Ultime notizie mondo dal dal 15-31 Marzo 2007

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Ultime notizie mondo dal dal 15-31 Marzo 2007
Ultime notizie dal mondo
15-31 Marzo 2007
(http://www.rivistaindipendenza.org)
a)
L’Italia in Afghanistan. Da Berlusconi a Prodi. Una scarrellata di notiziole (22, 23) per
chiarirsi meglio le idee in merito. Importante anche Afghanistan (26) per la Guantanamo
italiana da collegare con USA (29). E intanto, sulla base USA “Dal Molin” (24), la partita è
ancora aperta.
b)
Rimanendo sempre nel «Grande Medio Oriente allargato» di bushista memoria. Ogni
paese «ha il suo modo di applicare la democrazia», dice il segretario di Stato USA,
Condoleezza Rice. E porta il placet degli States all’accentuazione autoritaria dell’Egitto di
Mubarak (27, 31). Non se la passa bene il Pakistan di Musharraf (28). E da Israele fa le
valigie un noto storico, Ilan Pappe: «Sono continuamente preso di mira. È impossibile
lavorare per chi come me è contrario al sionismo» (23). Alla Knesset passa una
controversa legge sulla cittadinanza in relazione ai matrimoni che fa gridare al razzismo
(21). Sulla situazione in Palestina ed il varo del governo di unità nazionale vedi 16, 17, 19,
25. Una notiziola sulla Francia che, secondo il quotidiano israeliano Maariv, suggerì ad
Israele di attaccare la Siria (19). Rapporti Iran / Siria al 15. Gran Bretagna / Iran al 24.
USA / Iran al 25. Iraq al 20, 26, 31 e Arabia Saudita al 29.
Tra l’altro:
Corsica (26 marzo)
Irlanda del Nord (17, 26 marzo)
Euskal Herria (18, 21 marzo)
Somalia (22, 30 marzo)
Ucraina (30 marzo)
Russia (30 marzo)
Nepal (31 marzo)
Russia / Cina (27 marzo)
India (17 marzo)
USA (24, 27 marzo)
USA / Colombia (21 marzo)
Messico (25 marzo)
Cuba (29 marzo)
Venezuela (15, 26, 27, 28 marzo)
Brasile / Italia (28 marzo)
Ecuador (21, 29 marzo)
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Iran / Siria. 15 marzo. Si è chiusa ieri, a Teheran, la nona riunione della Commissione
congiunta per la cooperazione economica con la Siria. Tra gli impegni più rilevanti:
l’adozione di tariffe preferenziali per favorire gli scambi commerciali; impianti silos per
cereali; una centrale elettrica e un cementificio; una decina di insediamenti produttivi in
Siria per l’industria automobilistica iraniana Khodro; il progetto di una linea ferroviaria
Damasco-Baghdad-Teheran. Dall’elenco dei progetti in cantiere si individuano due variabili
fondamentali: l’intensità e la proiezione temporale. L’ambasciatore iraniano a Damasco,
Mohammad Hassan Akhtari, ha dichiarato che gli investimenti dell’Iran in Siria sono
cresciuti del 50% negli ultimi 12 mesi raggiungendo la quota di un miliardo di dollari tra
marzo 2005 e marzo 2006. L’intensa cooperazione bilaterale Iran-Siria si proietta inoltre
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lungo un ampio arco temporale. Si passa dal coordinamento nel breve periodo alla
progettazione di medio-lungo periodo.
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Iran. 15 marzo. Per Teheran, la cooperazione bilaterale –non solo rivolta alla Siria–
rappresenta una protezione per garantire gli scambi economici minacciati da nuove sanzioni
internazionali. L’Iran sta lavorando ad una solida rete di interessi economici con i paesi
limitrofi: con l’Armenia per la costruzione di un gasdotto; con l’Iraq, dove già oggi la
penetrazione economica è profonda; con il Kirghizistan per la fornitura di elettricità. Il
raggio si estende col progetto di una Opec del gas naturale cui parteciperebbero Russia,
Venezuela, Algeria e Qatar. Con i missili statunitensi puntati sui siti delle sue nascenti
centrali atomiche, la cooperazione economica è una polizza assicurativa di fronte all’arrivo
delle sanzioni, ma anche uno scudo politico per spezzare possibili coalizioni internazionali
anti-Iran.
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Iran / Siria. 15 marzo. Cooperazione militare tra Teheran e Damasco. Accordo tra i
ministri della difesa dei due paesi. Superando ataviche linee di divisione religiosa, Siria ed
Iran convergono sulla necessità di far fronte alle «minacce» di Israele e USA nell’area.
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Australia / Giappone. 15 marzo. Accordo per certi versi storico tra Australia e Giappone in
campo militare. È il primo accordo permanente di tipo militare quello siglato l’altroieri dal
Giappone con un altro Stato, diverso dagli Stati Uniti, dalla fine della seconda guerra
mondiale. Il patto rafforza la collaborazione tra due Stati che già singolarmente cooperano
nel settore militare con gli Stati Uniti. Sancisce una forma più solida di alleanza regionale
nel Pacifico, regione in cui la Cina è assai attiva. L’accordo istituzionalizza, tra l’altro, la
cooperazione nella condivisione di informazioni di intelligence, in esercitazioni militare
congiunte, in operazioni di cosiddetto peacekeeping sotto egida ONU, in azioni “contro il
terrorismo”.
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Venezuela. 15 marzo. Un fondo di aiuto umanitario per Haiti di venti milioni di dollari. Lo
ha annunciato il governo del Venezuela. Servirà a portare a termine progetti di cooperazione
in sfere come la salute, l’educazione, l’elettricità, l’acqua potabile, la sicurezza alimentare
ed i combustibili. Il presidente del Venezuela, Hugo Chávez, è arrivato lunedì pomeriggio a
Porto Principe (Haiti), dov’è stato accolto dalle acclamazioni della folla, che ha scandito
slogan contro il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. Ore prima il capo dello Stato
venezuelano aveva visitato il Nicaragua, dove migliaia di persone gli hanno espresso
sostegno nella città di León, dove si è recato con il presidente Daniel Ortega. È stato anche
in Giamaica, dove ha firmato un accordo di cooperazione sul gas con la prima ministra
dell’isola caraibica Portia Simpson.
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Israele / Palestina. 16 marzo. Cerimonie spontanee oggi a Gaza per ricordare la pacifista
statunitense Rachel Corrie. La giovane fu travolta e uccisa il 16 marzo del 2003 a Rafah da
un bulldozer militare israeliano mentre tentava, con attivisti dell’International Solidarity
Movement, di impedire la demolizione di una casa palestinese. L’esercito israeliano liquidò
il fatto come «un deprecabile incidente».
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Bolivia. 16 marzo. Morales convoca elezioni anticipate per il 2008. Il presidente della
Bolivia, Evo Morales, lo ha annunciato oggi, parlando a Warnes (Santa Cruz), una volta –ha
detto– che l’Assemblea Costituente terminerà il suo lavoro, il che si augura che avvenga
quest’anno. Morales ha precisato che bisognerà procedere all’elezione di un nuovo
presidente. I boliviani saranno comunque chiamati ad esprimersi sul nuovo testo
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costituzionale con un referendum. Morales ha vinto le elezioni nel dicembre 2005, con il
53,7% dei suffragi.
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Irlanda del Nord. 17 marzo. L’UDA esprime il suo appoggio al governo multipartito. La
più consistente organizzazione paramilitare lealista, l’UDA (Associazione per la Difesa
dell’Ulster), si è aggiunta all’appello per la costituzione di un Esecutivo multipartitico.
L’esponente dell’UDA, Jackie McDonald, ha dichiarato che acconsentono a che Paisley
formi un governo con i repubblicani del Sinn Féin, con i quali condivide la sfiducia sul
nuovo corpo di polizia nordirlandese. McDonald ha aggiunto di dichiararsi più ottimista che
mai sulla possibilità di una pace duratura, nonostante la preoccupazione sull’isolamento che
soffre la comunità unionista a Derry e Antrim Nord. La dichiarazione dell’UDA si unisce a
quella della seconda formazione lealista per numero di membri nel nord Irlanda, l’UVF, che
alcuni mesi assicurò di preferire un governo autonomo con la partecipazione del Sinn Féin
alla possibile «ingerenza» di Dublino nella politica nordirlandese che si materializzerebbe in
caso di inadempimento della data limite del 26 marzo per la formazione del governo.
Downing Street ha infatti già avvertito che, in caso di mancato accordo tra i partiti
nordirlandesi, Londra e Dublino governeranno in forma associata il nord Irlanda.
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Palestina. 17 marzo. «Se Israele boicotta il governo di unità palestinese, dimostrerà che è
interessato a continuare l’occupazione e non vuole la pace». Lo ha detto ieri il nuovo
ministro dell’Informazione, Mustafa Barghuti (indipendente), che prenderà possesso oggi
della sua carica, insieme al resto del gabinetto. Ieri il viceministro israeliano della Difesa,
Efraim Sneh, ha precisato che le relazioni saranno mantenute unicamente con il presidente
dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), Mahmud Abbas. David Baker, portavoce del
primo ministro Ehud Olmert, ha precisato che i rapporti con Abbas sono motivati dal fatto
che «assume le condizioni del Quartetto (riconoscimento di Israele, assunzione degli accordi
tra israeliani e palestinesi, «rinuncia alla violenza», ndr)». Barghuti, replicando, ha
sottolineato che «l’atteggiamento israeliano è equivoco. Il nuovo governo palestinese non è
solo un governo di Hamas, è il governo di tutto il popolo palestinese. Rappresenta la
volontà del 90% degli elettori», ha detto al quotidiano israeliano Yediot Ajronot, mostrando
perplessità per i pregiudizi dell’esecutivo israeliano che respinge relazioni con un governo
legittimo prima ancora di sapere quali siano i suoi intendimenti. «Il problema di Israele è
che è uno Stato colonialista e noi rifiutiamo di essere un popolo che accetta di vivere sotto
occupazione e sotto un regime coloniale»; «se Israele vuole la pace», ha proseguito
Barghuti, «deve riconoscere il nuovo governo e ritirare il boicottaggio imposto all’Autorità
Palestinese». Oltre a ciò ha precisato che l’obiettivo del nascente governo palestinese è
porre fine alla divisione interna, farla finita con il boicottaggio diplomatico ed economico,
migliorare le condizioni di vita dei palestinesi, porre termine all’occupazione.
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Palestina. 17 marzo. Nasce il nuovo governo palestinese di unità nazionale. Ieri il
Consiglio legislativo ha dato la fiducia: 83 i voti favorevoli e 3 contrari –quelli del Fronte
Popolare (sinistra), che contesta ciò che definisce il «compromesso storico» finalizzato al
controllo del potere raggiunto da Hamas e Fatah. Alla votazione non erano presenti 41
deputati in carcere in Israele. Se Israele ha già fatto sapere, prima ancora della nascita del
nuovo governo, che continuerà a boicottare l’esecutivo, la Norvegia ha detto che riconoscerà
il governo Hamas-Fatah. L’amministrazione Bush è allineata sulle posizioni di Israele ma ha
fatto sapere che avrà contatti con il ministro delle finanze Salam Fayyad, un ex funzionario
del Fondo Monetario Internazionale, che considera un «amico».
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Palestina. 17 marzo. In casa palestinese è opinione diffusa che l’accordo di unità nazionale,
figlio delle intese raggiunte all’inizio di febbraio alla Mecca, sia fortemente vincolato alla
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revoca delle sanzioni e al riconoscimento internazionale. In caso di insuccesso su quei punti
centrali, una o più componenti del governo potrebbero puntare l’indice proprio contro Abbas
(Abu Mazen), incapace di ottenere il consenso di Stati Uniti ed Europa nonostante gli sforzi
fatti dai palestinesi. Non bisogna sottovalutare la complessità del programma del nuovo
esecutivo. Ieri, prima del voto di fiducia, Abbas si è schierato «contro ogni forma di
violenza», mentre Haniyeh ha riaffermato «il diritto dei palestinesi a resistere in ogni
forma», anche armata all’occupazione israeliana. Hamas ha rinunciato al controllo della
politica estera, che lascia ad Abbas e all’OLP. Ha scelto però i ministeri sociali che
permettono un lavoro in profondità nella società palestinese.
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Kurdistan / Turchia. 17 marzo. Disponiamo di «sufficienti uomini per difenderci da noi
stessi» e far fronte alla Turchia. Lo afferma il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK)
riferendosi ai possibili attacchi militari che Ankara sta minacciando. Il portavoce del PKK,
Rustam Jawdat, ha dichiarato che i militanti «stanno allenandosi molto duramente».
Ciononostante Jawdat ha espresso il desiderio del PKK di «risolvere il problema in maniera
pacifica» e ha ribadito che se ci sono «garanzie che si riconosca l’identità nazionale
kurda», non sarà necessario utilizzare armi.
