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R e spons a bi l i tà
ci v ile e
pr e v i de nz a
rivista mensile di dottrina,
giurisprudenza e legislazione
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07
diretta da
Giovanni Iudica – Ugo Carnevali
L X X I I — g e n n a i o 20 07 , n° 01
01
| e st rat to
Infedeltà coniugale e
danno esistenziale
di Francesco Bilotta e Paolo Cendon
Dott. A. Giuffrè Editore
Milano
giurisprudenza
FAMIGLIA
| 7 SEPARAZIONE CONIUGALE,
OMOSESSUALITÀ, RISARCIMENTO DEL
DANNO
Trib. Brescia, 14 ottobre 2006 - Pres. e Rel. Ondei
Famiglia - Separazione giudiziale - Lesione di diritti fondamentali - Danni non patrimoniali Danno esistenziale - Responsabilità civile - Risarcibilità - Equità.
(c.c. artt. 143, 1226, 2043, 2059)
Il comportamento del coniuge, cui e`addebitata la separazione, lesivo dei diritti fondamentali
dell’altro coniuge, e`fonte di un’obbligazione risarcitoria, anche con riguardo ai danni non patrimoniali e in particolare esistenziali.
[In materia si vedano Cass. civ., 10 maggio 2005, n. 9801; Cass. civ., 1 marzo 2005, n. 4290;
Trib. Milano, 4 giugno 2002; Trib. Milano, 10 febbraio 1999; Trib. Firenze, 13 giugno 2000; Trib.
Roma, 17 settembre 1989]
F A T T O . - 1. Con ricorso depositato il giorno 10 aprile 2002 il sig. B. nato a P. (Bs) il ... 1959,
premesso che aveva contratto matrimonio, in L. (Bg) il ... 1988, con la sig.ra C. nata a L. (Bg) il ...
1966, che dall’unione non erano nati figli e che da tempo la convivenza tra i coniugi era diventata
intollerabile chiedeva la pronuncia della separazione giudiziale.
2. All’udienza avanti il Presidente del Tribunale del 28 maggio 2002 il Presidente, esperito
invano il tentativo di conciliazione, in via provvisoria autorizzava i coniugi a vivere separati assegnando la casa coniugale al sig. B.
3. La sig.ra C. si costituiva chiedendo la dichiarazione della separazione giudiziale con addebito al marito assumendo che costui aveva violato l’obbligo di fedeltà. Chiedeva, inoltre, che le
fosse riconosciuto un assegno di mantenimento a carico del marito e che le fosse riconosciuto
un danno esistenziale di cui chiedeva il risarcimento.
Il ricorrente replicava contestando il fondamento delle richieste della resistente.
4. Indi la causa veniva istruita con l’acquisizione di documentazione e l’escussione di testimoni.
Esaurita l’istruttoria, all’udienza del giorno 1o giugno 2006 le parti precisavano le conclusioni
come in epigrafe riportato e la causa veniva trattenuta in decisione con concessione alle parti dei
termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e di memorie di replica.
Il Pubblico Ministero, intervenuto, concludeva come in epigrafe indicato.
D I R I T T O . - 5. La sussistenza dei requisiti per la separazione.
Ritiene il Collegio che, ex art. 151 c.c., deve pronunciarsi la separazione giudiziale dei coniugi
— tenuto conto dell’evidente disarmonia creatasi tra gli stessi cosı̀ come emerge dal ricorso e
dalla comparsa di costituzione e risposta nonché dalla pacifica cessazione della convivenza tra i
due — con conseguente facoltà dei coniugi di vita separata ed obbligo di mutuo rispetto.
5.1. L’addebito.
Con riguardo alla domanda di addebito della separazione al sig. B avanzata dalla sig.ra C. va
rilevato quanto segue.
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Parte ricorrente fonda la sua istanza essenzialmente sulla circostanza che il marito avrebbe
tradito la moglie allacciando relazioni amorose con altri uomini violando cosı̀ l’obbligo coniugale
di fedeltà (art. 143 c.c.).
Orbene, come è noto, per verificare se la separazione sia addebitabile o no ad uno dei coniugi
occorre svolgere un’indagine sulla causa della intollerabilità della convivenza, indagine che non
può basarsi sull’esame di singoli episodi di frattura, ma deve derivare dalla valutazione globale
dei reciproci comportamenti, quali emergono dal processo (Cass. 6 febbraio 2003, n. 1744) al fine
di verificare se e quale incidenza abbiano rivestito i comportamenti dei due coniugi, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi coniugale (Cass. 23 marzo 2005, n. 6276) salvo il caso
in cui un coniuge abbia tenuto una condotta che si sia tradotta in un’aggressione a beni e diritti
fondamentali della persona quali l’incolumità e l’integrità fisica morale e sociale dell’altro coniuge perché tale condotta sfugge ad ogni giudizio di comparizione non potendo in alcun modo
essere giustificata neppure come atto di reazione o ritorsione rispetto al comportamento dell’altro (Cass. 19 maggio 2006, n. 11844, Cass. 2005 n. 6276 cit., Cass. 2004 n. 15101, Cass. 2002 n.
8787; Cass. 1989 n. 5397; Cass. 1988 n. 6976; Cass. 1987 n. 6256; Cass. 1982 n. 176; Cass. 1981 n.
5949; Cass. 1980 n. 5372 e Cass. 1978 n. 2809).
A ciò si aggiunga, poi, che la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei
doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale
violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale, ovvero se
essa sia intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza
sicché in caso di mancato raggiungimento della prova che il comportamento contrario ai doveri
nascenti dal matrimonio tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato la causa del fallimento della convivenza, deve essere pronunciata la separazione senza addebito (in punto cfr. 28
settembre 2001, n. 12130 ma anche Cass. 19 settembre 2006, n. 20256).
Nel caso in scrutinio è pacifico che il sig. B. ad un certo punto ha confessato alla moglie convivente di aver avuto una relazione omosessuale ed ha cessato di avere rapporti sessuali con la
stessa (v. dich. rese in sede di interrogatorio formale dal sig. B.): dopo tale episodio i coniugi
hanno compreso che era impossibile continuare a convivere sicché la sig.ra C. si è allontanata
dalla casa familiare mentre il sig. B. è andato a vivere con un uomo (v. dich. B., e testi S. e ...).
Da ciò deriva chiaramente la violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 143 c.c. da parte del
sig. B. e in assenza di altri elementi, la sicura rilevanza causale e giuridica di tale circostanza
sulla crisi del vincolo coniugale.
Conseguentemente la separazione va addebitata al sig. B.
6. L’obbligo di concorso nel mantenimento.
La sig.ra C. ha chiesto al Tribunale di disporre l’obbligo per il coniuge di contribuire al mantenimento della stessa con versamento di assegno mensile.
Ora ai sensi dell’art. 156 c.c. il coniuge che pretende il concorso nel mantenimento da parte
dell’altro coniuge deve dimostrare soltanto di non aver adeguati redditi propri idonei a permettergli di mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio a differenza di quanto, invece,
previsto in materia di divorzio dall’art. 5 l. 898/70 e succ. mod. ove si condiziona il diritto al fatto
che il richiedente non possa procurarsi propri redditi per ragioni oggettive.
E del resto come ben spiegato da Cass. n. 5555/2004 a differenza del divorzio la separazione
instaura un regime che tende a conservare in maggior misura possibile gli effetti propri del matrimonio compatibili con la cessazione della convivenza e, quindi, anche il tenore ed il tipo di vita
di ciascuno dei coniugi.
