In ascolto del grido dei popoli e delle coscienze

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In ascolto del grido dei popoli e delle coscienze
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
70
ANNO
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 1, DCB Perugia
€ 2.70
20
15 ottobre 2011
Medio Oriente
nuovo ruolo
della Turchia
Confindustria
chiede
ricerca
la scienza prova
la discriminazione
l’interlocuzione
cattolica
il neutrino superveloce
Einstein in archivio?
Io e Noi
di fronte a Dio
dialogo con
Vito Mancuso
inserto
religioni in ascolto
del grido dei popoli
e delle coscienze
rabbia
leghista
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
CONVEGNO IN ASSISI
11-13 novembre
la scuola nell’era
della tecnologia digitale
RICONOSCIMENTO DEL MIUR (Decreto 3 agosto 2011)
con diritto all’esonero dal servizio del personale della scuola che partecipa
e rilascio di attestato per gli usi consentiti dalla legge
Chi sono i «nativi digitali»? Sono solo i ragazzi
nati quando già esistevano i computer, internet, i
telefoni cellulari, gli iPod, gli iPad, gli MP3 e che
hanno bisogno, rispetto ai loro padri, solo di qualche nozione tecnologica in più per utilizzare i nuovi strumenti elettronici?
O sono portatori di una «nuova intelligenza» e,
quindi di un «nuovo modo di apprendere» di cui
la scuola deve tener conto?
A partire dalle nuove conoscenze su mente e cervello e sull’interazione tra questi e le nuove tecnologie elettroniche, occorre modificare le forme
di trasmissione del sapere per una generazione
che vive in un mondo di relazioni, di comunicazione e di conoscenza completamente diverso
da quello di ogni altra generazione passata?
Come devono porsi gli insegnanti di fronte allo
scarto crescente tra il modello tradizionale di apprendimento e di insegnamento e l’impatto delle
Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) sugli stili cognitivi dei loro allievi? Esiste oggi un nuovo pensiero pedagogico o almeno una nuova direzione di ricerca?
Quali sono gli aspetti di «attivazione» delle capacità e delle risorse personali e relazionali che
le nuove tecnologie sembrano favorire e quali
sono gli aspetti da «disabilitare» per un’educazione attenta e consapevole?
NORME DI PARTECIPAZIONE
Iscrizione
€ 60,00 (IVA inclusa)
€ 50,00 (IVA inclusa) per gli abbonati a Rocca
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soggiorno in Cittadella (posti limitati)
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dalla cena dell’11 al pranzo del 13 novembre
(pasti serviti a menù fisso, acqua minerale e vino
compresi)
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la quota complessiva non prevede detrazioni per pasti e/o pernottamenti non effettuati
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rivolgersi a [email protected]
tel. 075/813641 fax 075/3735197
vedi programma a p. 64
Rocca
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Ci scrivono i lettori
52
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Vignette
Il meglio della quindicina
54
Raniero La Valle
Resistenza e pace
L’interlocuzione cattolica
57
Maurizio Salvi
Medio Oriente
Nuovo ruolo della Turchia
58
Roberta Carlini
Il manifesto di Confindustria
L’inizio di quel che verrà dopo
58
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Severo quando esige, pigro quando paga
59
Ritanna Armeni
Politica italiana
Rabbia leghista
59
Tonio Dell’Olio
Camineiro
Il prezzo della crisi
60
Fiorella Farinelli
Donne
Un nuovo padrone in casa
60
Inserto
Religioni
In ascolto del grido dei popoli e delle coscienze
Tavola rotonda
61
62
Giovanni Sabato
Ricerca
La scienza prova la discriminazione
Oliviero Motta
Terre di vetro
Tanto rumore per niente
Claudio Cagnazzo
L’era di internet
L’impavida resistenza della pagina scritta
Pietro Greco
Il neutrino superveloce
Einstein in archivio?
Stefano Cazzato
Maestri del nostro tempo
Il Circolo di Vienna
Una concezione scientifica della scienza
63
Carlo Molari
Teologia
Io e Noi di fronte a Dio
In dialogo con Vito Mancuso
Lilia Sebastiani
Il concreto dello spirito
Dignità
Paolo Vecchi
Cinema
Carnage
Roberto Carusi
Teatro
Le voci del Salento
Renzo Salvi
Rf& Tv
Sostiene Bollani
Mariano Apa
Arte
Somaini
Alberto Pellegrino
Avventura
Emilio Salgari
Enrico Romani
Musica
La leggenda Eric Clapton
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Google Shopping
Libri
Carlo Timio
Rocca Schede
Paesi in primo piano
Germania
Luigina Morsolin
Fraternità
Yambo:un saluto dal Burundi
Numero 20 – 15 ottobre 2011
70
ANNO
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GINO BULLA
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ROCCA 15 OTTOBRE 2011
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Editore: Pro Civitate Christiana
Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono
Questo numero
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ci scrivonoi lettori
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
La scuola
dei figli, unica
certezza
di un papà rom
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
Scrivo mentre sono in vacanza con i miei figli. Il maggiore, 10 anni, sta scrivendo una
cartolina ad un compagno di
scuola. Mi ricordo di averne
scritte tante alla sua età su
quello stesso tavolo.
Penso a chi le vorrei scrivere oggi, parenti, amici. Nell’era di internet di molti non
saprei neppure l’indirizzo.
Una, di certo, la manderei a
Florin, di lui un indirizzo ce
l’ho, ma la cartolina non
arriverebbe. Florin è rom,
papà anche lui di tre figli
che vanno a scuola, la maggiore Alexandra è già alle
medie. Non ha un indirizzo
vero perché ha subìto numerosi sgomberi in questi
ultimi due anni; a quello del
novembre 2009 nel mio
quartiere, Rubattino, ne
sono seguiti tanti altri.
Ogni volta è così: lui trova
un accordo con qualcuno
per collocare il suo camper, pagando un modico
affitto con il lavoro che ha,
part time, all’Amsa. Poi
dura poco, chiamano la
polizia per mandarli via
perché vedono che sono in
tanti, lì dentro, lui coi figli
e la moglie, il fratello con
la sua altrettanto numerosa famiglia.
Florin mi ha spiegato perché preferiscono stare insieme così numerosi. Hanno
paura, vivono nell’insicurezza. Di sera non ci sono luci
e tornare al camper, soprattutto per le donne, fa paura. Meglio essere in tanti,
meglio che ci siano più uomini insieme, se lui fa tardi
sul lavoro, a «casa» c’è il fratello o il nipote maggiore. Si
è più sicuri, così, in tanti.
Mi sorprende sempre
come la parola «sicurezza»
possa essere percepita diversamente a seconda di
chi la pronuncia, oggi che
è così tanto (ab)usata nei
programmi elettorali o televisivi.
In questa situazione una
certezza Florin ce l’ha. I suoi
Forse nel nuovo anno scolastico amplieremo il progetto e, magari nella prossima estate – se la politica
comunale avrà abbandonato la logica degli sgomberi
dissennati e intrapreso soluzioni più lungimiranti,
concertate, mirate all’integrazione – potrò inviare una
cartolina a Florin ad un indirizzo sicuro.
Chi volesse aiutare e sostenere questi progetti o ricevere informazioni può mettersi in contatto via e-mail
all’indirizzo santegidio.
[email protected]
Roccalibri
Guido Maffioli
Milano
L’elemento umano
nella macchina
Martedì 12 luglio 2011 la
Camera ha approvato il disegno di Legge sul «fine
vita». In Autunno, con un
passaggio finale al Senato,
potrebbe diventare Legge
dello Stato.
Farsi ben curare quando si
è ammalati, è un diritto.
Ma se non si è d’accordo sulla terapia, occorre dire «no!»
Non lasciarsi torturare!
Perché quando si accetta di
calpestare la libertà di scelta
dell’individuo allora tutto è
possibile: la frode, lo sfruttamento, l’estorsione, il plagio, lo stupro e la tortura.
Una legge che obbliga all’idratazione e alimentazione forzata è l’opposto del
rispetto.
Mantenere le funzioni fisiologiche di una persona calpestando la sua volontà non
è un servizio alla vita, è offrire sull’altare dell’ideologia
la sofferenza degli altri. Un
atto pagano.
Che venga approvato dall’attuale maggioranza parlamentare è assolutamente
coerente, ma che il principale promotore sia la Gerarchia Vaticana, che si dichiara depositaria del messaggio di Gesù Cristo liberatore, questo è per me semplicemente incomprensibile.
Mi si deve spiegare perché,
se io non lo voglio, un medico mi debba mettere le mani
Giancarlo Zizola
FEDI E POTERI
nella società globale
INDICE
La verità perplessa
Il dialogo inter-religioso nella complessità mediterranea
Utilizzazione ansiogena della religione:
le politiche della paura
La Chiesa e la guerra
Il Papato e l’Impero
La Sede Apostolica e le relazioni con gli Stati Teocon
Crocifisso di Stato?
Il IV Convegno della Chiesa italiana. Incertezze di una transizione
Le élites della Chiesa cattolica in Italia
Silenzi di Dio, silenzi dell’uomo
La lezione dell’infortunio di Regensburg
Un nuovo patto laico
Un’etica per Faust
incontri e interviste con
Pier Paolo Pasolini
Emmanuel Lévinas
Sergio Quinzio
Massimo Cacciari
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
figli continuano ad andare
nelle loro scuole, quelle del
quartiere Feltre vicino a via
Rubattino, dove andavano
già tre anni fa, iscritti dalla
Comunità di Sant’Egidio.
Conoscono le maestre, le
prof, i compagni, le mamme. È complicato arrivare
puntuali, ad ogni sgombero ridefinire gli orari, i mezzi pubblici necessari per
raggiungere la scuola, ma –
mi dice – ci tengo io e ci tengono loro, anche Marius, il
più piccolo, in terza elementare il prossimo anno, con
quello sguardo attento e
curioso che gli ho visto
quando l’ho salutato insieme al papà.
Conosco Florin grazie alla
voglia di andare a scuola dei
suoi figli. Ricevono una borsa di studio attraverso un
progetto per l’integrazione
scolastica della Comunità di
Sant’Egidio. Loro si impegnano a frequentare la scuola con costanza – anche impiegando ogni mattina più
di un’ora per arrivarci – e ricevono un contributo mensile per coprire le varie spese (abbonamenti pubblici,
materiale scolastico, etc.).
Questi progetti funzionano
coinvolgendo le maestre dei
bambini e qualcuno che
vede il genitore per sapere
come va, se ci sono difficoltà. Con Florin quel qualcuno sono io, una volta al
mese, ci incontriamo brevemente e mi aggiorna.
Nel secondo quadrimestre
dell’anno scolastico appena
concluso la borsa è stata
coperta con l’aiuto dell’Associazione Genitori della
scuola dei miei figli. È stata
approvata la proposta, dato
che incentivare l’integrazione scolastica è negli scopi
dell’Associazione. Ne sono
stato felice, non tanto per il
piccolo aiuto dato ai figli di
Florin, ma per ciò che può
significare questa azione,
cioè che si possano fare cose
concrete, senza esibizione,
con il fine di far progredire
tutta la comunità a cominciare dai bambini e dalle
bambine, e dal garantire a
tutti loro un diritto importante e basilare come andare a scuola.
pagg. 224 - € 25,00
speciale
PER I LETTORI DI ROCCA
€ 18,00
anziché € 25,00
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CI SCRIVONO I LETTORI
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
DOCUMENTI
6
addosso. E che nel far questo si senta, oltre che obbligato dalla legge, il mandante della Chiesa e del suo Dio.
Perché altrimenti si rischia
l’eutanasia? Perché la vita è
dono? E se ricevo un dono,
non ne divento io il responsabile? E se la mia vita è di
Dio, perché la devo affidare
ad un medico? Chi mi dice
che egli stia facendo veramente la volontà di Dio?
Capisco che la Chiesa voglia
essere materna e, come scrive il quotidiano «Avvenire»
quasi tutti i giorni, «favor
vitae» cioè fare scelte a favore della vita. Ma sembra
un po’ come quelle madri
che, anche quando i figli
sono diventati adulti, vogliono continuare a scegliere per loro. Non accettano
la loro autonomia, come se
questa fosse una forma di
mancata riconoscenza verso il ruolo materno.
Spesso, in questi casi, subentra il padre che, con autorevolezza, taglia il legame
di dipendenza psicologica
del figlio dalla propria madre e lo lancia nel mondo.
In questo bellissimo mondo
dove, per vivere con autenticità, bisogna imparare a
scegliere. Vivere è scegliere,
in autonomia di giudizio.
Quando qualcuno vuole decidere al posto mio su qualcosa che riguarda la mia
vita, allora mi rivolto.
Non è una battaglia in difesa di un egoistico concetto
del tipo «devo fare tutto ciò
che voglio».
È una battaglia che si rivolta a chi dice «Adesso ti faccio quello che voglio io».
Speriamo che, insieme ai
padri, i primi a rivoltarci siano i medici.
E che dai corridoi degli
ospedali si alzino le voci di
tutti coloro che non sono
d’accordo, uniti a cantare
la strofa di una bella canzone di Jovanotti: «Noi siamo l’elemento umano nella macchina e siamo liberi
sotto le nuvole».
L’eco di questo motivo
giunga fino a Roma, nelle
stanze del Vaticano e del
Parlamento.
Per mantenere in vita una
persona, in certi casi, non è
sufficiente il sondino che
alimenta.
Se c’è un cuore che non lo
vuole, per motivi che a noi
non è dato giudicare, allora
la volontà prevale sull’aspetto biologico.
Credo sia comprensibile che
molte persone, giunte ad
uno stadio di certe malattie,
desiderino solo accomiatarsi dai propri cari e dal mondo nel modo più intimo, profondo e umano. Questo il
Servizio Sanitario di un Paese civile dovrebbe cercare di
garantire, non il «sondino di
Stato» imposto per legge.
Restare aggrappati ad una
macchina o ad una pratica
medica solo per vivere qualche giorno o qualche settimana in più può non avere
senso. In particolare modo
per chi continua a sentire
dentro di sé il respiro dell’eternità.
Ed eternità, mi piace pensare che non sia un caso, fa
rima con libertà.
E la libertà è il cibo che alimenta l’anima.
Giovanni Tognana
Padova
Accade a Livorno
Una docente di religione di
ruolo della scuola elementare, beneficiaria di una particolare legge, ha prestato
saltuario servizio nello scorso anno scolastico per cui la
classe assegnatale solo molto sporadicamente ha potuto ricevere l’insegnamento.
