PDM Capitolo 12 - Il Mondo di Gaia

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PDM Capitolo 12 - Il Mondo di Gaia
l aradiso dei aghi
nno 1870
na soria di aia
apiolo 12
veva davvero esagerato, pensò Larica. Il suo incantesimo impediva a lei e Gatta di risentire
dell’effetto dei fumogeni, ma il fumo restava, e si vedeva ben poco di tutto il resto. Per fortuna
Gatta conosceva la casa di suo cugino abbastanza bene da trovare l’armadio con la porta
magica prima di quanto l’elfa scura potesse prevedere.
Ora c’era da capire dove portava, e se sarebbe stata di qualche utilità.
Mizar non era assolutamente in grado di costruire un simile artefatto da solo, perciò o lo aveva
comprato o glielo aveva fornito qualcuno. Nel primo caso si sarebbero potute trovare a casa del
suo compagno di bevute in un’altra città così come nel sommo tempio di Sole, con tanto di Mizar
che tremava abbracciato all’altare facendosi compatire da una decina di pie vecchie. Al limite
potevano anche sbucare a Leda in casa degli zii di Gatta, anche se il bel giovane di mondo
avrebbe dovuto spiegare troppe cose ai suoi perché fosse igienico sceglierli come via di fuga.
Se invece, come Larica credeva più corretto, era stato qualcun altro a fornirgli quell’armadio,
Mizar era in casa o nello studio di “questo qualcun altro”, perché l’armadio doveva servire più a
“questo qualcun altro” che a Mizar.
Lo stile era quello della Felino, ma era più che altro una speranza, perché il direttore
dell’Accademia di Naktor era da tradizione consolidata più un amministratore che un grande
mago. Se si fosse trattato di Yelami sarebbe stato molto peggio, anche perché sarebbero potute
piombare in mezzo a una battaglia fra lei e Mirak.
«Immagino che tu stia ponderando un sacco di cose, Larica.» sospirò Gatta guardando
spassionatamente l’armadio aperto «Ma non ci sono alternative. È il mio testimone, e non deve
scappare.»
L’elfa della giungla pronunciò l’ultima sillaba di quella frase e sparì dentro l’armadio.
Larica imprecò e la seguì immediatamente, perché aver paura era un conto, ma far andare la sua
migliore amica chissà dove da sola era un altro.
…
…
Gatta e Larica si guardarono intorno. Erano negli uffici dell’amministrazione dell’Accademia, ad
occhio al terzo piano, ed erano appena uscite da uno dei bagni degli uomini. Mizar non si era
neanche preoccupato di chiudere la porta.
Gatta imboccò di corsa la porta dell’antibagno e Larica le andò dietro, anche se era convinta
che non ce l’avrebbe fatta a lungo. Se Mizar era veloce Gatta era sua cugina, e per di più era
anche ben allenata.
L’elfa scura, però, per quanto a detta della sua famiglia fosse degenere, aveva il colpo d’occhio
tipico della sua gente, che si appuntava per istinto sulle cose scintillanti. Larica si fermò e si chinò a
terra nello stesso istante in cui si voltava.
«Un pezzo di orecchino.» fece. Per fortuna Mizar andava sempre in giro carico di gioielli e
ammennicoli come una statua della Grande Antenata Katsalees1.
Gatta adocchiò il pendente in mano all’amica. Era d’argento e ossidiana.
<Quel maiale di Mizar tradisce la razza elfica e la sua stessa famiglia, ma continua a portare la
pietra sacra come decorazione per i suoi gioielli da cafone.> si disse.
«Prendevi la strada sbagliata.» spiegò Larica «È andato di là.»
Quindi non era andato a cercare la sua amica Felino, che dal canto suo se aveva sentito qualsiasi
rumore si sarebbe fatta con ogni probabilità trovare di fronte al caminetto a pregare Sole perché
allontanasse il male dall’Accademia.