Principiando lo scrutinio delle condizioni economiche delle parti con riferimento ai proventi
derivanti dalle rispettive attività lavorative va evidenziato che la sig.ra C. durante la vita matrimoniale svolgeva e tuttora svolge attività lavorativa cosı̀ come il sig. B. e che i redditi netti goduti
dai coniugi dal 2000 al 2005 ad eccezione del 2002 sono sostanzialmente equiparabili. Infatti nell’anno 2000 il reddito netto del sig. B. è stato di lire 22.680.000 circa mentre quello della sig.ra C.
è stato di lire 23.379.000 circa; nel 2002 il reddito netto del B. è stato di E 16.387,00 mentre quello
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della C. è stato di E 13.184,00; nel 2003 il reddito netto di B. è stato di E 16.149,00 mentre quello
della C. di E 14.784,00 e, infine, nel 2005 il reddito del marito è stato di E 18.217,00 mentre quello
della moglie di E 16.288,00.
Ne deriva che le minime differenze tra i redditi percepiti dai due coniugi non giustificano in
alcun modo il riconoscimento di un assegno di mantenimento a favore della moglie.
7. L’assegnazione della casa coniugale.
In sede di udienza presidenziale, proprio perché la sig.ra C. si era allontanata dall’abitazione
familiare, era stata disposta l’assegnazione dell’abitazione al marito sennonché tale provvedimento va revocato non sussistendo gli estremi di legge che lo possono giustificare ossia la presenza di figli minori e/o non economicamente non autosufficienti conviventi con il padre (in tal
senso cfr., tra le tante, Cass. 6 luglio 2004, n. 12.309).
8. Il risarcimento del danno non patrimoniale da violazione dei doveri matrimoniali.
Infine va esaminata la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale avanzata dalla
sig.ra C. nei confronti del marito.
La resistente, in particolare, chiede il risarcimento del cd. danno esistenziale consistente nella
compromissione della propria complessiva sfera di esplicazione personale invitando il Tribunale
ad una liquidazione equitativa del medesimo.
8.1. Principi generali.
Il Tribunale non ignora che la giurisprudenza di legittimità meno recente ha sempre escluso
ogni forma di risarcimento del danno in caso di addebito di separazione adducendo che la condotta dei coniugi sarebbe regolata in via esclusiva dal diritto di famiglia in applicazione del principio lex specialis derogat legis generalis sicché alle condotte in violazione dei doveri matrimoniali
non conseguirebbe alcun obbligo risarcitorio bensı̀ l’addebito (Cass. 6 aprile 1993, n. 4.108, Cass.
26 maggio 1995, n. 5886): e ciò anche al fine di evitare che nell’isola del diritto di famiglia trovi
spazio un istituto tipicamente conflittuale quale quello della responsabilità extracontrattuale.
Tuttavia tenendo conto delle radicali modifiche intervenute recentemente nel settore dell’illecito aquiliano (Cass., Sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, Cass. 31 maggio, n. 8828, Cass. 31 maggio n.
8827, Corte costituzionale 233/2003 e Cass., Sez. un., 24 marzo 2006, n. 5672) la questione dell’inadempimento degli obblighi matrimoniali va affrontata secondo un diverso angolo prospettico.
Infatti se all’ingiustizia del danno è affidato il ruolo della selezione degli interessi meritevoli di
tutela ed il danno ingiusto coincide con la violazione di qualunque bene meritevole di tutela alla
luce dell’ordinamento giuridico, allora non si comprende per quale ragione tale meritevolezza
deve essere esclusa nelle relazioni tra sposi.
Se poi a ciò si aggiunge che la nozione di danno è stata sganciata dalla dimensione meramente patrimoniale e dal necessario collegamento con l’art. 185 c.p. e si è sancita l’inviolabilità
della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana (cfr. Cass. 8828/
2003 cit.) con correlata disciplina del danno non patrimoniale attraverso il disposto dell’art. 2059
c.c. (Corte cost. 233/2003) ne consegue la possibilità in astratto di ottenere il riconoscimento dei
danni non patrimoniali da violazione dei doveri matrimoniali.
Infatti il rispetto della dignità e della personalità, nella sua interezza, di ogni componente del
nucleo familiare assume il connotato di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente della famiglia costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo
da un lato ritenersi che i diritti definiti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari
si pongano o meno all’interno di un contesto familiare (e ciò considerato che la famiglia è luogo
di incontro e di vita comune nel quale la personalità di ogni individuo si esprime, si sviluppa e si
realizza attraverso l’instaurazione di reciproche relazioni di affetto e di solidarietà, non già sede
di compressione e di mortificazione di diritti irrinunciabili) e dovendo, dall’altro lato, escludersi
che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio riceva la propria sanzione, in nome di una
presunta specificità, completezza ed autosufficienza del diritto di famiglia, esclusivamente nelle
misure tipiche previste da tale branca del diritto (quali la separazione e il divorzio, l’addebito
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della separazione, la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale nel caso di allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare), dovendosi, invece, predicare una strutturale compatibilità degli istituti del diritto di famiglia con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, con la conseguente, concorrente rilevanza di un dato comportamento sia ai fini
della separazione o della cessazione del vincolo coniugale e delle pertinenti statuizioni di natura
patrimoniale, sia quale fatto generatore di responsabilità aquiliana (in tal senso v. anche, da ultimo, Cass. 10 maggio 2005, n. 9801).
Certo non ogni violazione di obbligo coniugale comporta il diritto al risarcimento del danno
ma solo quella posta in essere attraverso condotte che, per la loro intrinseca gravità, si pongano
come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona e che, pertanto, comporta una
grave lesione dell’esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana ossia quella lesione
che in un certo senso va a toccare proprio l’in sé della persona e non aspetti marginali della
stessa: il tutto ovviamente all’interno di un bilanciamento delle posizioni dei coniugi volto ad accordare tutela all’interesse costituzionalmente prevalente.
8.2. Il caso di specie.
Ora se prendendo le mosse dai principi sopra enunziati si va a scrutinare il caso oggetto di
controversia appare agevole osservare come la condotta infedele del sig. B. laddove ha cagionato
la definitiva rottura di una comunione di vita che durava da circa 14 anni ha vulnerato gravemente la personalità della sig.ra C. non solo nell’aspetto della sua dignità (art. 2 Cost.) ma anche
nella dimensione familiare-sponsale della sua personalità frustrando ogni possibile e legittima
aspettativa in ordine alla piena esplicazione della stessa.
Sicché, anche alla luce dell’id quod plerumque accidit e di presunzioni derivanti dalla comune
esperienza quotidiana, può concludersi per la sussistenza del danno non patrimoniale denunziato dalla sig.ra C.
8.3. La qualificazione del danno non patrimoniale.
La quantificazione di tale danno appare difficile ditalché il giudice può legittimamente richiamare la disposizione dell’art. 1226 e darne una quantificazione equitativa.
Orbene, il Tribunale rilevato
da un lato: I) che la vita matrimoniale della C. è iniziata quando la stessa aveva una giovane
età (22 anni) e la convivenza si è conclusa dopo ben 14 anni (quando la C. era ormai donna matura con un programma di vita impostato); II) che la scoperta dell’infedeltà omosessuale del marito oltre al grave vulnus alla dignità della persona sopra descritto ha pure creato una situazione
di grave turbamento — dovuto al legittimo sospetto di aver contratto qualche grave malattia a seguito di rapporti sessuali con il marito (v. dich. teste V.) — che ha sicuramente alterato negativamente la qualità della vita della sig.ra C. per un consistente periodo di tempo;
e dall’altro lato che, in ogni caso, il vulnus subito dalla sig.ra C. seppur grave non può ritenersi
tale da permanere nella sua gravità per tutta la vita essendo destinato ad attenuarsi sempre più
nel tempo sino quasi a scomparire,
tutto ciò rilevato reputa equo quantificare il danno non patrimoniale subito dalla sig.ra C. in
complessivi ed attualizzati E 40.000,00 oltre interessi legali dalla pronunzia della presente sentenza al saldo.