I genitori di fronte a tale disservizio non giustificato da
parte sia dell’amminsitrazione scolastica che della
Curia in quanto responsabile delle nomine, hanno deciso quest’anno di «non avvelersi» dell’insegnamento
della religione cattolica.
Questo è accaduto a Livorno.
Il caso è grave per le conseguenze educative che sono
state sottratte a venti bambini e merita di essere segnalato e posto all’attenzione di chi di dovere.
Mario Lorenzini
Livorno
Usa
Steve Jobs
quasi
un’epopea
Perugia-Assisi
la Marcia
dei 200mila
per la pace
Steve Jobs, il cofondatore di
Apple che ha rivoluzionato
l’informatica, è morto a 56
anni il 5 ottobre. Il suo «magico clic» è stato capace di
cambiare la vita quotidiana di
milioni di persone e il suo
Apple (con la Mela disegnata
dal socio Wayne che si ispirò
a Newton) ha creato una vera
e propria cultura industriale.
Tutta la sua vita, tra successi
fenomenali e sconfitte cocenti, intuizioni folgoranti e sonore batoste, è degna di un
romanzo. Parlando agli studenti dell’Università di Stanford e ricordando la sua malattia, dirà: «Il vostro tempo è
limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun’altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra
voce interiore. E, ancora più
importante, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore
e la vostra intuizione: loro vi
guideranno in qualche modo
nel conoscere cosa veramente vorrete diventare».
Per Steve, tutto iniziò in un garage nel 1976, con un amico e
con i soldi ricavati dalla vendita di un furgoncino. Ufficialmente Apple nacque nel 1976
con tre soci (oltre a Jobs, Wosniak e Wayne). Poi l’impresa
mediatica si ingrandì (1977
AppleII e 1984 MacIntosh).
Nel 1995 Steve Jobs, sconfitto
lascia forzatamente Apple per
riprendere nel 1991 con
Powerbook. Nel 1994 Apple ricompra Next, società già fondata da Jobs. Diventa padrone di Apple nel 1997; nel 2001
crea il nuovo sistema OS X e
PoD. Seguono i Tunes Store
(2003), iPhone (2007), la tavoletta iPad (2010). Già dal 2004
Jobs conosce la gravità del suo
cancro. Ma il messaggio lasciato è «Siate insaziabili, siate folli».
La Marcia per la pace e la fratellanza dei popoli Perugia-Assisi, ideata cinquant’anni fa dal
filosofo perugino Aldo Capitini, celebrazione della nonviolenza e del risveglio, è apparsa
anche oggi a chi l’ha seguita,
l’avvio di una speranza critica
che conduce a guardare oltre,
che apre a una visione ulteriore della storia, indicando prospettive a prima vista quasi
impossibili. Sulle colline del
percorso Perugia-Assisi si è
mosso il 25 settembre il lunghissimo, coloratissimo fiume
di duecentomila marciatori in
gran parte giovani, con le bandiere della pace, i gonfaloni dei
Comuni, gli striscioni più diversi. Si sono sentite tante parole controcorrente, gridi contro l’ingiustizia, slogans arditi
di richiamo alle situazioni oppressive concrete, messaggi
che rivelavano un cammino
iniziato nella mente prima ancora che sulla strada, aperto su
un orizzonte anche politico di
possibilità. Ecco l’elenco (i titoli, per ragioni di spazio) delle proposte e degli impegni
assunti al termine della Marcia: 1) Garantire a tutti il cibo
e l’acqua; 2) Promuovere un
lavoro dignitoso per tutti; 3)Investire sui giovani, sull’educazione e la cultura; 4) Disarmare la finanza e costruire
un’economia di giustizia; 5)Ripudiare la guerra, tagliare le
spese militari; 6) Difendere i
beni comuni e il pianeta; 7)
Promuovere il diritto a un’informazione libera e pluralista;
8) Fare dell’Onu la casa comune dell’umanità; 9) Investire
sulla società civile e sullo sviluppo della democrazia partecipativa;10) Costruire società
aperte e inclusive. Occorre che
la Marcia continui. I marciatori sono avvertiti: «Queste
priorità devono essere portate
avanti da ogni persona, a livello locale, nazionale e globale,
in Europa come nel Mediterraneo».
Colombia
le donne
trofeo
di guerra
Nel quadro del conflitto armato che ha attraversato la Colombia, le violenze sessuali
compiute dagli attori militari,
paramilitari, guerriglieri, poliziotti nei confronti delle donne sono rimaste in gran parte
impunite.
Amnesty international, in un
suo nuovo rapporto dal titolo
«Noi donne chiediamo che
giustizia sia fatta» pubblicato
il 21 settembre, denuncia il
fenomeno, chiedendo l’intervento dello Stato, come promesso il nuovo presidente
Juan Manuel Santos. È per
farle tacere, per farle fuggire,
per terrorizzarle o vendicarsi,
che i combattenti di ogni rango abusano sessualmente delle donne. «In Colombia, come
altrove, esse sono spesso un
trofeo di guerra», dice sospirando Susan Lee, responsabile di Amnesty per l’America
latina. In Colombia, per ottenere qualche diminuzione di
pena i paramilitari hanno confessato 57mila crimini. E solo
86 violenze sessuali.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
7
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
New York
il movimento
degli «indignati»
avanza
Innsbruk
il vescovo
tenta
il dialogo
Bahrein
una
repressione
silenziosa
Il movimento degli «indignati» statunitensi ha trovato
uno slogan: «Siamo il
99%»per significare che il
loro unico avversario è l’1%
dei ricchi e delle loro lobbies,
quelle che deviano la democrazia. Ispirati dalle manifestazioni avvenute in varie città dei Paesi arabi e in Europa, migliaia di giovani hanno voluto pacificamente dimostrare la loro insoddisfazione nei confronti del modo
con cui Wall Street ha retto i
fili dell’economia statunitense, trasformando quest’ultima in una «multinazionalcrazia» e creando milioni di
disoccupati.
A New York il 2 ottobre circa
700 manifestanti del movimento ‘Occupy Wall Street’
erano stati fermati per aver
bloccato per alcune ore il ponte di Brooklyn. I disordini avevano richiamato la polizia,
questo intervento era stato ripreso dai media e la sera stessa l’interesse mediatico aveva
mobilitato un gran numero di
persone.1500 giovani si sono
accampati nei pressi di Wall
Street.
Certamente nella Chiesa cattolica sono necessarie delle
riforme, anche se ci sono posizioni molto differenti sul
modo di realizzarle. Nel numero scorso (pag. 7) scrivemmo delle «nuvole» che si agitano nell’ambito della Chiesa austriaca e di un appello
di preti alla disobbedienza. Il
vescovo di Innsbruk mons.
Manfred Scheuer tenta di allontanare la nuvolaglia tenendo separate le questioni
del dissenso. Ha ammesso
che sulla questione dei divorziati risposati vi è davvero
bisogno di un cambiamento
da parte della Chiesa, come
c’è da riflettere sul fatto se,
da un punto di vista pastorale, non debba essere permesso ai laici di predicare durante la Messa. Quanto all’ordinazione sacerdotale delle
donne e al matrimonio in
chiesa dei divorziati ha dichiarato essere «questioni
che non possono essere risolte a livello diocesano». Contrario è invece, alle celebrazione della Messa senza sacerdoti, sia pure in forme private.
Nel piccolo regno del
Barhein continua una repressione silenziosa, dopo le
proteste del 14 febbraio. L’intera società civile avverte il
bisogno di riforme, ma finora le richieste sono rimaste
inascoltate. Anzi, secondo
Amnesty International, da
febbraio gli oppositori imprigionati sono un migliaio,
molti dei quali hanno già
subìto un processo, con condanne fino alla pena di morte. Tra gli arrestati, i primi
due parlamentari che avevano criticato la repressione. Il
Re ha annunciato elezioni
del 1° ottobre per rimpiazzare i 18 parlamentari appartenenti all’opposizione, dimessisi. Il partito di opposizione le ha dichiarate «una
farsa», anche perché le intenzioni del monarca sono
chiare: ha dispiegato i carri
armati nella piazza della Perla, epicentro delle manifestazioni della capitale. I radicali, che vorrebbero la repubblica e i moderati la monarchia costituzionale, continuano a lottare. La primavera araba non è finita.
Israele
incendiata una moschea in Galilea
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Il presidente israeliano Shimon Perez (nella foto) ha definito
il 3 ottobre «esecrabile gesto» l’incendio di una moschea in un
villaggio di beduini della Galilea nord del Paese, compiuto da
estremisti della destra israeliana. Gli autori hanno inteso vendicare Asher Palmer, un colono israeliano morto il 23 settembre in Cisgiordania con suo figlio, in un incidente provocato
da una sassaiola palestinese. Incendiare un simbolo che non è
solo politico, ma soprattutto religioso, è un impressionante,
anche se si sa il contesto violento nel quale si pone. Il Presidente, accompagnato dai due grandi rabbini Yona Metxgere e
Shlomo Amar, ha dichiarato di voler visitare i resti della moschea dicendosi «pieno di vergogna davanti a tale gesto». «È
un atto contrario ai valori dello Stato d’Israele» ha aggiunto il
primo ministro Benyamin Netanyau.
8
notizie
seminari
&
convegni
Per la pubblicazione
in questa rubrica occorre inviare l’annuncio un mese prima della data di realizzazione dell’iniziativa indirizzando a:
a.portoghese@
cittadella.org
RECAPITI UTILI
DELLA
PRO CIVITATE
CHRISTIANA
BIBLIOTECA
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e-mail:
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PERMANENTE –
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(uff. abbonam.)
Torino. Inizia in quest’anno
accademico il Master Universitario «Scienza e Fede» che
intende mettere in dialogo fede
e scienza, due aree culturali
decisive per la nostra contemporaneità. Rivolto a docenti,
medici, giornalisti, uditori interessati, si articola in lezioni
frontali e seminari. Informazioni: Segreteria della Facoltà
teologica, via XX settembre 83
Torino, tel. 011 360249,
[email protected].
Barcellona. I Matador gettano la spada. La corrida del 25
settembre è stata l’ultima della Catalogna: una legge approvata dal Parlamento autonomo di Barcellona nel luglio del
2010 mette al bando il controverso spettacolo. L’arena Monumental per l’ultima corrida
ha registrato 20mila spettato-
ri e 400 giornalisti presenti.
Europa. Il cardinale Peter
Erdo, primate d’Ungheria, è
stato riconfermato il 30 settembre presidente del Consiglio delle Conferenze europee.
Vice-presidenti sono il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana e Joseph Michalik, presidente della Conferenza episcopale polacca.
16 ottobre. Magnano (Bi). Al
Monastero di Bose «Ricordo
di papa Giovanni e del Concilio» con mons. Loris Capovilla. Ore 10,30. Informazioni:
[email protected] tel
015 679185.
18 ottobre-6 dicembre. Firenze. Corso di Storia del Cinema organizzato dall’Istituto Stensen su: «Il cinema di
Federico Fellini», docente
Marco Luceri. Martedì di serate e di incontri nell’auditorium Stensen, viale don Minzioni 25/c Firenze. Iscrizioni
presso la sede del Quartiere 2,
piazza Alberti 1/a. Firenze.
19 ottobre 2011-4 aprile
2012. Bari. Corso di Ebraico Biblico diretto dal prof.
Cesare Grasso, 20 lezioni,
ogni mercoledì dalle ore
20,00 alle 21,30. Di natura
introduttiva vuole giungere
allo scopo di leggere, trascrivere e tradurre testi semplici. Informazioni: Comunità
di Gesù, via san Tommaso
d’Aquino 10, 7014 Bari (Poggiofranco); Antonio Calisi,
cell. 338 1049424; e-mail:
[email protected]
26 ottobre. Assisi. (Pg).
Come in ogni Diocesi, preghiera vigiliare per l’incontro
di Benedetto XVI con i leader delle grandi religioni. In
Assisi, nella cattedrale di san
Rufino, alle 17.00, riflessione
di Enzo Bianchi sul tema dell’incontro: «Pellegrini della
verità, pellegrini della pace».
Seguiranno sulla piazza antistante, a cura del gruppo
«Rondine» una testimonianza, e «The tablet of silence»,
una performance artistica.
Alle 21 la veglia.
3-5 novembre. Assisi (Pg).
La Sezione Musica della Cittadella cristiana organizza tre
seminari autunnali. Il primo
sul tema: «Essere nel corpo
per affrontare ansie e paure»,
workshop di Danza/Movimento/Terapia aperto a tutti,
rivolto in particolare a terapeuti, medici, educatori (docente Maria Elena Garcia,
contatto telefonico previo: 06
39727654, 340 6356 297; [email protected]). Il secondo seminario riguarda la
«Musicoterapia nella pratica
clinica» (docente Ferdinando Suvini). Si propone, tra
l’altro, come lavoro di esplorazione e riflessione sulla
propria identità musicale
per inserire un’attività clinica con il suono e la musica
nei diversi ambiti applicativi. Il terzo seminario è su «La
Percezione» (docente Bernardino Streito), viaggio interdisciplinare propedeutico
fra il segno e il senso nell’esperienza uditiva e visiva.
Informazioni: Sezione Musica Pro Civitate Christiana,
Via Ancaiani 3, 06081 Assisi
tel/fax 075812288 fax 373
5194. Per ospitalità. 075
813231. Programmi dettagliati anche nel sito http:
www.musicoterapiassisi.it.
4-5 novembre. Piacenza.
Seminario «Leadership e
conflitti. Per creare connessioni organizzate», condotto
da Paolo Ragusa e Fabrizio
Lertora, rivolto a responsabili, dirigenti, coordinatori, formatori e consulenti. Informazioni: Centro Psicopedagogico per la pace e la pace e la
gestione dei conflitti, via
Campagna 83, 29121 Piacenza, tel. e fax 0523 498 594;
e-mail: [email protected]
7-8 novembre. Avigliana
(To). Primo laboratorio sul
ruolo culturale delle reti di
famiglie «Vedere la generatività delle reti». È organizzato
dal Gruppo Abele e finalizzato alla costruzione di spazi
sociali leggeri per tessuto sociale di accoglienza, solidarie-
tà e mutualità. Relazioni,
gruppi di lavoro, letture problematizzanti, approfondimenti critici. Informazioni:
certosagruppoabele@gruppo
abele.org, tel. 0113841083, fax
011 3641091.