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India. 17 marzo. Contro il «Budda rosso» proseguono scioperi e scontri. I manifestanti
contestano a Buddadheb Battacharjia, il più alto esponente del Partito comunista bengalese
che da anni governa lo stato orientale indiano del West Bengala, di aver ceduto alle
pressioni di grosse imprese a scapito dei contadini. Il governo locale sta infatti espropriando
terreni agricoli per impiantare fabbriche e per giunta senza indennizzo. Si è cominciato a
Siligur dove la Tata (fiammante socio della Fiat) sta per costruire una fabbrica, per finire a
Nandigram dove sono in cantiere impianti chimici. 1600, finora, le persone arrestate, 14 i
contadini uccisi dalla polizia. Solo nella capitale dello stato, Calcutta, il coprifuoco è stato
rispettato; nelle altre zone dello stato si susseguono incidenti.
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Euskal Herria. 18 marzo. Stallo negoziale, elezioni, violenza. Ne parla Joseba Alvarez,
responsabile delle relazioni internazionali del movimento basco Batasuna, in Italia per
partecipare a assemblee pubbliche e incontri con rappresentanti dei partiti della sinistra
italiana, intervistato da Marco Santopadre su il Manifesto. Alla domanda se l’attentato
dell’ETA a Madrid il 30 dicembre scorso abbia segnato la fine del processo di pace, Alvarez
sostiene che «l’attentato, che disgraziatamente ha ucciso due lavoratori ecuadoriani, ha
prodotto un terremoto politico e uno stallo nei negoziati che era già evidente. Dopo nove
mesi dalla proclamazione della tregua permanente da parte dell’ETA, il governo non ha
fatto nessun passo concreto, né per l’alleggerimento della repressione, né per il rimpatrio
dei prigionieri politici le cui condizioni sono ulteriormente peggiorate. La dottrina Parot
applicata ad esempio ad Inaki de Juana segna il ritorno nella legislazione spagnola del
carcere a vita. Proprio mentre Zapatero ripete che dobbiamo fare “solo politica”.
Nonostante l’attentato i colloqui tra le forze politiche basche e quelle spagnole continuano.
Certo, il Partito socialista è in difficoltà, sottoposto com’è ad un tentativo di linciaggio da
parte del Partido Popular, che agita la piazza e mobilita le gerarchie ecclesiastiche. Poi ci
sono le associazioni delle vittime del terrorismo, contrarie a ogni forma di dialogo. Il
processo negoziale non solo non è interrotto, ma crediamo che sia più necessario che mai
accelerare i tempi».
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Euskal Herria. 18 marzo. A maggio ci saranno le elezioni municipali e poi le legislative
nel 2008. «Alla sinistra indipendentista deve essere permesso di parteciparvi, altrimenti le
istituzioni che ne usciranno non rappresenteranno tutte le opinioni politiche presenti nella
società e quindi non potranno gestire l’applicazione di un eventuale accordo politico.
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Zapatero ha ripetuto che se Batasuna vuole partecipare alle prossime elezioni deve
“cessare di appoggiare la violenza”. Quando tre anni fa abbiamo presentato la nostra
proposta di pace ci siamo assunti l’impegno di operare all’interno di uno scenario di pace.
L’assenza di violenza ci permetterebbe di accumulare forze attorno al nostro progetto
indipendentista e di sinistra. È già successo alla fine degli anni ‘90 quando, durante i 20
mesi di tregua dell’ETA, siamo diventati la seconda forza politica basca sfiorando il 20%
dei consensi. Ma la destra sembra preferire gli attentati e la violenza politica al negoziato,
perché in questo modo può continuare a strumentalizzare la situazione di tensione e mettere
in difficoltà i socialisti in vista delle elezioni del 2008. Finora è mancato ai socialisti il
coraggio politico di riformare la “Legge sui partiti” che sancisce la nostra esclusione dalla
legalità. Zapatero ha ottenuto un ampio mandato parlamentare a trattare direttamente con
l’ETA. Ma è anche vero che i principali organi giudiziari del paese sono controllati da
esponenti indicati dalla destra che usano la loro posizione per boicottare i negoziati».
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Euskal Herria. 18 marzo. Alvarez si sofferma quindi sul perché Zapatero dovrebbe
negoziare con la sinistra indipendentista basca. «Intanto perché se il conflitto si avviasse a
soluzione, il Partito Popolare perderebbe uno degli argomenti centrali del suo discorso
politico. Poche settimane fa abbiamo presentato una proposta di riforma delle istituzioni
basche creando un’unica comunità autonoma composta da tutte e quattro le province
basche all’interno dello Stato spagnolo, con annesso riconoscimento del diritto di
autodecisione e di collaborazione transfrontaliera con le istituzioni basche in terra
francese. Ciò porterebbe ad un abbandono definitivo delle armi da parte dell’ETA e l’avvio
di un solido scenario di pace all’interno del quale tutte le opzioni politiche, compresa la
nostra che rivendica l’indipendenza e un’alternativa economica al neoliberismo, dovranno
avere pari cittadinanza. Questa riforma rimuoverebbe la divisione territoriale forzosamente
imposta ai baschi durante gli anni della “transizione” ma andrebbe anche incontro al
progetto di una parte del PSOE – quella guidata da Zapatero– di riformare in senso
federalista l’assetto statale spagnolo. Il modello di Stato sancito dalla Costituzione del 1978
è ormai obsoleto, e non lo affermiamo solo noi, ma anche i socialisti catalani e quelli
baschi».
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Kosovo / Russia. 18 marzo. Cambiare il mediatore dell’ONU. Mosca è per la prosecuzione
dei negoziati sullo status del Kosovo, eventualmente sostituendo l’attuale mediatore ONU,
Martti Ahtisaari, che lo scorso sabato ha dichiarato la fine di oltre un anno di infruttuosi
colloqui serbo-albanesi aggiungendo che ora tocca al Consiglio di Sicurezza decidere se
concedere l’indipendenza alla provincia serba. «Sono convinto che, tenuto conto del modo in
cui sono state formulate le posizioni, è necessario continuare i negoziati», ha detto il
ministro degli esteri russo Serghei Lavrov intervenendo al consiglio di politica
internazionale di difesa. «E se Ahtisaari pensa di aver fatto tutto quello che poteva, allora
quasi certamente si può trovare un’altra persona per lavorare su questo dossier», ha
aggiunto. Insomma, non si impone niente a Belgrado e se si arriva subito al Consiglio di
Sicurezza ci sarà il veto russo, quindi meglio trattare ancora, con un nuovo mediatore, visto
che Ahtisaari è stato capace solo di proporre l’indipendenza del Kosovo.
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Francia / Israele / Siria. 19 marzo. Chirac incoraggiò Israele ad attaccare la Siria. Il
quotidiano israeliano Maariv ha scritto ieri che, durante l’aggressione israeliana al Libano la
scorsa estate, il presidente francese, Jacques Chirac, incoraggiò Israele a rovesciare il
governo siriano di Bacher Al Assad.
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Palestina / Israele. 19 marzo. Come previsto. Il premier israeliano Ehud Olmert ha chiesto
ai suoi ministri «di boicottare» il nuovo governo di unità nazionale palestinese, varato
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sabato da Hamas e Fatah. Con 19 voti a favore e due astensioni –i laburisti Yuli Tamir
(istruzione) e Ghaleb Majadleh (cultura e sport)– i ministri hanno approvato la proposta del
capo del governo. «È un governo di Hamas in maschera» ha esclamato uno dei ministri.
Olmert ha precisato che Israele continuerà a mantenere contatti con il presidente dell’ANP,
Abbas (il quale appoggia il nuovo esecutivo palestinese), con il quale parlerà solo di
«questioni umanitarie». Poi si è rivolto a USA, UE e Russia affinché appoggino la linea «di
boicottaggio» adottata da Israele. L’appello è stato accolto dall’Amministrazione Bush.
«Rifiutiamo di discutere con questo governo», ha detto ieri il portavoce della Casa Bianca,
Stephen Hadley in una dichiarazione alla CNN, «fino a quando non rispetti i principi»
fissati dal cosiddetto Quartetto (Stati Uniti, ONU, UE e Russia). In primis il riconoscimento
di Israele, al quale sabato il premier Ismail Hanieh non aveva fatto riferimento, mentre
aveva evocato il diritto dei palestinesi alla resistenza. Affermazione quest’ultima giudicata
«piuttosto sconcertante» da Hadley.
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Palestina. 19 marzo. Abu Abbas ha deciso di riattivare il Consiglio di Sicurezza Nazionale
e ha nominato consigliere in materia l’ex ministro Mohamed Dahlan, uomo forte di al-Fatah
a Gaza e fortemente gradito da USA e Israele.
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Iraq. 20 marzo. Il flusso degli iracheni (quattro milioni) in fuga è un «disastro umanitario»
che viene «vilmente negato» dalla “comunità internazionale”. La denuncia è stata lanciata
oggi da Peter Kessler, portavoce dell’Unhcr, l’Agenzia ONU per i rifugiati che si trova a
fronteggiare praticamente da sola la disperazione di una valanga di persone, due milioni
all’estero, altrettante all’interno dell’Iraq, sradicate e bisognose di tutto. Ad essere travolti
dal flusso verso l’esterno, in quanto paesi confinanti, sono soprattutto la Siria, dove
attualmente si trovano 1,2 milioni di iracheni, e la Giordania, che ne ospita 800mila. Un bel
contrasto con l’amministrazione USA, responsabile della catastrofe, che nel 2006 ha
accettato di accogliere negi Stati Uniti ben 200 iracheni e solo di recente ha annunciato che
ne farà entrare altri 7000.
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Euskal Herria. 21 marzo. Non si presenta alla Corte; arrestato. Otegi, portavoce
dell’organizzazione basca illegalizzata Batasuna, è stato arrestato oggi dalla Guardia Civil
nella sua casa di Elgoibar, nei Paesi Baschi, per non essersi presentato a Madrid al processo
che lo vede imputato per «apologia del terrorismo». Otegi ha addotto a ragione della sua
assenza la neve, che lo avrebbe bloccato. Il giudice dell’Audiencia Nacional, Fernando
Bermudez, ha inviato la Guardia Civil ad arrestarlo. Otegi viene giudicato per aver
partecipato il 30 luglio 2001 al funerale della militante dell’ETA, Olaia Castresana, morta
cinque giorni prima mentre maneggiava 3 chili di esplosivo ad Alicante. Rischia una pena di
15 mesi, ma non ancora il carcere. Otegi è infatti in attesa della sentenza del Tribunale
Supremo sugli altri 15 mesi di condanna per la partecipazione al 25° anniversario della
morte di un altro etarra, José Miguel Beñarán. Oltre a ciò, altre tre cause per «apologia del
terrorismo» ed una quarta per appartenenza a «gruppo terrorista», in relazione all’inchiesta
sui legami tra Batasuna ed ETA. Neve o non neve, l’arresto rischia di portare ad un clima
incandescente in vista del voto, radicalizzando ancor più la situazione. Il 27 maggio ci sono
le elezioni locali a cui Batasuna sta cercando di partecipare. È quasi impossibile che la
formazione possa essere legalizzata in tempo per il voto (per farlo dovrebbe condannare
ETA); più probabile il ricorso a liste civiche.
•
Israele. 21 marzo. Israele vieta agli arabi i ricongiungimenti familiari. Dopo i palestinesi,
anche per iraniani, siriani, libanesi e iracheni sarà impossibile ottenere la cittadinanza
sposando un arabo-israeliano. Con 35 voti favorevoli e 11 contrari la Knesset (parlamento)
ha stasera esteso fino al luglio 2008 la controversa legge sulla cittadinanza (la «Nationality
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and entry into Israel law, temporary order») e, soprattutto, approvato un paio
d’emendamenti che ne allargano gli effetti –finora limitati ai palestinesi dei Territori
occupati– ai cittadini iraniani, siriani, libanesi e iracheni. Secondo Amnon Vidan, direttore
della sezione israeliana di Amnesty International, «la norma mira ad allargare la
maggioranza ebraica dello Stato e mettere in difficoltà la popolazione araba: se degli arabi
non possono stabilirsi in Israele, ci saranno meno arabi nello Stato». Per Sawsan Zaher,
avvocato di Adalah, l’organizzazione che difende la minoranza araba in Israele, che ha
seguito l’iter della legge alla Knesset, quella prorogata e modificata è «una legge razzista,
perché discrimina gli arabo-israeliani sulla base della loro etnia». «Siamo cittadini di
seconda classe», denuncia il legale. «Non possiamo scegliere a chi legarci, mentre i
cittadini ebrei sono liberi di farlo». È molto improbabile che la norma –a meno che non
intervenga una decisione in tal senso dettata dalla politica– possa essere cancellata. La legge
infatti, il 14 maggio scorso, ottenne il via libera definitivo grazie a una sentenza dell’Alta
Corte (sei voti a favore, cinque contro) che respinse il ricorso di Adalah, di famiglie colpite
dal provvedimento e parlamentari che ne chiedevano la cancellazione. Secondo Human
Rights Watch il giudizio della Corte suprema «colpisce il diritto di migliaia d’israeliani a
vivere con le proprie famiglie ed è stata approvata una legge che colpisce ingiustamente i
cittadini israeliani di origine palestinese». La minoranza araba d’Israele, un milione e
300mila persone, costituisce circa il 20% della popolazione del paese.