9. Le spese di lite.
Stante l’addebito della separazione, ex art. 91 c.p.c. il ricorrente va condannato a rifondare alla
resistente le spese di lite quantificate — tenuto conto della natura e dell’oggetto della causa, della
durata del processo, della attività istruttoria svolta, delle tariffe professionali e della nota spese
depositata — in complessivi E 4.700,00 di cui E 200,00 per spese, E 100,00 per diritti, E 3.000,00
per onorari ed E 500,00 per spese forfettarie oltre accessori di legge. (Omisiss).
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INFEDELTÀ CONIUGALE E DANNO ESISTENZIALE
L’azione aquiliana può essere esperita dal coniuge che abbia subito un tradimento, in ragione del quale sia
venuta meno la comunione materiale e spirituale che sorreggeva il rapporto coniugale, purché vi sia la
prova della malafede o della colpa grave dell’altro coniuge circa la propria omosessualità. La sentenza in
commento, pur recependo correttamente gli orientamenti recenti della dottrina e della giurisprudenza in
materia, lascia fortemente perplessi sia in merito alla ricorrenza dell’illecito subito dal coniuge tradito, sia
in merito alla quantificazione del danno esistenziale risarcito.
Sommario 1. Il fatto. — 2. L’infedeltà e la responsabilità civile tra coniugi. — 3. L’elemento soggettivo: la necessità della malafede o della colpa grave. — 4. Il danno esistenziale nella separazione. — 5. I criteri per la
quantificazione del danno esistenziale.
1. IL FATTO
Dopo quattordici anni di matrimonio, un marito confessa alla moglie di aver avuto di
una relazione sessuale con un’altra persona e le comunica di voler troncare il rap- Francesco Bilotta
porto coniugale. Non omette di riferire nessun particolare — soprattutto non tace alla
consorte un « dettaglio » che si rivelerà essenziale durante il giudizio di separazione: Ricercatore di diritto
privato presso
egli la lascia non già a causa di un’altra donna, bensı̀ di un uomo.
l’Universita` di Udine
Non è la prima volta che si ha notizia in Italia di un caso del genere. Qualche
tempo fa la Corte di Cassazione aveva affrontato la vicenda di una donna siciliana la e di
quale si era separata dal marito dopo aver stretto una relazione con un’altra donna (1); Paolo Cendon
anche qui, al coniuge « fedifrago » era stata addebitata la separazione.
Occorre allora — primo punto — allontanare dai due episodi (per certi versi simili) Professore ordinario di
diritto privato presso
il sospetto di una consapevole omofobia presso i giudicanti. Siamo nel terzo millennio: l’Universita` di Trieste
difficile immaginare che la magistratura possa, in un evento umano del tutto profondo e spontaneo, com’è quello del sentirsi attratti da un essere del proprio sesso,
ravvisare il presupposto tecnico per l’addebito. La verità è che, in entrambe le occasioni, l’impossibilità di protrarre la vita coniugale era discesa, principalmente, dal fatto
che i protagonisti del breakdown avevano costruito relazioni sentimentali, più o meno
intense e durature, al di fuori dal matrimonio; erano stati cioè « infedeli ». Il che
avrebbe portato verosimilmente all’addebito della separazione, stanti alcuni requisiti
di base, pure in caso di una relazione extraconiugale eterosessuale.
È questo un punto da sottolineare con nettezza: laddove passasse, nella law in action, il messaggio secondo cui la semplice circostanza di dichiararsi omosessuali, dopo
aver contratto matrimonio, è destinata a preludere ad un addebito della separazione
o, peggio, (come nel caso di specie) a minacciare condanne al risarcimento del danno
esistenziale o morale subito dall’altro coniuge, molte persone sarebbero spaventate,
ancor più di quanto non avvenga attualmente, nel rivelarsi all’esterno come gay e le(1)
Cass. civ., 1 marzo 2005, n. 4290, in Foro it.,
2005, I, 3002.
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sbiche — onde poter finalmente cominciare un’esistenza serena, consona al proprio
io, da un punto di vista affettivo e sociale (2).
Qualcuno potrebbe obiettare: un individuo che sia gay sa perfettamente di esserlo,
dentro di sé, o avrebbe comunque dovuto accorgersene prima di sposarsi; pertanto,
se ha contratto matrimonio, il fallimento dello stesso non potrà non essergli messo a
carico. Vedremo subito cosa pensare di tutto ciò, ma intanto: ragionare cosı̀ appare in
linea di massima sbagliato — almeno ove si pretenda di saltare tanto risolutamente
alle conclusioni. Ciò che viene a postularsi in quel modo (ecco la forzatura) è una
sorta di automatismo ingiustificato, pressoché apodittico, tra il dato oggettivo dell’inclinazione omosessuale e quello soggettivo della consapevolezza della stessa.
La verità, basta documentarsi, è che ancora ai giorni nostri (per le ragioni più diverse: morali, ambientali, familiari, educative, sociali, culturali, religiose, etc.) non
sempre le persone omosessuali sanno compiutamente di esserlo; non in tutti i casi ciò
avviene ed è abbastanza logico che cosı̀ sia — tenuto conto dei tempi che viviamo e
degli atteggiamenti e stereotipi diffusi all’intorno. Riconoscersi come « non etero » in
un contesto come quello italiano, dove tanti cascami ambientali e antropologici parlano ancora di peccato, dileggio, anormalità, repressione, diffidenza, vituperio, denigrazione, condanna morale, può essere tutt’altro che facile o invitante, e questo per
una significativa maggioranza di esseri umani. Spesso all’interessato (non mancano le
statistiche in proposito) ci vogliono anni di analisi, mentre qualche volta basterà lasciar fare all’amore; talora è sufficiente un episodio solo, di passione o di scambio platonico, o ancor meno, un’occhiata, una festa, un errore — d’improvviso quello che era
sconosciuto a se stessi diventa un tratto concreto, insopprimibile.
Che fare allorquando una scoperta del genere abbia luogo mentre è ancora in
piedi, formalmente, il matrimonio, magari dopo che sono già venuti al mondo dei figli? La soluzione per il diritto, osserviamo, non potrà addirittura rovesciarsi. Siamo
talmente ciechi di fronte alla realtà che preferiamo (ecco il punto) non vedere quante
persone di entrambi i sessi, in ogni parte del mondo, mettano fine più o meno repentinamente, ogni giorno, all’esperienza matrimoniale e comincino a vivere una nuova
quotidianità con una creatura del proprio sesso — scegliendo di condividere con l’ex
coniuge, da quel momento in poi, il mantenimento e l’educazione dei figli nati dalla
precedente unione?
Vi sono casi in cui l’ex moglie e il nuovo compagno restano/diventano amici fra
loro. Esistono però situazioni, come quella decisa dal tribunale di Brescia, in cui il
confine tra giustizia e vendetta mostra di farsi velato, impercettibile.