16-19 novembre. Roma.
Congresso internazionale
«L’uomo dell’età moderna e la
Chiesa», organizzato dalla
Pontificia Università Gregoriana. Quattro giorni di confronto fra filosofi, teologi, storici e giuristi sulla questione
delle radici della ragione moderna, del suo allontanamento dalla Chiesa e del ritrovamento della modernità da parte della Chiesa stessa. A conclusione, relazioni di mons.
Peter Henrici e del card. Gianfranco Ravasi. Iscrizioni:
www.unigre.it. Informazioni:
Ufficio Promozione e Comunicazione Univ. Gregoriana
Piazza Pilotta 4 – 00187
Roma tel. 06 6701 5634; 342
540 18 98.
18-20 novembre. Rimini. Convegno internazionale sul tema:
«La qualità dell’integrazione
scolastica e sociale» con la direzione scientifica di Andrea Canevaro e Andrea Ianes. Tra i relatori: Tullio De Mauro, Luigi
Ciotti, Brian Butterworth, Michele Marzano, James Swanson
Lorella Terzi. Informazioni: Segreteria Erickson via del Poppeto 24 -38121 Gardolo (Tn), tel.
0461 950747, fax 0461 956733;
[email protected]
19 novembre. Borgonuovo
(Bo). Convegno di studio su
Maria presso il centro di spiritualità Cenacolo Mariano sul
tema: «Figlio, perché ci hai fatto così?». Informazioni: Missionarie dell’Immacolata Padre Kolbe, Viale Giovanni XXIII, 19, Borgonuovo, 40037 Sasso Marconi, tel. 051 845002,
fax 051 678 4489, e-mail:
[email protected]
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
ATTUALITÀ
9
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
10
Napolitano
la politica
siamo
tutti noi
Erfurt
il Papa
nei luoghi
di Lutero
I discorsi che il nostro Capo
dello Stato Giorgio Napolitano ha pronunciato nelle
due giornate di visita a Napoli a fine settembre sono
stati come sempre puntualissimi. Ma questa volta anche
duri, come quando hanno affrontato il tema della secessione: «Nell’ambito della Costituzione e delle leggi, ha
detto, non c’è spazio per una
via democratica alla secessione». «È chiaro, ha aggiunto, il popolo padano non esiste, si discute di federalismo
fiscale, si chiede un livello
più alto di partecipazione
delle Regioni... Tutto questo
è lecito, ma ove dalle chiacchiere si passasse ad atti preparatori di qualcosa che va
verso la secessione, tutto
cambierebbe. Nella Costituzione e nelle leggi non c’è
una via democratica alla secessione». Ancora: «Divisa
l’Italia finirebbe ai margini
del l’Europa e del mondo
moderno».
Quanto alla vera sfida che è
data dalla crescita, un monito: «O questo Paese cresce
insieme o non cresce», con
un nuovo appello: «L’Italia
non crescerà se non tutti insieme, dal Nord al Sud, se
non metterà a frutto le risorse e le potenzialità della nostra gente», rispondendo
così anche a quelli che gli
chiedono se lo sviluppo dell’Italia possa prescindere da
quel che accade nel sud del
Paese.
Perché un giovane dovrebbe
credere nello Stato? Chiede
un ragazzo al Presidente: «Lo
Stato appartiene a tutti. Non
è solo Parlamento o istituzioni locali, ma un insieme la cui
funzione fondamentale è tenere unito il Paese».
Ha poi fatto riferimento all’antipolitica: «Si impreca
molto contro la politica, ma
attenzione, la politica siamo
tutti noi».
Tappa importante del viaggio di
Benedetto XVI in Germania è
stata ad Erfurt, il 23 settembre,
l’antico convento agostiniano,
luogo carico di simboli e di
memorie, dove nel 1507 Martin Lutero fu ordinato sacerdote mentre dieci anni dopo, con
l’affissione a Wittenberg delle
95 tesi, ruppe con Roma e dette avvio alla Riforma. Il discorso del Papa nell’incontro con i
rappresentanti di vertice della
Chiesa evangelica tedesca ha rivelato una profonda apertura
verso gli interrogativi posti 500
anni fa da Lutero. Benedetto
XVI si è detto «sempre nuovamente colpito» dal fatto che la
«forza motrice» di tutto il cammino di Lutero sia stata la domanda: «Come posso avere un
Dio misericordioso?». «Chi, infatti – ha chiesto –, si preoccupa oggi di questo, anche tra i
cristiani? Che cosa significa la
questione su Dio nella nostra
vita? Nel nostro annuncio?».
Seguono su questa scia altri interrogativi che evidenziano la
passione per Dio di Lutero e
la portata teologica delle sue
domande. Riferendosi al compito ecumenico, papa Benedetto aggiunge: «In questo dovremmo aiutarci a vicenda: a
credere in modo più profondo
e più vivo. Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e
con Lui il Dio vivente, entri in
questo nostro mondo». Il pastore luterano Nikolaus Schneider, presidente della Chiesa evangelica tedesca, in vista
del 31 ottobre del 2017, quando verrà celebrato il Cinquecentenario della Riforma ha
invitato il Papa, in quanto «fratello in Cristo» alla memoria
comunionale dell’evento. Secondo Schneider, è giunta l’ora
di guarire le memorie dalle ferite reciproche e percorrere finalmente «concrete vie di riconciliazione».
Arabia Saudita
re Abdullah
«magnanimo»
con le donne
Il Re è stato magnanimo.
Le dieci frustate destinate alla
signora Shaima Shassaniya
per aver osato guidare in luglio una macchina nella città
di Gedda le sono state condonate. Abdullah bin Abdulaziz
al-Saud, che ha 88 anni e governa da 6, il 25 settembre ha
fatto una cauta apertura sulle riforme. Ha infatti annunciato per le donne saudite il
diritto di candidarsi alle elezioni e di votare, anche se solo
dal 2015. Tra quattro anni le
donne potrebbero essere ammesse anche nel Consiglio
della Shura (Majlis al-Shura),
organo consultivo composto
da 150 membri nominati dal
re. Uno spiraglio, in una società ultraconservatrice. Alle
saudite, infatti, non è concesso viaggiare, lavorare o sottoporsi a un’operazione medica
senza il permesso di un uomo,
e neanche guidare. Il 17 giugno scorso ci fu la protesta di
migliaia di donne al volante.
A quel punto, anche centinaia di intellettuali e di attivisti
sauditi decisero di movimentarsi e boicottare le prossime
elezioni. Il Re ora ha pensato
di non ignorarli.
il meglio
della quindicina
vignette
ATTUALITÀ
da L’UNITÀ, 2 ottobre
da L’UNITÀ, 6 ottobre
da L’UNITÀ, 2 ottobre
da LA REPUBBLICA, 6 ottobre
da L’UNITÀ,1 ottobre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 5 ottobre
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
da IL CORRIERE DELLA SERA, 1 ottobre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 6 ottobre
11
cittadella convegni 2011
7-11 novembre
esercizi spirituali
per presbiteri, suore, laici
libertà sulle Tavole: il libro dell’Esodo
con don Daniele MORETTO, monaco di Bose
L’Esodo è il «lieto annuncio» dell’Antico Testamento, la «lettera» in cui dobbiamo entrare per cercare il volto di Dio e il volto
dell’uomo. Nella storia di un pugno di uomini Dio ha scelto di svelarsi, di dare le coordinate del suo agire verso tutti, di offrire
una relazione.
Conoscere Dio, me stesso, il mondo, la storia per rispondere ad un appello di comunione nella libertà. Un tuffo nell’Esodo,
relativizzandolo in nome dell’oggi, attenti all’azione di Dio che è in atto (cf. Is 43,16-21).
inizio: lunedì 7, ore 18,30
indice tematico:
promesse di Dio e desideri dell’uomo (1,1-22); storie di donne: salvezza attraverso l’umano (2,1-22); paura di guardare:
rivelazione, vocazione, missione (2,23-4,17); lascia partire...: un cuore che resiste (4,18-11,10); che significa questo?: liturgia che celebra (12,1-15,21); stare sulla roccia: la difficile libertà (15,22-18,27); se vorrete ascoltare: alleanza (19,1-20; 24,118); tutte queste parole: la strada insegnata (20,1-23,33); se ho trovato grazia ai tuoi occhi: alleanza nella misericordia (32,134,35); una dimora secondo quanto ti mostrerò: presenza di Dio e obbedienza dell’uomo (25,1-31,19); come il Signore
aveva ordinato a Mosè: presenza di Dio e obbedienza dell’uomo (35,1-39,43); seguire una nuvola (40,1-38).
Una liturgia eucaristica sarà celebrata a San Masseo, antica abbazia benedettina, nuova sede della fraternità monastica di Bose in Umbria.
17 dicembre
convegno abilità di Counselling
diritto ai diritti
alla ricerca del valore perduto: il rispetto dei diritti della pesona…
diritti umani disattesi, violati, negati
– come promuovere una cultura dell’accoglienza e della solidarietà;
– come creare una rete sociale che coinvolga in modo attivo le famiglie, la scuola, le istituzioni;
– come seguire percorsi informativi/formativi di sensibilizzazione, rispetto ai bisogni e ai temi emergenti che riguardano
l’infanzia, l’anzianità, la disabilità;
– diritti riconosciuti e interventi adottati per garantirli
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
intervengono: Roberto SEGATORI, sociologo; Tullio SEPPILLI, antropologo; Andrea BRAMUCCI, psicologo e psicoterapeuta; Rosella DE LEONIBUS, psicologa e psicoterapeuta
testimonianze; laboratorio artistico-espressivo per creare un’immagine per ogni diritto negato e/o rispettato.
Il convegno si svolgerà dalle ore 9 alle ore 14;
Decreto di riconoscimento MIUR 03-08-2011. Viene rilasciato Attestato di partecipazione.
La Pro Civitate Christiana prosegue nell’attivazione di Corsi di Formazione anche grazie al Riconoscimento del MIUR
con Decreto 3 agosto 2011.
Il Corso triennale per l’acquisizione di ABILITÀ di COUNSELLING volto a valorizzare competenze trasversali: saper comunicare, costruire relazioni, gestire conflitti, offre l’occasione per una crescita personale, per migliorare la propria professionalità a servizio delle relazioni di aiuto.
Il Corso si svolge a cadenza modulare, per 160 ore di aula, 10 ore di supervisione, 40 ore di tirocinio e 50 ore di integrazione
culturale.
L’iscrizione è prevista entro il 15 gennaio 2012 completa di curriculum. Si rilascia attestato di qualifica professionale
Il Corso triennale di Formazione in ARTETERAPIA, già al 2° anno di vita, favorisce, attraverso la pratica di diverse tecniche
espressive, la capacità di facilitazione delle relazioni, recupero e potenziamento della identità e creatività personale. Si
svolge in otto moduli mensili a fine settimana per 150 ore di aula; termina con una valutazione finale e un attestato di
frequenza con profitto.
La domanda di iscrizione munita di curriculum personale scade il 15 gennaio 2012.
Informazioni iscrizioni soggiorno
CITTADELLA OSPITALITA’ - via Ancajani 3 – 06081 ASSISI PG - tel.075/812308-075/813231 - fax 075/812445;
[email protected]; [email protected] - http://ospitassisi.cittadella.org; www.cittadella.org
12
RESISTENZA E PACE
Raniero
La Valle
H
a detto mons. Crociata, segretario generale della Cei, che «la Chiesa non fa
i governi né li manda a casa». Non è
sempre stato così, ma è giustissimo
oggi affermarlo. Tuttavia quando la
Chiesa vuol mandare un messaggio
forte dovrebbe evitare di farlo in modo che ciascuno ci possa vedere quello che vuole.
Ad esempio è stato evidente a tutti che quando
nella sua prolusione al Comitato permanente
dei vescovi il cardinale Bagnasco ha denunciato i comportamenti contrari al pubblico decoro e intrinsecamente tristi e vacui su cui «si
rincorrono» doviziosi racconti, quando ha lamentato la mancanza di misura, sobrietà, disciplina ed onore e i comportamenti licenziosi
e le relazioni improprie di «attori della scena
pubblica» che la collettività guarda con sgomento e che fiaccano pericolosamente l’immagine del Paese all’esterno, si riferiva al presidente del Consiglio: perché, per quanto ci siano peccatori, non ci sono oggi altri «attori della scena pubblica» che sono guardati con sgomento dalla collettività, che sono capaci di
umiliare l’immagine del Paese all’estero, e sui
quali «si rincorrono racconti» che rivelano «stili
di vita difficilmente compatibili con la dignità
delle persone e il decoro delle istituzioni e della vita pubblica»; né c’è altri che, per rimediare
a tutto ciò, potrebbe essere «chiamato a comportamenti responsabili e nobili», ossia ad andarsene, ciò di cui la storia stessa prenderebbe
atto.
Naturalmente in questo identikit mancava il
nome di Berlusconi, ma tanto è bastato ai patiti
del premier per dire che l’accusa del cardinal
Bagnasco riguardava tutti, e non poteva essere
usata contro il presidente del Consiglio. C’è stata
anche una citazione infedele – questa sì strumentale – delle parole del cardinale da parte di alti
esponenti cattolici del Pdl, da Formigoni a Lupi
a Quagliarello, che in una lettera all’Avvenire attribuiscono a Bagnasco una critica ai giudici per
un’eccessiva attività investigativa «nei confronti
di un’unica persona quando altri restano indisturbati», mentre il riferimento personale nel discorso del cardinale non c’era ed egli non aveva
parlato di singoli imputati, ma dei diversi «versanti» su cui non ugualmente si eserciterebbe
l’azione punitiva della magistratura.
La vicenda è incresciosa, perché troppo alta era
la posta (rispondere all’«attonito sbigottimento
del Paese», all’«oscuramento della speranza collettiva», al «cinismo» rassegnato di «un Paese
disamorato, quasi in attesa dell’ineluttabile») per
lasciare spazio alle ambiguità e al gioco interessato degli equivoci. Meglio sarebbe stato il «sì sì,
no no» dell’ evangelo e dire che l’innominato coincideva con la presidenza del Consiglio. Del resto
non si capisce perché la Chiesa ha il coraggio di
dire nome e cognome dei preti pedofili, e ha perfino deposto vescovi dai comportamenti censurabili, ma poi non osa sollevare il velo che nasconde l’impuro sacrario del potere politico.