•
USA / Colombia. 21 marzo. La Chiquita ammette di aver pagato paramilitari per i suoi
affari nel paese. L’impresa Chiquita Brands International, produttrice delle famose banane,
ha ammesso di aver versato quasi due milioni di dollari tra il 1997 e il 2004 (anno in cui
vendette la sua filiale colombiana) in cambio della protezione dei paramilitari. Secondo le
associazioni per i diritti umani, che da tempo accusano le banane Chiquita di essere
«macchiate di sangue», la compagnia non avrebbe pagato i paramilitari solo per proteggere i
suoi impianti, ma per minacciare e assassinare i dirigenti sindacali che reclamavano i diritti
dei lavoratori. I porti controllati dalla Chiquita sarebbero stati usati per contrabbandare nel
paese armi destinate ai paramilitari delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia).
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Ecuador. 21 marzo. Giurano i deputati supplenti. Oggi 28 deputati supplenti, che
sostituiscono una parte dei parlamentari destituiti dal Tribunale Supremo Elettorale, hanno
giurato tra severe misure di sicurezza. Viene così garantito il quorum per l’attività
parlamentare e l’esecutivo esce rafforzato dalla crisi: i deputati supplenti hanno infatti dato
vita a un nuovo gruppo, Dignidad Nacional, che gli osservatori ritengono potrebbe
avvicinarsi alle posizioni del governo. La crisi era iniziata quando il Tribunale Supremo
Elettorale aveva deciso di appoggiare la consulta popolare per la Costituente. Attraverso
questo referendum Correa intende avere il via libera dagli elettori per promuovere
l’Assemblea Costituente, come promesso nella sua campagna elettorale. I deputati
dell’opposizione avevano però respinto la sentenza, votando la destituzione del presidente
del Tribunale, Jorge Acosta. Come contromossa, il Tribunale aveva destituito 57
parlamentari (quasi tutti i rappresentanti del Partido Renovador Institucional Nacional del
miliardario Alvaro Noboa e di Sociedad Patriótica dell’ex presidente Gutiérrez). Il conflitto
si era inasprito con il tentativo dei 57 deputati di rientrare in Parlamento (tentativo fallito per
la presenza delle polizia e di numerosi manifestanti filogovernativi), e la decisione
dell’esecutivo di ricorrere ai supplenti. Correa non può contare su una rappresentanza
parlamentare (non ha presentato proprie liste), ma ha l’appoggio della maggioranza della
popolazione, il cui rifiuto della corrotta classe politica si è espresso in questi anni in
continue insurrezioni.
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Italia. 22 marzo. Nel ddl di Prodi tre milioni e 498 mila euro per i “contractors”. Ben sette
miliardi del vecchio conio verranno spesi dal governo italiano per stipulare, in Iraq, accordi
con i contractors, guardie del corpo facenti capo a società private. È uno dei dettagli del
decreto di rifinanziamento delle missioni militari all’estero (pagina 33) che dovrà essere
approvato dal Senato nei prossimi giorni. Uomini armati di una polizia privata avranno il
compito di difendere il personale italiano composto da tecnici ed esperti, presenti a
Nassiriya. «Considerato che il contingente militare italiano, che garantiva la sicurezza e
l’incolumità del personale civile presente presso la USR (Unità di Sostegno alla
Ricostruzione, istituita nel primo semestre 2006 nella regione irachena di Nassiriya, ndr),
non sarà più presente in Iraq nel corso del 2007, il governo italiano ha la necessità di
stipulare un contratto con una società di sicurezza che già sia operante in Iraq con
personale locale. Ciò al fine di garantire l’incolumità dei civili presenti a Nassiriya e di
consentire loro di uscire dal perimetro della base militare internazionale per monitorare i
progetti ed incontrare le personalità locali in un contesto di massima sicurezza». Così il
testo. Aegis Defence Services è l’agenzia britannica privata scelta dal governo Prodi, anche
se il contratto con la Farnesina è ancora in via di definizione. Si tratta di un colosso presente
in Iraq dal 2004, dopo aver stipulato con il ministero della Difesa statunitense un contratto
da 293 milioni di dollari. Il suo fondatore, Tim Spider, è stato coinvolto in abusi contro i
diritti umani e in violazioni internazionali.
•
Italia. 22 marzo. «Quali sono le regole d’ingaggio di questi eserciti privati? Chi li
controlla? E quale bisogno c’è di avere fisicamente dei tecnici italiani sul posto?». Se lo
chiede Fabio Alberti, presidente dell’Organizzazione Non Governativa “Un Ponte per”,
presente in Iraq da molti anni. Alberti si dice meravigliato che in Iraq «ci sia ancora una
presenza armata italiana a difesa dei Provincial Reconstruction Team che sono la parte
civile dell’occupazione: se noi ne facessimo parte saremmo sotto il comando USA.
Peraltro», spiega Alberti, «a dicembre il nostro personale civile a Nassiriya girava scortato
dai marines». «Per assistere gli iracheni alla ricostruzione», conclude Alberti, «basta
assisterli economicamente, nella progettazione e in tanti altri modi: l’Iraq è pieno di tecnici
bravi».
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Somalia. 22 marzo. «La Somalia è stata invasa e le truppe etiopi sono in Somalia con la
forza. Le persone che stanno combattendo a Mogadiscio si stanno difendendo e nessuno può
privarli di questo diritto». Così dice, in un’intervista ieri sera al servizio in lingua somala
della BBC, Sheikh Hassan Dahir Aweys, il capo delle Corti Islamiche che da giugno a
dicembre scorso hanno governato Mogadiscio e gran parte del sud del paese e che alla fine
del 2006 sono stati cacciati dal paese dalle forze fedeli al governo di transizione somalo
(Tfg) e dai loro alleati etiopi e statunitensi. «Se tutte le truppe straniere lasceranno la
Somalia, potremo risolvere le differenze esistenti. E questo lo sanno tutti», ha aggiunto
Aweys, che ha detto di parlare da una località sconosciuta della Somalia. L’intervista è stata
diffusa al termine di una delle più sanguinose giornate della recente storia somala, con
Mogadiscio che è stata per l’intera giornata di ieri teatro dei più violenti combattimenti da
quando il governo di transizione si è installato in città. «I principali ospedali di Mogadiscio
ieri hanno contato circa 300 feriti, alcuni sono stati curati e dimessi, altri ricoverati. Questo
è un indice abbastanza chiaro dell’intensità degli scontri», ha detto a Misna una fonte del
Comitato internazionale della Croce Rossa. Su una sua eventuale partecipazione alla
Conferenza di riconciliazione somala che dovrebbe tenersi a metà aprile a Mogadiscio,
Aweys ha detto di non avere alcuna intenzione di parteciparvi. «Yusuf è parte dell’Etiopia»
ha detto riferendosi al presidente del governo di transizione «e gli etiopi stanno combattendo
per lui. Prima volevamo avere un dialogo con lui, ma ormai si è schierato con gli etiopi»,
ha aggiunto Aweys, veterano della guerra del 1977 tra Somalia ed Etiopia.
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Somalia. 22 marzo. Al Jazeera cessa ogni trasmissione dalla Somalia. A disporlo le autorità
di Mogadiscio, il governo messo su da USA ed Etiopia. Una lettera ordina alla redazione di
Al Jazeera a Mogadiscio di cessare ogni attività, senza spiegare le ragioni della misura.
Wadah Khanfar, direttore generale di Al Jazeera, ha espresso il suo rammarico e ribadito il
diritto all’informazione.
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Italia. 23 marzo. Sì a Predator e Mangusta. Il decreto di rifinanziamento della missione in
Afghanistan prevede già che per Kabul nei prossimi mesi parta un aereo da trasporto
Hercules C130, tre elicotteri Ab 129 Mangusta e due Predator, gli aerei da ricognizione
senza pilota. Nell’ultimo rinnovo di sei mesi fa questi mezzi non c’erano. Per la prima volta
il testo, che è annuale e non più semestrale, non riporta l’elenco dei mezzi impiegati
lasciando intendere che questi verranno «modulati» volta per volta. In tutto l’Italia impegna,
allo stato, nella missione ISAF, circa 1.900 uomini. «Si sente dire che il ministro D’Alema
sarebbe pronto ad inviare più armi in Afghanistan», dice Fosco Giannini, capogruppo di
Rifondazione in commissione Difesa a palazzo Madama, «se fosse vero sarebbe
particolarmente grave perché significherebbe andare dietro alle richieste della NATO e
della destra italiana». Scontato immaginare come andrà a finire...
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Israele. 23 marzo. Ilan Pappe lascia Israele. «Sono trattato come un appestato. Non riesco
più a lavorare con serenità, sono continuamente preso di mira. È impossibile lavorare per
chi come me è contrario al sionismo». Così lo storico ebreo israeliano Ilan Pappe, professore
dell’Università di Haifa, uno dei più celebri tra i «Nuovi Storici» israeliani, denuncia il clima
di ostilità insostenibile che lo ha indotto a decidere di fuggire da Israele e trasferirsi in Gran
Bretagna. E aggiunge: «dall’estero continuerò la mia battaglia affinché il conflitto israelopalestinese venga riportato nel suo vero contesto storico, lontano dal mito e dalle false
verità che lo hanno segnato in tutti questi decenni». Docente presso il Dipartimento di
scienze politiche dell’Università di Haifa e rappresentante dell’Istituto Emil Touma per gli
studi palestinesi, Ilan Pappe ha scritto numerosi libri e collabora con riviste locali e
internazionali.
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Israele. 23 marzo. «Sono attaccato di continuo perché le conclusioni dei miei studi non
sono coerenti con la versione ufficiale sul contesto che portò alla nascita di Israele e
pongono interrogativi sulle politiche (dello Stato ebraico, ndr) nei riguardi di palestinesi e
arabi. È la mia critica del sionismo, che fa saltare i nervi a coloro che mi attaccano». Così,
a il Manifesto di oggi, Ilan Pappe spiega il perché degli attacchi che subisce in Israele. «Il
quadro interno israeliano è molto peggiorato in questi ultimi anni: un antisionista o un nonsionista deve fare i conti con spazi di espressione sempre più ristretti. Allo stesso tempo il
paese va indietro, le discriminazioni e gli abusi contro la minoranza araba si intensificano,
certe forze politiche parlano apertamente di espulsione degli arabi israeliani, la politica di
occupazione (di Cisgiordania e Gaza, ndr) continua, così come la colonizzazione ebraica
delle terre palestinesi. In tutti questi anni penso di aver svolto, accanto al mio lavoro
accademico, tante attività finalizzate a realizzare una democrazia vera, uno Stato diverso,
per ebrei e arabi su di un piano di piena parità ed uguaglianza. Purtroppo non sono servite
a molto e allora credo il mio impegno debba ora continuare all’estero».
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Israele. 23 marzo. Sul boicottaggio accademico di Haifa, Bar Ilan (Tel Aviv) e le altre
università israeliane che svolgono corsi nelle colonie ebraiche nei Territori occupati,
boicottaggio che sostiene, Pappe spiega: «Il boicottaggio è una misura che funzionò con il
Sudafrica dell’apartheid e quindi può avere effetti importanti anche con altri paesi, tra cui
Israele. Per questo motivo lo sostengo. Due anni fa però non fui io a proporlo, come è stato
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riferito, perché già dal 2002 il mondo accademico britannico intendeva attuarlo contro
Israele in risposta alla distruzione di metà del campo profughi di Jenin e alle
discriminazioni alle quali sono soggetti gli studenti dell’Università di Haifa».
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Israele. 23 marzo. Sulla pulizia etnica in Palestina, tema del suo ultimo libro ritornato di
attualità in queste settimane dopo il secco «no» ribadito dal governo Olmert al ritorno alle
loro case e villaggi dei profughi palestinesi della guerra arabo-israeliana del 1948 nel quadro
di un accordo di pace, Pappe traccia una conclusione inequivocabile. «Questo libro è il
risultato di ciò che avevo gradualmente tracciato in quelli precedenti, ovvero che in
Palestina, prima, durante e dopo il 1948, è stato attuato un piano ben preciso volto a pulire
etnicamente il territorio dove è sorto lo Stato di Israele. Documenti e testimonianze, a quasi
sessanta anni di distanza da quei giorni, lo dicono con estrema chiarezza. Israele in ogni
caso non ammetterà mai le sue responsabilità nella questione dei profughi, il governo
attuale e quelli futuri faranno il possibile per lasciare nei campi per rifugiati tutte quelle
persone (800mila nel 1948, oggi sono circa 4 milioni, ndr) che reclamano i loro diritti. Non
credo però che i Paesi arabi saranno disposti ad accogliere la richiesta di Israele di
dimenticare l’esistenza dei profughi e di modificare l’iniziativa di pace araba del 2002».