La sentenza in esame lascia alquanto perplessi, allora, stante la vaghezza e laconicità della motivazione intorno ai presupposti di fatto da cui il collegio è stato indotto
ad accogliere la domanda risarcitoria del danno esistenziale, lamentato dalla moglie
tradita (danno liquidato nella somma considerevole di 40.000 Euro). Da un punto di
vista formale si tratta di una decisione decorosa, scritta in buon « giuridichese », ma è
come se mancasse un pilastro, quello dei fatti, ossia la premessa minore del sillogismo. Dalla considerazione in astratto circa la risarcibilità del pregiudizio conseguente
(2)
Sulla questione omosessuale e sulla sua rilevanza giuridica si rinvia a Bilotta, Diritto e omosessualità, in I diritti della persona. Tutela civile, pe-
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nale e amministrativa, (a cura di) Cendon, Vol. I,
Torino, 2005, 375-397.
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all’infedeltà coniugale, si trascorre (fin troppo disinvoltamente) alla condanna aquiliana del « traditore » — senza passaggi intermedi che chiariscano al lettore se esistano, quali siano, quanto valgano o incidano, fino a che punto risulterebbero provati
i presupposti della condanna.
Più in generale: un vuoto di motivazione circa l’an della responsabilità, unitamente
alla mancanza di prova sul quantum del risarcimento, finisce per trasformare l’intero
provvedimento in una sorta di presidio oggettivo per le ragioni nostalgico/conservatrici di quanti — pur sconfessati a più riprese dalla giurisprudenza sia di merito che
di legittimità — continuano a predicare l’alternatività/incompatibilità tra rimedi di carattere gius-familiare e lex Aquilia (3).
Della decisione lombarda non si può dire, sulla carta, né che si tratti di un esito
corretto, né che sia un sentenza intrinsecamente sbagliata: siamo dinanzi semplicemente a un verdetto oscuro, poco comprensibile — per tutto quanto verrà detto nel
prosieguo. È bene soffermarsi, infatti, su alcuni punti poco chiari della vicenda. Occorre in particolare verificare: a) se l’infedeltà coniugale possa, in sé, essere considerata elemento giustificativo per la condanna risarcitoria; b) se, a quel fine, occorra l’evidenza di un comportamento in malafede, tale da aver inciso su diritti fondamentali
dell’altro coniuge; c) una volta chiarite le caratteristiche del fatto illecito, sarà necessario chiedersi quale tipo di danno sia qui risarcibile.
Qualche parola, infine, sulla quantificazione del danno operata dal Tribunale: un
passaggio, occorre dire, che lascia trasparire sbrigatività e ingenuità davvero sconcertanti — un misto di preconcetti congeniti e totale disinformazione circa i rapporti correnti tra omosessualità e rischio di contagio di malattie sessualmente trasmissibili.
2. L’INFEDELTÀ E LA RESPONSABILITÀ CIVILE TRA CONIUGI
Il tema dei domestic torts è diventato importante da non molti anni, nel dibattito teorico e nella pratica giudiziaria italiana. Insieme all’altro grande tabù, quello della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale, esso andrà affrontato, rileviamo, alla luce di un motivo ben preciso: una volta che al centro dell’or(3)
Contrario al riconoscimento del danno esistenziale in famiglia è M. Finocchiaro, La ricerca
di tutela per la parte più debole non deve « generare » diritti al di là della legge, in Guida al diritto
2002 (24), 49, nonché Morozzo Della Rocca, Violazione dei doveri coniugali: immunità o responsabilità?, in Riv. crit. dir. priv., 1988, II, 605, salvo il caso
di danni morali derivanti da illeciti penali. Cass.
civ., 6 aprile 1993 n. 4108, la lesione lamentata —
la perdita di quei vantaggi che sul piano economico
si traggono dalla comunione delle entrate e delle
spese — è collegata allo status di coniuge in quanto
tale, e non già all’individuo, che all’interno della famiglia trova o dovrebbe trovare la piena realizzazione e crescita esistenziale.
In senso diametralmente opposto, Cass. civ., 10
maggio 2005, n. 9801, con cui la Corte ha riconsiderato il proprio orientamento in merito alla cumula-
bilità dei rimedi di carattere aquiliano con quelli tipici del diritto di famiglia, alla luce della considerazione che, se la famiglia è luogo di autorealizzazione e di crescita per i singoli componenti, ciò
vuol dire che le prerogative di ciascuno trovano
« riconoscimento e tutela prima ancora che come
coniugi, come persone in adesione al disposto dell’art. 2 Cost. », che impone il rispetto dei diritti fondamentali degli individui anche nelle formazioni
sociali ove si svolge la loro personalità. Da tale assunto la Corte trae un ulteriore corollario — che è
poi il cuore stesso della pronuncia — la lesione di
un diritto fondamentale legittima il suo titolare alla
proposizione di un’azione per il relativo risarcimento, anche quando la violazione si è perpetrata
all’interno del nucleo famigliare da parte di uno
dei componenti dello stesso.
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dinamento privatistico salga la persona umana, con le sue molteplici componenti affettive, culturali, sociali, etiche, ludiche, etc., la responsabilità civile assume ipso facto
le vesti di un istituto pronto a « entrare » dappertutto — ovunque si manifesti, nelle
vittime, il bisogno di un qualche riscontro in ordine all’aggressione di interessi « giuridicamente rilevanti », tali da non essere difendibili in altro modo.
È noto poi come — all’apparire sulla scena delle prime sentenze di merito che accoglievano istanze riparatorie, avanzate in sede di separazione giudiziale — si siano
levate alte le voci di sconcerto di quanti temevano (e continuano a temere) che attraverso il risarcimento venga a reintrodursi nel sistema, surrettiziamente, un meccanismo di carattere sanzionatorio: una deriva di politica del diritto capace, si accampa, di
minare presto o tardi la libertà dei coniugi di sciogliere il vincolo matrimoniale (4).
Una sorta di ritorno al passato insomma.
A fronte di simili obiezioni, è stato facile ai più accorti osservare (e tanto potrà bastare qui) come la responsabilità civile si candidi, pressoché sempre, a operare quale
strumento residuale di tutela — nel senso che in tanto sarà possibile risarcire, ex art.
2043 c.c., ripercussioni connesse con la separazione dei coniugi, in quanto il fatto che
ha dato luogo all’addebito integri formalmente gli estremi dell’illecito, di cui alla clausola generale di responsabilità (5).
Detto altrimenti: la condotta del coniuge cui la separazione è addebitata dovrà presentarsi tale, sulla carta, da rendere plausibile il ricorso a un’azione risarcitoria anche a
prescindere dalla separazione. Non si vede davvero — salvo alcune sfumature e correzioni disciplinari (soprattutto in punto di criteri d’imputazione) — per quale ragione un
comportamento tenuto in spregio ai diritti di un individuo cui non si è legati da alcuna
relazione giuridica dovrebbe sempre legittimare un’azione risarcitoria, mentre allo
stesso esito non potrebbe mai pervenirsi qualora vittima sia il proprio coniuge.
Bisognerà in definitiva distinguere fra loro a) il comportamento offensivo che genera la pronuncia di addebito, dalla b) compromissione dei diritti fondamentali del
coniuge — tra cui rientra certamente il diritto alla realizzazione personale, come marito, come moglie, come genitore (6).
(4)
Cosı̀, M. Finocchiaro, La ricerca di tutela per
la parte più debole non deve « generare » diritti al di
là della legge, cit., 49.
(5)
Cendon e Sebastio, Lei, lui, il danno. La responsabilità civile tra coniugi, in questa Rivista,
2002, 1257 e ss., dove è possibile rintracciare una
ricca bibliografia sul tema e moltissimi riferimenti
giurisprudenziali, anche in fattispecie diverse dall’infedeltà, originanti una responsabilità endofamiliare.
