Quei bei giorni di Lesa. Le vacanze di Alessandro Manzoni sul Lago

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Quei bei giorni di Lesa. Le vacanze di Alessandro Manzoni sul Lago
Quei bei giorni di Lesa. Le vacanze di Alessandro Manzoni sul Lago Maggiore
di Archivio Iconografico del Verbano Cusio Ossola
Erano passati quattro anni dalla morte dell'amatissima prima moglie Enrichetta
Blondel, madre di otto figli, quando Manzoni si risposò con donna Teresa Borri
Stampa, il 2 Gennaio 1837. La nuova moglie, nata a Brivio in Brianza nel 1799, era
una donna esile e graziosa, dai capelli folti e scuri. Aveva sposato, a diciannove anni,
il conte Stefano Decio Stampa, discendente da una insigne famiglia di origine
francese, che ebbe il titolo nobiliare con regio imperiale diploma il 5 Aprile del 1787.
I coniugi si trovavano proprio a Lesa, nella villa di famiglia prospiciente il lago, la più
bella casa del borgo secondo Ruggiero Bonghi, quando il conte ebbe un primo sbocco
di sangue. Nessuno volle dargli importanza e Stefano si curò con dieta e salassi.
Teresa era incinta. Il 23 Novembre del 1819 diede alla luce un bambino, che fu
chiamato Giuseppe Stefano. Il padre stava ancora male e decise di fare un viaggio a
Parigi per visitare la suocera. Al ritorno la sua salute peggiorò e andò con il bambino
a Lesa per respirare aria pura. Teresa restò a Milano per una laringite. Sto meglio che
a Milano, le scriveva Stefano, ma si lamentava del baccano per la festa di San Martino.
Una vera musica di gatti, il tutto alle cinque del mattino, momento in cui io godo di più il
dolce riposo.
Quando Teresa lo raggiunse, Stefano Decio non aveva nemmeno la forza di
camminare e si nutriva solo di marmellata di rose. Si faceva portare a spalla dai
domestici su una portantina sulla riva del lago, per vedere il golfo di Lesa, tanto
amato. Morì nel dicembre del 1820. La giovane vedova fece erigere nell'atrio della
casa un cippo in nero di Varenna, a memoria del defunto, con un'iscrizione: A Stefano
Stampa - Cultore delle scienze e delle belle arti - caro a pochissimi fedeli amici Amantissimo della Patria - Teresa Borri - per il desiderio di tanto diletto volto - consorte
inconsolabile poneva - Nato a Venezia morì nel borgo di Lesa nell'anno ventiquattresimo di
sua età, secondo di matrimonio, 1820.
Il conte aveva fatto testamento il 28 Luglio del 1820 e diviso il patrimonio in parti
uguali tra moglie e figlio, assegnando una pensione alla madre Julia, che fece subito
causa a Teresa. Il contenzioso durò per anni, ma finalmente nel 1822 Teresa ebbe
una parte dell'eredità e nell'estate raggiunse Lesa con Stefanino, malgrado una parte
della villa fosse ancora parzialmente occupata dai marchesi Caccia Piatti, certi
parenti degli Stampa, che facevano rumore e disordine e le impedivano di godere del
giardino. Il piccolo Stefano voleva stare tutto il giorno sul lago a tirar sassi e
scappava sempre da casa per vedere l'acqua. Teresa era sempre in ansia. Nel 1822,
quando finalmente potè disporre dell'eredità, commissionò al pittore Francesco
Hayez un ritratto di famiglia, ma non ne fu soddisfatta. Nel quadro, Teresa Borri è al
centro, in abiti vedovili per la recente scomparsa del marito, assieme alla madre
Marianna Meda, al fratello Giuseppe Borri e al figlioletto Stefano. Il quadro restò poi
nello studio del pittore per parecchi decenni. Teresa non era convinta del risultato.
Del ritratto di Peppino ne sono poco soddisfatta. Sul mio non faccio parola ... si accordano
tutti nel dire che è perfettamente dipinto. In quanto a me dico solo che mi fece un gozzo
rispettabilissimo, e che io ne ho uno discretamente visibile. Ma quello di Steffanino quant'è
interessante, quanto gentile, vago e simile!. Hayez rispose che un quadro corre rischio
d'esser impasticciato, quando si vuole rinnovare qualcosa. Propose alla contessa di
restituirle il denaro anticipato, mentre lui si sarebbe ripreso la tela. Lei chiese invece
dei cambiamenti. Nel gennaio del 1828, Hayez ammetteva la propria inadempienza,
scusandola con l'intenso lavoro. Teresa aspettò fino al 24 settembre, quando lo
pregava con una nuova missiva di schiarire il fondo e di togliere il busto del
compianto marito dalla colonna. Alla fine il pittore si tenne il quadro e risarcì la
nobildonna con la tela di argomento storico della Congiura dei Lampugnani. Il
ritratto di famiglia, da cui fu eliminato il busto di Stefano Decio fu, molto più tardi,
rilevato dal figlio Stefano per farne dono alla madre, che nel 1851 lo ricordava nel
piccolo catalogo di libri ed oggetti d'arte conservati nella villa di Lesa. La tipologia
della "scena di conversazione", non molto frequente nella pittura romantica italiana,
potrebbe essere stata suggerita dalla contessa, che aveva soggiornato per lungo
tempo con il marito a Parigi.
Teresa curava moltissimo la salute del figlio, che, da piccolo, era molto magro.
Temeva che potesse ammalarsi come il padre, e lo tenne a dormire nel suo letto
finché fu bambino. Donna Teresa fu sempre legatissima al figlio; con lui ebbe una
fittissima corrispondenza per tutta la vita. Ciononostante lo educava con severità,
dicendo ai contadini con i quali giocava di picchiarlo, se anche Stefano lo avesse
fatto; quando non era rispettoso con le persone di servizio la madre gli faceva
chiedere scusa e gli domandava se credea d'essere el Contin Ciccin descritto dal Porta.
Teresa scriveva alla madre: Stefany se porte bien, mais il n'a pas pris d'embonpoint, il
voudrait se tenir deboit au pied du lac du matin au soir. Fin da bambino amava starsene
da solo sulla riva del lago. Il piccolo mostrò una predilezione per il disegno, i colori, i
pennelli, così la madre lo mandò a lezione da Massimo d'Azeglio prima e da
Francesco Hayez poi.
Teresa sentì parlare di Luigi Rossari, professore di letteratura all'Istituto Regio
Scuola Normale di Milano e compagno di studi universitari del fratello di Teresa al
Collegio Borromeo di Pavia. Decise di assumerlo come istitutore del figlio. Come
maestro si guadagnò subito le simpatie di Stefano e tra i due nacque una grande
amicizia che durò tutta la vita. Attraverso Rossari, conobbe Tommaso Grossi, che, a
sua volta, parlò a Manzoni di Teresa, sapendo che il Manzoni non sapeva risolversi a
viver solo essendo nato per il matrimonio. La descrisse come una donna colta,
intelligente e sensibile. Lo scrittore mandò la madre, Giulia Beccaria, a visitarla e
quella si mostrò invaghita e innamorata morta della povera Teresa. Ritornò a vederla; e di
lì ad alcuni giorni venne di persona il Manzoni, e dopo qualche altra visita la domandò in
moglie. Lei esitò, ma soltanto perché temeva che il figlio Stefano, che aveva ormai
diciotto anni, non ne fosse contento. Lui disse alla madre di fare quello che credeva
meglio per tutti e due. Sul secondo matrimonio girava per Milano la frase scherzosa:
Manzoni ha attentato alla dignità della Stampa! Come osservava Piero Chiara, il periodo
di Teresa Stampa corrisponde a un suo ritorno di facoltà espressive, quasi che, se gli
mancasse il talamo, non avesse quella creatività che probabilmente era legata anche alla
sua struttura fisica, al suo temperamento che aveva bisogno di una compagna, di una vita
coniugale.
