per Costa poi è necessario intervenire sulla grande frammentazione istituzionale, dei Comuni e delle Unioni montane. Da Andrea Olivero, viceministro delle Politiche agricole e forestali, arriva l’impegno da dare efficacia sui territori a quanto previsto nel Collegato agricolo, che rilancia una politica forestale per ridare funzioni economiche e ambientali a oltre 10 milioni di ettari di bosco, ancora in crescita. Nonché a puntare sull’agricoltura sociale e sulle produzioni ad alta qualità che hanno nelle 'terre alte' picchi di eccellenza. Eminio Quartiani, vicepresidente del Club Alpino Italiano concorda. Ma segnala la necessità di «una migliore definizione sui luoghi che sono montagna, in modo che le risorse disponibili vengano convogliate verso zone che necessitano della solidarietà della mano pubblica». Pag 9 Migranti, “raddoppiati i morti in mare” di Viviana Daloiso Bilancio choc per i primi 6 mesi del 2016: 2920 vittime. Ieri l’ennesima strage Quando si sono avvicinati al gommone alla deriva hanno visto subito l’orrore: da un lato, ammassati e disperati, i profughi che chiedevano aiuto con le mani alzate, urlando. Dall’altro, sul fondo dell’imbarcazione, le braccia e le gambe scomposte, decine di cadaveri riversi nel carburante. Chissà da quanto, erano lì. Chissà per quanto si sono mescolati, i vivi e i morti, in balia del mare e dell’arsura. È toccato ai volontari di Medici senza frontiere e Sos Mediterranée scoprire l’ennesima tragedia di migranti, procedere alla terribile conta. Alla fine del trasbordo, sulla nave di ricerca e soccorso Aquarius i salvati sono 209, i cadaveri 22. E 21 sono donne. Sono loro le più deboli, nelle traversate. Se sono giovani, e gracili, vengono travolte dai vicini negli spostamenti. Se sono ma-late, se hanno subito violenze nella lunga permanenza nei lager libici, soccombono per l’afa e la fame. Se sono madri, nonne, sorelle, fanno scudo col loro corpo ai bambini. Sul gommone soccorso da Aquarius ce n’erano 50, 45 non accompagnati. Chissà quanti hanno perso la donna della loro vita, sotto i piedi. Cosa sia accaduto, una volta raggiunto il largo, i sopravvissuti non l’hanno ancora saputo spiegare: sono quasi tutti sotto choc, e disidratati. Unica consolazione, le due giovani incinte scampate alla morte. Salve, coi loro piccoli stretti in grembo. Quel che è certo, però, e che la dice lunga su come la gestione dei flussi di migranti sia tutto fuor che sotto controllo è che dal primo gennaio le vittime del Mediterraneo sono state 2.920, contro le 1.870 dell’anno scorso: «Il numero dei migranti morti in mare nel tentativo di raggiungere l’Italia cioè – incalza Lorsi De Filippi, presidente di Medici senza frontiere – è raddoppiato». Significa 16 vittime al giorno. Di più: «La nostra esperienza ci ha portato a constatare che sono in aumento le imbarcazioni di fortuna, semplici gommoni con centinaia di persone ammassate a bordo, spinte a partire dalla difficile situazione in Libia». Spinte nel nulla, senza giubbotti di salvataggio, senza scorte, senza carburante. Come dire, le tragedie sono destinate ad aumentare. A meno che non si intervenga alla radice, con un cambio di rotta politico. «È necessario – spiega il Centro Astalli – garantire canali umanitari sicuri a quanti, in fuga da conflitti e persecuzioni, cercano protezione. È l’unica strada percorribile per evitare che trafficanti di esseri umani continuino a mettere in pericolo vite innocenti, lucrando sulla disperazione». Secondo i gesuiti l’Europa «ha il dovere di creare alternative al traffico di esseri umani come canali umanitari e programmi di reinsediamento, al vaglio da tempo sui tavoli istituzionali, mai diventati adeguatamente operativi ». Insomma, soccorrere non basta: bisogna anche prevenire «attraverso ingressi protetti e un’accoglienza dignitosa e organizzata che tenga in considerazione la volontà dei migranti» perché «politiche e misure volte esclusivamente