(6)
« Prendiamo l’esempio forse di maggior spicco
in materia, l’addebito nella separazione fra coniugi.
Quest’ultima misura — con i vari riflessi suscettibili
di conseguirne (in punto di assegno di mantenimento, o di esclusione dei diritti ereditari) — scatterà in tutti i casi in cui il venir meno della comunione materiale e spirituale, cioè l’intollerabilità
della convivenza tra gli sposi, appaia imputabile
alla condotta violativa degli obblighi fra marito e
moglie. Il baricentro è posto cioè dall’ordinamento
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sul comportamento offensivo.
Viceversa, ecco il punto, il risarcimento appare
un mezzo destinato a entrare in gioco là dove sia
stato leso l’individuo, in quanto tale — sotto il profilo statico o dinamico, reddituale o meno, fisico
come psichico: allorché risultino compromesse, in
particolare, l’esplicazione e la realizzazione della
sua personalità (anima e corpo), per colpa di un familiare. Il fuoco disciplinare appare riferito, insomma, alle condizioni peculiari della vittima.
Nella prima ipotesi la funzione essenziale è
quella assistenziale/solidaristica (e ciò vale anche
per assegno divorzile); nella seconda quella reintegratoria/sanzionatoria.
Non a caso si è parlato in dottrina (considerando
la diversità di rationes tra norme del primo e, rispettivamente, del quarto libro) di « concorso formale »
o di « pluri-antigiuridicità » dell’illecito — con riguardo alle situazioni in cui il gesto, da censurare
sul piano aquiliano, sia tale da integrare al tempo
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Su quest’ultimo punto — osserviamo — è opportuno soffermarsi brevemente, per
chiarire un passaggio centrale della vicenda, e inquadrare cosı̀ correttamente la pronuncia del Tribunale bresciano.
Allorché un matrimonio finisce, la situazione di vuoto e sconforto in cui piomba,
tanto spesso, il coniuge disponibile a continuare la relazione (quello che, fino ad un attimo prima, era più o meno ignaro del precipizio sull’orlo del quale il ménage stava camminando) appare del tutto naturale. E tanto più lo è ove colui il quale ha preso la decisione di troncare il vincolo sia lo stesso soggetto che confessa adesso, inopinatamente,
di aver messo in piedi un’altra storia; si può ben indovinare lo scompiglio destinato a ingenerarsi nel progetto di vita del partner abbandonato — tanto più dove, solo in quell’attimo, costui si avveda dell’orientamento sessuale proprio del marito o della moglie.
Se ci si proietta, allora, nel futuro (e si prendono in considerazione gli scombussolamenti che un distacco sentimentale può determinare) è palese come la separazione
costituisca, pressoché sempre, fonte di danni esistenziali. Avrebbero ragione, in un’ottica del genere, quanti sostengono che il risarcimento tende qui ad assumere una funzione esclusivamente punitiva — funzione, in realtà, che non solo apparirebbe ingiustificata nell’ambito in esame, ma che risulterebbe tale altresı̀ da urtare contro la ratio
della legislazione in materia di separazione e divorzio (sistema improntato al principio
della libera scelta, per ciascuno dei coniugi, circa il destino della loro unione).
Il risarcimento si inserirebbe infatti in un contesto atto a legittimare l’addebito —
una conseguenza tenuta presente dal legislatore in fattispecie siffatte.
Il punto è che, come sempre, il danno da risarcire deve essere una realtà attuale. Il
venir meno all’obbligo di fedeltà di cui all’art. 143 c.c. dovrà essere stato tale, in particolare, da aver compromesso la vita dell’altro coniuge a prescindere dalla decisione di
separazione. E ciò in un duplice senso.
Da un lato, è facile immaginare situazioni in cui l’infedeltà mostra di urtare contro
il dovere di cui all’art. 143 c.c. — ed è tale da calpestare, nel contempo, una diversa
posizione giuridica soggettiva. Consideriamo alcuni casi di illeciti civili plurioffensivi.
Il tradimento potrebbe, in ipotesi, essere all’origine della trasmissione di una malattia
venerea (7); ebbene qui, oltre al dovere di fedeltà, a risultare violato sarà il diritto all’integrità fisica del soggetto: e non si vede perché mai il coniuge tradito, nonché leso
nella propria salute, non potrebbe agire, oltre che per l’addebito della separazione,
anche per il risarcimento del danno.
stesso la violazione degli obblighi matrimoniali.
Detto altrimenti. Sappiamo come il vittorioso
esercizio del rimedio familiare, qualora una lesione
(del diritto soggettivo) della persona si sia verificata, non basterà — di regola — a neutralizzare o
ad assorbire il danno eventuale, presso il singolo
coniuge », cosı̀ Cendon e Sebastio, Lei, lui, il danno,
cit., 1280-1281.
(7)
Risponde di omicidio colposo il coniuge che,
consapevole di essere affetto da AIDS, intrattiene
rapporti sessuali con l’altro coniuge senza informarlo dei relativi rischi e senza adottare alcuna
precauzione, con conseguente contrazione della
malattia da parte dello stesso coniuge, il quale successivamente a causa di esse sia venuto a morte:
Cass. pen., 14 giugno 2001, n. 30425, in Riv. pen,
2001, 924; in Guida al diritto, 2001, 33, con nota di
Amato. Due recenti sentenze del Tribunale di Firenze 17 gennaio 2006 e del Tribunale di Bologna,
17 febbraio 2006, di prossima pubblicazione in
questa Rivista, hanno qualificato penalmente la
trasmissione dell’HIV, come lesioni personali gravissime. Il contagio avvenuto per via sessuale si
era verificato al di fuori del rapporto coniugale.
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È chiaro come questa rappresenti l’ipotesi più semplice, peraltro mai esclusa dalla
Cassazione — dalla quale è stata spesso tenuta presente l’eventualità che, in sede di
separazione, venga emergendo la sussistenza di un danno (patrimoniale o non patrimoniale) connesso con la violazione dei doveri coniugali (8).
Dall’altro lato — e si tratta della prospettiva più innovativa, cui è attenta la migliore
dottrina — al tradimento potrebbe accompagnarsi una marcata trascuratezza nei confronti della moglie o del marito, versante magari in situazioni di particolare vulnerabilità (come una malattia, fisica o psichica); oppure all’infedeltà potrebbero aggiungersi
lo scherno e l’umiliazione nei riguardi dell’altro coniuge, in forza delle modalità con
cui è stata condotta la relazione adulterina, e con l’effetto di ledere i diritti della personalità del consorte.
Solo in casi del genere, va sottolineato, potrà residuare un qualche spazio (rispetto
alla pronuncia di addebito) per l’azione di risarcimento del danno; altrimenti — come
non sembra sia il caso delle vicende prese qui in considerazione — è indubbio che le
misure del primo libro appaiono destinate a esaurire i rimedi privatistici a disposizione dell’offeso.
Qualora, come sostiene il collegio di Brescia, l’infedeltà (aggettivata pleonasticamente come omosessuale) diventasse in sé causa di un vulnus alla dignità del coniuge
tradito (sempre ammettendo che sia il dato dell’infedeltà a ledere la dignità, non già il
fatto di scoprire di avere un marito gay), allora, ogni qual volta vi fosse un addebito
dovuto ad un tradimento, dovremmo considerare automaticamente giustificata nella
vittima una reazione sul terreno risarcitorio. E ciò appare francamente eccessivo —
nonché contrario, lo si ribadisce, ai principi che governano l’istituto della separazione
coniugale.