Teresa venerava il Manzoni. Era sempre euforica, loquace, esuberante. In lei,
racconta Pietro Citati, l'Agnese, Perpetua e l'Adalgisa di Gadda si erano date convegno e
abbracciate. Non erano passati pochi mesi dalle nozze, che iniziò a litigare con la
suocera Giulia Beccaria, nota per il suo carattere dispotico. Non si coinvolse
affettivamente con i tanti figli di Manzoni. Vittorina Manzoni scrisse: i nostri rapporti
con Donna Teresa, per dire la verità non erano mai stati molto spontanei. Fin da principio
lei ci teneva molto ad essere chiamata mamma da Matilde e da me; e a questo ci teneva
anche papà, che le voleva molto bene. Noi volevamo compiacere lei, che era buona, e Lui...
e scrivevamo quella parola; ma a dirla non si riusciva! Il Tommaseo descrisse così la
nuova famiglia: Lui buono; la madre accorata; la moglie maliziosa; il figliuolo Filippo senza
affetto. Nel 1842, qualche anno dopo il secondo matrimonio il Manozni dichiarò che
erano passati quasi sei anni che l'aveva sposata e che non aveva mai avuto nemmeno
una volta il minimo lagnarsi di lei; che quello che era stato per lui il primo giorno lo
era stata tutti gli altri; che la rivedeva sempre collo stesso piacere, che il suo
pensiero ricorreva sempre a lei con soddisfazion, con piacere grandissimo, che gli
aveva saputo mantenere quanto gli aveva promesso il primo giorno della loro
unione; che, in una parola, essa formava la sua felicità. Come riferiva Giuseppe Borri
nei Colloqui col Manzoni, ricorda come lo scrittore gli aveva parlato della contentezza
che provava nella mia unione con tua sorella ... Non ch'io dica ch'ella sia una perfezione.
Ha i suoi piccoli difetti, come io ho i miei assai grossi; ma mi è facile tollerare i suoi,
ed essa tollera maravigliosamente i miei. Stefano, il figlio di Teresa, che allora era
diventato allievo dell'Hayez e frequentava l'Accademia di Brera, non amava stare in
via Morone, a causa dell'invadenza di Donna Giulia. E non apprezzava nemmeno
Brusuglio, la terra che Manzoni possedeva nei pressi di Cormano, dove aveva la villa
ereditata dall'Imbonati e la coltivazione di bachi da seta. Stefano soffocava nell'unica
stanza che gli era stata assegnata da Giulia, trovava la campagna calda e monotona,
all'infuori del giardino dove sorgeva quel tumulo, quel rialto artificiale, chiamato
pomposamente da don Lisander la "Montagnetta". Nell'agosto del 1838 decise di
emigrare verso il suo lago: Stefano sta bene solo, e vuole restar solo nella
contemplazione della natura e co' suoi fantasmi. Si sistemò quindi felicemente in casa
propria. I Caccia Piatti erano stati relegati in un appartamento e non infastidivano
più, ma sorvegliavano Stefano per la madre.
Donna Teresa non si oppose alla decisione del figlio, che sapeve avere una scorza
ruvida e per il quale provava un affetto quasi morboso. Il 3 Agosto del 1837 gli
scriveva: Sono le quattro e sarai a Lesa; se non ho fallato giocando a indovinare, amezzo
giorno sarai stato a Sesto Calende; ad un'ora sarai entrato a Belgirate; chissà se ho
indovinato! forse sì forse no; ad ogni modo ho curiosità di saperlo; voglio che mi scrivi il tuo
orario di viaggio; vorrei sapere d'averti incontrato con verità, dove ho immagnato che fossi.
Mi dirai a che ora hai pranzato, e cosa. Io vivo e corro dietro a te coll'immaginazione ... Io
invidio tutto quello che ti sta attorno; vorrei essere in ciascuna di quelle cose dinanzi a cui ti
fermi; se fossi un folletto o una Fata entrerei in uno di quei noci sulla riva di Lesa; poi
entrerei nel cipresso di Belgirate; o in un pilone, o in un masso, insomma in una qualunque
cosa dove tu fossi, così mo invece il mio pensiero ti vede in ogni luogo senza trovarto mai,
come ci accade pensando a Dio; figurati!... Nelle tua camera ci fa un odore strano e
nocivissimo di acqua di ragia con un misto di di cento altri odori che danno i varj colori;
d'ora innanzi, non più né più mai dipinti nella camerada letto; uno studio e presto uno
studio; intanto a Lesa, guardati di appendere i tuoi dipinti nella camera da letto; te lo
raccomanda la tua mamma che ti vuole ben che non è dato agli uomini maschi di
concepire. Teresa arrivò per la prima volta con Alessandro nel luglio del 1839. Molti
anni prima il Manzoni aveva visto per la prima volta il Lago Maggiore, quando nel
viaggio di ritorno da Parigi aveva fatto tappa a Ginevra ed era rientrato in Italia
attraverso il Sempione. Allora era insieme a Enrichetta e passando da Lesa mai
avrebbe pensato che in quel luogo avrebbe trascorso molto tempo. Anche se Villa
Stampa non era sua, ma del figlio adottivo, e seppur non era stata costruita e
pensata dallo scrittore, egli veniva volentieri. Sul lago scomparivano tutti i malesseri
di Teresa, veri o immaginari che fossero. Lei stava bene, mentre a Brusuglio trovava
che l'estate fosse calda e pesante. Vedrai in che bon essere son io in salute! scriveva al
figlio al suo ritorno. È stato Lesa e poi Lesa; quel Lesa che delizia tanto Alessandro, e ne
parla ancora col miele alla bocca. Malgrado la predilezione per il Lago Maggiore,
Teresa lasciò sempre libero il marito di andare e venire anche da Brusuglio, nel cui
cimitero giacevano la prima moglie e le figlie.
Nel giugno del '39 il Conte Stefano fece un'escursione sul Lago d'Orta e in Valsesia
in compagnia dell'amico Matteo Cagliari. L'itinerario prevedeva la partenza da Lesa in
barca per Pallanza, da cui avrebbero raggiunto Omegna, l'arrivo a Orta via lago da
Oira. Da Orta Stefano scrive alla madre raccontandole del delizioso viaggo e di aver
visto sulle montagne del Cusio un piccolo temporale senza tuono, ma di un effetto
meraviglioso il quale si dissipò prima di toccarci; ma lasciò una coda di nuvole che si
sfogarono la mattina. Passò la giornata a Orta ammirando il paese e visitando il Sacro
Monte. Pensa di andare a Varallo il giorno dopo a condizione che il tempo sia bello:
e, se non è bello, mi fermerò qui ancora, essendo bene alloggiato ed essendovi bellissima
vista, che non voglio aver viaggiato per nulla. Nel settembre dello stesso anno Stefano si
recò in Ossola e in Vall'Anzasca, per visitare Macugnaga. L'8 ottobre scriveva ancora
a Donna Teresa e descriveva il clima con occhi da pittore: Che tempo!! Che tempo!!!