Larica stava per bestemmiare all’indirizzo della stessa dea, ma Gatta le era già passata accanto di
corsa e si era lanciata a caccia come ogni brava strega guerriera della giungla. E lei doveva starle
vicina, non importava quanto potesse correre velocemente, perché aveva una pistola e uno
sguardo che non promettevano niente di buono.
Lei doveva impedirle di ammazzare Mizar, e non solo perché lui era un importante testimone. Era
vero che la giustizia di Leda voleva che fossero i membri del suo clan ad occuparsi di un traditore,
ma Mizar era il cugino di Gatta, e per lei sarebbe potuto essere troppo… per non parlare di quel
che avrebbero detto i preti e le autorità civili della città.
C’era il rischio che Mizar passasse per vittima e Gatta per pericolosa selvaggia che era meglio
tenere alla larga da Naktor.
Del resto era altamente probabile che Madro l’avesse mandata con lei proprio per quel motivo.
Poi c’era l’orecchino… dato che sua madre faceva la strozzina lei aveva una certa confidenza
con i gioielli, e quel pendente aveva proprio l’aria di essere uno di quelli spezzati in due, con la
montatura e la pietra divise in due pezzi per poter essere più mobili e scintillanti. E se era la stessa
pietra c’era un incantesimo che si poteva usare, anche se era un po’ complicato e lei non lo
aveva mai lanciato in un momento di necessità.
«Gatta, aspetta!» gridò l’elfa scura con il poco fiato che le restava «Faccio un Ramposki Secondo!»
L’elfa della giungla si fermava di rado, ma aveva sempre prestato attenzione a Madro e a sua zia.
La terza persona che riusciva a fermarla era Larica.
«Eh?» fece voltandosi senza neanche il fiatone.
«Ramposki Secondo, Arcano Ricongiungimento della Pietra. Mi serve un fazzoletto o altro simile
indumento nero.»
Comprare il cappellino di lusso era stata una buona idea, si disse Larica, e non solo perché aveva il
nastro sotto il mento come andava di moda quell’anno e nascondeva bene i capelli rossi, ma
anche perché dentro era foderato con una seta nera molto utile per fare il Ramposki Secondo. Se
lo sarebbe fatto riparare a spese del Tempio di Es’el dopo avergli consegnato il testimone.
L’elfa scura strappò un pezzo di fodera e ci avvolse l’orecchino di Mizar, poi si inginocchiò a terra e
iniziò a recitare la formula strofinando l’involto sulle piastrelle di marmo.
1
Leggendaria antenata venerata dai popoli del Nord.
C’era solo da ringraziare l’ostentazione tipica di quell’Accademia di mediatori commerciali
travestiti da maghi, perché se le mattonelle fossero state di ceramica il Ramposki avrebbe
funzionato solo a un signor esperto di magia della terra, cosa che lei non era.
Larica ripeté la formula altre tre volte e scosse il fazzoletto sul pavimento. L’orecchino sembrò non
aver recepito, ma durò solo un paio di battiti di ciglia. Lentamente iniziò a strisciare verso l’altra
metà della pietra spezzata.
Il Ramposki Secondo, aveva pensato l’elfa scura già dopo averlo studiato per la prima volta ed
essersi divertita a farci gli esperimenti insieme a Nick usando ciottoli di fiume, pezzi di lavabo di
marmo ed il pavimento di casa sua, nel novantanove per cento dei casi non serviva a niente o
quasi.
Il caso presente era l’uno per cento.
Adesso avevano una bella freccetta che le avrebbe portate direttamente da Mizar. Tutte e due.
arica e Gatta si fermarono, e l’elfa scura si lanciò a raccogliere la pietra incantata con il
Ramposki. Ancora pochi istanti e sarebbe andata a sbattere contro una parete.
«Ci mancava solo il passaggio segreto, porca miseria!» imprecò Larica.