Questa pulizia etnica prosegue ancora oggi, prosegue. «Ci sono alcune aree dove procede
una politica di pulizia etnica ad avanzamento lento. Nell’area della “grande
Gerusalemme”, ad esempio. La costruzione del muro, l’espansione delle colonie, la
confisca dei terreni, recinzioni e restrizioni ai movimenti delle persone, stanno costringendo
migliaia di palestinesi ad andare via, ad abbandonare le loro case. Lo stesso accade tra
Gerusalemme e Ramallah e tra Gerusalemme e Betlemme, e lungo la strada che porta fino a
Gerico. Almeno 40mila palestinesi hanno dovuto fare i bagagli e trasferirsi più all’interno
in Cisgiordania. Senza parlare della città vecchia di Hebron, dove l’aggressività dei coloni
ebrei e dei soldati ha trasformato in un quartiere fantasma la parte più caratteristica di
quella città. Vedete, la pulizia etnica si attua in varie forme. Sessanta anni fa si usavano le
armi per costringere le persone a scappare, ora, a causa del controllo dei media e delle
istituzioni internazionali, si usano altri metodi. Rendere la vita impossibile, restringere le
possibilità economiche, ridurre le capacità di sviluppo. Queste nuove strategie stanno
funzionando bene in Palestina, anche perché si uniscono alla linea del rifiuto di un
negoziato vero con i palestinesi».
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Israele / Libano. 23 marzo. La guerra contro il Libano è stato un errore da parte di Israele.
Per il viceprimo ministro israeliano, Shimon Peres, la decisione di invadere il Libano
l’estate scorsa è stata gestita male da Israele («l’esercito era impreparato») ed Hezbollah ha
sviluppato un lavoro migliore in termini di copertura mediatica. Queste dichiarazioni Peres
le ha rese a novembre alla Commissione Winograd che conduce l’inchiesta sul conflitto, e
sono state rese pubbliche ieri. La trascrizione, di 15 pagine, è stata però diffusa con
frammenti censurati per «ragioni di sicurezza». Peretz dichiara in un passaggio che
«l’errore più grande è stata la guerra in se stessa». Israele ora è «considerato più debole» e
ha perso «potere di dissuasione verso gli arabi». Peres, che respinge la tesi che si possa
parlare di «guerra fallita», ha riconosciuto davanti alla stessa commissione che la decisione
di avviare la guerra non era stata presa in risposta al sequestro dei due soldati israeliani
sconfinati in territorio libanese. Lo stesso capo del governo isareliano, Ehud Olmert, ha
ammesso che un piano d’invasione del Libano era stato predisposto quattro mesi prima; il
sequestro fu solo il pretesto per agire.
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Italia / USA. 24 marzo. A Vicenza, corteo “No Dal Molin” scoperchia tombini fibre ottiche
e avverte: la nuova base militare USA non s’ha da fare. Il Presidio Permanente “No Dal
Molin” informa che «i manifestanti sono partiti dal Presidio Permanente contro la nuova
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base ed hanno percorso tutta via Sant’Antonino, parallela alle recinzioni dell’aeroporto che
gli statunitensi vorrebbero trasformare in base di guerra. Giunti nella zona in cui sono stati
posati –senza alcuna autorizzazione– i cavidotti i manifestanti si sono fermati ed alcuni
operai dell’“altro comune” hanno eseguito i lavori di ripristino di Via Sant’Antonino,
aprendo il tombino, tagliando le tubature e colando cemento a presa rapida nella cavità.
Intorno agli operai famiglie, bambini e anziani, studenti e lavoratori cantavano e
inscenavano i lavori in corso». Questo atto di ripristino della situazione preesistente al
cantiere non sarà occasionale. Infatti, prosegue il comunicato: «Chi credeva che dopo il 17
febbraio la vicenda Dal Molin fosse chiusa deve ricredersi. L’iniziativa di oggi lancia un
segnale chiaro: i cittadini di Vicenza sono pronti a bloccare pacificamente ma con
determinazione i cantieri dell’opera militare. La chiusura dei cavidotti per fibre ottiche,
posati alcune settimane fa per garantire le comunicazioni tra installazioni militari, ne è la
miglior dimostrazione: la nuova base al Dal Molin non si farà mai».
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Gran Bretagna / Iran. 24 marzo. Quindici marines britannici catturati dalle forze iraniane
alla foce dello Shatt-el Arab, il corso d’acqua che segna il confine meridionale tra Iraq e
Iran. In acque territoriali, dicono da Teheran, in servizio di pattuglia nel Golfo replica il
Ministero della Difesa britannico. C’è chi ritiene che Teheran intenda giocare il rilascio dei
quindici marinai di Sua Maestà per forzare quello del gruppo di funzionari iraniani arrestati
in Iraq nel corso degli ultimi mesi. Mancano all’appello delle autorità iraniane addetti
diplomatici come il secondo segretario dell’ambasciata di Bagdad, funzionari di raccordo tra
Teheran e i partiti sciiti alleati, e cinque presunti membri delle Brigate al-Qods, il corpo
d’elite dei Pasdaran. Sinora sono rimaste inefficaci le generiche promesse del governo
iracheno per il rilascio in tempi brevi dei detenuti. L’Iran, poi, accusa da tempo la Gran
Bretagna di fomentare disordini etnici in Khuzestan, la provincia meridionale che confina
con Bassora (dove vive una minoranza iraniana di lingua araba).
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Afghanistan. 24 marzo. Truppe afghane e della NATO hanno attaccato gli studenti coranici
con due operazioni, entrambe nei pressi di Babaji, lungo il fiume Helmand, a nord di
Lashkar Gah, capoluogo della provincia di Helmand (sud del Paese). Dopo l’espansione
della “missione” alle province meridionali, stanno provando a sottrarle al controllo dei
taliban. Secondo un comunicato del contingente multinazionale ISAF (a guida NATO), le
truppe NATO si sarebbero limitate in quest’ultima occasione a fornire supporto dalle
retrovie e assistenza sanitaria ai militari afghani feriti. Se la notizia verrà confermata,
potrebbe trattarsi di un’ammissione di difficoltà: mandare avanti l’esercito locale (come i
tagiki dell’alleanza del nord, usati da battistrada per l’invasione del paese nell’ottobre 2001)
per limitare le perdite contro un nemico che si fa sempre più aggressivo e letale.
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USA. 24 marzo. Addio alle armi. Disertori a centinaia. Cambiano le cifre ufficiali sulla
diserzione dei militari negli Stati Uniti, secondo quanto scrive il New York Times. Il
Pentagono ha ricalcolato il numero complessivo dei soldati «awol» (absent without leave)
per il 2006 portandolo a quota 3.196, pari a 853 soldati in più rispetto a quello che il
ministero della difesa aveva fino ad ora comunicato. Gli errori di calcolo, ha sostenuto una
portavoce del ministero della difesa, deriva da alcune diversità di valutazione tra diversi
uffici della difesa su quando un militare sia da considerare effettivamente un disertore. La
revisione riguarda gli anni dal 2000 ad oggi. Per il 2005, ad esempio, il numero dei disertori
è salito da 2.011 a 2.543. L’organico complessivo delle forze armate USA alla fine del 2006
si aggirava intorno ai 500mila militari in servizio attivo.
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Palestina. 25 marzo. Polemiche in Hamas sul primo governo palestinese di unità nazionale
varato la settimana scorsa. Una parte della dirigenza attacca il premier Ismail Haniyeh e
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Khaled Mashaal (capo dell’ufficio politico in esilio a Damasco) per l’intesa con Abbas (Abu
Mazen): «Il movimento sta abbandonando i suoi principi come fece Fatah quando firmò gli
accordi di Oslo con Israele e pagherà cara la scelta di governare con Fatah». Tra i
principali oppositori, l’ex ministro degli interni Said Siam e il ministro degli esteri Mahmud
Zahar che hanno messo in chiaro che si opporranno allo smantellamento della “Forza
Esecutiva”, la milizia costituita lo scorso anno a Gaza per contrastare le forze di sicurezza
fedeli ad Abbas.
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Palestina. 25 marzo. Mashaal e Haniyeh respingono le accuse. La decisione di accettare le
intese della Mecca –dicono–è il risultato della democrazia che regola le decisioni di Hamas,
dalla base fino al vertice. Per quanto a Gaza siano in molti a confermare questa versione,
ben poco si sa del sistema decisionale di Hamas. Gli islamisti palestinesi si limitano a dire
che le decisioni strategiche vengono prese all’unanimità dalla leadership in esilio e quella in
Cisgiordania e Gaza. Tutto il resto è tenuto segreto, spiega l’ex ministro Atef Odwan, solo
per ragioni di sicurezza, perché Israele potrebbe decapitare il movimento come avvenuto nel
2004, con l’uccisione del leader spirituale Ahmed Yassin e il suo braccio destro Abdel Aziz
Rantisi. Odwan aggiunge che i militanti di Hamas eleggono periodicamente i loro dirigenti
locali, in quattro «settori»: Gaza, Cisgiordania, carceri ed esilio. Gli eletti scelgono, sempre
con un voto, i membri del Consiglio della Shura (paragonabile ad un Comitato centrale) che
è chiamato ad avallare le decisioni prese dai leader nei Territori occupati, dal capo
dell’Ufficio politico Mashaal e dal suo vice Musa Abu Marzuq.
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Palestina. 25 marzo. Qualche spiegazione ulteriore sulla democrazia interna di Hamas
viene da Yahya Musa, vice capogruppo di Hamas al Consiglio legislativo palestinese. «Ogni
questione viene dibattuta dalla base e nelle discussioni è tenuta in considerazione
l’opinione di ogni corrente. In ogni caso Hamas, pur essendo parte di un movimento
islamico internazionale, ha la sua ideologia e la sua linea politica e deve tenere conto delle
circostanze in cui agisce», ha detto Musa, evitando di fornire particolari sul processo
elettorale interno, sulle località e le sedi dove i militanti e i dirigenti si riuniscono.
«L’unanimità è l’obiettivo del dibattito interno ma se, per esempio, dalle carceri arriva una
decisione contraria a quella degli altri tre settori, allora prevale la maggioranza». L’ex
ministro Odwan, replicando indirettamente a Siyam e Zahar, afferma che l’accordo della
Mecca è un classico esempio del processo decisionale interno: il Consiglio della Shura ha
deciso i limiti minimi e massimi delle richieste di Hamas e i leader si sono tenuti dentro
quella misura. L’esperto palestinese di islamismo, Ibrahim Abu Hija, sostiene però che le
divisioni geografiche e le difficoltà causate dall’occupazione israeliana, ostacolano il
dibattito in Hamas e spingono i leader ad essere più autonomi e, quindi, a prendere decisioni
che, in qualche caso, non sono condivise pienamente dalla base.
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Russia. 25 marzo. «Non si può tollerare che l’Europa venga suddivisa in blocchi
contrapposti, che facciano la loro comparsa nuove linee di demarcazione e che vengano
realizzati progetti unilaterali a scapito degli interessi e della sicurezza dei vicini». Queste le
parole di Vladimir Putin in un articolo pubblicato oggi da una serie di mass-media europei e
riportate dal sito Pravda.ru. Il presidente russo ha esortato l’Unione Europea a risolvere la
questione dei sistemi missilistici USA in Europa oltre che a contrapporsi al “terrorismo”
internazionale, alla non diffusione degli armamenti di distruzione di massa e al
narcotraffico. «Solamente su una vera base collettiva e di fiducia sarà possibile trovare la
soluzione a ogni questione, che si tratti della decisione della questione della difesa
missilistica in Europa, della stabilizzazione dell’Afghanistan o la contrapposizione a un
intero spettro di nuove minacce quali il terrorismo internazionale, la non diffusione degli
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armamenti di distruzione di massa, il narcotraffico, l’immigrazione clandestina e la povertà
globale», ha aggiunto Putin.
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USA / Iran. 25 marzo. L’ONU vota nuove sanzioni contro l’Iran, che non ha sospeso il suo
programma di arricchimento dell’uranio (come chiedeva una precedente risoluzione del
Consiglio). Il testo della risoluzione era stato messo a punto venerdì sera, dopo giorni di
negoziati ed emendamenti dell’ultimo minuto: così la notizia non sta tanto
nell’approvazione, ormai scontata, quanto nei numeri. Bastavano 9 voti favorevoli su 15, e
ovviamente nessun veto; i 5 membri permanenti e in particolare Stati Uniti e Gran Bretagna
hanno però lavorato per ottenere l’unanimità. Il Sudafrica aveva fatto notare che l’Iran non
ha violato il Trattato di non proliferazione e ha il diritto di arricchire uranio per produrre
combustibile nucleare. Poi aveva proposto vari emendamenti alla bozza di risoluzione già
scritta dai 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran
Bretagna e Francia) più la Germania. Altri paesi membri non permanenti, come Indonesia e
Qatar, chiedevano una dichiarazione per un «Medio oriente denuclearizzato»: cosa
inaccettabile per Washington, visto il chiaro riferimento a Israele, potenza nucleare non
dichiarata (la soluzione è stata un vago riferimento a «realizzare l’obiettivo di un Medio
oriente libero da armi di distruzione di massa»).