Disperazione della disperazione delle disperazioni!!!! In tutto il mese di 7mbre ci sono state
4 giornate belle di seguito, e l'8bre è già comininciato con un'acquerugiola continua e
seccante, tanto più che le montagne sono involte in una densa nebbia, ed il tempo non è
ancor freddo, cosicché c'è ancora la trista speranza che che duri per un pezzo fin che non
nevichi un bel pezzo nelle montagne e faccia qualche gran vento.
L'anno successivo, il 6 novembre del '40, in una lunga missiva Stefano raccontava
della pioggia incessante: Cara mamma, il giorno di S. Carlo abbiamo avuto il lago ad un
altezza che da quarant'anni in qua non si era mai veduta. Ma prima c'è stato un tempo di
casa del Diavolo; c'è stato un temporale che durò tutta una notte e tutto un giorno, con
pioggia dirotta e marengo così forte che fece alzare il lago un braccio e mezzo soltanto in
una notte. Il Pendola ha rischiato di perdervi la sua barca ancor nuova, ed è stato in l'acqua
forse un pajo d'ore per salvarla, in modo che ci passavan le onde sopra il capo, giacché
sulla punta del pizzo c'eran tre barche affondate, questa sua e due di suo fratello, le quali
urtandosi fra di loro si sarebbero spezzate infallibilmente. Ma riusciron poi a salvarle tutte
e tre. - La Bovera, torrente presso a Villa essendo cresciuto moltissimo, e scaricandosi anche
verso Lesa ha rovinato varie strade e soprattutto la migliore - L'Erno è cresciuto tanto, che
oltre a farsi un canale quasi netto in mezzo alle campagne, ha portato via un pezzo d'una
masseria altre volte Borroni e che ne porta ancora il nome, e minaccia seriamente un'altra
dei Connelli d'in Villa, la posta è stata tre giorni senza tornare da Domodossola, giacché in
Sempione credo non sarà praticabile ... E noi a Lesa abbiamo avuto lo stradone
intieramente coperto dal lago, dimodoché veniva sotto la porta alla metà del nostro portico,
in cucina poi era alta in modo, che abbiamo dovuto levar fuori i polli, che rischiavano
d'annegarsi benché si fosse alzata la caponera due o tre volte; non dico poi niente della
scuderia, tinera e rimessa, bottega del Rossi etc. etc. A Belgirate poi s'andava in chiesa in
barca, giacché sullo stradone ce n'era quasi un braccio ed era tutto coperto da casa
Connelli, altre volte Cavalli, sino a casa Castellengo, altre volte di Strio ... Intanto ti dirò
l'ultima ed eccellente notizia che il tempo par che si metta daccapo, o almeno non c'è
speranza che ritorni sereno. Ma la carta è terminata e anche tutto quello che vi aveva da
raccontare, dunque finirò... Vi faccio tanti baci e vi dico tante cose che si possono
indovinare, a tutti e due e mi professo di essere tuo Stefano. Stefano, che era sempre
allegro, veniva chiamato dagli amici il "conte orchestra" perché sapeva suonare vari
strumenti musicali. Smemorato e trasandato nel vestire, era uno sperimentatore
nato, amava dipingere paesaggi e si interessava di magnetismo e di dagherrotipia.
Dalle sue stessa parole appare l'ultimo dei romantici: la mia natura non è fatta che per
dipingere, andar per valli e monti, leggere e sollevarsi qualche momento con un po' di
musica: ma non ho mai avuta la vocazione di scrivere ... Mi lasci dipingere: mi lasci andar
per valli e monti sconosciuto da tutti, indipendente e libero come l'aria; mi lasci la mia
natura. Nella villa di Torricella conservava due quadri di paesaggio dipinti a Lesa, uno
dei quali ritraeva la Via Varim sopra la ferrovia, con il muro com'è ancora oggi.
I Manzoni tornarono di nuovo nella metà di settembre del '43 e vi rimasero più di
un mese. Alessandro incontrò a Stresa l'abate Rosmini, che si era trasferito a Stresa
nel 1839, con cui discusse di questioni di lingua e in autunno trovò a Belgirate un
calzolaio che gli fece delle scarpe comode. Da Milano Teresa scrisse a Stefano di
ordinarne altre tre paia, un paio col legnazz, cioè con la suola di sughero e due senza.
Al Manzoni piaceva molto trascorrere l'estate sul lago, infatti scriveva, in una lettera
alla figlia Vittoria del 2 Novembre 1846: Abbiamo prolungato come vedi il nostro
soggiorno a Lesa perché la salute di Teresa ci guadagna davvero; e oltre ciò, io m'
innamoro ogni giorno di più, di questo lago, di questi monti, di questa quiete. Ogni mattina
si recava nella chiesa parrocchiale di San Martino per ricevere la Comunione ed
assistere alla Messa. Nella Villa Stampa il Manzoni aveva una stanza che guardava il
lago, dotata di un lavabo a colonna e di lussuosi pavimenti di legno. Dove oggi ha
sede la Sala Manzoniana c'era l'abitazione del fattore, che si chiamava Enrico Rovera.
Nella grande stanza vi era stata ricavata una saletta riservata al contabile, che
arrivava saltuariamente per l'amministrazione. In quel locale c'era anche un
pianoforte che veniva utilizzato ogni tanto dal figlio del fattore, Federico, che aveva
imparato da solo a suonare. Il giardino della villa conteneva una rigogliosa limonaia,
che produceva abbondanti frutti anche d'inverno, ed era coltivato il cotone ad uso
ornamentale. Manzoni voleva organizzarne una piantagione a Brusuglio e per questo
aveva chiesto all'amico Ruggiero Bonghi, che villeggiava a Belgirate, di procurargli
della semente a Napoli. Aveva mandato Stefano a Belgirate con il campione di seme
di cotone. Ringrazia per me il caro Bonghi - scriveva al figliastro - e ancora di più la sua
signora, che vuol prendersi per lei medesima l'incomodo di procurare il seme di cotone, a
Napoli. Credo che non avrai dimenticato di dire che importa averlo qui nel mese di marzo;
e questa volta dopo due inutili tentativi, spero, se Dio mi lascia al mondo un'altr'anno, non
solo di vedere nel giardino di Lesa i fiori del cotone (che di quelli n'ho visti anche nel
giardino di Milano, e venuto a un seme non ben maturato qui); ma di coglierne il filo,
venuto a perfezione.