«È possibile che il tuo incantesimo abbia semplicemente scelto la via più breve e che questa sia
una parete?» chiese Gatta.
«No, il Ramposki non vede attraverso la pietra. È tendenzialmente inutile…» Larica iniziò a
picchiettare piano piano sulla parete e a tastarla con le mani per trovare il classico pulsante che la
faceva aprire. «Se si esclude questa particolare situazione. Non solo Mizar è passato di qui, ma
credo anche che sia andato poco lontano.»
Se lei fosse stata un bastardo che aveva ingannato i propri genitori per vendere la sorella invalida
come cavia in cambio di ottime chance di fregare il posto al proprio maestro non sarebbe andata
tanto in giro quella notte, soprattutto dopo che qualcuno aveva buttato dei fumogeni in casa sua
e di certo non l’aveva fatto per fare uno scherzetto goliardico ai suoi coinquilini.
«Credo che lui si sia nascosto qui dentro.» spiegò l’elfa scura continuando a far scorrere le mani
sulla parete.
Certo, c’era anche l’inquietante dubbio che si fosse chiuso dentro e che ci fosse un meccanismo
che impediva a chi era fuori di aprire la stanza segreta dal momento in cui era stata chiusa
dall’interno.
In cosa sperava Mizar? Non poteva immaginare che Gatta fosse arrivata da sola… aveva un
maestro, uno che in gioventù aveva fatto diversi lavori inquietanti (fra i quali si diceva, il cacciatore
di taglie e il collaboratore dei servizi segreti per uno dei paesi del sud) e che avrebbe potuto fare
un solo boccone della sua protettrice con più facilità di quella con cui avrebbe potuto farlo con
un panino al prosciutto. Il vecchio lupo non era uno che abbozzava per fare l’uomo di mondo, e
per di più aveva sempre con sé due lupacchiotti, il furbo e il grosso. Come poteva quel poco di
buono sperare di scappare rifugiandosi in quel posto?
Certo, senza il Ramposki forse ce l’avrebbe fatta, ma questo solo perché si trattava di loro due.
Joyce lo avrebbe individuato sicuramente, e Madro sarebbe potuto spuntare dalle ombre alle sue
spalle e gli avrebbe affibbiato una delle gomitate nei denti per cui già da ragazzino era temuto
nelle risse da osteria.
«Gatta, hai visto?» fece all’improvviso Larica a voce alta. Era il trucco più vecchio del mondo, e
non era detto che avrebbe funzionato.
Certo era che se Mizar non era scappato in un cunicolo ma si era chiuso in una stanza o in una
nicchia nascosta era meglio che le credesse distratte. L’elfa scura passò l’orecchino incantato
all’amica e osservò il corridoio in cui si trovavano. Non c’era nemmeno una dannatissima svolta
per parecchi metri. In fondo c’erano le scale.
«Chi è stato, secondo te?» fece Gatta strofinando i piedi per terra come se stesse camminando
«Mizar?»
Era un trucco dettato dalla disperazione, si disse Larica passando ancora una volta le mani sulla
parete. Faceva schifo, ed era improbabile che funzionasse.
L’unica alternativa, però, era fare un buco nel muro. Ovviamente sarebbero scattati degli allarmi
che lei non sapeva disinnescare semplicemente perché non sapeva dove fossero.
C’era anche una terza possibilità, sinceramente. Potevano restare lì davanti come cani da
guardia, ragionevolmente sicure di aver individuato il nascondiglio di Mizar grazie al Ramposki,
finché non fosse arrivato uno dei preti del Tempio o qualcun altro autorizzato a fare buchi nei muri
altrui. Per qualsiasi elfo scuro questa terza alternativa non era affatto male, ma Larica non sapeva
quanto l’avrebbe accettata Gatta. Il suo sguardo le diceva che era più orientata verso
l’alternativa “buco nel muro”, e che se l’elfa scura non ci avesse pensato con più grazia lo
avrebbe fatto lei a costo di demolire qualche struttura necessaria alla stabilità dell’edificio o
quantomeno del piano a cui si trovavano.