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USA / Iran. 25 marzo. La risoluzione approvata ieri sera estende le sanzioni già approvate
il 23 dicembre scorso, che colpiscono il commercio di materiali relativi all’arricchimento
dell’uranio o al programma di missili balistici. In particolare, estende il blocco dei beni ad
altri 28 gruppi, aziende o persone considerate coinvolte in attività nucleari «delicate» o
missilistiche (il Sudafrica ha solo ottenuto che ogni nome incluso fosse motivato). I più
notevoli sono la Bank Sepah, banca iraniana che gli USA già da tempo boicottano, e alcune
aziende e singoli comandanti delle Guardie della Rivoluzione (Sepah-e Pasdaran), il corpo
militare parallelo che rappresenta una delle istituzioni più potenti nella geografia del potere
in Iran. La risoluzione inoltre impone l’embargo sull’export di armi convenzionali iraniane,
e chiede alle nazioni e istituzioni finanziarie internazionali di non aprire nuovi prestiti o
programmi di assistenza finanziaria all’Iran (salvo quelli umanitari). Tutto questo
nell’ambito del Capitolo 7, art. 41 della carta dell’ONU, che impone sanzioni ma esclude
azioni militari. È presto per un bilancio preciso, ma è facile prevedere che queste sanzioni
disincentiveranno nuovi investimenti e relazioni commerciali con l’Iran ben al di là delle
attività strettamente legate al programma nucleare.
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USA / Iran. 25 marzo. Il governo iraniano ha deciso di ridurre la cooperazione con
l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (AIEA), dopo l’approvazione, da parte del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU, di nuove sanzioni contro Teheran per il suo rifiuto di
sospendere il processo di arricchimento dell’uranio. Lo ha annunciato stasera il portavoce
governativo Gholamhossein Elham. Elham ha aggiunto che l’Iran potrà riconsiderare questa
sua decisione solo se il dossier del suo programma nucleare ritornerà dal Consiglio di
Sicurezza all’AIEA. Egli ha precisato che la riduzione della cooperazione con l’Agenzia
dell’ONU per l’energia atomica riguarderà le cosiddette «intese accessorie» con essa. Un
alto responsabile iraniano del settore nucleare ha precisato all’agenzia Reuters che tali
intese, accettate da Teheran nel 2002, impongono di dichiarare in anticipo qualsiasi progetto
relativo alla costruzione di impianti atomici
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Messico. 25 marzo. EZLN inizia oggi un nuovo giro nel paese per incontrare le comunità
indigene. Dopo diversi mesi di silenzio, come annunciato tre giorni fa dal subcomandante
Marcos con un comunicato diffuso a San Cristóbal de las Casas, l’Esercito Zapatista di
Liberazione Nazionale (EZLN) ha avviato «la campagna internazionale di solidarietà con
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le comunità indigene zapatiste e in difesa dell’autonomia indigena». A differenza della
precedente otra campaña, che si era posta l’obiettivo di costruire alleanze allargate ai settori
progressisti, alle organizzazioni popolari e ai movimenti sociali, lo zapatismo sembra voler
tornare alle sue radici storiche.
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Messico. 25 marzo. Un’immediata mobilitazione «nel momento in cui la destra presenti al
Congresso qualsiasi iniziativa per privatizzare Pemex», la compagnia petrolifera di Stato.
L’ha proposta il leader del Prd ed ex candidato presidenziale Andrés Manuel López Obrador
parlando oggi allo Zócalo di Città del Messico, durante la seconda Convención Nacional
Democrática. Nel suo discorso alla folla che riempiva l’enorme piazza, López Obrador ha
anche condannato la politica del presidente Calderón, che continua a considerare illegittimo
perché eletto grazie ai brogli.
•
Irlanda del Nord. 26 marzo. Sinn Féin e DUP governeranno insieme a partire dall’8
maggio. Oggi l’incontro, al parlamento di Stormont, tra Gerry Adams, dirigente degli
indipendentisti dello Sinn Féin e il reverendo Ian Paisley, capo del DUP (Democratic
Unionist Party, da lui fondato nel 1971), il principale partito unionista, oltranzista, nelle Sei
Contee. Adams –al petto aveva un giglio bianco in ricordo di coloro che perirono nella
rivolta indipendentista del 1916– ha definito l’accordo «una nuova era per la politica su
questa isola» ed ha salutato con soddisfazione i progressi fatti nel processo di
«riconciliazione tra repubblicani e unionisti». «Il Sinn Féin», ha detto, «vuole costruire una
nuova relazione tra il verde e l’arancione (colori repubblicani e unionisti, rispettivamente,
ndr), e tutti gli altri colori, in cui ogni cittadino possa condividere e possedere un futuro
pacifico e prospero». L’accordo è stato senza stretta di mano: Adams e Paisley hanno infatti
evitato qualsiasi contatto, a conferma di come la riconciliazione assoluta sia ancora lontana.
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Irlanda del Nord. 26 marzo. All’accordo di oggi si è giunti dopo un’ulteriore concessione
agli unionisti: dopo le elezioni del 7 marzo hanno ribadito la polarizzazione della scena
politica nordirlandese, con il partito di Adams (pro accordo di pace del 1998) e il partito di
Paisley (che non firmò l’accordo del 1998) vincitori assoluti, Blair aveva avvertito
nuovamente repubblicani e unionisti che, se non avessero nominato i loro ministri entro il 26
marzo, sarebbe stata la fine della devolution. Ha deciso poi di accettare la richiesta di
Paisley di far slittare di sei settimane il termine ultimo per la formazione del nuovo
esecutivo. Per Paisley, più che per Adams, la scelta da compiere portava con sé una
responsabilità senza precedenti. Si trattava infatti di accettare l’inaccettabile (fino all’altro
ieri) e cioè di entrare in un governo con il Sinn Féin, ovvero con il diavolo in persona
nell’immaginario protestante oltranzista. Ora la palla dei negoziati tra Londra e Belfast
passerà al ministro delle Finanze Gordon Brown: la Gran Bretagna ha infatti promesso
all’Irlanda del Nord uno stanziamento di circa 50 miliardi di euro per i prossimi quattro
anni, ma per DUP e Sinn Féin non sarebbero abbastanza.
•
Irlanda del Nord. 26 marzo. Per il Sinn Féin rimane determinante la pressione da
esercitare sui governi di Londra e Dublino. «Perché è chiaro», dice Adams, «che il loro
ruolo non finisce qui. In particolare il governo inglese deve assicurare che l’esecutivo che
sarà nominato a maggio abbia le risorse per rispondere alle esigenze di governo». Per il
Sinn Féin questo processo di pace non è stato facile. I repubblicani in questi anni hanno
dovuto ingoiare compromessi che mai avrebbero pensato di dover accettare. Anche alle
ultime tumultuose elezioni i dissensi non sono mancati. Anche se sono stati sempre molto
contenuti.
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Corsica. 26 marzo. Manifestazione ad Ajacciu, il 21 aprile, sul tema “Resistenza e Libertà”.
Ad indirla l’insieme dei movimenti indipendentisti e autonomisti, alla vigilia del primo
turno delle presidenziali francesi. Lo annuncia Xavier Luciani, uno dei portavoce del
Coordinamento di Fiumorbu, nome di una microregione del centro-est dell’isola in cui si
riuniscono ogni settimana, dall’inizio dell’anno, l’insieme di partiti, movimenti, sindacati e
associazioni nazionaliste, in vista di una «unione strategica». «Vogliamo lanciare alla
Francia e ai candidati il messaggio seguente: esiste un problema politico in Corsica e
bisogna trovare una soluzione politica», ha detto Luciani, precisando: «resistenza alle
aggressioni molteplici della Francia e libertà per i prigionieri politici còrsi». Nel
Coordinamento di Fiumorbu, tutti i partiti e movimenti politici autonomisti e indipendentisti
pubblici sono rappresentati, che sostengano o meno i due movimenti clandestini armati, il
FLNC-Unione dei Combattenti (FLNC-UC) e il FLNC detto “22 ottobre”, che siano pro o
contro la «lotta armata», che siano per l’indipendenza della Corsica o per un’autonomia più
forte.
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Corsica. 26 marzo. Sono oltre 60 i militanti còrsi incarcerati. Il Coordinamento di
Fiumorbu rivendica per loro «la creazione di uno statuto del prigioniero politico in un
primo tempo, il riavvicinamento dei prigionieri in Corsica in seguito e, alla fine, la loro
liberazione», sostiene Luciani, che ha ricordato che loro fanno «integralmente parte di una
soluzione politica per la Corsica» da negoziare con lo Stato francese. Quanto alla
«resistenza», per la quale il Coordinamento di Fiumorbu vuole creare «comitati locali di
resistenza» in tutte le microregioni, si tratta di opporsi, tra le altre cose, «alle interpellanze
giudiziarie incessanti dei militanti, alla decorsizzazione degli impieghi, alla perdita
progressiva dell’identità e della cultura corsi, ed anche allo sfruttamento della terra», il
tutto inscritto in quel che i nazionalisti denunciano come la «colonizzazione di
popolamento» della loro isola.
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Iraq / USA. 26 marzo. Il totale delle perdite statunitensi nel paese arabo occupato sarebbe
più alto del 25% se si aggiungessero i civili statunitensi (soprattutto addetti alla sicurezza)
morti in questi anni. È quanto sostiene uno studio del ministero del Lavoro USA. Il bilancio
ufficiale del Pentagono parla di oltre 3.200 militari caduti dal 2003 a oggi in Iraq.
•
Afghanistan. 26 marzo. Si chiama Pol-i-Charkhi la Guantanamo afghana ed è italiana. Il
nuovo penitenziario di massima sicurezza si trova nei pressi di Kabul. «Un cassone di
cemento armato, telecamere, microspie e sensori laser: 324 celle, 172 guardie addestrate
dalle forze speciali USA, filo spinato e mura insormontabili», scrive oggi Francesco
Battistini, inviato del Corriere della Sera. Nella ripartizione dei compiti per garantire la
«sicurezza interna» dell’Afghanistan sono stati infatti individuati cinque «pilastri
prioritari», la cui costruzione è stata posta sotto la leadership di altrettante «nazioni guida»:
l’esercito è stato affidato agli USA, la polizia alla Germania, l’anti-narcotici alla Gran
Bretagna, il disarmo delle milizie parallele al Giappone, la giustizia all’Italia.
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Afghanistan. 26 marzo. «L’Ufficio italiano giustizia» che si occupa del «ripristino di
un’efficace amministrazione giudiziaria» in Afghanistan è stato costituito nel 2003, sotto il
governo Berlusconi. In tale quadro rientra la «costruzione o riabilitazione di infrastrutture:
tribunali, uffici, prigioni». Dopo una iniziale concentrazione delle attività nella capitale,
Kabul, «l’attenzione dei progetti italiani va ora gradualmente espandendosi alle province
ed ai distretti». Rientra in tale quadro la costruzione di altre carceri. C’è bisogno di nuove
carceri, dove imprigionare e interrogare chiunque, talebano o no, resista all’occupazione o
debba comunque essere interrogato sotto tortura per estorcergli informazioni o fargli
confessare crimini non commessi. Ma questo non si può dire. E allora, dopo averlo
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occupato, ci si preoccupa di dettare all’Afghanistan un sistema giuridico e giudiziario. E con
le carceri, lo si è detto ufficialmente, «migliorare le condizioni di vita dei detenuti».
L’impegno del governo Berlusconi, innanzitutto finanziario, è stato confermato, con spirito
bipartisan, dal governo Prodi. A ribadirlo ancora, lo scorso 6 febbraio, alla commissione III
della Camera, il sottosegretario per gli affari esteri Gianni Vernetti. Dopo l’inaugurazione
del nuovo carcere di Pol-i-Charkhi, già ci si prepara a quella dei nuovi.
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Afghanistan. 26 marzo. «La nuova Guantanamo afghana servirà per l’opinione pubblica
mondiale: se ci sarà qualche abuso, ora la colpa sarà di Kabul». Lo scrive oggi, sul
Corriere della Sera, l’inviato Francesco Battistini. Di fronte all’indignazione suscitata nel
mondo dalle torture praticate dai militari statunitensi ai prigionieri di Guantanamo, Bagram,
Abu Ghraib e altri centri di detenzione, Washington cerca, nei casi in cui è possibile, di
consegnare formalmente i prigionieri alle «autorità» nazionali. Così, quando verranno alla
luce altre prove di torture, saranno queste a risponderne. Allo stesso tempo i prigionieri
continueranno ad essere in mani statunitensi: lo conferma il fatto che le guardie afghane del
centro di detenzione di massima sicurezza di Pol-i-Charkhi sono state scelte e addestrate da
forze speciali USA, esperte in tecniche di tortura. Formalmente quindi essi passeranno, con
il beneplacito dell’ONU, «dalla custodia militare degli Stati Uniti a quella delle autorità
afghane».