Un’altra cosa importante ha detto il cardinale
Bagnasco in quel consiglio della Cei: che ai fini
di una presenza riconoscibile ed «efficacemente
organizzata» dei cattolici nella società, si sta
lavorando a un nuovo «soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica»: cioè, se
non si tratta di una Fondazione come quella di
D’Alema, un partito.
Ma quale partito? Nei partiti i cattolici ci sono
già, a destra e a sinistra, e sono riconoscibilissimi (basta guardare la Televisione); se poi si tratta di fare un partito tra destra e sinistra, di fattura quasi esclusivamente cattolica, questo partito c’è già, ed è inutile che i vescovi ci lavorino:
è il partito di Casini e forse, se riesce a portarsi
dietro un po’ di parlamentari del Pdl, di Pisanu.
Se la Cei vuole ora un altro partito (o un’altra
«interlocuzione» con la politica) di marca cattolica, non può trattarsi che di un partito confessionale; i suoi membri sarebbero infatti
lì riuniti in forza della loro confessione, e non
delle loro idee politiche, e i suoi contenuti sarebbero anzitutto quelli che la Chiesa presenta
loro come «non negoziabili», che però un partito o dovrebbe negoziare o dovrebbe imporre,
scordandosi democrazia e laicità. Ma questo non
va troppo d’accordo con il monito che negli stessi
giorni Benedetto XVI rivolgeva ai cattolici tedeschi, quando diceva loro che il vero problema
della Chiesa è di «distaccarsi dalla mondanità
del mondo» e che questo riguarda anche i discepoli di una Chiesa «demondanizzata» e «liberata dal suo fardello materiale e politico».
Ciò vuol dire che il problema di una efficace presenza dei cattolici «per rendere politicamente
più operante la propria fede», si pone in tutt’altro modo. Prima di tutto nel pluralismo, perché
pluralistica è la società e molteplici sono le percezioni del bene comune e le vie per conseguirlo. Poi con responsabilità propria e senza rinvii
ad autorità superiori; ma tutto questo è già spiegato nella Gaudium et Spes.
C’è però un problema specifico per l’Italia: questo pluralismo, e perciò anche quello dei cattolici, non è possibile nell’attuale sistema bipolare. Se tale sistema dovesse perpetuarsi, la Chiesa mal sopporterebbe che i cattolici non stiano
tutti dalla stessa parte; e quelli che non ci stanno, nella riaffiorante tentazione dell’unità politica dei cattolici, soffrirebbero di una emarginazione come cristiani. Ci vuole invece pluralismo, sistema rappresentativo e proporzionale;
allora i cattolici ci potrebbero essere, in vari
modi, perfino con una «Sinistra cristiana». ❑
13
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
l’interlocuzione cattolica
MEDIO ORIENTE
nuovo ruolo
della Turchia
Maurizio
Salvi
ra i tanti segnali ambigui, e a volte
sconfortanti, che provengono dal
Medio Oriente, e più in generale dal
Grande Arco di crisi che va dal Marocco all’Iran, ce n’è uno nuovo, interessante, e vorremmo dire incoraggiante, costituito dal crescente ruolo
che in questa regione sta giocando la Turchia. Ankara continua ad avere numerosi
problemi interni, primo fra tutti la dolorosa questione curda che resta la principale preoccupazione nazionale, ma una
serie di fattori nazionali ed internazionali
hanno spinto i dirigenti turchi a ritenere
che sia giunto il momento di formalizzare
una ambizione a contare di più a livello
regionale ed internazionale.
L’anno di svolta per questo è stato il 2010,
con la grave crisi di relazioni con Israele
legata all’uccisione di nove cittadini turchi
a bordo di una nave turca che nel maggio si
dirigeva verso Gaza. Evento a cui è seguita
la decisione di farsi entusiasta propugnatrice del diritto dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di presentare all’Onu la questione del riconoscimento della Palestina
come Stato, nonostante l’avversione di Tel
Aviv, degli Usa e dell’Unione europea (Ue).
la forte crescita economica, seconda solo a
quella di Cina e India che ha trasformato la
Turchia nella 17/a potenza del mondo e
membro rispettato del G20, ha convinto il
premier ad innestare una marcia superiore
nella politica estera turca, allontanandosi
da una linea conciliante con l’Occidente e
legata all’ingresso nell’Unione europea (Ue).
Incoraggiato in questo anche dalla principale formazione di opposizione, il Partito
repubblicano del popolo (Chp), fondato da
Mustafa Kamal Ataturk, espressione della
media borghesia colta, e più laico ed aperto alle libertà individuali dell’Akp.
Forte della favorevole congiuntura e dimenticando una Europa sempre più presa dai
suoi problemi economici interni, Erdogan
ha realizzato un simbolico viaggio attraverso i tre paesi (Tunisia, Egitto e Libia) che
hanno segnato la stagione ancora in corso
delle rivolte arabe, e che devono però chiaramente indicare se le esigenze di democrazia, pluralismo e rispetto dei diritti umani espresse nelle piazze saranno realmente
recepite dai governi chiamati in un futuro
prossimo ad assumere il potere.
il viaggio di Erdogan
L’attivismo diplomatico internazionale turco ha messo in fibrillazione le diplomazie
mondiali, per le conseguenze che potrebbe
avere un mutamento dei rapporti di forza
nella regione mediorientale, dove Israele è
in evidente difficoltà di fronte a quanto accade e si aggrappa ad uno statu quo che assomiglia sempre di più ad una paralisi che
visibilmente nessuno più vuole mantenere.
Quello che maggiormente teme il premier
Benyamin Netanyhau è la saldatura di un’alleanza turco-egiziana che romperebbe gli
equilibri esistenti e rimetterebbe in discussione quanto raggiunto a livello diplomatico da decenni (sì, proprio decenni) di negoziati guidati da Stati Uniti ed Europa che
sostanzialmente non hanno portato a nulla
F
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Saggiamente il premier Recep Tayyip Erdogan, prima di affermare l’avvento di una
nuova era nelle relazioni fra la Turchia e la
regione mediorientale e nord-africana, ha
atteso una conferma elettorale, puntualmente avvenuta con la vittoria del suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp)
nelle elezioni legislative di giugno con quasi il 50% dei voti. Ricorderemo che si è trattato della terza vittoria consecutiva dell’Akp,
un risultato questo molto significativo ed
un 1-2-3 ottenuto per la prima volta da un
partito turco dall’introduzione del multipartitismo avvenuta nel 1946.
Questo successo, naturale conseguenza del14
garanzie sulla terra ai palestinesi
sostegno ai Fratelli Musulmani
Essa comporta la segnalata rottura politica
e militare (ma non economica) con Israele,
ed una strategia della porta aperta con tutti
i governi della regione, compresi quelli isolati (Iran) o in difficoltà (Siria), ed un non
tanto nascosto sostegno a formazioni politiche come i Fratelli Musulmani. Che, a giudizio di Ankara, hanno maturato nel corso
degli anni un sufficiente grado di accettazione del pluralismo politico ed economico da farne partner non più preoccupanti
per il futuro assetto istituzionale del mondo arabo ed islamico.
Un’intesa con questa forza è per Erdogan
necessaria per contrastare i pericoli insiti
in una possibile offensiva elettorale, e non
solo, di movimenti e partiti integralisti islamici o, peggio, con ambizioni nazionaliste
e contrarie all’economia di mercato che esistono e si agitano in molte nazioni della
regione in esame.
un neo Impero Ottomano?
Come era possibile immaginare il nuovo
attivismo turco ha sollevato numerose cri-
tiche legate a quello che sarebbe il rilancio
di una sorta di neo-ottomanesimo per imporre una leadership turca su una regione
che in passato fece parte appunto dei fasti
dell’Impero Ottomano.
Fra quanti hanno criticato questo ruolo turco vi è stato il presidente siriano Bashar al
Assad, che ha respinto un suggerimento
turco di associare al potere i Fratelli Musulmani (illegali in Siria) e sostenuto di essere contrario a che «l’Ottomanesimo possa sostituire l’Arabismo e che Ankara diventi
il centro delle decisioni del mondo arabo».
«Ma che neo-Ottomanesimo!», ha ribattuto Suat Kiniklioglu, vice-presidente del Dipartimento internazionale del partito di
Erdogan. «Non siamo andati là per ricreare l’Impero Ottomano – ha assicurato – ma
per mettere a profitto il più possibile l’influenza in una regione che sta accogliendo
positivamente la nostra leadership».
una gestione regionale?
Ma è stato il ministro degli Esteri, Ahmet
Davutoglu, a svelare l’ambizioso piano che
si nasconde dietro l’offensiva internazionale turca. In una recente intervista ha spiegato che la Turchia vuole facilitare una integrazione della regione, grazie anche alla
fortissima espansione commerciale registrata in essa dalla Turchia dal 2002 ad oggi.
In sintesi il capo della diplomazia turca
immagina per il Medio Oriente ed i paesi
limitrofi una sorta di Unione simile a quella europea degli inizi, «con una integrazione economica ed un coordinamento politico» che, date le circostanze, richiederà un
certo coinvolgimento anche delle sfere militari. «Ma il processo – ha insitito – dovrà
avere una gestione solo dei paesi della regione. Una gestione non turca, non araba,
né iraniana, ma assolutamente regionale».
Con la speranza in definitiva che un boom
economico possa aiutare a risolvere non solo
il problema israelo-palestinese, ma tutte le
numerose crisi che affliggono l’area. «È un
fatto che le vecchie politiche sono fallite e che
ce ne vuole una nuova», ha osservato al riguardo il professor Ersin Kalaycioglu, docente
di Scienze Politiche dell’Università di Istanbul. Secondo lui «la visione di una regione
ispirata dalla Turchia, prospera e stabile, è
non molto di più di una promessa impalpabile nel mezzo delle rivolte». «L’immagine è
bella – ha concluso – se poi porterà anche
dei frutti, sta a ciascuno immaginarlo. Per
ora dietro questa immagine non è ancora
nato nulla di veramente importante».
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
di tangibile per il popolo palestinese.
Bisognerà ricordare, di fronte al nuovo slancio e disponibilità dimostrata in queste settimane dal Quartetto (Usa, Unione europea,
Russia e Onu) e all’attivismo del presidente
Barack Obama che in passato si era detto
favorevole all’esistenza di due Stati vicini
(Israele e Palestina), che quello stesso Quartetto nella prima metà del decennio scorso
aveva proposto una Road Map che prevedeva la costituzione di uno Stato palestinese
entro la fine del 2005. E che di fronte al mancato appuntamento, l’Amministrazione statunitense (a quell’epoca condotta da George
W. Bush) aveva convocato i Grandi del mondo ad Annapolis per ribadire lo stesso obiettivo, ma per la fine del 2008. Successivamente Obama aveva assicurato che la costituzione di tale Stato sarebbe stata la priorità del
suo primo mandato che sta per concludersi.
Ora la Turchia, che pure è alleato fedele
degli Usa nella Nato, ha deciso che è giunto
il momento di praticare altre vie per ottenere quello che è un obiettivo assolutamente non più procrastinabile, ed ha adottato
una strategia a tutto campo per raggiungere il suo obiettivo, ponendosi in un certo
senso a garante del fatto che la soluzione
che sarà trovata per dare ai palestinesi la
terra che loro spetta godrà della garanzia
della storia di democrazia e pluralismo che
Ankara si è storicamente conquistata.
Maurizio Salvi
15
IL MANIFESTO DI CONFINDUSTRIA
l’inizio
di quel che verrà
dopo
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Roberta
Carlini
16
l diciottesimo anno e al quarto
governo dell’era Berlusconi, gli
imprenditori italiani paiono definitivamente decisi a scendere
dal carro del Cavaliere.
Dopo l’estate più pazza dell’economia italiana, quella in cui la parola
«spread» è entrata nei titoli dei Tg della
sera a raccontarci che eravamo nei guai
con i mercati finanziari di tutto il mondo,
e il nostro debito pubblico è cresciuto per
puro effetto della sfiducia che si spargeva
verso la nostra possibilità di ripagarlo;
dopo settimane e settimane a fare e disfare manovre, fare e disfare governatori di
Bankitalia, con tutto il mondo a precipizio intorno e il governo tutto centrato sui
problemi personali con la giustizia di ministri e assistenti di ministri; al termine di
tutto ciò, e in vista d’un autunno caldissimo, Confindustria ha virtualmente licenziato il governo.
Ha dettato un manifesto in cinque punti,
chiedendone la realizzazione immediata;
ha alzato la voce contro il tempo perso e le
promesse mancate; ha addirittura ritirato
gli inviti ai membri del governo alla prestigiosa passerella di Capri: quei meeting
nel corso dei quali ogni anno i giovani imprenditori – che sarebbe meglio chiamare
«i figli degli imprenditori», visto che sono
affollati di rampolli di buona famiglia più
che di emergenti inventori di geniali startup – criticano per due giorni il governo di
qualunque colore per poi spellarsi le mani
quando, alla fine del week-end, il ministro
dell’economia o il presidente del consiglio
di qualunque colore salgono sul palco per
omaggiarli e arringarli.
A
Chi legge potrebbe non concordare con
l’ironia di queste righe. Di fronte alla gravità del momento, è bene che si faccia finalmente fronte comune per affrontare seriamente la situazione mettendo anche tra
parentesi divisioni vecchie e rancori umorali – si potrebbe dire, e auspicano in molti.
le richieste
Senonché, quel che è in discussione in
questi giorni, dopo la pubblicazione della
lettera con la quale il governatore uscente
della Bce Trichet e quello entrante Draghi
dettano al governo italiano quel che deve
fare, e dopo le uscite pubbliche dei rappresentanti del mondo produttivo italiano, non è la fine dell’era di Berlusconi e –
nel campo economico – della «Berlusconomics»; ma l’inizio di quel che verrà dopo:
sarà una politica nuova, orientata alla discontinuità con gli ultimi vent’anni, o una
continuazione presentabile del ventennio?
Il manifesto presentato da Confindustria
(insieme alle associazioni degli artigiani,
a quella dei banchieri, a quelle delle cooperative, dei commercianti e delle assicurazioni: tutto il mondo produttivo organizzato, insomma) ripropone in cinque punti
un programma per gran parte già visto:
spesa pubblica e riforma delle pensioni (tagliare la prima, riducendo le seconde); cessione del patrimonio pubblico (privatizzazioni dei servizi pubblici locali e vendita
di immobili); liberalizzazioni e semplificazioni; rilancio delle infrastrutture e investimenti nell’energia (aprire i cantieri
delle grandi opere, riportare l’energia alla
competenza nazionale e non regionale). Il
concorrenza o nuovi affari?