a evitare gli arrivi e chiudere le frontiere sono evidentemente destinate a fallire oltre ad avere un costo altissimo in termini di risorse economiche ma soprattutto di vite umane». Dello stesso parere don Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes: «I corridoi umanitari sono l’unica soluzione possibile e devono uscire dall’estemporaneità di quelli realizzati da Sant’Egidio e Federazione delle chiese evangeliche». Secondo Perego gli strumenti ci sono, le diplomazie sui territori sono preparate, «si potrebbe cominciare dal piano di riallocamento europeo pensato per 160mila migranti e di fatto già fallito. Quei 160mila potrebbero essere accompagnati dall’Europa in un percorso garantito, sicuro, e la loro distribuzione a quel punto gestita razionalmente in base al sistema delle quote». Qual è il problema allora? «La mancanza di una volontà politica di tutti i Paesi – spiega monsignor Perego –. C’è il timore che una volta arrivati nei Paesi di prima accoglienza i migranti finiscano poi per spostarsi comunque altrove, dove sono indesiderati ». Vince la chiusura, vincono comunque i muri. E il mare, l’unica via di salvezza che resta per l’Europa, continua a inghiottire vittime. IL FOGLIO Pag 1 Perché il relativismo culturale dell’occidente presta il fianco all’assolutismo islamista. Parla Stark, gran storico della religione di Giulio Meotti Roma. Per anni, la vulgata nei dipartimenti di Storia e Antropologia ha attribuito i successi europei alle favorevoli condizioni ambientali presenti nel Vecchio continente. Un determinismo respinto da un libro, "The Victory of Reason: How Christianity Led to Freedom, Capitalism, and Western Success", pubblicato qualche anno fa da Random House. L'autore è Rodney Stark, uno dei più noti sociologi delle religioni, docente di Scienze sociali alla Baylor University e fondatore dell'Interdisciplinary Journal of Research on Religion. Stark ricordò come tutte le civiltà abbiano prosperato e siano decadute sotto ogni tipo di clima o latitudine. Si deve abbandonare il relativismo imperante nelle scienze sociali e analizzare i presupposti religiosi che stanno alla base delle diverse culture. Il successo dell'occidente si deve allora interamente alle sue fondamenta culturali, scosse non soltanto dagli attacchi islamisti, ma anche da una strisciante guerra silenziosa combattuta nelle aule e nei libri. "Sono più ottimista di quanto non fossi qualche anno fa", dice al Foglio Rodney Stark. "Soprattutto perché i recenti attacchi terroristici forse riusciranno a risvegliare una popolazione viziata e autoindulgente sul fatto che la civiltà non è scontata, deve essere difesa e richiede un sacrificio". L'Europa sembra aver archiviato la propria identità cristiana. E' possibile un Vecchio continente sotto un'altra religione? "Ci potrà essere una Europa senza cristianesimo, ma non potrà essere una civiltà occidentale senza di esso", ci dice Stark. "E' difficile però immaginare un occidente senza una Europa forte. C'è un declino demografico, ma non tutti gli occidentali europei hanno smesso di riprodursi. Gli europei religiosi hanno ancora tassi di fertilità sopra il livello di sostituzione". Ma secondo Stark, peggio degli attacchi alla cultura occidentale fanno i sentimenti nutriti di senso di colpa. "Il peggiore è la tesi falsa che i crociati cercavano terre e bottino, anziché tentare di articolare una risposta a secoli di tentativi islamici di colonizzare l'occidente. Questa, assieme alla tesi di una opposizione della chiesa cattolica alla scienza - metà dei grandi scienziati che hanno fatto la rivoluzione scientifica nel XVI e XVII secolo erano cristiani è la bugia peggiore". Per i crociati sembra che oggi non valga nemmeno il detto "de mortuis nihil nisi bonum". Una letteratura ostile a tutta l'epopea crociata si è radicata nell'immaginazione occidentale. Una condanna basata sulla premessa che era una guerra barbara, di sterminio