3. L’ELEMENTO SOGGETTIVO: LA NECESSITÀ DELLA MALAFEDE O DELLA COLPA GRAVE
Per quanto l’omosessualità non sia, come ricordavamo in apertura, una causa cosı̀
rara di separazione tra due coniugi (tanto che sono riscontrabili precedenti giurisprudenziali), è questa la prima volta che si ha notizia, in sede di separazione, di un risarcimento del danno la cui spiegazione mostra di risiedere in nient’altro che nell’orientamento sessuale — poco ortodosso — del coniuge « infedele ».
Orbene: stando a quanto emerge dalla sentenza, non sembra davvero che nel copione bresciano il tradimento sia stato, di fatto, perpetrato con modalità tali da ledere
la dignità e il rispetto sociale della moglie. In considerazione della circostanza, tuttavia, che (di pari passo con l’accettazione sociale del fenomeno) si avranno presumibilmente altri casi simili in Italia, è bene chiedersi sin d’ora — sul terreno generale — se
siano immaginabili oggigiorno situazioni in cui non tanto il fatto del tradimento, bensı̀
(8)
La Corte di Cassazione non nega affatto la
configurabilità astratta della responsabilità civile
tra coniugi, ed ha affermato che « l’addebito della
separazione non rientra, per sé considerato, nel catalogo dei criteri di imputazione della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., determinando, nel concorso delle altre circostanze specificamente previste dalla legge, solo il diritto del co-
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niuge incolpevole al mantenimento e potendosi
quindi configurare la risarcibilità degli ulteriori
danni sole se i fatti che hanno dato luogo alla dichiarazione di addebito integrino gli estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di responsabilità espressa dalla norma ora citata », cosı̀ Cass.
civ., 26 maggio 1995, n. 5866.
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l’avvenuta scoperta della propria omosessualità, tale da indurre l’uno o entrambi a
porre fine alla vita matrimoniale, possa aprire la strada ad un giudizio risarcitorio.
A ben guardare, vi è un caso in cui l’omosessualità potrà legittimare sulla carta richieste di danno esistenziale: ed è l’eventualità in cui il consorte « diverso » — accortosi, a un certo punto, di obbedire a richiami e trasporti non compatibili con il vincolo
del coniugio (non comunque nei termini istituzionali originariamente immaginati) —
risulti aver avuto piena contezza o comunque forti e inequivoci sospetti, già prima del
matrimonio, di essere gay o lesbica.
Contrarre matrimonio significa, inutile dirlo, non soltanto « prendersi delle responsabilità » nei confronti del consorte e degli eventuali figli; vuol dire anche coinvolgere
un’altra creatura in un progetto di vita che è, per sua natura, esclusivo — nonché destinato a durare per un periodo indeterminato.
Entrambi i nubendi, proprio per la possibilità che si addivenga un giorno alla separazione e al divorzio, sanno ab origine come la decisione di impostare un percorso insieme potrebbe, da un momento all’altro, trovarsi messa in discussione. Nessuno dei
due, nella misura in cui non vive a Disneyland, ignora che gli investimenti affettivi/organizzativi coltivati anche per un numero di anni considerevole (nel caso di specie
quasi 14) potrebbero rivelarsi vani — ritrovarsi senza il calore di un focolare domestico — più o meno inaspettatamente.
È un tratto proprio dell’alea che ciascun partner, per parlare un linguaggio da quarto
libro, « si assume » inevitabilmente fin dall’inizio del rapporto; una specie di accettazione del rischio, o se si vuole di esercizio del diritto, oppure di consenso dell’avente diritto — magari un miscuglio di queste e di altre esimenti insieme: un quid storico « privilegiante » sul terreno dell’illecito, comunque, sufficiente per escludere la risarcibilità
del danno nell’ipotesi di relazione troncata per la volontà esclusiva di uno dei due.
Ben diversa (ecco la soglia della rilevanza aquiliana) la situazione di colui che, all’oscuro di retroscena di sorta, e passibile magari di appunti di ingenuità rispetto ai
fatti elementari della vita, si veda trascinato in una liaison ad opera di chi sa bene
trattarsi, per parte sua, di una mera finzione dal punto di vista erotico/affettivo — oppure ad opera di chi è al corrente di elementi autobiografici/pulsionali atti a spingerlo,
seriamente, a dubitare circa la serietà e autenticità del proprio disegno matrimoniale.
Il danno diventa qui tendenzialmente risarcibile.
Lo stesso varrà, di regola, nelle ipotesi di colpa grave — allorquando non ci si trovi
dinanzi all’intento del convenuto di costruire paraventi, più o meno cinici, di normalità/ortodossia (a scapito del benessere del partner), e risulti tuttavia che quel soggetto
disponeva in partenza, circa se stesso, di una galleria di indizi segreti tali da indurlo
quantomeno a sospettare circa le direzioni ultime, e più liquide e sognanti, del proprio universo.
Giochi erotici allora (anche solo adolescenziali) con persone del proprio sesso, concepiti non soltanto per scherzare, oppure reazioni istintive dinanzi a certi film, attrazioni e movimenti del mouse nel girare per internet, domande e provocazioni di amici
non proprio ciechi, e ancora risvegli, pensieri, tentazioni rispetto a vestiti e oggetti del
maquillage, o magari scelta dei libri, fumetti, sguardi per strada o al ristorante o all’aeroporto, rossori, palpiti, noia o mediocrità negli scambi con creature dell’altro sesso.
In ipotesi del genere, al « diverso », il rifugio nel matrimonio potrà prospettarsi talvolta — più o meno consapevolmente — come una copertura idonea a fornire tutte le
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patine di rispettabilità sociale che, in quanto gay o lesbica, l’interessato da solo ritiene
di non poter vantare od ostentare (o peggio di non meritare).
Non saremo di fronte magari, ogni volta, a un vero e proprio dolo eventuale (« non
sono sicuro al 100% che finirà male, mi rendo conto però che è probabile che cosı̀ accada, e comunque del mio partner poco mi importa: non dico di agire proprio per arrecargli del male, sono però ‘‘indifferente’’ di fronte al disagio cui andrà quasi certamente incontro; mi sposo lo stesso »); ci si troverà dinanzi, più spesso, a una colpa con
previsione (« vorrei proprio che non finisse disastrosamente, spero che qualche santo
provveda, che la cosa duri, che l’altro non sia infelice, in fondo un certo bene gliene
voglio; non sono affatto sicuro però che il mio ottimismo sia fondato e ragionevole:
nel dubbio scelgo comunque di sposarmi, vada come vada, soprattutto decido per il
momento di non dire niente »). Sempre in zona responsabilità si versa.
E non va sottovalutato, riguardo a queste varie situazioni, il peso del contesto sociale e culturale in cui il nostro Paese appare immerso tutt’oggi.
Ancora una volta: basta aprire il giornale — e non solo il bollettino delle cronache
parlamentari (con lo spettacolo dei vari rigurgiti conformistici che, periodicamente, si
riaffacciano). Specialmente in provincia, al nord come al sud dell’Italia, quella di dichiararsi e vivere alla luce del sole la propria omosessualità si annuncia, talora, come
una scelta « eroica », quasi utopistica: tanto più per quanto concerne gli uomini.
La via d’uscita più comoda? Quella — messa più o meno lucidamente in bilancio,
fin dall’inizio della storia — della doppia vita: una veste familiare, « alla luce del sole »,
di marito e tante volte anche di padre, integerrimo, specchiato, esemplare; e accanto
ad essa una dimensione « nascosta » (favorita oggi giorno da internet e dalle chat, affollatissime di professionisti, militari, preti, fidanzati, sposati) di gay o lesbica.