Tutti punti che in teoria un governo di destra non dovrebbe aver problemi a sottoscrivere, e che infatti – salvo la patrimoniale – ha sempre dichiarato di voler attuare, ma senza farlo o comunque senza
riuscirci.
Ma su ciascuno di questi punti, l’attuale
leadership degli industriali è ancor meno
credibile del governo Berlusconi-Tremonti. Prendiamo la parola più in voga, la mitica riforma a costo zero: le liberalizzazioni. Liberalizzare vuol dire aumentare il
grado di concorrenza nell’economia. Ma
quanti dei nostri imprenditori lo vogliono
davvero? Quanti si sono stracciati le vesti,
o hanno almeno comprato mezza pagina
di pubblicità sui giornali, quando il governo ha chiuso spazi di concorrenza anziché aprirne? Se si va sui libri sociali dell’Alitalia e si guarda la composizione dell’azionariato, si trova un bel 0,8% alla Marcegaglia Spa: e infatti la presidente di Confindustria entrò, con pochissimi soldi ma
molto clangore mediatico, nella cordata
che doveva «salvare» Alitalia dagli stranieri. Per benedire la quale il governo sospese d’imperio la concorrenza tra gli operatori del traffico aereo tra Roma e Milano.
Sappiamo poi com’è andata a finire: una
montagna di soldi pubblici spesi per evitare un esito (la vendita di Alitalia ai francesi di Air France) al quale stiamo arrivando
comunque. In quel caso la concorrenza
non era da difendere. Così come non lo era
per i grandi appalti delle grandi opere deci-
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
quinto punto è l’unico che ha dentro una
proposta inedita per gli industriali: parlando della necessità di riforma fiscale e lotta
all’evasione, ipotizzano l’introduzione di
un’imposta patrimoniale dell’1,5 per mille.
17
IL
MANIFESTO
DI
CONFINDUSTRIA
se nelle consorterie dei «general contractor» (tutto lo stato maggiore di Confindustria); né per l’assegnazione delle frequenze tv liberate dal digitale; né in tanti
altri casi nei quali magari la Confindustria
non è entrata mani e piedi con il nome e la
faccia del suo presidente – come è successo per Alitalia – ma si è ben guardata dal
far sentire la sua voce di protesta.
Viene il sospetto allora che più che le «liberalizzazioni» – parola alla quale sarebbe meglio sostituire la più semplice «concorrenza» – a Confindustria stia a cuore la
cessione sul mercato di attività adesso gestite dal pubblico. E infatti ne parla nel
punto riguardante le dismissioni, tornando alla carica sui comuni e i servizi pubblici locali. Un settore di business nel quale molti imprenditori vogliono entrare, anche perché spesso è – e potrebbe restare –
protetto dalla concorrenza, dunque appetibile: come sono stati appetibili per i Benetton, i Ligresti, i Romiti, etc i monopoli
privatizzati negli anni ’90, dalle autostrade agli aeroporti, nei quali i privati sono
entrati senza migliorare la qualità e la
quantità del servizio ma rimettendo a posto non di poco i loro bilanci e i loro profitti.
Insomma si ha l’impressione che – come è
sempre successo nella storia italiana, caratterizzata da una cronica carenza di una
borghesia autenticamente produttiva – più
che chiedere al governo presente o futuro
un clima e uno spazio più favorevoli alle
iniziative d’impresa, si stiano chiedendo
nuove occasioni d’affari, nella solita area
grigia tra politica ed economia che a parola tutti dicono di voler illuminare ma che
invece rimane sempre assai oscura. A proposito di zone grigie: nel capitolato delle
imprese si parla di lotta all’evasione e di
ritorno alla tracciabilità dei pagamenti, ma
non si trova traccia di alcuna dichiarazione pubblica di critica quando, all’esordio
del suo quarto mandato, Berlusconi con
Tremonti abolì le misure di Visco in proposito, anzi allora si festeggiò.
si cambia cavallo
con patrimoniale al seguito
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Ciononostante, alcune novità ci sono nel
manifesto delle imprese. E la prima è proprio nel fatto che il manifesto è stato fatto.
Sia pure con ritardo gravissimo e colpevolissimo, l’élite economica si è resa conto
che con questa classe dirigente politica non
si va da nessuna parte, neanche il piccolo
cabotaggio del tirare a campare riesce più.
Dunque, si cambia cavallo. Ma i nuovi «ca18
valli» – le cui redini stanno più o meno
dalle parti del centrosinistra – prima di
farsi ammaliare dai punti delle imprese
dovrebbero forse fare un esercizio di memoria, e ricordare ai nuovi arrivati nel club
dell’opposizione le colpe passate. La seconda novità, l’unica proposta che anche i
nuovi «cavalli» potrebbero recepire con
soddisfazione, è nella prima timida apertura sul fronte fiscale: l’imposta patrimoniale, prima considerata una parolaccia o
uno spauracchio, è finalmente entrata a
pieno titolo nel dibattito pubblico. In un
paese nel quale il 45% della ricchezza è in
mano al 10 per cento più ricco della popolazione, e nel quale ci si appresta a un periodo di manovre fiscali dolorosissime, il
pensare di prendere i soldi dove stanno,
ossia in quel 10% più ricco, dovrebbe essere normale non solo per la sinistra ma
anche per i liberali.
Finalmente se ne parla, forse si arriverà a
una proposta compiuta: per dire, andando
oltre quel che Confindustria dice, che si può
pensare a risanare il bilancio pubblico compiendo allo stesso tempo una buona azione
di redistribuzione; e senza deprimere ulteriormente i salari e l’economia.
Sarebbe il primo segnale di quella discontinuità di cui si parlava all’inizio. Una discontinuità che è un’esigenza politica, ma
anche economica. Affidarsi alla sola linea
tagli-privatizzazioni-dismissioni, infatti, è
in questo momento rischioso e potenzialmente suicida. Perde di vista il fatto che,
se un’emergenza del debito c’è in questo
momento, è dovuta all’aumento degli interessi e al calo della produzione, più che
all’aumento della spesa pubblica. Cosa succederebbe se attuassimo in pieno la linea
che va da Draghi a Confindustria, passando per quella parte del partito democratico che si è adesso invaghita del banchiere
Profumo? Dov’è la domanda che dovrebbe sostenere la crescita, in questo contesto? Per chi dovranno produrre le imprese
finalmente «liberate» (non si sa bene da
cosa, visto che erano state finora quantomeno benevole col proprio aguzzino)?
Chi chiede queste cose viene spesso tacciato di volere un keynesismo fuori tempo
massimo, o una anacronistica lotta di classe. Dimenticando che forse fuori tempo
massimo è ormai arrivato il sistema economico sul quale abbiamo modellato le
nostre politiche nell’ultimo ventennio; e
che la lotta di classe già c’è, e il programma di Confindustria ne è uno splendido
esemplare.
Roberta Carlini
OLTRE LA CRONACA
Romolo
Menighetti
dello stesso Autore
LE IDEE
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o Stato si manifesta sempre più
solerte e implacabile esattore
quando deve riscuotere, ma continua a prendersela comoda quando deve pagare i suoi creditori,
cioè i cittadini.
Ne sono ulteriore conferma le nuove procedure di riscossione che il Governo garantisce all’Agenzia delle Entrate (più precisamente al suo braccio armato Equitalia), con le disposizioni entrate in vigore il
primo ottobre. In forza di queste Equitalia dovrebbe ricupere 13 miliardi: tale è la
cifra che la manovra di Tremonti gli impone di racimolare.
Questo provvedimento pare non sia sufficientemente recepito in tutte le sue conseguenze dall’opinione pubblica. Ma i cittadini aventi pendenze con lo Stato se ne
accorgeranno quanto prima, al momento
delle notifiche.
Veniamo ai fatti.
Dall’1 ottobre le cartelle esattoriali sui
mancati pagamenti Irpef, Ires, Irap, Iva
relativi al 2007, 08, 09 diventeranno immediatamente esecutive già dopo 60 giorni dalla notifica. Cioè chi non paga subito
ha fino a 60 giorni di tempo per pagare. In
caso contrario, entro 180 giorni, essendo
l’avviso di accertamento immediatamente
esecutivo, può succedere, nell’ordine: iscrizione ipotecaria con comunicazione alla
Centrale rischi di Banca Italia, pignoramento del conto corrente bancario e dei
crediti verso terzi, o le ganasce fiscali sui
veicoli. Dopo c’è l’esecuzione forzata.
Scompare la vecchia iscrizione a ruolo con
i suoi tempi allungati. Morale: se prima la
procedura per il ricupero crediti durava 1518 mesi, ora dura solo 8 mesi. Certo, entro
60 giorni dall’avviso di accertamento è possibile ricorrere, ma si deve depositare un
terzo della cifra oggetto di contestazione.
Ora, tenuto conto che il nostro sistema tributario produce il 40 per cento di cartelle
non veritiere – afferma Pietro Giordano,
segretario generale dell’Adiconsum – e perciò destinate a essere annullate dal giudice, succede che molti cittadini possano essere gravati da un onere improprio, cioè il
congelamento di somme che altrimenti
potrebbero essere investite nell’azienda.
Se questa procedura si applicasse solo ai
L
grandi evasori saremmo d’accordo. In realtà queste norme mettono nel mirino le medie e piccole imprese, nonché i singoli cittadini, anche, ad esempio, per una rata non
pagata a causa della crisi, per uno sbaglio
nella dichiarazione dei redditi o per una
multa causata da infrazione al Codice della
strada. È illuminante il caso della Sardegna, dove pastori, muratori, piccoli costruttori, partite Iva, si sono visti recapitare 80
mila cartelle, il che ha provocato una clamorosa protesta. Altro che favorire la crescita, qui si soffoca quel poco che c’è!
Ora, a fronte di questo zelo esattoriale dello
Stato non si nota un’adeguata sollecitudine quando è lo Stato a dover pagare i suoi
creditori, cioè i cittadini.
Secondo calcoli di Abi-Confindustria, sul
finire del 2010 lo Stato doveva alle imprese circa 70 miliardi di euro. Secondo Confcooperative, considerando tutti i tipi di
forniture e tutte le amministrazioni pubbliche debitrici, compresi Comuni e Province, tale cifra sale a 200 miliardi.
A rendere più drammatica per le imprese
la situazione ci sono poi i tempi di pagamento. Il Centro studi di Confindustria calcola un ritardo medio di 52 giorni nel 2009,
e di 86 nel 2010. Peggio di Portogallo (84),
Grecia e Spagna (65). Nel Sud Italia, poi,
sono 400 i giorni di ritardo dei pagamenti
della Pubblica amministrazione. È noto che
negli altri paesi europei in media i pagamenti vengono fatti entro 30 giorni. Siamo
dunque lo Stato europeo che paga con più
ritardo i suoi debiti ai fornitori.
Si tratta di una notevole zavorra allo sviluppo – secondo la Cgia di Mestre tale situazione pesa sulle imprese per circa 10
mila miliardi l’anno – che rallenta gli investimenti, quando non affonda le aziende.
Siamo all’assurdo: le aziende creditrici
sono costrette, loro malgrado, e pur essendo in difficoltà, a far da banca allo Stato.
Almeno fosse possibile compensare le pendenze fiscali con i crediti verso gli enti
pubblici! La legge c’è (n. 122 del 30 luglio
2001) ma manca il decreto attuativo del
Ministro dell’Economia. Tremonti evidentemente teme il conseguente mancato gettito, con buona pace dei fantomatici «decreti sviluppo» e delle aziende in crisi.
❑
19
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
severo quando esige, pigro quando paga
POLITICA ITALIANA
rabbia
leghista
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Ritanna
Armeni
20
uel dito medio di Bossi continuamente mostrato davanti alle telecamere. Quel turpiloquio usato
senza remore. Quelle frasi sprezzanti e autoritarie usate nei confronti dei «sottoposti» e delle
massime autorità. Quelle offese
continue all’Italia e al tricolore. Che cosa
c’è dietro i comportamenti «esagerati» del
grande capo della Lega nord?
Fino a qualche tempo si poteva pensare –
e i cronisti lo hanno pensato – che in quel
modo il senatur volesse mostrare una vicinanza con il suo popolo. Un popolo semplice che lavorava sodo, amava le osterie, i
canti, la battuta volgare e odiava i fannulloni, le tasse, «Roma ladrona». Un popolo
esasperato perché una parte della sua ricchezza andava al sud (questo almeno crede) e il nord era invaso dagli immigrati.
Oggi non è più così. Quel dito medio continuamente alzato indica altro, segnala al-
Q
meno altre due cose.
dissenso della base
La prima si può chiamare semplicemente
sconfitta. Il partito di Umberto Bossi è oggi
un partito sconfitto. Non ancora elettoralmente (anche se le ultime elezioni hanno
mostrato pericolosissimi cedimenti proprio nelle roccaforti della Lega) ma politicamente. L’alleanza su cui ha puntato tutte le sue carte, quella con Silvio Berlusconi, gli fa perdere consensi, provoca contestazioni a dir poco vivaci anche negli appuntamenti «sacri» per la Lega nord, quelli
che ogni anno a Pontida, sulle rive del Po
o nella laguna veneta rinsaldano in nome
della Padania il patto fra dirigenti e militanti. Quest’anno quelle feste sono stati il
luogo del malcontento verso il capo, e per
la prima volta contro un partito, il partito
del nord, che è diventato con i suoi mini-
una maggioranza. I leghisti hanno l’impressione che ormai i loro capi hanno tradito,
anche loro sono diventati «romani», anche
loro per motivi oscuri e sicuramente personali non mantengono fede agli impegni.
Ma quel dito medio continuamente alzato
non indica solo la sconfitta nel rapporto
con la base e, quindi, una divisione fra base
e vertice che potremmo definire verticale.
Essa indica anche una rottura orizzontale
che dai vertici del partito è vissuta appena
un po’ più diplomaticamente.
Fra le due divisioni, quella orizzontale e
quella verticale ci sono ovviamente nessi
strettissimi, ma quest’ultima, contrariamente alla prima, ha dei volti e dei nomi.