«Non c’è altra soluzione.» sospirò Larica «Potrebbe essere un tunnel e non una stanza. Oh on.
Etelrede. 2»
Modellare la roccia era un incantesimo abbastanza subdolo da far scattare meno allarmi di
qualunque altro sistema più diretto, ma comportava una formula lunga e a cui erano abbastanza
refrattari i comuni mattoni. Per fortuna spulciando nella biblioteca dell’Accademia lei aveva
trovato una variante un po’ più lenta ma più versatile. Non per niente Naktor sfornava ingegneri,
oltre che negromanti.
Gatta controllò che la sua pistola fosse perfettamente carica e si piazzò a lato del buco che l’elfa
scura stava faticosamente aprendo a furia di ripetere la formula dell’Etelrede modificato di Naktor.
Larica era letteralmente terrorizzata dall’idea che la sua amica ammazzasse Mizar sparandogli in
mezzo alle spalle o in mezzo agli occhi come se fosse stato un cane rabbioso.
2
La formula è classica: prima si pronuncia l’elemento su cui si vuol agire, poi il tipo di azione che si vuole fare. Quindi
comincia la formula magica vera e propria.
Certo, in molti a Naktor le avrebbero dato ragione, l’avrebbero lodata per la forza e fermezza del
suo spirito, l’avrebbero chiamata paladina della giustizia… poi l’avrebbero rimandata a Leda
dentro un pilone di cemento.
Ma mentre recitava l’incantesimo lei non poteva dirle “non sparargli”. Aveva una voce sola, e se
Gatta avesse deciso di sparare lei non sarebbe stata in grado di fermarla in tempo: la sua amica
era la figlia di cui una dei signori degli elfi di Leda era orgogliosa, e lei era la figlia di una coppia di
strozzini. Se Gatta avesse voluto sparare in fronte a Mizar con la sua terrificante precisione lei non
l’avrebbe neanche vista in tempo.
irak e Joyce si appoggiarono contemporaneamente allo stesso muro. Non si erano separati, se
non per pochi minuti. Appena si incontrarono di nuovo sulle facce di entrambi era stampata la
medesima espressione.
Era tutto un solo, orribile schifo. Dovevano essere anni che Yelami trafficava con quei maledetti
esperimenti, e c’erano decine di scimmie di tutti i tipi fatte a pezzi e imbottigliate su scaffali quasi
senza libri. Soprattutto scimmie, ma anche qualche bambino abortito o nato morto, quel che
restava di tragedie che avevano colpito famiglie di elfi o orchi.
Mirak era passato da un colorito giallastro a uno verdastro. Era un naturalista, ma non avrebbe mai
neppure immaginato di farsi una simile collezione. E quello che avevano visto era solo il piano
terra. Le vere mostruosità dovevano essere al primo piano, insieme alle cavie guardate a vista
dagli uomini armati che, grazie alle illusioni di Joyce e al fatto che Mirak fosse in grado di
trasformarsi in un attimo in diversi animali ben poco rumorosi, non si erano fatti ancora vedere.
Magari, però, la loro consegna era di tenere sotto tiro le cavie e ucciderle se fossero stati scoperti,
iniziando da quelle in grado di parlare.
«Che mi dici del mannaro, Mirak?» chiese Joyce. Adesso parlava piano, bisbigliando, ed era
terribilmente serio. Solo le sue numerose ave appartenenti alla ben poco schizzinosa razza degli elfi
scuri gli impedivano di essere a sua volta verdastro.
«È vivo.» rispose il naturalista.
«Vediamo di farcelo restare. Ci vorrebbe Madro, ma aveva in testa un piano abbastanza
complicato, e non so quanto ci metterà. Fatto sta che se ci beccano prima ammazzano il
mannaro e poi provano ad ammazzare noi. E devo dire che mi stupisce che quella schifosa driade
non sia in circolazione.»