Spesso venivano a fare visita al Manzoni il conte Cavour, il Berchet, Giulio Carcano,
il Rosmini, il Tommaseo e Massimo d'Azeglio. I terreni della proprietà Stampa erano
molto estesi e comprendevano una vasta area che si inerpicava sulla collina: sopra
l'attuale linea ferroviaria vi era la "scigolana", un fondo coltivato a vigneto e uliveto. I
vini di Lesa erano molto rinomati. Si producevano in quantità, sia bianchi che rossi
ed erano molto apprezzati dagli Stampa e dal Manzoni, che li conservavano per anni
in una capiente cantina adiacente alla villa. A Manzoni, che adorava quei vini, era
venuto il desiderio di impiantare una vigna anche in Brianza. Sulla collina, dove
attualmente sorge la villetta Monguzzi, c'erano le stalle, così pure, al posto della Villa
Falcetti c'era un'altra stalla e una cascina con il fienile. Tra la villa e questi terreni vi
era una peschiera che accoglieva specie lacustri. In alto, sopra l'attuale stradina
interna proveniente da Stresa, vi era il Belvedere, dove spesso arrivava il Manzoni si
incontrava con il Rosmini. Dalla villa sino all'attuale casa Lambertenghi c'era un viale.
Da lì si arrivava a un tavolo in sasso dove lo scrittore amava sedersi con Giulio
Carcano o con lo stesso Rosmini. Su quel tavolo, all'ombra degli alberi, il Manzoni
lavorò alle correzioni dei suoi scritti. Piero Chiara ricorda, in Divagazioni
manzoniane, nel volume Colloqui a Lesa sul Manzoni riporta che uno dei passatempi
preferiti dal Manzoni e dai sui amici che soggiornavano a Lesa era il gioco degli 'scarafaggi'.
Esso consisteva nel macchiare dei fogli, ripiegarli e poi vedere gli strani disegni che si erano
formati.
Manzoni, che per inciso detestava l'umidità, aveva dimenticato a Lesa il parapioggia
azzurro e poiché lì c'era ancora Rossari, Stefano gli chiese di riportarlo a Milano;
Rossari non capì o non aveva voglia di trasportarlo. Teresa si arrabbiò con il figlio
per aver disturbato il maestro. Cosa mai t'è saltato in mente di consegnar o far
consegnare l'ombrello di papà a Rossari, quando si poteva portarlo noi in legno tanto e
tanto bene, benissimo!!! Passaporto di Rossari, ad Arona! Ombrella di papà, a Rossari! Ma
non hai pensato che doveva essere incomodato lui, dovendo venire per Velocifero! Sarebbe
toccato a noi portargli del suo in carrozza nostra, piuttosto che caricarlo lui delle cose non
sue! Oh! Pasticcino! Intanto Rossari, non credendo vero, o non avendo capito che
quell'ombrella dovesse portarla lui (quella di papà), egli l'ha consegnata al Pendola e il
Pendola deve averla rimessa in casa, e tu la porterai a Milano o la manderai.
Nell'agosto del 1844 Teresa e Stefano avevano programmato la partenza per Lesa,
dove avrebbero ospitato il barone Sigismondo Trechi, un carissimo amico del
Manzoni. Per la sua stanza era stato ordinato un comò, ma erano in ritardo nella
consegna. Ho pensato di comperare comperare e poi comperare un cantarà, un trumò, un
qualche cosso a cassettoni, antico ma bono, bello e fatto e finito da un secolo per averlo in
futuro per il 7 o l'8 o il 9 giacché Trechi verrà il 9 o il 10 credo. Tutto era pronto,
quando Teresa si ammalò. Si sentiva debolissimamente rotta a bocconcini, a minuzzoli.
Fu diagnosticato un tumore, curato con frizioni mercuriali e di jodio, ma lei
peggiorava. Passavano i mesi ed era sempre più sofferente; i medici tastavano un
ventre duro e gonfio, in cui avvertivano dei movimenti. Nella notte fra il 7 o l'8
febbraio Teresa fu colpita da atroci dolori. I medici dicevano che il tumore stava
scoppiando, le fecero dei salassi. Ad un tratto si accorsero tutti che erano le doglie
da parto. L'ipotesi di una gravidanza era stata esclusa per l'età. Teresa aveva infatti
quarantacinque anni. Nacquero due gemelline, una senza vita, l'altra si spense subito
dopo. Manzoni tagliò una ciocca di capelli e la mise in una busta su cui scrisse E tu
senza nome, ma figlia beata del Salvatore in cielo, benedici di là i tuoi parenti, che ti
piansero invidiandoti. Teresa ed Alessandro Manzoni. Il male era svanito in un momento.
I Manzoni ritornarono sul lago nel 1846 e rimasero fino alla metà di novembre.
Alessandro scrive molto e vede ogni poco il suo tanto amato e venerato Rosmini: or l'uno
va, or l'altro viene da Lesa a Stresa, e da Stresa a Lesa. I figli della Blondel non venivano
mai ospitati a Lesa. La figlia del Manzoni, Vittoria, si sposò a Nervi il 27 settembre. Il
Manzoni presenziò, ma Donna Teresa non fu invitata: alla vigilia di veder partire solo il
marito ... s'accorò talmente, da prendersi una malattia. In dicembre si ammalò alla gola e
fece testamento. Lasciava tutto al figlio: voglio che tutto quello che ho di mio, sia a Lesa,
sia a Milano o presso di lui o presso di me in casa Manzoni, di mobili di libri, effetti preziosi
e tutto, sia per lui. Alle figlie di Manzoni non lasciava nulla e niente era previsto per i
figliastri. Manzoni, spaventato, scrisse al Rosmini di pregare per la moglie. Dopo sei
salassi iniziò a stare meglio. Come raccontavano Vittoria e Matilde Giorgini, in
Manzoni intimo, Donna Teresa, negli ultima anni specialmente, era proprio quello che
a Lucca di dice una calìa. Era stata sempre preoccupata, soprattutto, della sua salute,
e la sua insonnia, la sua disappetenza, erano i soli argomenti che la interessavano
veramente. Dava una straordinaria importanza alle cure della sua persona, ed aveva
finito col creare attorno a sé una specie di corte. Una sola, fra le sua ancelle, la
sapeva pettinare senza farle male; un'altra era l'unica che le sapesse rifar bene il
letto; solamente una terza sapeva somministrarle pozioni e farle gl'impiastri...
Insomma, per sopportare lo stato di cose che si era andato a formare in casa
Manzoni, non ci voleva che la pazienza angelica del povero papà! ... Però Donna
Teresa, a parte le sue miserie, era una degnissima persona, e per malignare sul conto
suo ci voleva solo la penna di Cantù, spesso tuffata nel veleno. Il mettere in dubbio
la rispettabilità, la pietà o anche solo la bontà di Donna Teresa, sarebbe una colpa.
Nel '47 passarono ancora l'autunno a Lesa. L'amicizia tra i Manzoni e il Rosmini, che
si conoscevano dal 1826, era ormai intima. La stima di Teresa per l'abate era tale
che ogni piccolo dono, ogni opuscolo, che questa da lui riceveva era un regalo
prezioso. Al ritorno a Milano, Teresa non stava ancora tanto bene. Stefano era
preoccupato per la madre e Manzoni gli scriveva ogni giorno da Milano brevissimi
biglietti, quasi telegrafici, sullo stato di salute e sui rimedi prediletti: il tamarindo, la
cassia, la acque di Boario, il chinino, l'olio di ricino. Manzoni era abituato ai mali di
Teresa, che erano tanti, ma spesso minimi e innocui. La mattina del 18 marzò 1848
scoppiò a Milano l'insurrezione contro gli austriaci. Stefano era a Lesa, i Manzoni in
città. Accettarono prontamente l'invito del figliastro a raggiungerlo sul lago.