Primo fra tutti quello di Roberto Maroni,
ministro dell’interno, leghista moderato,
colui è stato indicato più volte come il successore di Umberto Bossi, che ha raccolto
qualche tempo fa in un sondaggio del quotidiano la Padania alla domanda «chi vor-
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
stri troppo romano, si è adeguato peccaminosamente agli equilibri del governo. La
rabbia è stata tanta soprattutto contro
un’alleanza di governo che non da più ai
leghisti quel volevano. E contro quel premier la cui condotta è in aperto contrasto
con i valori di un popolo «pulito e lavoratore» a cui i dirigenti leghisti volevano garantire il federalismo.
I voti in parlamento che hanno salvato
Marco Milanese, accusato di corruzione,
rivelazione di segreti d’ufficio e associazione per delinquere e il ministro Saverio Romano, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, non sono per niente
piaciuti al popolo del senatur. Anche in
quei voti hanno visto la volontà di mantenere a tutti i costi in piedi un governo che
non ha mantenuto le promesse, un rapporto fra Bossi e Berlusconi che non riesce
più a tener conto dei motivi veri per cui «il
popolo del nord» è entrato a far parte di
21
POLITICA
ITALIANA
resti come nuovo leader della lega nord» il
35 per cento dei consensi.
il nemico del cerchio magico
Maroni oggi si muove con grande prudenza. Da una parte cerca di rappresentare e
di gestire gli umori di una base che evidentemente non riconosce più l’assolutismo del vecchio capo, pensa che abbia perduto nei suoi rapporti con Berlusconi e
vorrebbe la conclusione di un’alleanza ormai deleteria. Dall’altro cerca di costruire
a Roma un cambiamento del quadro politico e del centrodestra che facilitino la successione nel governo e nella Lega.
A Maroni è chiaro che il cavaliere e il senatore sono uniti ormai da un patto indissolubile e che solo il ritiro del premier può
cambiare la situazione sia all’interno dei
partiti dell’attuale maggioranza sia nei rapporti fra di loro. Per questo con passi felpati tesse relazioni, dialoga con Alfano e
Casini, si muove in una prospettiva di cambiamento generale. Facendo questo non rinuncia a dare qualche segnale importante. Quando si è trattato di votare per l’arresto di Vincenzo Papa indagato nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta P4 di
fronte ai tentennamenti di Umberto Bossi
i voti dei maroniani sono stati decisivi.
Ma sono segnali appunto, all’interno di un
atteggiamento tanto prudente quanto ambizioso. Che però non passa inosservato.
Così il ministro degli Interni è diventato il
nemico principale del famoso «cerchio magico» il gruppo che protegge anche fisicamente il senatur, che lo accompagna dappertutto e che – si dice – ne determini le
scelte principali formato dai capigruppo in
Parlamento Reguzzoni e Bricolo, il tesoriere Belsito, la vicepresidente del Senato Rosi
Mauro, dal figlio il Trota, e dalla moglie.
la rivolta dei sindaci del nord
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
L’inimicizia del «circolo magico» non si
rivolge solo contro Maroni, ma anche contro gli altri protagonisti della crisi leghista, i sindaci del nord capeggiati da Flavio
Tosi, primo cittadino di Verona. Certamente Flavio Tosi è un maroniano, certamente
anche lui come il ministro degli Interni è
ormai convinto che l’alleanza con Berlusconi oggi sia nefasta, certamente come
Maroni non apprezza le uscite estremiste
del senatur, ma la spinta di Tosi a distinguersi dalle posizioni di Bossi ha anche
altre motivazioni. Esse stanno nel federalismo tradito e nella manovra economica
che hanno deluso profondamente i citta22
dini del nord amministrati dalla Lega.
Le misure economiche che hanno colpito
tutti hanno creato nel nord del paese una
delusione particolarmente cocente. In questi anni la Lega aveva costruito la sua identità come partito del nord che nel nord
avrebbe mantenuto e allargato ricchezza.
La manovra economica ha scalfito questa
identità e ha provocato uno sconquasso
che potrebbe portare da un momento all’altro alla implosione.
I segnali ci sono tutti anche negli organismi dirigenti di periferia. La lotta politica
fra maroniani e bossiani spesso capovolge
gli equilibri nei congressi provinciali e mette
in difficoltà Bossi. Maroni, prudente a livello nazionale, appare più deciso in periferia dove i suoi uomini contendono ai bossiani i posti dirigenti senza esclusione di
colpi. Oggi è la periferia più che il vertice il
luogo della crisi leghista. È qui che finiscono fraternità ostentate e diplomazie ormai
logore. È stato il sindaco di Verona a dire
una frase che certamente a Bossi e al cerchio magico è indigeribile, ma che rappresenta pienamente gli umori leghisti. «Un
ciclo è concluso. La cosa migliore sarebbe
che Silvio Berlusconi decidesse di farsi da
parte. Non nel 2013, ma il prima possibile».
Una presa di posizione netta, che aveva
scatenato la dura replica di alcuni fedelissimi di Bossi, tra cui il ministro Calderoli
e se non ha portato, come in un primo
momento si era pensato ad alcun provvedimento nei confronti di Tosi, ha costretto
i vertici leghisti a vietare la partecipazione
dei propri militanti e dirigenti ai cortei
contro la manovra.
un nodo che può essere solo tagliato
Fino a che punto potrà continuare un braccio di ferro che non è solo fra Bossi e Maroni ma fra il capo della Lega e la sua base,
fra i suoi collaboratori più stretti e la sua
famiglia, e il partito, i militanti e gli elettori del nord? Anche il risultato di questa
battaglia appare legato alla figura di Silvio Berlusconi, alla crisi ormai irrimediabile del suo governo al deterioramento
della sua figura pubblica. Bossi e Berlusconi sono davvero stretti da un nodo che
non può essere sciolto, ma solo tagliato. È
certo che in questa situazione non servono né i diti medi alzati, né le parolacce, né
gli inviti alla secessione in nome della Padania. Oggi non segnalano rabbia e aggressività, ma grande impotenza e l’imminente crollo di una leadership.
Ritanna Armeni
CAMINEIRO
il prezzo della crisi
L
gli indignados di Wall Street
Finché si protesta a Madrid è un conto, ma
quando il dissenso scende nelle strade di
New York a ridosso della Borsa mondiale
è tutta un’altra storia! «Siamo il 99%» è lo
slogan che ha convocato gli «indignados»
statunitensi sin dal 17 settembre scorso e
che ora dallo Zuccotti Park ha contagiato
anche Los Angeles, Boston, Chicago, Kansas City, Tampa e St. Louis fino a espatriare in Canada. È il tentativo di non delegare più il proprio destino ai maghi della fi-
nanza che hanno già mostrato di sbagliare i conti oppure di saperli fare solo a proprio vantaggio. Si tratta di una contestazione che va oltre il lamento della crisi e
individua il bacillo del malessere in un sistema economico che non funziona per
tutti. Si rivendica la necessità di individuare un’altra terapia che aggredisca i fattori e
non le parti inconsapevoli dell’organismo.
È un brivido che percorre il pianeta e che
vuole «cacciare i mercanti dal tempio».
ricette anticrisi
Sembra una crisi senza ricette. Non voglio
improvvisarmi chef dell’economia ma ritengo che in qualunque ricetta di questo
tipo non possa mancare la revisione dei
nostri stili di vita. Continuano a predicare
l’incentivo dei consumi per far circolare
l’economia. Presto ci si renderà conto che
i consumatori saranno sempre meno consumatori quando non avranno soldi da
spendere. Uno stile di sobrietà ci aiuta a
riscoprire l’essenziale. In ogni senso. È un
ingrediente che non sostiene soltanto l’economia ma dà sapore anche alla qualità
della vita. Se invece pensiamo al pentolone della politica allora la ricetta dovrebbe
comprendere la lotta all’evasione fiscale
che, secondo le stime più prudenti elaborate dall’Istat, dalla Corte dei Conti e dalla
Banca d’Italia ammonta a 120 miliardi di
euro. «Sommando evasione tributaria, lavoro nero, economia sommersa, riciclaggio e altre nefandezze – scrive Eugenio Occorsio sulle colonne di Affari&Finanza –,
il risultato è da choc: 560 miliardi». Infatti
il costo della corruzione è calcolato in 60
miliardi, la contraffazione in 7,5 miliardi
(sottrae all’economia legale 18,5 miliardi
all’anno) ed il lavoro nero (52,5 miliardi).
Nel computo non è inserita la spesa folle
di 20 miliardi per la costruzione degli aerei da combattimento F35. Infine una tassazione per le transazioni finanziarie (Tobin Tax) non sarebbe soltanto un versamento considerevole ma il giusto contributo al risanamento da parte di chi ha provocato i danni.
23
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Tonio
Dell’Olio
a tragedia di Barletta è il paradigma della crisi. Icona perfetta dei
giorni che viviamo. Le macerie
hanno restituito i corpi senza vita
di donne che – a detta dei parenti
– lavoravano oltre le otto ore consentite per meno di quattro euro all’ora.
L’impresa forse non aveva soldi per contratti normali, le donne si sottoponevano
a quei ritmi e a quelle paghe perché il mercato del lavoro non offre di meglio. Forse
anche il Comune ha archiviato frettolosamente la pratica della messa in sicurezza
o lo sgombero dell’edificio perché i tagli...
Tutta colpa del denaro che non c’è? Responsabilità di speculatori senza scrupolo
che hanno finanziarizzato l’economia rapinandole l’anima e forse anche il corpo?
Irresponsabilità dei timonieri della politica nazionale e internazionale che hanno
diretto la barca verso la tempesta senza
darsi conto del bollettino meteo o sottovalutandone l’entità? O l’incoscienza di chi
non ritiene di avvertire per tempo i passeggeri? Molto più semplicemente la cultura del profitto ad ogni costo ha chiesto il
sacrificio di altre vite umane? Ed è solo
un caso che questo sacrificio sia stato chiesto a cinque donne? Maria di 14 anni,
Matilde, Tina, Antonella, Giovanna. Pronto a scommettere che la vicenda scivolerà
rapidamente fuori dalle notizie di cronaca
per diventare cicatrice insanabile solo per
i superstiti e i familiari delle vittime. Per il
resto sarà un fascicolo raccolto con l’elastico per gli uffici del tribunale competente.
DONNE
un nuovo padrone
in casa
Fiorella
Farinelli
gni nuovo libro un successo. Ma
anche l’occasione di furiose discussioni tra donne. Elisabeth
Badinter, filosofa e femminista
francese, ci riesce anche questa
volta. Il suo ultimo saggio «Il conflitto. La donna e la madre», 200.000 copie vendute in Francia, uscito in questi
giorni da noi col titolo fuorviante di «Madri cattivissime» (1), sta già scatenando sul
web una tempesta di polemiche, confronti, prese di distanza.
A parlarne non sono solo voci autorevoli della
cultura femminista, critiche o consensi vengono anche da donne non note, segno che il
tema interroga, inquieta, fa pensare. Merito
anche della sperimentata capacità di Badinter – approccio diretto, analisi affilate, sguardo impietoso – di mettere a nudo i paradossi
della condizione femminile. Si tratta, questa volta, di una libertà che rischia, nel passaggio dalle generazioni che l’hanno conquistata a quelle che l’hanno ereditata senza
colpo ferire, di rovesciarsi nel suo contrario.
O
non solo donne non solo madri
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
È della maternità che si parla, e delle sue
trasformazioni da quando da destino obbligato è diventata oggetto di libera scelta. Sceglierla liberamente doveva significare anche
la libertà di non volerla, ma soprattutto quella di tener conto delle tante facce del desiderio femminile di maternità e dei tanti modi
diversi con cui possono viverla donne diverse per età, esperienza, cultura, condizione
sociale. Una liberazione, in effetti, per le giovani donne degli anni settanta che si trovavano nelle mani, grazie ai contraccettivi e
alle numerose trasformazioni di identità de24
terminate dall’accesso all’istruzione lunga
e a nuove prospettive professionali, diversi
modelli possibili di autorealizzazione. Il sogno dell’autonomia e della parità.
Essere donne senza necessariamente essere madri. Essere madri senza necessariamente essere «solo» madri. E senza dover
incorrere per questo in colpevolizzazioni di
sorta. È ancora così? Certo, per molte – le
più istruite, le più realizzate nel lavoro e in
altri ruoli sociali – è certamente così.
Ma c’è anche dell’altro, un’insidia che è venuta poco a poco materializzandosi, l’imporsi di nuovo un modello unico, che si può
solo accettare o rifiutare. Il rischio, proprio
quando le donne (almeno quelle occidentali) si sono sbarazzate del patriarcato, di
«trovarsi un nuovo padrone in casa». Non
il marito né il capo (che peraltro continuano, se pure in modi un po’ diversi dal passato, a ripercorrere i ruoli tradizionali) ma
il bambino, il loro bambino.
Cosa è successo? Secondo Badinter, c’è stato, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio
degli Ottanta, un vero e proprio «testacoda» della cultura femminista. Una brusca
torsione del pensiero delle donne, che riscopre la femminilità non solo come differenza ontologica ma come «una virtù di cui
la maternità è il cuore». Una nuova generazione di femministe, insomma, che torna a
considerare la maternità come l’esperienza
cruciale della femminilità, a partire dalla
quale si può costruire un mondo più umano e più giusto. A idealizzare la maternità,
e a proporne un modello unico, con connotazioni unicamente biologiche e naturaliste. Che si può solo accettare o rifiutare.
Quali sono le conseguenze? Sarà per questo, anche per questa idea della maternità
retorica della maternità
«Mamme cattivissime» non sostiene che
all’origine di questa idea di maternità ci
sia solo il femminismo «della differenza».
Mette in evidenza, anzi, come a questa torsione della cultura femminile contribuiscano le politiche neoconservatrici, il peggioramento del welfare, le crisi economiche
che tendono ad espellere le donne dal mercato del lavoro o a mantenerle comunque
in una condizione di subalternità. Vorrà
dire qualcosa, per esempio, che dagli anni
Ottanta, lo scarto tra le retribuzioni maschili e femminili non accenni più a diminuire, che le donne siano sempre più frequentemente colpevolizzate dai datori di
lavoro e dall’ambiente sociale per i congedi di maternità e per le richieste di conciliazione tra ruolo familiare e ruolo professionale, che non solo nell’Europa meridionale siano così forti le preclusioni a includere le donne nei livelli di massima responsabilità professionale e politica. Un contesto che oggettivamente favorisce la fuga
delle donne nei loro ruoli tradizionali.