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Afghanistan. 26 marzo. Ai prigionieri trasferiti da Guantanamo, Bagram e altri centri di
detenzione statunitensi, si aggiungeranno quelli che saranno catturati nell’operazione
Achille della NATO/ISAF e in altre future operazioni militari. A Pol-i-Charkhi, riferisce
sempre Francesco Battistini, potrebbe essere finito anche Rahmatullah Hanefi, il mediatore
di Emergency arrestato dai servizi afghani dopo la liberazione del giornalista
Mastrogiacomo e che, come riporta Teresa Strada, è già stato torturato con scosse elettriche
e anche, secondo la testimonianza di un agente ferito in un attentato raccolta dall’inviato di
PeaceReporter Enrico Piovesana «pestato ben bene». Tutto questo sotto la copertura del
«programma giustizia», finanziato e realizzato dal governo italiano per «rispondere
adeguatamente alla diffusa domanda di giustizia in Afghanistan nel rispetto degli standard
internazionali sui diritti umani».
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Venezuela. 26 marzo. «Interveniamo simultaneamente in 16 proprietà per riscattare, come
stabilisce la legge, un totale di 330.796 ettari e renderli di nuovo produttivi per
l’allevamento del bestiame a un doppio scopo, carne e latte. Metteremo fine al latifondo».
Con queste parole il presidente Hugo Chávez ha lanciato la nuova fase della riforma agraria
«per il recupero delle terre incolte» sulla base della Costituzione del 1999 che all’art. 307
definisce il latifondo «contrario all’interesse sociale». «Le terre fertili improduttive», ha
aggiunto Chávez, «violano i principi della giustizia, del diritto, della sovranità e della
difesa del paese (...) Come potremmo uscire dal sottosviluppo se non ci mettiamo a lavorare
queste terre, se non le promuoviamo con le tecnologie e gli investimenti?». Possidenti
armati sospettati di narcotraffico avrebbero, secondo fonti dell’esercito, tentato di impedire
le operazioni. Scontri, senza vittime, con una pattuglia di soldati a Hato Morichalito, nello
stato di Apure. Dal 1999, anno del primo mandato di Chávez, il governo ha riscattato quasi
due milioni di ettari di terre «per il 49%», ha precisato il presidente, «ridistribuiti tra i
‘campesinos’, per il 40% utilizzati in programmi strategici di interesse nazionale e per
l’11% affidati a cooperative».
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Germania. 27 marzo. Fusione a sinistra: nasce die Link, dei socialisti dell’est e dei
dissidenti socialdemocratici dell’ovest. A sancirlo sarà il congresso (si parla del 16 giugno)
di fondazione del partito. Intanto i congressi della Linkspartei-Pds (partito della sinistra –
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partito del socialismo democratico, radicato a est) e della Wasg (alternativa elettorale per il
lavoro e la giustizia sociale, guidata da Oskar Lafontaine), riuniti a Dortmund il 24 e il 25
marzo, hanno approvato il patto di fusione, superando il quorum del 75% richiesto. La
fusione dovrà poi essere confermata da un referendum tra gli iscritti. Ombre sui punti
programmatici. Non è chiaro cosa significhi «socialismo democratico», cui entrambi i partiti
dichiarano di aspirare nei «punti fondamentali per il programma», approvati a maggioranza
semplice (un programma più circostanziato seguirà nel 2008). La Wasg, contrariamente a
quanto farebbero pensare le sue origini socialdemocratiche e sindacali (vi aderiscono anche
gruppi di provenienza trotzkista) tende a formulazioni più radicali di quelle «realpolitiche»
in uso tra i socialisti dell’est. La Wasg chiedeva di rinunciare, in caso di partecipazione a
governi di coalizione come nella regione di Berlino, a privatizzazioni e a licenziamenti di
massa nel pubblico impiego. È passata una formulazione più blanda, che impone di non
privatizzare i servizi pubblici «essenziali» (quali?) e ripudia licenziamenti «che peggiorino
le prestazioni per i cittadini». Restano escluse –ma sibillinamente si precisa: solo «nelle
condizioni attuali»–, missioni di combattimento all’estero, anche se sotto copertura ONU.
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Egitto. 27 marzo. Il referendum è stato una farsa per coprire il suo golpe bianco boicottato
dall’opposizione (i Fratelli Musulmani in primis), ma il presidente Mubarak in tv si è detto
«soddisfatto» dei risultati. Il referendum emenda a suo piacere 34 punti della costituzione.
Gli emendamenti comprendono la facoltà del presidente di sciogliere il Parlamento,
l’aumento dei poteri dati alle forze dell’ordine nelle indagini per contrastare i fenomeni di
«terrorismo» e le restrizioni di attività politiche ai movimenti religiosi. Al voto di ieri
avrebbe partecipato, secondo il ministro della giustizia, Mamdouh Mareli, il 27.1%. Stime
più realistiche parlano del 5%. I sì sono stati il 75.9%. L’associazione dei giudici ha detto
che boicotterà la supervisione legale delle prossime consultazioni elettorali non volendo più
essere «la foglia di fico di simili vergogne».
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Egitto. 27 marzo. Ogni paese «ha il suo modo di applicare la democrazia». Così il
segretario di Stato USA, Condoleezza Rice, ha benedetto questa sorta di golpe bianco. Le
manifestazioni di protesta contro il referendum organizzata dall’opposizione sono da giorni
duramente represse dalle forze dell’ordine, che hanno attaccato i dimostranti in diverse zone
della capitale e anche in altre città. Gli elettori erano chiamati a votare la modifica di 34
articoli della Costituzione per il rafforzamento dei poteri della polizia e l’avvio di una
successione familiare: dal presidente Hosni, al potere dall’81, al figlio Gamal.
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Egitto. 27 marzo. Mubarak si garantisce il regno e gli USA la stabilità. Gli emendamenti a
34 articoli della Costituzione istituzionalizzano la violazione dei diritti umani e di alcune
libertà fondamentali. «L’opposizione è stata strangolata dalla maggioranza, il paese sta
entrando in un tunnel senza luce», commenta Abdel Wahab Al Messiri, coordinatore del
movimento per la democrazia Kefaya (composto da attivisti politici di sinistra, nasseriani,
liberali ed islamici moderati) che nei giorni scorsi aveva esortato gli egiziani a manifestare
contro le autorità. Protestano anche i Fratelli musulmani (che in parlamento hanno 88
deputati), certi di essere tra gli obiettivi principali delle modifiche liberticide. Mubarak
aveva fretta di raggiungere l’obiettivo, dopo aver ottenuto il via libera di fatto di
Washington. L’amministrazione Bush dopo aver blandamente sostenuto, nei due anni
successivi alla occupazione dell’Iraq, la «democratizzazione del Medio Oriente», Egitto
compreso, è tornata a privilegiare la «stabilità» che garantiscono i regimi autoritari e brutali
suoi alleati nella regione.
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Egitto. 27 marzo. Gli articoli osteggiati dall’opposizione, dalle organizzazioni per i diritti
umani e dagli attivisti politici sono in particolare l’88 e il 179. Nella sua versione emendata
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il primo prevede che il controllo del processo elettorale non sia più responsabilità dei
giudici, fino a questo momento garanti della correttezza del voto, ma di una commissione
«indipendente» incaricata dall’esecutivo. In occasione delle elezioni legislative del 2005, 13
giudici denunciarono brogli e scorrettezze, entrando in aperto conflitto con le autorità: uno
scenario che non si ripeterà più. Con il secondo, invece, le leggi d’emergenza in vigore
dall’81 –dopo l’assassinio di Sadat– sono diventate una legge costituzionale “antiterrorismo”. Promulgate ogni tre anni, l’ultima volta nella primavera del 2006, le leggi
d’emergenza permettono alle autorità egiziane di arrestare qualsiasi cittadino, disporne la
detenzione senza limiti di tempo e processarlo di fronte a un tribunale militare.
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Egitto. 27 marzo. La legge costituzionale 179 trasformerà definitivamente l’Egitto in uno
stato di polizia prevedendo l’esecuzione di arresti, perquisizioni, controlli della
corrispondenza e intercettazioni telefoniche. Tutto senza alcuna autorizzazione della
magistratura. A preoccupare i Fratelli musulmani è l’art. 5: l’emendamento approvato vieta
l’esistenza di partiti politici di ispirazione religiosa, in aperta contraddizione con l’art. 2
secondo cui «L’Islam è la religione dello Stato, la lingua araba è la sua lingua ufficiale, la
sharia (la legge islamica, ndr) è la fonte principale della legislazione». Il nuovo art. 62
escluderà dal processo elettorale i candidati indipendenti, con una formula che impone
l’aggregazione in partiti politici, oltre a stabilire una «quota rosa», mentre l’art. 76, già
emendato prima delle presidenziali del 2005, è stato ulteriormente modificato: potranno
presentare un candidato alla guida del paese i partiti che hanno almeno cinque anni di vita e
controllano il 3% dei seggi in Parlamento. Ma il regime di Mubarak ha anche detto addio a
quel poco che rimaneva del carattere socialista dello Stato egiziano, per abbracciare con
passione l’economia di mercato. «Con le leggi d’emergenza, in vigore da oltre trent’anni,
molti diritti costituzionalmente garantiti erano stati congelati, ma almeno esistevano in
principio. Adesso, con la riforma, le libertà personali saranno limitate dalla costituzione
stessa», ha commentato amaro il costituzionalista Hassan Nafaa. Ne è certamente persuaso
Abdel Karim Suleimam, il giovane blogger arrestato nelle scorse settimane e incarcerato per
aver raccontato ciò che accade nel paese e per aver cercato di conquistare spazi di
espressione che il regime di Mubarak non intende concedere, ora più che mai.
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Russia / Cina. 27 marzo. È arrivato stamane a Mosca il presidente cinese Hu Jintao, per
una visita di tre giorni che ricambia quella di un anno fa a Pechino del presidente russo
Vladimir Putin. I leader dei due Paesi hanno in programma di discutere il rafforzamento
della cooperazione energetica e commerciale, attraverso la firma di una serie di contratti per
un valore fino a circa quattro miliardi di dollari, nei settori del petrolio e del gas,
dell’acciaio, dell’immobiliare e in quello navale. Pacchetti di accordi economici anche nei
settori bancario, doganale e dei trasporti. Firmato anche un accordo per l’esplorazione del
pianeta Marte. Quella di Jintao in Russia è la sua terza visita come leader cinese. Gli esperti
concordano sul destino sempre più interdipendente dei due giganti, Russia e Cina. Quanto ai
contenziosi ideologici e territoriali che all’epoca sovietica avevano portato sull’orlo del
confronto armato le due potenze comuniste (le divergenze, nate nel 1957, erano culminate
nel 1969 addirittura in scontri alle frontiere) restano ma vengono per ora accantonati. Jintao
e Putin concordano infatti sulla necessità di ribadire una visione multipolare dei rapporti
internazionali in chiara opposizione all’«unilateralismo» perseguito dalla Casa Bianca.
Qualche dissidio rimane sull’equilibrio dell’interscambio, per la Russia troppo spostato sul
versante energetico (56% del totale): Mosca vorrebbe esportare anche macchinari utensili e
prodotti elettronici (in quel settore l’export è calato del 2%), ma Pechino sembra lanciata per
conto proprio verso l’ammodernamento tecnologico.
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Russia / Cina. 27 marzo. La questione vera in ballo tra Hu e Putin è proprio l’energia. La
portata dei contratti che i due leader potrebbero teoricamente finalizzare è enorme: di fatto è
in discussione l’assetto del mercato mondiale dell’energia, con il primo venditore e il
secondo compratore mondiale che devono mettersi d’accordo per far combaciare le
rispettive esigenze. Queste ultime sono rimaste finora, a dispetto della logica, relativamente
distanti: la Russia vende il grosso del suo petrolio e del suo gas ad altri (paesi europei, USA,
Sud America), mentre la Cina compra il grosso del petrolio e del gas di cui ha bisogno da
altri (Iran, Angola, Sudan, Nigeria, Arabia Saudita). Non si tratta di cifre piccole: oggi
Pechino importa circa 4 milioni di barili di petrolio al giorno, Mosca ne esporta circa 5
milioni. Ai prezzi correnti, un milione di barili corrisponde a 63 milioni di dollari, 50
milioni di euro: Mosca cioè incassa oltre 90 miliardi di euro all’anno dal petrolio che vende,
Pechino spende oltre 72 miliardi per quello che compra. Ma l’interscambio petrolifero tra i
due è molto modesto, solo 300mila barili/giorno, che viaggiano solo su interminabili
convogli di vagoni-cisterna lungo la ferrovia transiberiana. E in passato l’interscambio era
quasi nullo: ancora nel 2000, sette anni fa, il volume dell’export russo in Cina era di soli
26.000 barili/giorno.