Temevano che, se fosse tornato, il Maresciallo Radetzky si sarebbe ricordato dei
versi antiaustriaci pubblicati nell'ode Marzo 1821, nonché dell'appello firmato dal
poeta affinché il Re di Sardegna intevenisse nella guerra di liberazione. Erano ben
note le idee liberali e democratiche dello scrittore, che aveva salutato le "Cinque
Giornate" plaudendo dalla finestra al passaggio dei militari.
Alla fine di luglio raggiunsero il Piemonte, accompagnati da due cameriere. Il 5
agosto venne firmata la capitolazione e gli austriaci rientrarono in città da Porta
Romana. Manzoni era in difficoltà economiche, a causa di un grave incendio che si
era sprigionato a Brusuglio il mese prima. Scrisse alla figlia Vittoria a Lucca, ancora
ignaro della capitolazione. Cosa passi nel mio cuore in questi momenti, lo potete
indovinare e sarebbe cosa troppo intempestiva e senza costrutto il parlarvi delle mie
inquetudini. Vi dirò invece che qui, e, da quello che si sente generalmente di là dal Ticino,
c'è trambusto, agitazione, ma tutt'altro che uno sterile scoraggiamento. La fiducia nella
riuscita non è, direi quasi, nemmeno scemata, e questo è un gran bene per sé, una gran
caparra di bene. Preoccupato per la mancanza di fondi, il Manzoni si sente gnudo
bruco. A parte i debiti con i negozianti in città, doveva pagare una tassa di ventimila
lire, come emigrante. Per restare a Lesa, poi, occorreva il passaporto, che ottenne
specificando che Teresa era in cattive condizioni di salute e non poteva muoversi.
Stefano aveva una piccola somma per una ipoteca sul terreno del Nivolé e con quei
pochi denari vivevano in ristrettezze. Temevano che i loro beni di Milano potessero
essere messi sotto sequestro e per questo Teresa chiedeva al suo amministratore di
salvare alcuni oggetti della casa di via Morone, a Milano. Lei conservava tutto e su
ogni oggetto aveva appuntato un bigliettino con una descrizione o un commento.
Prima di partire aveva riempito due bauli e una cassa a cembalo, con il suo nome
scritto sopra e li aveva fatto portare a Lesa dal Pendola, che era stato un tempo il
loro oste. Contenevano le sue care memorie, come i gioielli ereditati dalla madre, una
reliquia della prozia monaca, un coltello d'oro a filigrana (lavoro stupendissimo,
fiammingo antico) varie edizioni dei Promessi Sposi, una mèche di capelli di Alessandro
giovane, un guanto spaiato, una miniatura del ritratto di Giulia con Alessandro
bambino e un povero, ma somigliante, ritratto di Alessandro a 17 anni, fatto dal Bordiga.
La tassa di ventimila lire fu annullata. Manzoni e Teresa restarono in "esilio" a Lesa
per tutto il 1849 e fino agli ultimi giorni di settembre del 1850. Il 9 Marzo Stefano,
che era pure a Lesa scrisse a Patrizio, suo amministratore ed amico, raccontando
che non avevano avuto inconvenienti i conseguenza delle ostilità, mentre a Solcio, a
Meina e ad Arona sono accadute delle violenze da parte di alcuni soldati demoralizzati.
Commentava inoltre come Carlo Alberto era stato sconfitto a Novara: vedendo i
suoi soldati sbandati e demotivati abdicò piuttosto di segnare l'armistizio che a quest'ora
conoscerai e proseguiva scrivendo del tradimento del generale Ramorino. Per il
Manzoni fu un periodo molto felice e stimolante, ricco di fitti scambi di lettere e di
ospiti illustri in soggiorno nella zona. Aveva ritrovato la passione per la scrittura e
per le meditazioni filosofiche. In quegli anni la sponda del lago che guardava una
Lombardia ancora sottomessa all'Austria, era animata di presenze significative: il
genero Massimo d'Azeglio villeggiava a Cannero, gli Arconati a Pallanza, i Provana di
Collegno a Baveno. Aprivano tutti loro ville estive all'élite intellettuale e politica della
società piemontese e dei rifugiati lombardi dopo l'esito sfortunato della sua prima
guerra d'indipendenza. A Belgirate Adelaide Cairoli e i figli mantenevano vivi i
contatti con con gli irredentisti della sinistra garibaldina. A Lesa soggiornava Giulio
Carcano, l'autore dell'Angiola Maria e a Meina viveva, mentre nella sua villa
neoclassica, lo scrittore e politico Cesare Correnti. Quando non scriveva o non
doveva ricevere ospiti, il Manzoni amava starsene seduto su una sedia vicino alla
porta di casa, con la testa piegata da un lato, per veder passare le carrozze che
venivano dal Sempione o che salivano verso la frontiera.
La famiglia ricevette un invito dalle sorelle Costanza e Margherita Arconati, che
erano venuta precedentemente a far visita al Manzoni in carrozza, a recarsi a
Pallanza in vapore. Stefano convinse la madre a navigare sul temuto lago con la sua
goletta, una imbarcazione a vela con due alberi, che in inglese si chiamava schooner. Il
23 settembre del 1850 raccontava in una lettera al Rossari. Questa mattina passate la
mamma, essendosi levata più presto del solito, riuscii a condurla sul mio schooner a far
colazione! E la feci anch'io insieme a lei mentre si levava l'ancora e s'orientavan le vele per
ricevere l'ultimo soffio della tramontana che finiva. Infatti bisognò stare una mezz'ora circa
quasi immobili aspettando i primi soffi dell'inverna; e buon per noi che essendo montate
anche le due donne, si potè ridere e discorrere sulla novità della cosa, per conseguenza ora
montando sul ponte all'ombra, ora ritirandosi nella cabina, il tempo passò e l'inverna venne.
Allora si gonfiarono le vele, s'avvio il legno ed io pregai la mamma... si lasciasse condurre
sino alla sponda opposta del lago, ma non volle dicendo che era troppo lontano e il non
poter tornare indoietro quando volesse le faceva apprensione e che allora non si sarebbe
più divertita ecc. per conseguenza siamo andati fino a Belgirate e poi data una virata e
pigliato il lago verso la sponda milanese, virammo di nuovo e colla stessa inverna
arrivammo dinanzi alla casa dove si gettò l'ancora e si scese. Il risultato di questa gita fu,
che la mamma trovò comodo e bello il bastimentino, ebbe un po' più di confidenza nel mio
saperlo guidare, si divertì alquanto e questo piccolo strapazo la fece stare un po' meglio il
giorno appresso e la preparò all'altra gita a Pallanza ...