Ma nella descrizione che viene fatta della
«retorica della maternità» e del modello che
ne viene veicolato dai media, è evidente che
Badinter vede una corresponsabilità diretta, o almeno un coinvolgimento, anche fem-
minile. Una condiscendenza pericolosa a
tutti i messaggi – e a tutte le politiche – che
considerano l’allattamento al seno, che implica una dedizione e una disponibilità totale e full time, sempre e comunque preferibile al biberon affidabile anche al padre o
ad altre persone. Una diffusa interpretazione «sacralizzante» dei bisogni, anche i più
minuti, del bambino, a cui «si deve» dare
sempre piena soddisfazione, con puntualità e prontezza assolute. Un’interpretazione
dell’amore materno come vicinanza fisica,
come fatto essenzialmente biologico, fatto
di pelle, di odori, di calore corporeo, di nutrimento. La donna, ancora una volta, nel
ruolo ancestrale di nutrice. Che non può e
non vuole condividere con nessuno i compiti dell’accudimento. I padri di nuovo relegati ai margini delle responsabilità genitoriali. Il bambino che «divide» la coppia.
Il bambino che obbliga al part time, e perfino all’uscita dal lavoro.
C’è del vero, indubbiamente, in questa rappresentazione del modo con cui oggi viene
vissuta sempre più diffusamente la maternità. E nei rischi di nuove colpevolizzazioni, questa volta dall’interno stesso del mondo femminile, delle donne che si sottraggano a questo modello. Il bambino al centro.
«L’impero del bambino». «Il bambino despota». Dietro – riflette Badinter – c’è, paradossalmente, proprio la maternità come
scelta, di cui oggi si decide il quando, il
come, le repliche. Dato che un figlio oggi
non capita più per caso, non si può essere
madri per caso. Il figlio è un’autorealizzazione, che non si può fare a metà o con l’occhio talora distratto altrove. È un «progetto» di sé che bisogna essere in grado di assolvere pienamente. Perfettamente. Tanto
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
come funzione totalizzante in cui la donna, per essere una buona madre, deve dedicarsi interamente al suo bambino, con la
massima disponibilità a tutti i compiti dell’accudimento, in una simbiosi totale non
solo nei primi giorni ma nei primi anni della
nuova vita, che in tutto il mondo occidentale si fanno sempre meno figli?
25
è uscito il volume
che raccoglie gli articoli
pubblicati su Rocca
DONNE
più oggi, una fase storica «in cui l’individualismo, la passione di sé, il narcisismo
non sono stati mai così potenti».
amore e autonomia
Tensioni di ogni giorno
e squarci improvvisi
violenze invisibili
e trappole nascoste
ci fanno così vicini
e così lontani…
Dove siamo? Chi siamo?
Tra i sogni e la routine
nel pianeta coppia
ci si muove insieme
eppure ognuno ha propri passi
equilibri
timbri emozioni e differenze
energie e ferite.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Forse solo una la certezza:
non si rimane mai
identici a se stessi.
pagg. 264 – € 18,50
per i lettori di Rocca
€ 15,00 (spese di spezione comprese)
Richiedere a Rocca c.c.p. 15157068
o bonifico bancario:
IBAN ITA 02008 38277 n. 000041.15.58.90
26
Non c’è da meravigliarsi che molte donne
rifiutino con rabbia queste analisi. Che respingano bruscamente le considerazioni, di
natura anche psicologica e pedagogica, che
mettono in evidenza come questi modi di
intendere la maternità – e di allevare i bambini – siano rischiosi, oltre che per le madri, per la sopravvivenza delle coppie e per
i bambini stessi. Che possono crescere fragili, dipendenti, con difficoltà di relazione,
egocentrici se nei primi anni di vita sono
avvolti da troppe ansie, troppe protezioni,
troppe cure. Se il rapporto esclusivo con la
madre fa sbiadire tutti gli altri. Se nessuno
gli dice mai di no, se tutti gli evitano perfino il disturbo di desiderare.
Ma ci sono anche donne, invece, che all’ironia con cui Badinter racconta delle inutili
fatiche cui tante mamme si sottopongono
perché i loro figli abbiano tutte le specialissime cure raccomandate da un esercito di
pediatri, psicologi, nutrizionisti, esperti di
giochi, animatori, mercanti di ogni genere
di prodotti per l’infanzia, reagiscono bene.
Con animo lieve e parole di buon senso.
Con il sollievo di vedere riconosciuta l’ambivalenza del loro desiderio e della loro esperienza di madri. L’amore ma anche il bisogno di autonomia, la cura ma anche l’esigenza di una vita altra, l’identificazione nel
ruolo ma anche la paura di perdervisi. E la
ricerca, mai definitivamente conclusa, di un
equilibrio tra le diverse parti di sé. Donne e
madri, donne non solo madri.
Elisabeth Badinter, del resto, è un buon
esempio. Di quelli che rassicurano. Tre figli, un buon numero di nipoti, una vita fatta anche di soddisfazioni professionali e di
impegno politico, tanti interessi e esperienze diverse. È stata una buona madre? È stata
sempre adeguata al compito? Lei dice, bonariamente, di avere fatto «quello che poteva». E consiglia di avere un atteggiamento analogo. È un buon consiglio, da tenere
a mente. Madri e non madri.
Fiorella Farinelli
Nota
(1) E. Badinter, Mamme cattivissime, Milano,
Corbaccio 2011.
RELIGIONI
in ascolto del grido
dei
popoli e delle coscienze
tavola rotonda al 69° Corso di Studi di Assisi
Izzedin Elzir
imam di Firenze, presidente Unione Comunità Islamiche d’Italia
Elizabeth Green
teologa, pastora della Chiesa battista, Grosseto
Tanaka Hiromasa
buddhista, giapponese, della Risso Kosei Kai, Roma
Giuseppe Laras
rabbino, pres. emerito dell’Assemblea Rabbinica Italiana, Milano
Dipak Raj Pant
antropologo nepalese, docente Università Liuc di Castellanza, (Va)
Domenico Sorrentino
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
vescovo di Assisi, Nocera Umbra, Gualdo Tadino
coordinatore
Raffaele Luise
giornalista Rai, Roma
27
RELIGIONI
C
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
redo che nello sporgerci sull’abisso siamo sempre ingenui
(chi mai ne può misurare la
profondità), anche quando pervicacemente il mondo, le società
e le chiese insistono ad autocelebrarsi e addirittura si impennano sul ciglio del burrone.
E l’abisso si profila all’orizzonte di questo terzo millennio con l’avvicinarsi contemporaneo
di tre catastrofi: quella economica, tanto più
evidente dalla crisi finanziaria globale del
2008, e che oggi si incrudelisce; quella ecologica, sempre più intrecciata a quella economica nel doppio grido dei poveri e della terra
schiacciati dal medesimo strapotere idolatrico di un mercato capitalistico che sembra
trionfare quale unica religione di un mondo
globalizzato; e infine la catastrofe psichica,
anch’essa avviluppata alle prime due, che ci
frantuma dentro, di cui si parla poco ma che
è sempre più nitida allo sguardo attento di
chi ha caro il destino dell’uomo.
Ecco, questa mi pare – sulla scorta di Raimon Panikkar – la forma che assume nel
nostro tempo il male che – scandisce il sottotitolo del Corso – sfida uomini e religioni. Noi lo decliniamo in questa tavola rotonda come «ascolto del grido dei popoli e
delle coscienze».
L’attenzione è centrata sull’uomo, ma noi
terremo sempre presente sullo sfondo il
grido della terra e delle creature, perché
sono due grida frutto del medesimo perverso dinamismo, quello di un’ingiustizia
che attenta all’armonia costitutiva della
Realtà: armonia sociale, tra gli uomini; armonia cosmica con la natura, e armonia
spirituale con la Divinità.
Giustizia – diceva Panikkar – è il rispetto
di quest’armonia che intesse la Realtà. E
questo è il bene, il cui statuto ontologico è
molto superiore a quello del male, e il cui
fascino siamo chiamati a riscoprire.
L’ingiustizia, di converso, è distruzione di
quest’ordine, e dunque si pone come massimo esempio di male, quel male che è soltanto distruzione e che alla fine distrugge
anche se stesso. E allora è proprio questo
il compito «divino» dell’uomo, trasformare i contrasti laceranti in polarità creative,
togliendo cioè il pungiglione al male.
Oggi sentiamo farsi più forte e aspro questo
pungiglione nel grido dei popoli e delle coscienze, a tutte le latitudini. Ma, a quel grido
di dolore sempre più va mescolandosi in questi ultimi tempi un grido di risveglio, che registriamo un po’ dappertutto: tra i giovani
internauti del periplo della riva sud e orientale del Mediterraneo... il grido tuttora desto di
piazza Tahrir al Cairo, in Libia, in Siria, in
Tunisia, che fa piazza pulita di quel comodo
mito dell’inconciliabilità dei paesi musulma-
28
ni con la democrazia e che reca in sé la possibilità di mettere in crisi i parametri jihaidisti
della lotta politico-religiosa. Più che le armi e
gli embarghi, sono questi giovani che possono decretare la fine del terrorismo. Questo
grido di risveglio è anche quello dei giovani
indignados in Spagna e che cresce in diversi
Paesi d’Europa, che serpeggia sotto la cenere
dall’Iran alla Cina; ed è il grido delle donne
stanche del giogo paternalismo in Italia come
in molte altre parti del mondo.
Allora, se questo è lo sfondo, come le religioni possono raccogliere questa sfida
complessa?
il grido dei popoli
Izzedin Elzir – Il male esiste da quando
esiste l’uomo su questa terra. Dipende da
noi se vogliamo affrontarlo, eliminarlo,
conviverci o aumentarlo.
Oggi certamente in diverse realtà nel mondo arabo islamico c’è un risveglio.
Questi popoli hanno vissuto per una quarantina, una cinquantina di anni senza libertà,
uno dei mali più gravi, senza dignità per l’uomo, ma hanno lottato in maniera pacifica fino
a che è giunto il momento storico di riuscire,
a mettere il male da parte e a lavorare per
l’interesse comune. In tutti questi anni abbiamo avuto purtroppo tantissimi pregiudizi
verso il mondo islamico, come se l’Islam non
fosse compatibile con la democrazia. Come
se noi occidentali fossimo un tipo di essere
umano e quello islamico un altro tipo. Abbiamo dimenticato che siamo un’unica famiglia umana, tutti siamo da Adamo, tutti crediamo in unico Dio, in arabo si dice Allah, in
italiano Dio, in inglese God, ma è lo stesso.
Se dobbiamo combattere il male, ognuno di
noi deve cercare di avere la sua fede religiosa, almeno di avere un principio ideale o
morale. Oggi dilaga il male perché purtroppo non ci sono più i principi, non ci sono più
le fedi, ognuno di noi fa i suoi interessi, vince
l’egoismo. E allora questo risveglio nell’altra
sponda del Mediterraneo, aiuta anche noi che
viviamo in Italia, in Occidente, a risvegliarci
a nostra volta per non dimenticare che abbiamo combattuto 60 anni fa per avere una
Costituzione così bella, che permette a tutti
la libertà religiosa, la democrazia, la dignità
e i diritti dell’essere umano. Valori che purtroppo oggi, a causa di questa crisi economica o ecologica e di altre crisi, stiamo dimenticando. Per tutti questi motivi credo che il ruolo delle religioni, in questo caso dell’Islam, è
molto importante. Noi abbiamo bisogno di
tornare a noi stessi, e cercare di fare jihad,
che nel linguaggio cristiano come in arabo
significa conversione e non guerra santa, perché le guerre sono sporche. Questo jihad dob-
nel Cristo, Dio che soffre con loro «gustando la morte per tutti». Gesù diventa la vittima per eccellenza con la quale le vittime di
ogni ingiustizia si possono identificare. Ma
non per questo la sofferenza di Cristo legittima l’ingiustizia e le sue vittime. Su questo
punto bisogna insistere, perché nel cristianesimo imperialista e maschilista la croce
ha avvalorato la vittimizzazione di donne e
uomini. Il Cristo crocefisso può permettere
protagonismo femminile
alle donne vittime di violenza di riconosceElizabeth Green – In primo luogo, i po- re un Dio che non le abbandona ma s’idenpoli il cui grido vorremmo ascoltare sono tifica col proprio obbrobrio ma non deve
composti di uomini e donne. Mentre le voci essere usata per mantenere nessuno nella
degli uomini si fanno sentire, a volte biso- posizione di vittima perenne.
gna stare fermi, in silenzio per captare il In secondo luogo, attraverso la croce il crigrido delle donne. Non ho dubbi che lad- stianesimo sfida il male. Gesù, infatti, viene
dove gli uomini gridano, a maggiore ragio- crocefisso perché ha sfidato il male, sfidando
ne avrebbero da gridare le donne in quanto tutto ciò che rendesse la vita di uomini e donspesso vittime due volte di un ordine eco- ne disumana, malattie, malformazioni, discrinomico ingiusto e di culture maschiliste. minazioni, emarginazione religiosa e sociaChe cosa sto dicendo? Semplicemente che le, le catastrofi psichiche della sua epoca. Vieil grido stesso dei popoli è declinato secon- ne crocifisso per avere sfidato norme e pratiche disumanizzanti e per aver aperto nella
do la diversa condizione dei generi.
Pensiamo alla violenza maschile contro le vita di uomini e donne un orizzonte di spedonne sulla quale avete già riflettuto. Se guar- ranza capace di recare trasformazioni reali
diamo solo il nostro paese, le donne che han- nel mondo. Viene crocifisso per aver annunno subìto violenza provano enorme difficoltà ciata e operata la guarigione di tutta una sea gridare, a rompere il silenzio, a procedere rie di relazioni ammalate e per aver affrancaalla denuncia. Per ascoltare il grido delle don- to l’essere umano dal potere del male. Possiane, quindi, bisogna tendere bene le orecchie. mo dire che tramite la croce, Dio raccoglie la
Eppure, la sopravvivenza delle famiglie spes- sfida del male e la vince. La croce, come sapso grava sulle spalle delle donne; il lavoro di piamo, non è la fine della storia. Se lo fosse
cura verso bambini, anziani e ammalati, e Gesù sarebbe stato uno dei tanti poveri cristi
quindi il nostro essere attaccate alla trama crocefissi dal potere imperiale. La croce è crocorporea della vita ci rende, in secondo luo- ce in quanto vi è resurrezione.
È la potenza della resurrezione ad operare
go, protagonisti nella sfida al male.