Anche Mirak era stupito e preoccupato. Nessuno sapeva quali fossero le capacità offensive di
Yelami in un attacco diretto. Non ne aveva mai utilizzate, ma questo non voleva dire che non ne
avesse.
Purtroppo, però, c’era poco da fare. Al pianterreno c’erano indizi, ma non prove. Per quanto i
campioni che quel rettile dal sangue freddo aveva raccolto fossero ripugnanti non erano niente di
speciale se non si sapeva a cosa servissero. I bambini morti appartenevano alle razze intelligenti
tutelate dalla legge, ma erano palesemente morti per cause naturali. Non c’era niente di
particolarmente strano nello studiarli.
Il licantropo al piano superiore, invece, era una vera prova di colpevolezza, soprattutto se era in
grado di parlare e di sapere quel che diceva, e più del novanta per cento delle scimmie mannare
rispondeva a queste caratteristiche.
«Hai un piano per arrivare al piano di sopra e salvare il mannaro senza che ci sparino addosso?»
chiese il naturalista. Joyce continuava ad essere serio.
«Mi piacerebbe parecchio.» rispose «Mi piacerebbe anche che Madro uscisse da quell’ombra lì,
sinceramente. Non avevamo preventivato che Yelami potesse già avere delle cavie, e soprattutto
che fossero dotate di parola e raziocinio. La cugina di Gatta chiacchiera con le farfalle, e dice
sempre le solite cose. A dire il vero speravamo che il rettile avesse preso al massimo qualcuno
come lei, che non poteva essere un vero pericolo anche se lo trovavamo.»
Una scimmia mannara, invece, era qualcuno che prendeva un farmaco, si metteva giacca e
cravatta e andava in tribunale a dire “signor giudice, ai sensi delle leggi federali e di quelle della
città di Naktor accuso l’imputato del sequestro della mia persona”. Era classificabile come
“testimone pericoloso”, e da quelle parti c’erano solo due cose che si facevano con i testimoni
pericolosi. In quel caso, dato che il mannaro era stato preso come cavia da esperimenti, era assai
difficile poterlo corrompere.
«C’è poco da fare, zio.» Joyce sospirò. Era un suono che Mirak non aveva mai sentito. Un sospiro
serio, non uno di quelli che faceva quando gli andava male una partita a carte o non riusciva a
uscire con una ragazza.
Il naturalista annuì ed iniziò a recitare una formula. C’erano poche protezioni magiche contro il
piombo spinto dalla polvere da sparo, e le uniche che potevano avere una qualche speranza in
uno scontro a fuoco in un luogo chiuso le avevano inventate i maghi di Madre Natura come lui.
Joyce sperò che quelle di Mirak fossero qualcosa di più di “una qualche speranza”. Non aveva
proprio voglia di finire bucherellato, ma il licantropo andava salvato, e nel frattempo bisognava
anche incastrare definitivamente Yelami.
Mirak finì la sua formula e proiettò su entrambi un’energia appena visibile. Non sembrava
comunque molto convinto, perciò era decisamente meglio mandare avanti i topi.
l buco nel muro si allargò abbastanza da far passare uno gnomo, e Gatta si piegò in due e ci
passò attraverso.
Larica imprecò ed interruppe la formula. Si era sbagliata: non si trattava di una stanzetta con
dentro Mizar raggomitolato e pronto per essere prelevato. Era un corridoio, lungo, stretto e buio.
Gatta era andata avanti di corsa, aveva l’orecchino incantato e al buio ci vedeva infinitamente
meglio di lei.