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Russia / Cina. 27 marzo. Ora il quadro è radicalmente cambiato: grazie ai redditi da
petrolio e gas la Russia può affrontare l’ipotesi di investire molto nello sviluppo dei
giacimenti del suo estremo oriente (petrolio nella Siberia orientale, gas e petrolio off shore
lungo la costa dell’isola di Sakhalin), da dove le linee di pipelines verso la Cina sarebbero
(saranno) più corte e meno costose. Mentre il terrificante sviluppo economico cinese obbliga
Pechino a investire in Russia, e al tempo stesso glielo consente. In Russia continuano ad
esserci però resistenze e intoppi burocratici al decollo dei megacontratti con Pechino; Mosca
vorrebbe che tali contratti si accompagnassero a massicci investimenti cinesi nello sviluppo
generale delle infrastrutture e dell’industria russe; c’è poi chi teme che possano rivelarsi
contratti capestro, come è stato per le joint ventures varate negli anni ‘90 con le
multinazionali occidentali, che oggi il Cremlino sta annullando una dopo l’altra (ma a
prezzo di grandi rischi di credibilità sui mercati e di un crescente isolamento politico).
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Russia / Cina / Iran. 27 marzo. La Russia e la Cina sono convinte che il problema del
dossier nucleare iraniano «debba essere risolto esclusivamente con mezzi politici»: lo hanno
sottoscritto in una dichiarazione congiunta i presidenti Vladimir Putin e Hu Jintao durante la
visita a Mosca del leader cinese. Entrambi non gradiscono le pressioni di Washington su
Teheran, ma entrambi hanno votato sabato in Consiglio di sicurezza dell’ONU le nuove
sanzioni. Mosca e Pechino cercano di investire in Iran, ma in concorrenza tra loro e con fini
diversi. La Russia vorrebbe legare a sé politicamente gli iraniani, e per questo sta tirando la
corda della cooperazione nucleare; la Cina vuole solo garantirsi approvvigionamenti
energetici. Entrambe le posizioni sono connesse al negoziato diretto Cina-Russia: rallentare
il nucleare iraniano, come sta facendo Mosca in modo ben più efficace degli USA,
bloccando la costruzione della centrale di Bushehr, significa in prospettiva diminuire le
capacità di export petrolifero di Teheran e, quindi, aumentare la richiesta cinese di petrolio
russo; investire nel settore energetico iraniano, come ancora ieri i cinesi hanno detto di voler
fare, significa andare in direzione opposta.
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USA. 27 marzo. Washington alza la tensione nel Golfo Persico. Con l’arrivo della portaerei
USS John C. Stennis (CVN 74), è partita la più grande esercitazione aero-navale mai
condotta nel Mare Arabico dal 2003, anno di inizio della guerra in Iraq. La notizia, diffusa
dall’ufficio stampa della stessa Stennis, precisa che alle manovre prende parte un’altra
portaerei della Quinta Flotta, la USS Dwight D. Eisenhower (CVN 69). L’esercitazione vede
per la prima volta impegnate in una stessa operazione i due gruppi d’attacco aeronavali.
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Obiettivo: addestrare entrambe le unità da combattimento a pianificare e dirigere operazioni
congiunte. La coreografia e l’imponenza numerica e qualitativa voluta dal Pentagono sono
evidentemente volte a mostrare ancora una volta i muscoli a Teheran. Un comunicato del
Comando navale USA (in Bahrein) ha del resto precisato che «avere un secondo gruppo
d’attacco qui serve di sostegno alle operazioni in corso in Afghanistan e in Iraq e a
rassicurare i nostri partners regionali». Anche la Francia ha appena mandato una portaerei
nel mare Arabico, la Charles de Gaulle, per sostegno alle sue operazioni in Afghanistan. In
risposta l’Iran ha moltiplicato le esercitazioni militari nel Golfo, le ultime in corso in questi
giorni.
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Venezuela. 27 marzo. Chávez espropria altri 330 mila ettari «improduttivi». Mandando i
militari, il presidente Hugo Chávez ha espropriato altri 330.000 ettari di latifondi
«improduttivi» (sono già 2 milioni) nell’ambito della riforma agraria. «Una nuova offensiva
rivoluzionaria per produrre alimenti per il popolo», ha detto.
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Pakistan. 28 marzo. Forse il peggiore momento politico per Musharraf. La sospensione
improvvisa da parte del presidente Musharraf, il 9 marzo scorso, del capo della Corte
suprema con l’accusa di abuso di potere, non ha placato gli animi. Iftikhar Mohammad
Chaudhry, presidente della Corte suprema, era più volte entrato in rotta di collisione con
l’esecutivo: sia per la sua ostinazione nel cercare di vederci chiaro nelle «renditions» alla
pachistana (imprigionamenti e desaparacidos legati alla “guerra al terrorismo”), sia per via
dell’annullamento di una grossa operazione di privatizzazione che riguarda il primo gruppo
siderurgico nel paese. Azioni che gli hanno messo contro una parte del Pakistan e,
soprattutto, i servizi segreti che non amano si ficchi il naso nei loro affari. A capo della
protesta, la Lega musulmana pachistana (Pml) e il Partito popolare pachistano (Ppp) degli ex
primi ministri Nawaz Sharif e Benazir Bhutto, entrambi condannati all’esilio dopo il golpe
incruento del 1999 che portò al governo il generale Musharraf. L’opposizione, che raccoglie
ampie fasce sociali (inclusi giornalisti, avvocati, attivisti e militanti politici della società
civile), vede la sospensione del giudice Chaudhry come attacco incostituzionale contro
l’indipendenza dell’ordinamento giudiziario. Molti giudici, in nome dell’indipendenza
dell’ordinamento giudiziario pakistano, si sono dimessi e gli avvocati hanno iniziato il
boicottaggio delle udienze per protestare contro gli abusi delle forze dell’ordine nei
confronti dei dimostranti, per le pressioni fatte sulla stampa perché non venga riportata la
cruenza degli eventi, per essere Musharraf al servizio degli Stati Uniti e, appunto, per le sue
ingerenze ai vertici dell’ordinamento giudiziari pakistano. Manifestazioni di piazza che
stanno attraversando l’intero paese, da nord a sud e da est a ovest.
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Pakistan. 28 marzo. Musharraf sta per affrontare le elezioni che si svolgeranno a fine anno
e avrebbe la tentazione, anziché aspettare l’esito incerto delle politiche, di farsi riconfermare
il mandato dal parlamento uscente dove controlla la maggioranza. Una mossa che non
sarebbe piaciuta a Chaudhry, il presidente della Corte suprema sospeso. La scelta di
Musharraf ha finito per suscitare le ire anche della coalizione di partiti islamisti, la potente
Muttahida Majlis-e-Amal (MMA), al potere in due province del paese e, in quella del
Baluchistan, al governo proprio col partito di riferimento del generale, la Lega musulmana
(Pml Quaid-e-Azam). Se le proteste dell’opposizione laica erano scontate (il Partito
popolare della Bhutto e la fazione della Lega che fa capo all’ex premier Nawaz Sharif
esautorato con un golpe incruento nel 1999), quelle della MMA –scesa in piazza ieri coi suoi
leader– sono il sintomo della tensione mai sopita tra gli islamisti, di cui Musharraf cerca i
voti, e un presidente che si barcamena tra l’essere fedele alleato occidentale e insieme
campione dell’identità pachistana.
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Pakistan. 28 marzo. La tensione resta alta mentre alle critiche interne si vanno
aggiungendo quelle degli Stati Uniti, che ritengono tra l’altro Musharraf colpevole di fare
troppo poco nelle aree tribali pachistane regno dei neo-taliban. Musharraf sta perdendo il
controllo della parte occidentale del Paese: dal Kashmir al Baluchistan passando per le
Province nord occidentali e per i distretti tribali ad autonomia federale. Oltre al Kashmir,
regione musulmana contesa all’India dal 1948 dove esiste un forte movimento separatista, la
rivolta arriva dalla provincia del Baluchistan, terra di frontiera a forte aspetto
indipendentista, dove Musharraf accusa l’India di aiutare la guerriglia indipendentista che da
anni cova il sogno di un Baluchistan nazione. Fuori controllo anche i distretti tribali del
Waziristan. Quel che accade qui e nelle altre aree tribali ricalca pericolosamente quanto già
visto in Afghanistan. I gruppi armati taliban e movimenti uzbeki sembrano essere diventati i
padroni incontrastati della regione. Un territorio così impervio che nemmeno l’invio di
70mila soldati o l’alleanza con tribù filo-governative ha permesso al governo di avere la
meglio sui filo-talebani e dove Musharraf è costretto a piegarsi a estemporanee e isolate
trattative di pace. Una sorta di resa condizionata, come il patto firmato recentemente con gli
anziani capi tribali del Bajaur, una delle sette aree tribali federate del Pakistan dove hanno
trovato rifugio numerosi elementi di al-Qaeda. Patti di pace già firmati tra il 2005 e il 2006
con le tribù del Waziristan del sud e del nord, che non hanno impedito il propagarsi degli
scontri con l’esercito pakistano e non hanno fermato l’ingresso di guerriglieri dalla regioni
vicine. Ma la minaccia al potere di Musharraf non arriva solo dalle regioni di frontiera.
Spesso parte dalle moschee e dalle scuole coraniche, dal cuore stesso della capitale,
Islamabad.
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Brasile / Italia. 28 marzo. Accordo da 480 milioni di dollari per la costruzione di 4
raffinerie per produrre etanolo, il nuovo business dei biocombustibili estratti da grano e mais
spacciato per benzina «verde». Lo hanno sottoscritto, ieri, a Brasilia, il primo ministro
italiano Romano Prodi ed il presidente brasiliano Lula. Giorni fa durante la sua visita anche
lo statunitense Bush aveva stretto «una partnership strategica» con in Brasile (insieme
producono il 70% del totale mondiale).
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Venezuela / Cina. 28 marzo. Più petrolio venezuelano per l’economia cinese. Il presidente
Chávez e Li Chuangchun, membro del Politburo del Partito comunista cinese, hanno firmato
a Caracas numerosi accordi per la vendita del petrolio del Venezuela alla Cina: 300mila
barili al giorno entro il 2007, un milione entro il 2012. Caracas vuole rompere la dipendenza
dalla vendita del suo petrolio agli USA.
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Arabia Saudita. 29 marzo. Vertice arabo, a Riyadh. L’assenza del leader libico Muammar
al-Gheddafi –che riferendosi ai capi arabi ha detto che non fanno altro che eseguire gli
ordini di Washington– ha creato scalpore. Nel momento in cui il segretario dell’ONU, Ban
Ki-Moon, ha iniziato a parlare, il presidente siriano Bashar Assad e i delegati iraniani hanno
abbandonato l’aula, per esprimere il loro dissenso verso un personaggio che si sta rivelando
sempre più come portavoce della Casa Bianca piuttosto che come rappresentante degli
interessi della cosiddetta comunità internazionale.
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Arabia Saudita. 29 marzo. «Nell’Iraq scorre il sangue di fratelli all’ombra di
un’illegittima occupazione straniera ed i conflitti religiosi minacciano di scatenare una
guerra civile». Queste le dichiarazioni del re Abdallah al vertice arabo di Riyadh,
sorprendenti se non le si connette con il tentativo di protagonismo regionale saudita
concorrenziale a quello egiziano. Fino a pochi mesi il regime si era apertamente opposto ad
un ritiro in tempi stretti delle truppe di occupazione dall’Iraq. Potrebbe essere una ritorsione
per l’indecisione che gli USA mostrano nel dare il loro appoggio agli iracheni sunniti contro
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la maggioranza sciita. Re Abdallah ha anche lanciato un appello per l’interruzione del
boicottaggio internazionale contro il governo palestinese di unione nazionale e ha criticato
apertamente il Libano per la sua crisi politica interna. Martedì il premier libanese Fuad
Siniora, che pure vanta strette relazioni con la monarchia saudita, all’aeroporto ha trovato ad
attenderlo solo il vice governatore di Riad. Stessa sorte è toccata al presidente Emil Lahoud,
al quale è stata negata la guardia d’onore prevista per tutti i capi di Stato.
•
Arabia Saudita. 29 marzo. Se Israele non accetterà l’iniziativa araba del 2002 (pace in
cambio del ritiro dai territori occupati), sarà esposto alle minacce dei «signori della guerra».