E per fare un viaggio comodo e riparato si decise a montare sul vapore, che per lei era una
novità, e se non fosse un po' di freddo che sentì da Stresa a Pallanza in grazia dell'inverna
forte che c'era, avrebbe fatto un amenissimo viaggio. Però non ne sofferse. Una volta a
Pallanza non vi fu mezzo di partire come lo avrebbe desiderato la mamma, e furono tali le
costanti preghiere della signora, che la mamma dovette cedere e si fermò quattro giorni;
nei quali la continua distrazione e due passeggiate in carrozza a Intra, le giovarono e
risente anche adesso di quel giovamento. A Pallanza c'erano Berchet, Ruggiero Bonghi e
Mary Clarke, l'amante del compianto Claude Fauriel, che pregò Alessandro e Teresa
di donarle le lettere che lui aveva del Fauriel. Manzoni non aveva voglia di rientrare a
Milano e sarebbe rimasto sul lago con grande gioia. Non era solo per la bellezza del
luogo. A Lesa si respirava un'aria di libertà. Lo raccontava il Tommaseo in una
lettera a Giovanni Sforza: Il soggiorno di Lesa non gli era caro soltanto perché solitudine,
ma perché l'Aquila fin là non distendeva le penne. Parlandomi di ciò nel 1855, e' mi diceva
... che passar quel confine sempre gli parve una méta desiderata. Come ne scriveva
Giuseppe Marenzi nella premessa al volume Colloqui a Lesa sul Manzoni, il paese
lacustre era diventato, grazie alla presenza dello scrittore, la sede di incontri e colloqui
di un'élite culturale lombarda, piemontese e toscana, nella fervida attesa del risorgomento
nazionale che doveva essere anche una rinascita dello spirito.
Quando era in campagna il Manzoni indossava sempre il cappello di paglia anche
d'inverno, e, per passeggiare indossava pantaloni di stoffa leggera, mentre quando
rientrava si cambiava con vestiti più pesanti. In quel frangente si metteva a litigare
con i bottoni delle bretelle. Stefano gli diceva: Ma io ho tante bretelle, papò, ve ne
regalo tre o quattro paia, quanti calzoni avete tante bretelle vi regalo, di modo che poi non
ne avete da tribolare. Il Manzoni si seccava molto di queste osservazioni che gli
parevano irriverenti! Anch'io - racconta Stefano Stampa - in quel tempo, soffriva molto
il caldo e mi vestiva più leggermente di lui. Un giorno andammo a passeggiare nella valle
dell'Erno, presso Lesa, e giunti ad un punto dove una gora attraversa il fiume come un
ponte, ci fermammo ad ammirare una quantità di stalattiti di ghiaccio, che dalla gora
discendevano a toccare il letto del fiume. Io distaccai una di quelle stalattiti; vi attorcigliai
intorno la mia pezzuola, portandola come fosse una mazza. Poi ritornammo sulla strada
del Sempione. Ma siccome era una bella giornata manzoni sentì il bisogno di levarsi anche
il giacché, e così ce ne ritornavamo a casa, quando incontrammo una carrozza con dei
signori, che vedendo queste due persone, una con un bastone di ghiaccio, l'altra col
cappello di paglia, volevano gettarsi dallo sportello per mirarci, e non cessarono dallo
sporgersi fuori dalla carrozza finché poterono vederci.
Manzoni era un grande camminatore e non temeva di affrontare gli imprevisti. Il 20
giugno del 1849 Stefano descrisse all'amico Rossari una paseggiata fatta a monte di
Lesa, passando per Nebbiuno e Massino, con ritorno da Solcio. Partiti alle dodici e
un quarto precise i due raggiungono Belgirate e si incamminano verso San Salvatore.
A Massino una breve sosta per mangiare un po' di pane intinto in un bicchiere di
vino e acqua; per evitare i viottoli che attraversano i prati, temendoli bagnati,
imboccano una strada più lunga che attraversava un terreno in mezzo a stupendi
castagni. Sull'orlo di un vallone di terra tutta sfranata, e coronato di verzura con
sassoni in fondo - raccontava Stefano nella lettera - che era veramente pittoresco. Per
me era la prima volta che vedevo quel bel vallone e credo che anche tu non lo conosca
ancora. A poca distanza da lì poi trovammo il piano o la china di Monte, tutta di bellissimi
prati, contornati da castagni stupendi e in fondo di questa china si spiega la magnifica
pianura novarese che tutta azzurra si spande e si perde nella nebbietta dell'ultimo
orizzonte, rassomigliando moltissimo all'immenso mare! Quel luogo cavò molte
esclamazioni a papà ed io col becco aperto me le trangigiava deliziosamente. ... Dopo
siamo saliti a S. Salvatore, ma il pittoresco della veduta è migliore a Monte che in cima.
Discesi a Massino abbiamo cambiato strada nella discesa a Lesa, e in cima al Moett
Cavretta abbiamo trovato un altro bellissimo punto di vista, donde poi facendo un sentiero,
veramente da capre, siamo discesi ai ombriisc dietro Casnago e siamo tornati a casa pel
ponte.
Durante la sua permanenza Manzoni aveva scritto molto: il discorso Del romanzo
storico nell'inverno del '49, il dialogo, intitolato Dell'invenzione, iniziato probabilmente
nel gennaio del '50 e pubblicato in settembre, oltre al saggio Del sistema che fonda la
morale sull'utilità. Del dialogo Manzoni aveva parlato durante i suoi incontri col
Rosmini nel parco della villa di Stresa, che l'Istituto della Carità, la congregazione
fondata dal religioso nel 1828 sul Calvario di Domodossola, aveva ereditato dalla
benefattrice Madama Anna Maria Bolongaro. Il Rosmini ne aveva seguito la stesura
quasi ogni giorno e ne scriveva in una lettera al suo seguace Don Alessandro
Pestalozza il 3 Luglio del 1850: Don Alessandro, che sta bene, La saluta. E perché non
venire a passare qualche giorno con noi in questa bella stagione? Discorreremo di molte
cose di filosofia, ora anche Don Alessandro ci si è messo, e ne ha scritto un bellissimo
dialogo che uscirà nel prossimo fascicolo delle sue Opere varie. I due uomini erano soliti
passeggiare all'ombra del Taxodium o della Magnolia Grandiflora e conversare di
morale, filosofia e politica. Dei dialoghi tra Manzoni e il Rosmini riferirono, in modo
diverso, sia Théophile Gautier, che passò dal Verbano durante il suo viaggio nella
penisola del 1850, che Niccolò Tommaseo. Il francese scrisse che tutti i giorni uno dei
suoi amici, filosofo e metafisico profondo, viene con qualsiasi tempo, a intrattenere con lui
una di quelle grandi discussioni che non possono avere alcuna soluzione quaggiù, perché vi
si parla degli alti misteri dell'anima, dell'inifinito, dell'eternità.