«Len on…» iniziò l’elfa scura cercando di evocare una banale luce magica, ma il suo istinto di figlia
di delinquenti la fermò e le fece notare che qualcuno stava camminando per le scale. Non
correva… anzi, doveva avere anche le scarpe in mano per non fare rumore. Peccato che le
orecchie di un elfo scuro potessero per definizione sentire la differenza fra un siente vero e uno
falso che cadevano nello stesso registratore di cassa.
Larica s’infilò una mano in tasca e prese la pistola da borsetta. Non era niente se la si paragonava
a quella di Gatta, ma si nascondeva bene e sparava lo stesso.
Se Mizar cercava di scappare dalle scale con le scarpe in mano come un marito che aveva fatto
tardi a bere o a giocare d’azzardo stava sbagliando di grosso.
atta arrivò di corsa in fondo al corridoio segreto e aprì la porta di legno che trovò in fondo
semplicemente sparando alla serratura come sua zia le aveva insegnato a fare.
C’era un solo posto in cui quel corridoio poteva finire, se il suo senso dell’orientamento non si
sbagliava. Quel bastardo di Mizar aveva sperato che lei buttasse giù la porta con una spallata, da
brava guerriera tribale.
La ragazza aprì la porta e contemplò i tre piani di vuoto sotto di lei.
La scaletta che portava in basso era più rugginosa del normale, segno che Mizar si era premurato
di darle una seconda occasione di cadere dal secondo piano. Peccato che anche lei avesse i
suoi trucchetti.
«Are szon.» iniziò a recitare, e si chiese solo per un istante per quale motivo Larica non l’avesse
seguita.
<Probabilmente sta provando un altro dei suoi incantesimi di divinazione.> concluse.
Gatta finì la formula, lasciò la porta aperta e saltò giù, atterrando sul pietrisco con lo stile di una
ballerina del Sisshan. Stavolta l’incantesimo per assicurarsi una caduta morbida aveva funzionato
perfettamente, e l’orecchino incantato le indicava Mizar come una bussola indicava il Nord.
Il bastardo stava cercando di uscire dall’Accademia, forse per raggiungere il tempio più vicino e
fingersi povero innocente ingannato (dalla direttrice) e perseguitato (da un mostro tribale dagli
occhi verdi). Se poi avesse avuto troppa paura dei templi c’erano diversi altri rifugi a Naktor, per
alcuni dei quali bastava pagare.
Gatta guardò l’orecchino incantato e si fermò.
Non poteva raggiungere Mizar senza usare un altro incantesimo: suo cugino le aveva dato un
certo vantaggio fermandosi ad arrugginire la scala per farla cadere di testa dal secondo piano,
ma era sempre stato veloce a correre, soprattutto quando scappava.
L’incantesimo che lei si stava lanciando addosso era classificato fra quelli che “facevano male” e
che dovevano essere usati il meno possibile3. Non lo avrebbe usato per molto. Solo il tempo
strettamente necessario a prendere Mizar.
«Morphose on. Celeritas.» recitò Gatta. Quando finì la formula le sue gambe si mossero da sole.
Larica si sarebbe slogata una caviglia o stirata qualcosa subito dopo essersi lanciata addosso un
incantesimo del genere. Lei avrebbe retto un po’ di più, ma non sapeva quanto.
irak atterrò sul pianerottolo al primo piano. Joyce ci avrebbe messo più tempo, perché non
era in grado di trasformarsi in uccello. In compenso tutto intorno era pieno di topi illusori.
Il mago allungò il suo collo d’aquila per percepire cosa lo stesse circondando, ma non ce ne fu
bisogno: la voce di un bambino urlò “aiuto”, ed una troppo conosciuta gli ingiunse di stare zitto.
«Cazzo, Mirak!» rantolò un istante dopo Joyce, appeso a un filamento di caucciù come un poco
elegante ragno. «Puoi smettere di fare il polletto e darmi una mano?»
Mirak, però, era come in trance. Conosceva troppo bene la voce della donna che aveva
ordinato al bambino di tacere. Era possibile che fosse Ilsenora Gallo, un’altra sua allieva?