Tuttavia il fatto di indurre un’altra persona a intraprendere un percorso biografico
che non si potrà condividere fino in fondo, appare di per sé lesivo — occorre ribadire
— del diritto alla realizzazione personale della vittima.
Calando questa fattispecie nell’ambito del giudizio di responsabilità, è impossibile
non prendere in considerazione, allora, i profili dell’onere probatorio relativamente
all’elemento soggettivo — condizione necessaria per giungere ad una condanna risarcitoria.
A prima vista potrebbe sembrare che sia il coniuge abbandonato a dover fornire la
dimostrazione della consapevolezza, o dell’alto grado di probabilità che tale coscienza
vi fosse già prima delle nozze. Il fatto illecito, supportato dall’elemento soggettivo del
dolo o della colpa grave, sarebbe costituito, in quest’ottica, dal comportamento che è
stato tenuto dal coniuge omosessuale, nel corso del rapporto matrimoniale; comportamento di volta in volta suscettibile di sostanziarsi in un rifiuto ai rapporti sessuali, oppure nella costante richiesta di avere scambi solo di un certo tipo (« Brokeback Mountain » dovrebbe aiutare chi legge a comprendere a cosa ci si riferisce), ovvero nell’insistenza a non avere figli, e nei casi più eclatanti nel condurre una vita sessuale parallela con una persona del proprio sesso — a carattere saltuario, oppure con partner
occasionali, o magari a carattere stabile con un compagno o una compagna fissi.
In realtà, vari sono i motivi che fanno dubitare della correttezza di una tale regola
processuale.
Non è possibile dimenticare che il bene giuridico in gioco, ossia il diritto alla realizzazione personale del coniuge tradito, si trova collocato al livello più alto della scala
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degli interessi tutelati dall’ordinamento; né è pensabile che la violazione dello stesso
(che assumiamo perpetrata, qui, con chiara volontà o con una grave colpevolezza)
non trovi un suggello sul piano risarcitorio, solo per la nota difficoltà della prova dell’elemento soggettivo. Inoltre, a militare per la sussistenza dell’onere della prova in
capo al danneggiante sta, in qualche modo, la curvatura « negoziale » della vicenda
che andiamo considerando; sicché sarà tendenzialmente invocabile sul punto l’art.
1218 c.c.
Da ultimo, va considerato che, per ciò che concerne la responsabilità contrattuale,
la Suprema corte ha da tempo escluso che sia il danneggiato a dover dare la prova diretta dell’inadempimento, dovendosi semmai limitare ad « allegare » lo stesso.
Certo, si osserverà che un conto è la prova del fatto illecito nelle sue componenti
obiettive, un conto quella inerente all’elemento soggettivo. A parte il fatto però che,
muovendoci in ambito negoziale, il problema neppure si dovrebbe porre, va sottolineato come la ratio che ha indotto la giurisprudenza a creare tale regola probatoria,
in caso di danno da inadempimento, sia facilmente riproponibile nella materia che ci
occupa: il far ricadere sul danneggiato la prova dell’elemento soggettivo si traduce
nella garanzia, per il danneggiante, di non incorrere mai in una condanna risarcitoria
— il che, soprattutto in caso di illeciti dolosi, vanifica la norma che impone una reazione di fronte all’aggressione di interessi giuridicamente rilevanti, capaci di provocare un’alterazione negativa nella sfera giuridica della vittima.
Il ristoro del danno segna, in tal modo, una netta presa di posizione non tanto nei
confronti dell’omosessualità, bensı̀ nei confronti di un atteggiamento di disprezzo per
il compagno di vita — ridotto a semplice cosa, a strumento mondano, usato perché
non si ha il coraggio sociale (timidezza comprensibile beninteso: « Beato il paese che
ha molti eroi? No, beato il paese che non ha bisogno di eroi ») di vivere fino in fondo
ciò che si è.
Paradossalmente, il risarcimento dovrebbe, in frangenti del genere, contribuire a
rendere l’omosessualità una condizione di vita « normale » — che non abbisognerà di
coperture, come quella di un matrimonio di facciata, per poter essere vissuta.
4. IL DANNO ESISTENZIALE NELLA SEPARAZIONE
Una somma ragguardevole quella riconosciuta dal Collegio bresciano, in relazione a
un danno esistenziale effettivamente sussistente — benché, va ribadito, assolutamente non risarcibile (mancando la prova dell’elemento soggettivo, necessario per
l’illecito).
È appena il caso di precisare un aspetto, allora, onde evitare di incorrere in un equivoco. Se il danno esistenziale è tutt’uno con l’alterazione della quotidianità della vittima,
è palese come la fine della vita coniugale si atteggi quale evenienza idonea a modificare,
pressoché sempre, l’agenda quotidiana dei protagonisti della vicenda giuridica.
Come ogni voce lesiva, anche il danno esistenziale, pur sussistendo in concreto,
non è detto sia però risarcibile.
È come dire che, da parte dell’interprete, non si potrà indulgere ad alcun tipo di
automatismo (in generale in ambito aquiliano e, in particolar modo) nell’ipotesi di risarcimento per danno esistenziale collegabile a una separazione personale — secondo
quanto fa, invece, il Tribunale di Brescia.
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Ad una conclusione del genere si giunge non solo alla luce di un esame dell’art.
2043 c.c., ma anche considerando la ratio della riforma del diritto di famiglia. Vale a
dire: con l’introduzione del principio per cui ciascuno dei coniugi può decidere liberamente di porre fine al rapporto coniugale, il legislatore del ’75 ha verosimilmente tenuto presente che una siffatta decisione potesse alterare la vita dell’altro coniuge; ciò
nonostante, non ha espresso alcun disfavore nei confronti di tale volontà — rendendo
centrale il momento della libertà rispetto a quello della stabilità del progetto fondato
sull’atto matrimoniale.
Date queste premesse, e considerata anche l’eccezionalità dell’addebito della separazione, è evidente — come sopra si osservava — che laddove manchi una particolare
malevolenza o la prova una colpa grave o ancora il segno di un comportamento idoneo a pregiudicare diritti e interessi giuridicamente rilevanti dell’altro coniuge, il
danno esistenziale conseguente (inevitabilmente) alla separazione non sarà comunque neutralizzabile.
Unico esempio in cui potrà ipotizzarsi la sicura irrisarcibilità del danno esistenziale
(sebbene non sia impossibile immaginare il patimento di quest’ultimo, da parte di
uno o di entrambi gli sposi), è l’eventualità della separazione consensuale: allorquando tanto la moglie quanto il marito si rendano conto che, oramai, non vi sono
più le basi per la loro realizzazione personale, nella vita di coppia — esprimendo cosı̀
il desiderio di abbandonare quel progetto, in modo da vivere la libertà di abbracciarne
uno completamente nuovo.
Infine, un danno esistenziale potrebbe ricorrere nell’eventualità in cui uno dei
due coniugi, nonostante l’evidente cessazione della comunione spirituale e materiale
(da cui l’unione matrimoniale dovrebbe essere caratterizzata), scegliesse di ribellarsi,
magari come forma estrema di protesta o di vendetta, alla prospettiva di una separazione consensuale, e si orientasse ad accampare una serie di pretesti — destinati a
rivelarsi infondati nel corso del giudizio — al fine di dare luogo ad un procedimento
di separazione giudiziale (che, come è noto, potrebbe anche durare negli anni). Il
fatto di dover rinviare cosı̀ a lungo nel tempo la riacquisizione dello stato libero, necessario per consentire la celebrazione di un nuovo matrimonio, o comunque per
giungere a una vita di coppia serena con una persona diversa, potrà integrare di per
sé, in molti di questi casi, gli estremi di un danno esistenziale risarcibile alla luce dell’art. 96 c.p.c.