Lo ha detto, in un’intervista, il ministro degli esteri Saud al-Faisal, il grande manovratore
del vertice di Riyadh. Come dire: «quello che era in nostro potere fare nel mondo arabo, lo
abbiamo fatto». L’Arabia Saudita sta facendo il possibile, anche sul fronte palestinese, per
confermarsi la vera piazza diplomatica della regione e per ridimensionare il ruolo
dell’Egitto. Nella bozza di risoluzione riferita oggi dalla stampa non viene cancellata la
risoluzione 194 dell’ONU che sancisce il diritto al ritorno nei luoghi di origine per i
profughi palestinesi della guerra del 1948, diritto che USA e soprattutto Israele vorrebbero
eliminare dal testo della risoluzione finale del summit. Si ribadisce inoltre che la strada per
la soluzione del conflitto in Medio Oriente passa per l’accettazione da parte del governo di
Ehud Olmert del ritiro totale dello Stato ebraico dai territori siriani (Golan) e palestinesi che
ha occupato nel 1967, in cambio della pace con l’intero mondo arabo. Afferma anche che la
parte araba di Gerusalemme sarà la capitale dello Stato di Palestina che non potrà avere
confini «provvisori», come vorrebbero statunitensi e israeliani. Si tratta però solo di
dichiarazioni perché sul terreno le cose potrebbero andare in una direzione diversa, alla luce
degli interessi contrastanti tra i leader arabi. Secondo non pochi osservatori,
l’amministrazione Bush avrà un controllo ancora più ampio del Medio Oriente, anche se
gestito meno in prima persona e più attraverso i suoi alleati. L’amministrazione Bush allo
stesso tempo ha bisogno di qualche risultato, anche simbolico, per poter affermare di aver
riavviato il suo «impegno per la pace» e il segretario di Stato Condoleezza Rice ritiene di
aver raggiunto l’obiettivo con l’annuncio fatto ieri a Gerusalemme che il premier israeliano
Olmert e il presidente palestinese Abbas (Abu Mazen) si sono messi d’accordo per
incontrarsi ogni due settimane, al fine di discutere di questioni «quotidiane», ma anche di
«prospettive politiche» per un futuro accordo di pace.
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Russia / USA / Iraq. 29 marzo. In concomitanza con il vertice arabo, da Mosca è arrivato
un messaggio di Vladimir Putin, che, sull’Iraq, ha detto che vanno posti «chiari limiti
temporali alla presenza militare straniera».
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USA. 29 marzo. Rumsfeld, per le torture su 9 prigionieri di Abu Ghraib, è colpevole ma
«non perseguibile». L’ex capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, è stato liberato dall’accusa
che due organizzazioni per la difesa dei diritti umani –Aclu e Human Rights First– avevano
presentato contro di lui in nome di nove ex prigionieri di Abu Ghraib, che hanno subito
ugualmente il trattamento vigente in quel luogo senza nemmeno che nessun crimine fosse
mai stato loro contestato. Nella loro denuncia raccontavano che i loro aguzzini li hanno
picchiati, appesi al soffitto a testa in giù, urinato addosso, applicato scosse elettriche,
umiliati sessualmente, bruciacchiati in varie parti del corpo, praticamente sepolti in cellette
in cui non potevano neanche muoversi e terrorizzati con false esecuzioni. La motivazione
con cui il giudice federale Thomas Hogan ha dichiarato la sua non punibilità è sconcertante:
«questo caso è deplorevole», dice Hogan nella sua requisitoria di 58 pagine; «sarebbe bello»
avere la possibilità di «usare il tribunale per correggere gli abusi di potere», ma
«nonostante l’orrore che le accuse suscitano» non ci sono i mezzi legali per perseguire
Rumsfeld e gli altri. Hogan dice che il caso è «senza precedenti», ma lui si è studiato i casi
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in qualche modo simili e in essi ha trovato la «fonte» per respingere la richiesta di
processarli. Le basi sono due. Una è che i diritti costituzionali riconosciuti ai cittadini
statunitensi non necessariamente si applicano ai cittadini stranieri, specialmente se i fatti che
essi denunciano sono avvenuti fuori dal territorio nazionale come in questo caso. L’altra è
che Rumsfeld e gli altri devono essere considerati «immuni» perché la loro azione si è svolta
nell’ambito dell’«azione di governo». E per essere più specifico argomenta che consentire a
questo caso di andare avanti porrebbe il governo alla mercè di «ogni sorta di denunce
politiche».
•
Cuba. 29 marzo. Fidel contro l’uso dei carburanti derivati dai cereali. Il leader cubano si
scaglia contro Bush che li sta sponsorizzando: è «una tragedia», condanna «a morte
prematura per fame e sete oltre tre miliardi di persone nel mondo», con la sua «idea
sinistra» di trasformare gli alimenti in combustibile. Le critiche di Fidel, pubblicate in un
articolo sul quotidiano ufficiale Granma, «commentando» la recente riunione avuta da Bush
con le grandi industrie automobilistiche USA, si appuntano al progetto di sviluppo di
biocombustibili dal mais. Fidel Castro torna a prendere posizione sulle vicende mondiali,
per la prima volta da quando è stato costretto a cedere il suo incarico al fratello Raúl per
essere sottoposto, il 27 luglio scorso, a un delicato intervento chirurgico all’intestino.
•
Ecuador. 29 marzo. Prosegue l’incertezza politica. Il Tribunale Supremo Elettorale ha
destituito 57 deputati per essersi opposti al referendum di aprile sull’indizione di
un’assemblea costituente. Un giudice, Juan José Ramirez, ha ora accolto il ricorso dei 57
deputati destituiti, ma è stato a sua volta destituito dal Tribunale Elettorale. Ieri i
parlamentari espulsi hanno tentato di entrare ancora una volta nella sede del parlamento, ma
sono stati respinti da circa un centinaio di poliziotti schierati di fronte agli ingressi.
•
Somalia. 30 marzo. Elicotteri etiopici abbattuti dalla guerriglia a colpi di missili terra aria e
morti a Mogadiscio in guerra. Lo si apprende da fonti certe a Nairobi. Uno è stato abbattuto
ed è precipito poi nella zona dell’aeroporto internazionale, sembra non su zone abitate;
morto tutto l’equipaggio. L’altro è riuscito ad atterrare nonostante fosse seriamente
danneggiato. La guerriglia sta dando duro filo da torcere al governo e alle truppe etiopiche,
sue alleate, oltre ogni aspettativa. E questo malgrado i rinforzi giunti in aiuto delle truppe di
Addis Abeba. Tutti e due gli elicotteri stavano operando sul vecchio stadio, nell’area nord di
Mogadiscio, quartiere Towfiik, dove sono asserragliate truppe di Addis Abeba e
governative. Gli elicotteri stavano agendo in supporto alle truppe. Intanto si apprende anche
che sono in arrivo altri 200 soldati etiopici, attesi nella capitale già in giornata. Mogadiscio è
stata teatro, ieri, di una nuova giornata di guerra; la rabbia è esplosa contro i soldati etiopici.
La battaglia infuriata nella capitale avrebbe fatto almeno 13 morti con la conseguenza di far
saltare il fragile cessate-il-fuoco concordato sabato e frutto dei negoziati tra il principale
clan di Mogadiscio, gli Hawaiye, e il governo di transizione. La rabbia della popolazione ha
infierito sui corpi di due soldati etiopici, caduti insieme con altri 5 nei combattimenti, allo
stesso modo in cui la violenza fu inflitta la scorsa settimana su due soldati somali morti. Un
congresso di riconciliazione nazionale è in programma a Mogadiscio dal 16 aprile al 16
giugno. Ma dopo la violenza delle ultime settimane la situazione appare compromessa.
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Ucraina. 30 marzo. Iushenko avrebbe firmato lo scioglimento del parlamento. Lo scrive
l’agenzia ucraina elettronica ForUm, e lo confermano anche agenzie di stampa russe, che
consultazioni sono in corso al momento fra presidente e premier. Il presidente ucraino
Viktor Iushenko avrebbe firmato un decreto per lo scioglimento della Rada, il parlamento
ucraino, dopo mesi di braccio di ferro con il governo della vecchia guardia del premier
Viktor Ianukovic, salito al potere grazie ai dissidi interni alla ‘coalizione arancione’.
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Secondo ForUm, il vicepresidente della Rada Adam Martiniuk ha ottenuto una copia del
documento, che giustifica il decreto di scioglimento con il fatto che la coalizione di
maggioranza è stata formata in ritardo rispetto ai tempi costituzionali e non in linea con le
norme previste. Sulla piazza Maidan teatro della ‘rivoluzione arancione’ che aveva sconfitto
lo stesso premier Ianukovic, si sta innalzando un palco per una manifestazione delle
opposizioni arancioni in programma domani. Ma anche il Partito delle regioni di Ianukovic
ha rivolto un appello ai suoi sostenitori perché raggiungano il centro di Kiev, e si temono
disordini. La crisi politica ucraina va avanti dalle elezioni del marzo 2006, che avevano
sancito un risultato ambiguo, con la maggioranza relativa al Partito delle regioni di
Ianukovic, un risicato vantaggio per la vecchia coalizione arancione e il sorpasso di
Timoshenko sul partito Nostra Ucraina di Iushenko. Le liti fra il presidente e la ‘pasionaria’
sulla guida del governo e la defezione dell’allora alleato socialista Aleksandr Moroz
avevano portato al potere Ianukovic. Ma la coabitazione si è rivelata molto problematica, e
ha finito per favorire un riavvicinamento fra Iushenko e Timoshenko.
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Russia. 30 marzo. Modifiche costituzionali per ampliare a 5 o 7 anni il mandato
presidenziale e consentire a Putin una rielezione per una terza volta. Lo ha rilanciato oggi il
presidente del consiglio della Federazione (senato russo), Serghei Mironov, non nuovo a
questo genere di proposta. Allo stato, secondo la costituzione, chi siede al Cremlino ha un
mandato quadriennale e non più di due mandati consecutivi. Nel marzo del 2008 si terranno
in Russia le elezioni presidenziali alle quali, in base all’attuale costituzione, il presidente
Vladimir Putin non potrebbe ricandidarsi.
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Egitto. 31 marzo. Hosni Mubarak ammette che al referendum popolare di lunedì scorso
hanno votato ben pochi egiziani: il 27% per le autorità, appena il 5% per l’opposizione e le
organizzazioni per la difesa dei diritti civili. Ciò che invece il presidente egiziano non ha
riconosciuto è che i 34 emendamenti, approvati in poche ore, dopo un dibattito
inconsistente, dall’Assemblea del Popolo dominata dai deputati del suo partito (Pnd), hanno
introdotto nella stessa Costituzione le gravi violazioni dei diritti umani e politici già
contenuti nella legge d’emergenza in vigore dal 1981 che il «rais» ora intenderebbe
revocare. Le proteste accese delle opposizioni laica e islamica, che hanno boicottato il voto,
hanno convinto gran parte dell’elettorato a non recarsi alle urne. Ben pochi governi hanno
reagito a quanto è avvenuto e il presidente egiziano ancora una volta sente di poter fare ciò
che vuole nel suo paese. Il Segretario di stato USA, Condoleezza Rice, dopo aver
timidamente criticato l’approvazione degli emendamenti, si è poi corretta affermando che
ogni paese «ha la sua democrazia». Tace anche il governo italiano, preoccupato
evidentemente di non turbare le relazioni con un partner economico e commerciale
importante come l’Egitto.
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Iraq. 31 marzo. Torna a farsi sentire il mullah Moqtada al-Sadr. Ieri, dal suo ufficio a
Bagdad, il religioso ha lanciato un appello affinché la giornata del 9 aprile veda una grande
manifestazione «contro l’occupazione». Per USA e governo di Bagdad il 9 aprile 2003 è il
«Giorno della Liberazione». La presa di posizione di al-Sadr preoccupa i militari USA che
negli ultimi tempi avevano goduto di una tregua con il mullah e le sue milizie. Ieri mattina
l’aviazione USA ha bombardato il quartiere di al-Sadr, a caccia di ribelli, e ha ucciso 16
persone. Un’altra mattanza che non può che aver infiammato vieppiù l’animo del mullah.
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Nepal. 31 marzo. Maoisti nel nuovo governo ad interim con cinque ministri. L’annuncio è
venuto da Ram Chandra Poudel, segretario generale del Partito del Congresso Nepalese,
principale forza dello Stato hymalaiano. A capo del governo, formato da sette partiti politici
nepalesi e dai maoisti, ci sarà Girjia Prasad Koirala, il premier ottantaduenne che guida il
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paese dall’aprile scorso. Secondo l’agenzia Nepalnews, il partito del congresso di Koirala, i
maoisti e l’UML prenderanno 5 ministri ognuno; l’NCD 3 ministeri mentre il People’s
Front, United Leftist Front e Nepal Sadbhavana Party-Anandidevi (NSP-A) avranno un
dicastero a testa. Le elezioni generali si terranno a giugno. Il voto dovrà eleggere
un’Assemblea incaricata di redigere una nuova Costituzione e pronunciarsi sul futuro della
monarchia nepalese.
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