Il bambino gridò di nuovo, e stavolta lo sentì anche Joyce.
Il giovane sbiancò e spinse con i piedi contro un muro. Il caucciù si tese e tornò indietro con un
rimbalzo, facendo volare Joyce con il sedere sul pianerottolo. Aveva sempre fatto abbastanza
schifo in quel genere di cose, ma non c’era tempo per pensarci: c’era qualcosa nella voce di quel
bambino che lo chiamava in modo irrefrenabile. Era semplicemente orribile, ma era così. Era il suo
istinto, era quel che sua madre gli aveva insegnato prima di mandarlo all’Accademia. Il Sampe
prima di tutto. Che il Sampe viva per sempre. Non era solo un motto scritto su una bandiera.
Il bambino prigioniero era sampiano, proprio come lui. Era un suo connazionale, e solo chi era nato
e cresciuto nella Repubblica del Sampe sapeva cosa volesse dire.
Joyce saltò su di scatto e iniziò a correre verso la voce. Aveva sparpagliato i topi perché facessero
perdere cartucce alle guardie e aveva addosso un incantesimo per rendersi poco visibile. Poteva
correre in modo abbastanza silenzioso, ma comunque chi stava minacciando il suo connazionale
si sarebbe accorto che c’era qualcuno.
Mirak lo seguì in volo. Non sapeva cosa avesse in mente quel ragazzo. I topi stavano andando
dall’altra parte, per distrarre eventuali nemici o avvertire loro che qualcuno stava arrivando…
poteva essere un buon piano, ma qualcosa negli occhi e nei movimenti di Joyce non lo
convinceva. Era troppo simile a quel terrore gelido, a quel dolore insopportabile che sbranava
dall’interno il suo corpo con zanne di ghiaccio e che gli diceva: “Oltre una di quelle pareti c’è
Ilsenora… e chi altro?”.
3
Gli incantesimi non sono mai perfetti, ma alcuni sono venuti particolarmente male, e possono danneggiare chi li usa o
il soggetto su cui vengono usati. Parecchie metamorfosi, ad esempio, hanno effetti collaterali che possono provocare
stiramenti muscolari o altre dolorose conseguenze.
Joyce si fermò all’improvviso, subito dopo aver svoltato un angolo del corridoio.
Uno dei suoi compagni d’Accademia gli stava puntando contro una pistola.
<Un bel problema…>
I topi non avrebbero funzionato granché se tutti gli uomini armati erano maghi esperti. L’unica
fortuna era che il caro amichetto non lo vedeva bene, ma se lui si fosse mosso ancora sarebbe
diventato un bersaglio.
<Il bambino sampiano si trova al di là di una porta. Solo pochi passi e potrei salvarlo…>
Un orso bruno apparve davanti agli occhi di Joyce, caduto dall’alto come solo un’aquila che si
trasformava in orso poteva fare. L’animale ruggì, e Joyce arpionò la maniglia della porta.
Ilsenora Gallo, un’ex assistente di Mirak passata a Yelami, aveva sparato su un gruppetto di cavie.
Solo una scimmia mannara stava facendo resistenza, una ragazzina più grande e più sveglia, che
cercava di proteggersi con il corpo di un piccolo elfo morto e strillava in dialetto sampiano.
Ilsenora si voltò di scatto verso la porta proprio mentre Joyce si catapultava dentro. Il mago sentì il
primo proiettile attraversargli la carne e urlò una bestemmia in dialetto.
Fuori l’orso ruggì di nuovo, e fu solo quello ad impedire a Ilsenora di sparargli subito per la seconda
volta. Joyce afferrò la scimmia sampiana e saltò dalla finestra.
Un altro proiettile lo colpì mentre cadevano dal primo piano.
All’interno dell’edificio l’orso continuava a ruggire, ma sembrava più l’urlo di un essere umano.