Il Manzoni è a Lesa - scrisse il Rosmini al Tommaseo il 14 Dicembre - e lo vidi ieri, e
udì con gran piacere ciò che gli dissi di voi: egli al presente lavora a un discorso sul
romanzo storico, sull'epopea e gli altri generi di storia e d'invenzione: i suoi concetti su ciò vi
sono già noti. Fu un inverno di intensa attività per il Manzoni, che aveva anche forti
preoccupazioni finanziarie per i debiti che il figlio Filippo andava accumulando a
Vienna, dove era tenuto come ostaggio insieme agli altri prigionieri di guerra, in
seguito ai fatti del '48. Il 23 Dicembre Stefano scriveva al Rossari: Il Manzoni scrive
sempre e assai e lo faceva perché aveva annunciato il discorso in un manifesto: ho
dovuto lavorarci, non solo per mantenere un impegno contratto col pubblico in tutt'altri
tempi, ma anche per evitare una lite tra due librai. Il lavoro era per Manzoni anche un
modo per isolarsi dalle tante distrazioni: i disagi di Donna Teresa, soprannominata
ironicamente dal consorte il comitato di salute pubblica, le ansie per i figli e per le
tasse. Ruggiero Bonghi, il giovane esule napoletano ospite del Rosmini restituirà i
dialoghi tra il filosofo e lo scrittore nelle Stresiane.
Il Tommaseo, che soggiornava a Belgirate, sottolineò invece il ruolo del paesaggio: E
il lago ameno (dacché le acque sempre congiungono meglio che disgiungere) doveva,
avvicinandoli per buona parte dell'anno, stringere più la loro familiarità, e rendere i colloqui
più ispirati nel cospetto di quella lieta natura, e più fecondi d'idee alla mente e di merito al
cuore. Dico di merito, perché il Rosmini già infermo faceva di buona lena quel miglio di
cammino da Stresa a Lesa (anco i nomi consuonano; e il soggiorno del poeta l'ha più soave
a dire del filosofo accanto all'Alpe), e giunto in casa dell'amico, si sedeva trafelato e quasi
spasimante ... Raccontava egli stesso che disputando il Rosmini seco mentre che
passeggiavano lungo il lago poneva questa questione degna della sua mente: - Certi usi in
certe stagioni della lingua vengono meno, e altri sottentrano: a quali attenersi? - Ed egli da
poeta e da buon leggitore di Platone rispondeva con una similitudine: - Di lì abbiamo il lago,
e non vi va né pedoni né carrozze; qui la strada carreggiata e ci si passegga: certe ore
l'acqua si ritira e la terra rimane allo scoperto: si discuterà egli se quel tratto sia terra da
camminarci o sia lago? - La risposta è socratica: ma non risolve le difficoltà della mente
neanche di chi abbia gran voglia di mettere fine a codesta lite uggiosa e malaugurata. Le
visite del Rosmini erano frequenti, così come da Lesa il Manzoni andava e veniva in
carrozza nelle ore della mattina, a volte solo, ogni tanto con Teresa oppure con
Stefano; e, dopo desinare, non era raro che se ne tornasse a piedi, accompagnato
per un pezzo dal Rosmini. Se per caso rimaneva a Villa Bolongaro a dormire voleva
sempre che ci fosse nelle vicinanze qualcuno. Manzoni aveva paura di restare solo e
stare con l'abate, il filosofo della sua mente, era quello che più desiderava. L'anziano
religioso rappresentava per il Manzoni una figura paterna e assistenziale che gli
piaceva.
Teresa e Alessandro rientrarono a Milano il 26 settembre del 1850; il dialogo
Dell'invenzione fu subito stampato, tanto che Manzoni ne regalò una copia alla moglie
già il 9 ottobre. Stefano, che si sentiva finalmente libero dalla famiglia, scrisse a
Manzoni che il Rosmini, senza di lui si sentiva perso. I Manzoni tornarono ancora nel
1851, anche se in quell'estate lo scrittore non visitò molte volte l'abate Rosmini,
perché questo era sprovvisto di cavalli. Durante un pranzo a Stresa con Rosmini si
discusse di magnetismo. Stefano aveva assisitito a Milano a certi esperimenti di
ipnotismo di Lafontaine nel ridotto del Teatro alla Scala. Nonostante le proteste di
donna Teresa, Manzoni e Rosmini ne cercavano la spiegazione "scientifica". Stefano
nel nell'estate del 1852 schizzò un ritratto del Rosmini, mentre il filosofo, già
sofferente, discorreva con Alessandro. Quell'anno restarono fino al 12 settembre,
quando Manzoni raggiunse Massarosa, in Toscana, per visitare la figlia Vittoria e la
nipotina Matildina. Inviò a Teresa una lettera contentente dei pan porcini, sperava di
ritrovarli poi in qualche libro e di ricordare così quei momenti felici. Voleva tornare
di nuovo a Lesa, prima di rientrare a Milano. Scrisse a Teresa: Penso che l'anno
passato ne siamo partiti alla metà di novembre felicissimamente, e che il tempo deve alla
fine aver messo giudizio. E sai meglio di me quanto sia più bello a Lesa che a Milano,
quando è bello ... Rimango nella speranza d'abbracciarti (fino a farti male) nella ventura
settimana; e spero spero spero che la tua lettera m'indicherà Lesa come termine del
viaggio. Le sue speranze si realizzarono e lui e Teresa restarono sul lago fino alla fine
di novembre e tornarono nell'estate del 1853. In una lettera al cognato Giovan
Battista Giorgini, datata 1 Agosto, il Manzoni scriveva: Noi si partirà per Lesa, a Dio
piacendo, giovedì 4. Se non è mare, è almeno lago e con Rosmini il lago mi diventa mare.
Nel maggio del 1855 l'abate Rosmini, da tempo in precarie condizioni di salute,
accusò una grave infiammazione al fegato. Teresa si raccomandava di dar da bere al
Rosmini l'acqua di Boario, mentre i medici consiglivano di dargli il Racahout des
Arabes e la tapioca del Brasile, alimenti che furono prontamente inviati da Teresa
tramite corriera. Don Paoli, segretario del Rosmini, scriveva il 14 giugno a Stefano
Stampa. siamo allo stremo della vita ... il male precipita di giorno in giorno visibilmente. Il
singhiozzo che continua ci minaccia di una rapida fine. Proseguiva dicendo che il Rosmini
sia ancora presentissimo a se stesso. Se papà volesse venire, sa che viene in casa
sua. Ottenuto finalmente il passaporto che attendeva da tempo, Stefano lasciava
Milano il 15 giugno raggiungendo direttamente Stresa, dove faceva visita al Rosmini e
lo rallegra annunciandogli l'arrivo, per il giorno dopo, del suo dilettissimo amico.
Verso le quattro del pomeriggio del 16 luglio giunse il Manzoni con i due medici
curanti, il Pogliaghi e il De Bonis. Preso dalla commozione il Rosmini strinse forte la
mano dell'amico e la baciò. Lo scrittore, turbato e colpito, si chinò a sua volta per
baciare la mano del malato, ma per non essere pari a lui, si girò per baciargli i
piedi. Unica maniera - commentò poi il Manzoni - che gli rimanesse per riprendere il suo
posto. Il De Bonis, scriveva Stefano alla madre, temeche non possa vedere il mese di
luglio e cercava di curare l'infermo con gocce di laudano. Il 29 Stefano riprende la
penna per comunicare che non c'è più nulla da sperare; così è purtroppo, cara mamma!