e di conquista, scagliata contro una civiltà superiore e incomparabilmente più tollerante, la vile goffaggine europea contro l'eleganza araba. Questa deprecazione delle crociate, che unisce l'Isis ai progressisti di casa nostra, secondo Stark è un messaggio in codice. Di resa. "Le conferenze accademiche dedicano molte sessioni alla 'islamofobia' ma nessuna al terrorismo, tranne la spiegazione che è provocato dalle molte cose malvagie che l'occidente ha fatto all'islam, oggi e in passato", spiega Rodney Stark. Stark, da storico delle religioni, ha appena pubblicato il libro "Bearing False Witness: Debunking Centuries of AntiCatholic History". E insiste che il relativismo esercitato sulle crociate ha effetti che vanno oltre i libri e le aule universitarie. "Invece di essere un tentativo da parte degli occidentali di colonizzare la Terra Santa, le crociate furono una risposta a quattro secoli di sforzi dell' islam per colonizzare l'Europa. Il canto ripetuto nelle aule di scienze sociali di oggi è che tutte le culture sono valide allo stesso modo, e la conseguenza è che tutta la morale è arbitraria". Un relativismo, conclude Stark, che in occidente presta il fianco all'assolutismo islamista. Entrambi mettono a rischio una delle grandi fondamenta dell' occidente. "Cioè la libertà di pensiero. Non soltanto i nemici dell' occidente vogliono punirci per aver detto cose che loro ritengono 'blasfeme', ma anche troppi dei nostri funzionari usano leggi contro il 'discorso dell'odio' per mettere a tacere l'opposizione alle loro idee". Il senso di colpa è ancora un ottimo combustibile. IL GAZZETTINO Pag 1 Il golpe in Turchia, nuovi equilibri e ruolo della Nato di Giulio Sapelli Seconda più grande forza armata nella Nato con più di un milione di militari, la Turchia è uno dei cinque Paesi membri che posseggono lo status di attore della condivisione nucleare dell’Alleanza assieme a Belgio, Germania, Italia e Paesi Bassi. Ben 90 bombe B61 sono ospitate presso la base aerea di Adana, di cui 40 sono assegnate direttamente all’aviazione turca. Per avere un’idea dell’impegno di Ankara nella Nato, basti ricordare che dal 1998 attua un programma ventennale di modernizzazione dell’esercito del valore di 160 miliardi di dollari. Ma ciò che nessuno ha sottolineato in questi tumultuosi giorni è che da sempre i governi turchi, laici o islamisti, sviluppano una politica fortemente nazionalista anche nei confronti della Nato stessa. Sin dal dopoguerra la Turchia ha infatti perseguito una politica di continua trattativa con i comandi dell’Alleanza, rivendicando di fatto uno statuto speciale in virtù del suo porsi geograficamente tra Europa e Medio Oriente, segnando il passo di ogni penetrazione dell’Occidente verso Oriente e viceversa, come dimostrano i contatti sempre più stretti che lo stesso Recep Erdogan ha instaurato con i cinesi, oggi impegnati nella costruzione delle infrastrutture della cosiddetta “via della seta”, che dalla costa cinese meridionale giunge sino al cuore dell’Europa. Questa negoziazione permanente spiega anche perché la Turchia può mantenere 36.000 militari nel nord di Cipro, occupata nel 1974 durante l’ ultimo governo ataturkiano di Bullet Ecevit. Un’occupazione che la repubblica cipriota e la comunità internazionale considerino altamente illegale, al punto che sulla questione è intervenuto più volte l’Onu. Nonostante ciò, proprio per la sua naturale posizione strategica Ankara partecipa attivamente a forze di peacekeeping internazionale e il suo ruolo è cresciuto a dismisura durante la guerra in Siria. Peraltro, se si considera che già prima dell’esplosione della crisi mediorientale, nel 2006 la Turchia dispiegò una forza di peacekeeping composta da pattugliatori della Marina e da circa 700 truppe di terra come parte della Forza di interposizione in Libano (Unifil) sulla scia del conflitto israelolibanese, meglio si comprende il ruolo che oggi svolge