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L`Africa sub-sahariana nella Guerra Fredda: storia e storiografia Le
L’Africa sub-sahariana nella Guerra Fredda: storia e storiografia Le dinamiche e le tensioni della Guerra Fredda si riverberarono in maniera complessa nelle diverse regioni dell’Africa sub-sahariana. In Africa centrale la decolonizzazione del Congo belga fu seguita da un protratto periodo d’instabilità politica e di conflittualità militare, in cui le potenze della Guerra Fredda svolsero un ruolo tutt’altro che marginale. Da metà degli anni ’60 la dittatura di Mobutu venne militarmente ed economicamente sostenuta dai governi del blocco occidentale, fino al suo disgregamento durante gli anni ’90. In Africa orientale il conflitto tra Etiopia ed Eritrea, che si catalizzò sulla regione dell’Ogaden, costrinse le potenze della Guerra Fredda ad un cambio di alleanze tanto negli anni ’60 quanto negli anni ’80. In Africa australe a metà degli anni ‘70 la decolonizzazione di Angola e Mozambico e, in particolare, l’intervento cubano in Angola spinsero la diplomazia internazionale alla ricerca di una soluzione per il conflitto in Rhodesia. Una volta conseguito questo obiettivo, l’attenzione della diplomazia internazionale si rivolse alla decolonizzazione della Namibia e alla risoluzione dei conflitti armati in Angola e Mozambico, mentre aumentavano le pressioni internazionali contro il regime dell’apartheid in Sudafrica. Si sarebbe dovuto attendere l’inizio degli anni ’90 perché queste crisi e conflitti trovassero soluzione, anche se la guerra civile in Angola sarebbe proseguita per un altro decennio. Questo panel prende in esame alcune delle crisi nazionali che si registrarono in Africa sub-sahariana durante la Guerra Fredda, mettendo in luce il ruolo svolto dai diversi attori nazionali, regionali e internazionali nel contesto dei tentativi volti ad una loro risoluzione. Partendo da una ricostruzione della storiografia che ha analizzato i conflitti in Africa sub-sahariana durante la Guerra Fredda, le relazioni mostreranno come l’apertura degli archivi e l’accesso a molteplici fonti scritte e orali consenta di riequilibrare una serie di interpretazioni storiografiche degli avvenimenti che oggi non possono che apparire troppo influenzate dalla loro contemporaneità agli eventi, come anche di portare alla luce il ruolo di attori che la storiografia ha teso a marginalizzare nella ricostruzione di essi. Chair: Maria Cristina Ercolessi (Università L’Orientale, Napoli) Relatori: David Burigana (Università di Padova) Maria Stella Rognoni (Università di Firenze) Arrigo Pallotti (Università di Bologna) Discussant: Corrado Tornimbeni (Università di Bologna) David Burigana, Le Nazioni Unite e la “lunga” crisi della Namibia: un caso in Storia dell’Organizzazione internazionale fra storiografia e didattica L’intervento mira inizialmente a presentare il ruolo delle Nazioni Unite nell’avvio verso una soluzione negoziale multilaterale del caso della Namibia con il gruppo di contatto occidentale del 1977, e della risoluzione del Consiglio di Sicurezza 435 dell’anno successivo, e che porterà alla fine della crisi nel corso degli anni ‘80. Terremo presente il quadro dei tentativi in ambito ONU per condannare l’annessione sudafricana della Namibia a partire dal 1946 con l’intervento dell’Assemblea Generale e del Trusteeship Council e con il parere della Corte di Giustizia Internazionale, e successivamente per obbligare l’alleato euro-statunitense a una soluzione guidata dalle Nazione Unite. Iniziative queste che ebbero come conseguenza - e in realtà obbiettivo - quello di tener viva l’attenzione sulla Namibia e sulla situazione del continente africano avviato verso la transizione degli anni ’60, caratterizzata da nuove forme di dipendenza istituzionali e economicofinanziarie. All’iniziativa del 1977 seguì significativamente l’embargo sugli armamenti votato dalla Nazioni Unite. E’ qui che innestiamo la motivazione metodologica del nostro intervento: l’irruzione della tecnologia nella storia internazionale come fattore, e non solo “obiettivo” di politica estera. Obiettivo geopoliticamente minore seppure significativo dal punto di vista del posizionamento tecno-industriale a livello globale, era infatti per i paesi europei, e gli alleati statunitensi, la salvaguardia di canali non controllati di esportazione di tecnologie militari, di qualità certo variabile, ma canali essenziali per mantenere flussi finanziari costanti a favore di un settore strategico perché caratterizzato da interconnessioni fra militare e civile non tanto tecnologiche – e quindi non riferibili a dual use technologies - quanto economico-finanziarie: i profitti nel militare garantivano prima lo sviluppo dei progetti civili, e poi, con l’avvio delle crisi degli anni ’70, coprivano le perdite. Non si trattava solo di politiche di Guerra fredda, ma di forti interessi nazionali che dovevano essere difesi in ambiti di cooperazione internazionale euro-statunitense con l’aumentare delle spese di Research and Development degli anni ’60 e poi delle crisi successive. L’alternativa erano le esportazioni in mercati controllati economicamente e geopoliticamente. Le iniziative in sede ONU a favore della Namibia calano in questo scenario “internazionale”, caratterizzato da molteplici focus. Di questa complessità deve tentare una panoramica – ed è qui la motivazione didattica che ci muove - l’insegnamento di Storia dell’Organizzazione internazionale, alla luce delle riflessioni nate proprio nella seconda metà degli anni ’70, e avendo ad oggetto le organizzazioni internazionali, ad opera dei politologi ispirati a Robert Keohane, e alla teoria dell’internationale regime applicata allo studio del sistema della NU, e del più ampio dinamismo della diplomazia multilaterale, nel quale rientra il problema delle esportazioni di tecnologia militare. Richiamando l’Art Networt Theory elaborata dagli storici della tecnologia e della Transnational History – quest’ultima nata anche come riflessione sulle organizzazioni internazionali – tentiamo di mostrare come la diplomazia “tecnica” possa contribuire a chiarire le dinamiche sulla Namibia, problema internazionale non solo dovuto al grande, al più rilevante fenomeno della Guerra fredda. Maria Stella Rognoni, 30 giugno 1960: la guerra fredda entra in Africa sub-sahariana L’indipendenza del Congo, raggiunta il 30 giugno del 1960, segnò l’inizio di una crisi che coinvolse le grandi potenze, le Nazioni Unite e molti paesi neo-indipendenti, proiettando il nuovo Stato africano ben oltre le dinamiche coloniali che un nazionalismo in fase nascente aveva cercato di superare. Per anni la storiografia ha visto proprio nel dipanarsi di questa crisi la prima espressione della guerra fredda nell’Africa sub-sahariana. Grazie alla mole di fonti primarie via via divenute accessibili negli anni recenti – tanto negli archivi dei paesi occidentali più coinvolti nella crisi quanto in quelli delle Nazioni Unite – che contribuiscono alla ricostruzione delle vicende sotto la prospettiva della storia internazionale, ma anche attraverso una pubblicistica sempre più attenta alle dinamiche interne, oggi è possibile rileggere il periodo 1960-65 dando un respiro interpretativo più ampio rispetto al passato. Il contributo si propone di offrire una panoramica delle prospettive adottate nel corso degli anni dalla storiografia per affrontare un tema ormai classico di storia della guerra fredda, cogliendo nel raccordo fra dimensione interna e internazionale delle vicende congolesi di quegli anni - e quindi nell’importanza di accostare con coerenza logica fonti di tipo diverso - la chiave interpretativa più efficace e interessante. Arrigo Pallotti, La Tanzania e l’iniziativa anglo-americana per la Rhodesia del 1976 Nel frangente in cui, dopo la decolonizzazione di Angola e Mozambico nel 1975, l’Africa australe venne a trovarsi profondamente inserita nelle dinamiche della Guerra Fredda, il presidente della Tanzania Julius Nyerere emerse come uno degli attori centrali nei tentativi internazionali volti a condurre la Rhodesia all’indipendenza. Sulla base di fonti primarie conservate negli archivi di Gran Bretagna, Stati Uniti e Tanzania, questo saggio ricostruisce le letture storiografiche dell’iniziativa anglo-americana per la Rhodesia del 1976 e analizza il ruolo svolto da Nyerere nel contesto di tale iniziativa, gettando nuova luce sulle ambiguità che avvolsero la “shuttle diplomacy” di Henry Kissinger in Africa australe e sui fattori che provocarono il fallimento della Conferenza di Ginevra. Timoroso di un ripetersi del fiasco del vertice delle Victoria Falls (agosto 1975) e di una prosecuzione della guerra civile nel caso in cui fosse stato raggiunto un accordo senza il sostegno dei guerriglieri, Nyerere insistette sulla necessità che Londra convocasse una conferenza costituzionale sulla Rhodesia e svolgesse un ruolo attivo durante la transizione all’indipendenza. Tuttavia, insieme alle esitazioni britanniche, la crisi della leadership della ZANU colse Nyerere di sorpresa e ostacolò i negoziati a Ginevra. Quando finalmente Londra avanzò nuove proposte per il governo transitorio in Rhodesia, Kissinger e Nyerere decisero di non sostenerle, ponendo in questo modo fine alla Conferenza di Ginevra.