Rosmini morì la notte del 30 Giugno. Manzoni entrò poi nella camera vuota del
filosofo e toccò i vari oggetti che vi si trovavano, come per rievocare la presenza
dell'amico; prese un Paradiso di Dante e lo avvicinò alle labbra. Invitato a tenere
qualcosa in memoria, portandosi la mano alla fronte, e poi al cuore disse: la memoria
è qui. E guardando il letto vuoto e toccandolo mormorò le parole del Rosmini:
Adorare, tacere, godere. Manzoni e Stefano parteciparono al semplice funerale il 3
luglio nella parrocchia e poi nella chiesa del Santissimo Crocifisso, sul colle
dominante il lago. Manzoni fece ritorno a Milano e poi ripartì per Lesa con Teresa,
ma la lasciò solo per visitare gli Arconati a Cassolnovo, in Lomellina, mentre Stefano
si recò a Parigi con il maggiordomo. In Ottobre Manzoni era ancora lontano. Lo
scrittore iniziava ad annoiarsi dei presunti o veri malesseri della moglie, ed era
seriamente preoccupato per la figlia Matilde ammalata di tisi, che morì il 30 Luglio
del 1856. L'anno successivo Teresa corse a Lesa il 4 Luglio per una indisposizione
improvvisa del figlio. Manzoni non potè resistere solo a Milano e chiese il
passaporto, che ottenne verso la fine del mese. Raggiunge la moglie e, subito dopo,
visitò la tomba del Rosmini a Stresa. Per la gestione degli affari di famiglia e le
incombenze improvvise il Manzoni si affidava sempre di più l figlio Pietro. Come gli
scriveva dal lago il 30 Settembre 1856 Chi non memoria abbia... Pietro, pregandolo di
spedirgli per mezzo del solito corriere fasci di carte contenenti appunti sulla lingua, fogli
e foglietti, libri, l'ombrello, quattro libbre di cioccolata in piccoli pani di un'oncia, della più
fine, del cioccolattiere Nava, che sta nella corsia de' Servi dirimpetto alla galleria ...
dimenticavo per la seconda volta un par di fogli di carta sugante rossa, che troverai
nell'armadio del mio studio. Il 1857 fu l'ultimo anno in cui Manzoni soggiornò sul lago.
Teresa si ammalò seriamente nel 1858. Morì il 23 agosto del 1861, sola, senza il
conforto del marito e del figlio. Fu sepolta nel cimitero di Lesa. In una lettera al
D'Azeglio, ringraziandolo per le condoglianze, Stefano Stampa ricordava la madre
con un tono commosso: è vero che ho fatto tutto quel che ho potuto per Lei, ma Ella
meritava dieci volte di più. Vedova e sola, è stata per me un padre severissimo. una madre
tenerissima, un fratello ed un compagno famigliarissimo giocando persino con me senza
lasciarsi perdere il rispetto. Insomma s'io sono un galantuomo, lo devo a lei che sacrificò
tutta la sua vita per me. Dopo la scomparsa di Donna Teresa, Manzoni non ritornò
più a soggiornare sul lago: le memorie per me preziose del Lago Maggiore, sono appunto
quelle che me ne tengono lontano: perchè ci sentirei, a ogni passo e a ogni momento, più
pungente la mancanza della persona che, più di tutte, me ne rendeva caro il soggiorno. Ai
ripetuti inviti di Stefano rispondeva che il soggiorno di Lesa senza la mia Teresa sarebbe
per me troppo triste; mi sarebbe insopportabile. Riprese in casa il figlio primogenito
Pietro e la sua famiglia che lo sollevava dalle brighe dell'azienda domestica. Si spostò
nella camera più ad ovest della casa di Morone, lasciando spazio per Pietro e la sua
famiglia. Stefano se ne andò per sempre dalla casa di via Morone per trasferirsi in via
Santo Spirito. Si portò con se come cameriera Maria Rovera, la figlia del fattore di
Lesa, che restò con lui fino al 1908, quando si sposò con il compaesano Carlo Rodi.
Stefano conviveva con un'altra cameriera, che presto divenne ex e sua amante. Si
chiamava Elisa Cermelli.
Il 22 maggio del 1873 Manzoni morì di meningite, come conseguenza di un trauma
cranico per aver battuto la testa su un gradino, all'uscita della chiesa di San Fedele.
Gli sopravvissero solo i figli Enrico e Vittoria. Fu sepolto, dopo solenni funerali, al
Cimitero Monumentale. Un anno dopo Giuseppe Verdi, che aveva conosciuto il
Manzoni il 30 Giugno del 1868, diresse un messa in Requiem, scritta per l'occasione,
nella Chiesa di San Marco. Come scriveva il compositore al Sindaco di Milano da
Sant'Agata, è un impulso, o dirò meglio, un bisogno del cuore che mi spinge ad onorare,
per quanto posso, questo Grande che ho tanto stimato come scrittore e venerato come
uomo, modello di virtù e di patriottismo.
Rimasto solo, Stefano evitava di tornare a Lesa. Gli metteva malinconia. Viveva con
Elisa Cermelli e la portava ovunque. Nel 1887 la sposò e si stabilì nella sua villa di
Torricella d'Arcellasco, in Brianza. La moglie morì nel 1904. Stefano si ammalò di
diabete e diventò completamente cieco. Litigò con il comune di Lesa: era diventato
irascibile e rabbioso. Fece spostare le salme della madre e del padre dal cimitero e
costruì la tomba di famiglia a Torricella. Nel suo testamento nominò erede
universale l'Istituto dei Figli della Provvidenza, magari perché vi si trovava un suo
figlio illegittimo avuto da una cameriera, tale Lucia. Morì nel febbraio del 1907.
Aveva chiesto di non avere fiori al suo funerale e di essere trasportato come un povero.
La villa di Lesa passò all'Istituto, ma fu acquistata nell'aprile del 1926 dalla signora
Martina Tadini vedova Cengia, già figlia di Giacomo Antonio Tadini, uno dei primi
amici di Manzoni a Lesa. Nel 1950 è stata acquistata dalla Banca Popolare di Novara.
Bibliografia: Ruggiero Bonghi, Le Stresiane, Milano, Tipografia Editrice L.F. Cogliati,
1897; S.S., Alessandro Manzoni. La sua famiglia. I suoi amici. Appunti e memorie, Milano,
Hoepli, 1885; Ezio Flori, Soggiorni manzoniani. Lesa e Villa Stampa, in "Emporium",
febbraio 1933-IX, anno XXXIX, N. 2 - Vol. LXXVII - N. 458, Bergamo, Istituto
Italiano di Arti Grafiche, pp. 76-89; Pietro Citati e E. Milani, Immagini di Alessandro
Manzoni, Milano, Mondadori, 1973; Enzo Azzoni, La fotografia sul Lago Maggiore,
Pallanza, Montefibre, 1980; Natalia Ginzburg, La famiglia Manzoni, Torino, Einaudi,
1983; M. e L. Corgnati, Alessandro Manzoni "fattore di Brusuglio", Milano, Mursia, 1984;
A.A.V.V, Colloqui a Lesa sul Manzoni, a cura di Andrea Gonzi, Intra, Alberti Librario
Editore, 1988.
A Lesa è visitabile il Museo Manzoniano, ricco di documenti e cimeli di grande
interesse,
che
ha
sede
nella
Villa
Stampa.
Per
informazioni:
ComSchedaTem.asp?Id=6882