5. I CRITERI PER LA QUANTIFICAZIONE DEL DANNO
In chiusura, qualche cenno alla modalità di liquidazione del danno, da parte del tribunale di Brescia. Due le direttrici che hanno guidato il decidente nella quantificazione:
da un lato, la durata del rapporto, unitamente all’età del coniuge tradito; dall’altro, la
paura del plaintiff di aver contratto una malattia sessualmente trasmissibile.
a) Quanto al primo parametro, occorre osservare: ammesso pure che il danno esistenziale fosse nel caso di specie risarcibile (e s’è visto che cosı̀ non è), si può ben
concordare col giudice che la circostanza di vedersi improvvisamente proiettati in una
nuova dimensione, completamente altra rispetto al progetto di vita in comune che era
sorto dall’unione matrimoniale, sia un inconveniente di non poco conto — un male
sottile e spaesante in proporzione (non tanto all’età al momento della celebrazione
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matrimonio, età presa in considerazione dal giudice, ma) all’età della vittima al momento della separazione.
È evidente come l’incedere dell’età possa costituire, in effetti, un serio elemento di
difficoltà per costruire relazioni inedite: l’idea è che tanto più uno è giovane tanto più
avrà occasione di incontrare un altro amore. E il risarcimento del danno esistenziale
dovrebbe — non v’è dubbio — tenere in conto adeguato quel fattore di carattere anagrafico: il denaro riconosciuto alla vittima potrebbe/dovrebbe, in particolare, mettere
quest’ultima in condizione di crearsi quante più occasioni e opportunità possibili (crociere, viaggi, cene, frequentazione di locali, vacanze in luoghi dedicati ai cuori solitari,
e cosı̀ via) onde allacciare nuove relazioni sentimentali.
Nel caso di specie la signora ha 36 anni — un’età che oggi giorno (bisogna dire)
non fa certo di una donna una casalinga disperata. Comunque: quegli anni non sono
neanche pochissimi ed è vero che il fatto di avere un matrimonio fallito alle spalle,
specie in un piccolo centro, potrebbe creare all’attrice qualche problema.
Pertanto: il parametro dell’età si candida ad essere una delle variabili in gioco per
la quantificazione del danno esistenziale, nell’ambito della separazione — a condizione (I) che l’età sia, ecco il punto, quella della vittima al momento della separazione e che (II) si tenga, poi, in debita considerazione il milieu sociale in cui la stessa
vive (altro è avere 40 anni a Milano per una donna manager, altro sarà avere la
stessa età per una insegnante di scuole medie di un paesino di una provincia del sud
Italia).
Tale stretta correlazione tra età e contesto sociale sarà facilmente apprezzabile dal
giudice di primo grado — il quale, in linea tendenziale, si trova geograficamente prossimo al luogo di residenza della vittima e conosce per fatto notorio il contesto socioculturale in cui la stessa è immersa.
Quanto poi al criterio affiancato dal giudice bresciano a quello dell’età (e che invece forse dovrebbe essere considerato separatamente) ossia la durata del matrimonio, non si può non riconoscere che la stabilizzazione di un’organizzazione di vita dovuta alla durata considerevole del matrimonio rappresenti un fattore da considerare
con cura, per valutare il danno esistenziale. La ricostruzione di un habitat, di frequentazioni, di passatempi, dopo anni di vita a due diventa sicuramente più difficile (e dispendiosa) rispetto al caso in cui il matrimonio sia invece durato — come pure accade
— pochi mesi.
b) Sulla correttezza del secondo parametro non si può invece minimamente convenire, e ciò per una serie di ragioni.
Innanzitutto, è assolutamente pleonastico ricordare come ci si trovi di fronte, qui, a
un caso di omoinfedeltà. Proprio perché (abbiamo detto) occorre a tutti i costi rimuovere il sospetto che vi sia un intento omofobo, alla base della decisione, l’unica spiegazione possibile — al fatto che venga ribadito quell’aspetto, parlando della paura
della signora di aver contratto malattie sessualmente trasmissibili — è che i giudici ritengano seriamente tali malattie come più frequenti tra gli omosessuali.
Insomma, alla base dell’enunciazione di questo parametro vi è niente più che un
pregiudizio — un luogo comune che le statistiche dicono assolutamente immotivato.
Tanto per far riferimento alla trasmissione dell’HIV, va subito ricordato — ricerche
alla mano — come a contendersi il primo posto, tra le cause di trasmissione del virus,
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vi siano in realtà la droga e i rapporti occasionali eterosessuali (9). Ed è pure noto che,
almeno nelle relazioni omosessuali tra donne, la trasmissione del virus è evenienza
statisticamente molto bassa (10). Descrivere gli omosessuali come untori è quindi assolutamente fuor di luogo; in più nella comunità omosessuale, non soltanto in Italia, si
sa che il livello di sensibilizzazione al problema appare altissimo — il che è uno dei
motivi, va sottolineato, che ha fatto ridurre negli ultimi anni il contagio.
E la percezione soggettiva della vittima, magari ipocondriaca, non potrà certo rappresentare un criterio decisivo per il giudice.
A parte tali considerazioni, che già basterebbero a sottolineare la grossolanità dell’errore, vi è un altro aspetto da considerare. Dal momento in cui la signora ha appreso della relazione extraconiugale del marito al momento del risarcimento del
danno, è passato un certo lasso di tempo. Quel che non si capisce dalla motivazione
su tale punto è, allora, quale arco temporale sia stato tenuto in considerazione dal
giudice per affermare che la signora avrebbe visto alterata la propria « qualità della
vita per un consistente periodo di tempo ».
Va notato che il giudice parla, in effetti, di « legittimo sospetto » di aver contratto
qualche grave malattia. Che cosa legittimi tale sospetto non è ben chiaro allora, per
quanto si diceva poc’anzi; e, ad ogni modo, il consistente periodo di tempo dovrebbe
ragionevolmente — cosa che l’attrice si guarda bene dal sottolineare — corrispondere
a qualche mese. Ora, la moderna diagnostica è in grado di stabilire, dopo appena
qualche settimana, la sussistenza del contagio di una malattia venerea e dopo qualche
mese (che vanno da due a sei) l’eventuale contagio da HIV.
Se la signora non si è attivata per sottoporsi a test che la sollevassero dalla sua
paura, non si vede come ciò possa legittimarla — ecco la conclusione (art. 1227 c.c.)
— a chiedere soddisfazione per un’alterazione esistenziale che essa si è, in qualche
modo, autoinflitta.
(9)
Dall’Aggiornamento dei casi di AIDS notificati
in Italia e delle nuove diagnosi di infezione da HIV,
(a cura di) Suligoi, Boros, Camoni, Lepore, Ferri e
Roazzi, del Reparto di Epidemiologia (Centro Operativo AIDS) dell’Istituto Superiore di Sanità, aggiornato al dicembre del 2005, emerge che nel ultimo decennio, la distribuzione dei casi di AIDS
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per categoria di esposizione vede al primo posto la
tossicodipendenza (56,7%), al secondo posto i rapporti sessuali etero (20, 7%) al terzo posto i rapporti
sessuali omo/bisex (16, 1%).
(10)
Dalla stessa statistica non emergono casi di
trasmissione del virus dell’HIV tra soggetti omosessuali di sesso femminile.
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Dott. A. Giuffrè Editore
Milano