nell’equilibrio instabile mediorientale, soprattutto dopo la composizione del conflitto con la Russia. Ciò farebbe pensare che Erdogan e il suo partito stiano meditando un cambiamento del sistema di alleanze, mettendo a repentaglio la tenuta stessa della Nato. La radice del problema odierno risiede nel fatto che nel 1952 la Turchia entrò sì a far parte della Nato, ma ciò non impedì la progressiva delaicizzazione della nazione, a cui i militari - e gli Stati Uniti non seppero opporre altro che tre colpi di Stato sempre più sanguinosi (1960-19701980). Ciò che sta accadendo oggi in Turchia altro non è che il progressivo devertebrarsi di uno Stato che fu per secoli il punto archetipale, con l’Egitto, prima dell’Impero Ottomano e poi del sistema di equilibrio dei poteri che si andò delineando volta a volta dopo la Grande Guerra e con la fine del regime ataturkiano. La nuova borghesia urbana delle medie città turche e il nuovo proletariato anatolico frutto della liberalizzazione che fu promossa dagli stessi militari negli anni Novanta, era di orientamento musulmano e conquistò le città non urbanizzandosi culturalmente ma piuttosto “contadinizzando“ religiosamente le città. Mai eliminati dalla modernizzazione ataturkiana, gli imam guidarono spiritualmente la fiumana di contadini che si riversò in una Istanbul che andò così trasformandosi, fino a eleggere un sindaco di chiara ispirazione islamica: Erdogan, che poi divenne premier. Con la conquista del potere politico, il nuovo leader inizia una decisa lotta che ha come fine lo smantellamento del potere dei militari unitamente al progressivo indebolimento di quello della magistratura che si era autoriprodotto con tenacia e stretti legami massonici. Potrò sbagliarmi, ma nonostante le scosse di questi giorni Erdogan rimarrà nella Nato, perché il suo vero obiettivo è ridimensionare il ruolo degli Stati Uniti e dell’Europa in Turchia, cogliendo l’occasione del risveglio fondamentalista per rinnovare i bassi quadri dell’esercito con reclute a lui fedeli e sfiorate dalla presenza del Daesh, come documenta il ruolo svolto dalla polizia medesima nell’organizzare i corridoi di penetrazione dei fondamentalisti islamici. Sarà così più facile inseguire il sogno della Grande Turchia che Mustafa Kemal Ataturk non fu in grado di affermare e che ora, sotto la bandiera del Profeta, si prospetta come raggiungibile. Di qui la consapevolezza, sebbene tardi raggiunta, che Bashar al-Assad vada risparmiato, non disgregando ulteriormente la Siria. La Nato - ed é questo il punto essenziale che spiega l’attuale crisi turca - non riesce più a svolgere quella funzione unificante dello Stato che un tempo era stata in grado di assicurare. E ciò in primo luogo per lo sfaldarsi progressivo della politica estera americana, che proprio in Medio Oriente oggi ha il punto più basso della sua incapacità di egemonia e di dominio insieme. Sicché le conseguenze del golpe possono essere gravi, di là della reale volontà di Erdogan. La pressione russa è del resto sempre più forte e si combina con l’indebolimento delle alleanze Usa con gli Stati sunniti della regione, Arabia Saudita e Qatar in testa. Mosca vede così accrescere il suo ruolo, non a caso intensifica le relazioni con l’Egitto e con i sauditi mentre rafforza la potenza iraniana che, opponendosi ai sauditi, ne limita il potere d’intervento nell’aerea. In questo scacchiere si assiste dunque al ritorno della politica di potenza esistente precedentemente alla Grande Guerra e all’avvento dell’Urss, con la Turchia guidata da forti spinte autonomiste svincolate dalla fedeltà atlantica e orientata a costruire il nuovo profilo strategico mediorientale che di nuovo si gioca sul tavolo delle tre grandi potenze spirituali dell’area: gli arabi sunniti, i persiani sciti e i turchi in via di crescente islamizzazione, mentre la Nato appare sempre più impotente dinanzi a questo ritorno della storia. Torna al sommario