Una sfida portata avanti giorno per giorno ai nella vita di Gesù e a permettergli di sfidare il
pozzi come ai supermercati, a volte nei pa- male, fare camminare gli zoppi e vedere i cielazzi del governo come nelle associazioni, chi, trasformare il grido dei popoli in inno di
assunta nelle piazze a suon di casseruole. Non gioia. Ed è la potenza della resurrezione a pera caso al centro del movimento «Se non ora mettere donne e uomini oggi di sperare conquando» vi è la materialità dell’esistenza, il tro speranza e a sfidare il male. Non è un caso
corpo delle donne, la maternità, il lavoro, la che a fare da collante a questa storia sono le
rappresentanza ovvero la possibilità di fare donne che «lo avevano seguito e servito da
sentire nello spazio pubblico il grido dei po- quando egli era in Galilea e che erano salite
poli: uomini e donne, bambini e bambine, con lui a Gerusalemme». Presenti alla croce,
presenti alla sepoltura, testimoni della resurgiovani e anziani.
cristianesimo
chetraggo
raccoglie
la sfiIl cristianesimo come raccoglie laorrei
sfidacominciare
del rezione.
conUn
una
citazione che
dall’Auto
da del
ponendo
al suo centro
Gesù
male? Parlo da un punto di vista protestante
biografia, scritta
nelmale
1997,
di Norberto
Bobbio,
unoCridei
sto e lui
rinuncièall’uso
ideologico
mettendo, insieme all’apostolo Paolo,
al cennostri
rari maestri
dicrocefisso
civiltà: «L’Italia
sempre
stata un
croce, ascolti
il grido
delle
donne, valotro del mio breve pensiero Gesù Cristo
lui della
paese etragico,
nonostante
che le
nostre
maschere,
attra
rizzi
il
protagonismo
femminile.
crocefisso. Dal mio punto di vista verso
la croce
fa
le quali siamo conosciuti dagli stranieri, siano madue cose. In primo luogo,
la sfida
schereraccoglie
comiche:
il servo contento e il padrone gabbato. Un paese
del male. In Cristo Dio
condivide
il
male,
lo
i disastri
tragico anche se la maggior
parte deglidopo
italiani
non lo sa o finge di
«prende su di sé», lo abita,
lo
assume.
Fa
sue
non saperlo. O meglio, non vuole saperlo» (1).
Hiromasa
le conseguenze del male
cosicché
Rispondere
Non
so se ciil grido
sono dei
paesi Tanaka
non tragici,
dato il –modo
in cuialè grido
fatta ela
popoli: «Dio mio Diostoria
mio, perché
ci
hai
abal
dolore
delle
persone
colpite
dalle
catastroumana, in ogni caso questa frase ha uno spiccato sapore di
bandonato?» diventi il
suo. che oggi vorrei indagare
fi non ècon
semplice.
verità,
voi. L’11 marzo di questo anno
Gesù soffre come vittima del male cosicché i grandi terremoti e le successive serie di tsuLa tragedia che si sta consumando oggi nel nostro paese passa increle vittime di tutti i tempi, di tutti i soprusi nami hanno colpito il Giappone e hanno didibilmente inosservata, e questo passare inosservata ha molto a che
non siano abbandonati e reietti ma trovino strutto infrastrutture, case, uffici.
biamo farlo in ogni momento, per vivere la
retta via, e non secondo gli interessi personali. Sarà difficile farlo da soli, dobbiamo cercare di farlo insieme. In un mondo diventato
un piccolo villaggio è molto difficile lottare
contro il male chiuso ognuno nel suo ghetto,
che sia ghetto fatto di muratura o che sia ghetto mentale, che è ancora peggio.
INSERTO
testo integrale della
relazione tenuta alla Cittadella di Assisi
al 69° Corso di studi cristiani
Roberta De Monticelli
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
V
29
RELIGIONI
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Soprattutto, l’acqua del mare ha portato via
tutto. Questa calamità ha provocato problemi anche alla centrale nucleare come sapete.
È difficile trovare una parola per consolare
chi ha perso tutto e sta in profondo dolore, è
ancora più difficile capire il senso di questo
male, di questa tragedia. E d’altra parte, dopo
il terremoto, dal momento della prima scossa fino ad oggi, di fronte ad un disastro così
grande, tutta la gente del Paese si è unita nell’aiuto reciproco tra persone rifugiate, che ancora stanno nei rifugi, tra le zone più colpite
e quelle non colpite. Abbiamo conosciuto una
forte presenza di solidarietà con persone di
ogni parte del mondo, anche dall’Italia. E per
questo ringrazio tutti voi per la vostra preghiera, la vicinanza e per ogni vostro atto.
Oggi vorrei parlare proprio in questa chiave, del legame cioè e della relazione nelle
diverse dimensioni: con la natura, con la
persona e con il divino. Oltre al rapporto con
le persone, questa calamità ci ha indotto a
ripensare il rapporto tra l’uomo e la natura,
dal momento che ha distrutto anche la nostra illusione di poterne controllare totalmente le forze. Infatti la terra in cui viviamo
è oikos, una casa, in cui convivono tante altre forme di vita, che ha risorse limitate. Se
viviamo con uno stile di vita consumistico,
danneggiando così sia gli abitanti che la nostra casa, è chiaro che favoriamo noi stessi
questa crisi. Anche se sappiamo che una centrale nucleare rappresenta lo sforzo per rendere compatibile lo sviluppo della nostra vita
con il risparmio delle risorse naturali, si è
però manifestata la debolezza del nucleare
di fronte a un fatto così imprevisto. Nella
visione metafisica buddhista, si insiste con
particolare forza sui legami che esistono tra
tutti gli esistenti, sulla loro connessione e
dipendenza reciproca. In parole semplici,
abbiamo bisogno degli altri animali, dei vegetali, e anche dei minerali per mantenere
la nostra vita, e non possiamo rimanere egoisti sfruttando gli altri. Il Buddhismo ci richiama ad essere più coscienti del legame
con tutti gli altri esseri senzienti nel mondo
e più responsabili nell’abitare la nostra casa.
Anche nelle attività economiche, quando il
rapporto sulla distribuzione dei beni è fondato soltanto su desideri egoistici e sulla sfiducia degli uni verso gli altri, i ricchi diventano sempre più ricchi sfruttando i poveri,
che diventano sempre più poveri. Questo
crea un rapporto di ingiustizia in cui uno
non può ricevere ciò che deve ricevere. Sempre nella prospettiva di essere responsabili
nelle relazioni con gli altri, in questo terremoto tante persone del mondo e la maggior
parte della popolazione giapponese non colpita direttamente, hanno mandato le cose
necessarie, hanno offerto danaro e prestato
30
aiuto secondo la capacità di ciascuno.
Questa relazione nella comunione dei beni
in modo disinteressato, nella piena solidarietà e compassione, è stata come luce nel buio
e sicuramente questo terremoto è stato una
forte scossa anche a livello psicologico per il
popolo giapponese. Naturalmente c’è stata
tanta paura, e si è levato un alto grido di angoscia di fronte alla distruzione della vita e
alla perdita delle persone care, ma è anche
stata una scossa che ci sveglia, che ci chiama
a riflettere sul senso della nostra vita. Molti
sono diventati più generosi di quanto fossero
prima, riconoscendo la contingenza e il limite della nostra vita. Abbiamo riflettuto sulla
morte e sulla vita, e sulla fonte della nostra
vita. Nella tradizione buddhista il fiore di loto
simboleggia il modello di vita buddhista: il
fiore di loto cresce nel fango e diventa più
grande quando l’acqua è più sporca, ma il fiore non viene mai sporcato. Nello stesso modo,
uno più conosce il dolore più diventa bello,
più maturo, e se vive bene diventa più virtuoso senza essere sporcato. Nel «Sutra del loto»
si insegna che il Buddha utilizza ogni mezzo
possibile per il nostro risveglio, per la nostra
salvezza, e che lui è con noi sempre, in ogni
luogo, desiderando il compimento della nostra via. Dunque, se tante volte a noi è difficile comprendere il senso del male, sappiamo
che il male non rimane in quanto male, ma è
anche un mezzo per la nostra salvezza.
il male come assenza
Dipak Raj Pant – Grazie per avermi dato
l’occasione di condividere alcune idee, o più
che idee perplessità. Io non rappresento nulla, non faccio parte di nessuna associazione, non vado a nessun tempio, non frequento nessun circolo religioso, io rappresento
me stesso. Sono nato in una vecchia aristocrazia dell’Himalaya centrale, di antica tradizione, che è costituita da un mix di induismo, buddhismo e di un po’ di sciamanesimo. A questo primitivo insegnamento in sanscrito, si sono poi aggiunti l’università in
India, l’Accademia militare, il lavoro in giro
per il mondo. Ma venendo al discorso del
male, e partendo proprio dalla parola, dico
subito che se dovessi cercare un equivalente
in sanscrito, in nepalese o in tibetano, non
lo trovo perchè non è traducibile. È traducibile soltanto con un prefisso. Limitandomi
al mio Nepal – il continente indiano è troppo vasto per me – e parlando linguisticamente dal cuore dell’Asia che non è mai stata
colonizzata, e che non è mai stata conquistata neanche dai musulmani, – ci troviamo
a est del Kashmir, tra Tibet, Nepal e Sikhim
– ecco, in questa zona per dire «male» bisogna sempre usare qualche aggettivo. Il male
motivi di speranza?
Giuseppe Laras – Vorrei dire che io non so
se siamo alla vigilia di una triplice catastrofe
come diceva Panikkar. Ci sono nel mondo,
nella società, sufficienti elementi di speranza
e risorse spirituali nonostante le apparenze,
che ci fanno ben sperare; non siamo votati
alla catastrofe, non siamo quelli che dicono
«tanto le cose sono sempre andate così, continueranno così, oppure, quando sarà il momento le cose cambieranno» perchè questa è
la religione del fatalismo. Cristiani, ebrei, islamici, forse anche altri, non professiamo questa religione, perché la religione del fatalismo
è la religione in generale dei pagani. Noi pensiamo che sicuramente siamo condizionati
da alcuni elementi frenanti nella vita, però
possediamo la libertà che è la connotazione
che ci avvicina e ci fa assomigliare a Dio. L’immagine divina è la libertà, e la libertà di fare
delle scelte buone. Credo che parlando di giustizia noi dobbiamo pensare a queste cose.
Vorrei citare un passo famoso della Genesi,
in cui Abramo parla con Dio del destino degli
abitanti di Sodoma. A un certo punto si usa
la parola mishpat, che vuol dire giustizia, anche se in ebraico la parola giustizia si esprime anche con un'altra parola zedakà. Ebbene Abramo, a un certo punto, rimprovera Dio
di voler distruggere anche degli innocenti per
punire dei colpevoli: forse che il Dio della giustizia non farà giustizia? Se ci pensate è un
concetto di giustizia, quello che emerge da
questo confronto, molto importante: qualche
volta per rendere giustizia bisogna non rendere giustizia secondo i criteri ordinari, perché se c’è un colpevole deve essere punito,
ma la punizione di alcuni colpevoli può implicare la punizione ingiusta di persone innocenti e allora in questo caso si mitiga il concetto di mishpat ed entra in gioco quel concetto che è espresso con la parola zedakà da
cui deriva il sostantivo zadik e lo zadik è il
giusto. Mentre dalla parola mishpat deriva il
sostantivo shophet il giudice. Si tratta di spunti importanti perché ci devono fare riflettere.
Quindi noi dobbiamo combattere l’ingiustizia che è soprattutto il rifiuto dell’alterità, il
rifiuto dell’altro. Se noi insistiamo nel non riconoscere la presenza dell’altro, stiamo commettendo ingiustizia e questo è molto importante, qui sì che ci vuole molta forza, perché
istintivamente noi siamo portati a considerare solo noi stessi, chi c’è più importante di
noi? Però l’alterità esiste come te, e ha il diritto di esistere e quindi noi dobbiamo misurarci in questo confronto e non considerare l’alterità come un qualcuno che vuole attentare
alla tua libertà, alla tua stessa presenza, perché se fossimo soltanto noi, se fossimo soli,
che cosa saremmo? C’è quel passo famoso del
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
è quindi una realtà riflessiva, assenza di qualcosa e non presenza di qualcosa. Però – e
questa è la mia seconda considerazione – il
male come esperienza viene raccontato. La
malattia, la malformazione, i disastri naturali, le ingiustizie, gli sfruttamenti – lacrime
degli innocenti, noi le chiamiamo così – tutte queste cose esistono, come dato esperienziale. Questa esperienza viene spiegata prima con una teoria della imperfezione: tutto
ciò che è esistente è per forza imperfetto, se
fosse perfetto non esisterebbe, sarebbe già dissolto nel cosmo, sarebbe in stato di nirvana.
Quando qualcosa concretamente si manifesta, prende corpo, è già un essere finito, imperfetto, collocato nel tempo e nello spazio,
con contorni, con volume, con una certa caratteristica. Quando uno viene in esistenza si
crea già intrinsecamente l’imperfezione.
La seconda spiegazione, invece, è quella della danza cosmica. Siccome non c’è male,
concettualmente, non c’è neanche diavolo,
tutto l’apparato mito-teologico, non c’è il
diavolo, ci sono dei e dei, e altri dei ancora
e di queste varie divinità c’è un substrato
comune, quello che qualcuno in una concezione ancora più etica chiama Dio o Allah.
E qui nascono molte complicazioni. Dal
punto di vista metafisico, l’estremo oriente
è molto maturo, è adulto. Il mondo abramico, cristiano, islamico e giudaico è visto dal
nostro punto di vista come abbastanza infantile. Dio è Dio e basta. Nella danza di Dio,
questa danza di Shiva, ci sono diversi momenti, alcuni tremendi, alcuni che fan girare la testa, altri che non sono tollerabili e
sopportabili. Quindi è nella nostra esperienza di esseri particolari, piccoli, gettati là che
questo diventa male; il male è un dato esperienziale. Male è una assenza, non è presenza, non esiste il diavolo, esistono vari demoni che sono dentro di noi. Il male è dentro, è
la paura, è il dubbio, è la diffidenza verso
l’altro, è la non tranquillità, mali e demoni
sono dentro. Quindi la perfezione nelle arti,
yoga o arti marziali, è riconoscere di dover
sempre neutralizzare questi demoni interni. Al di fuori dell’interno, non esiste demone. Al di fuori di sé esistono solo il maestro,
le armi, il combattere, e nel neutralizzare il
male c’è una gerarchia. La più nobile arma
è il pensiero, calmare se stesso e far cessare
l’ostilità, questo alla fine si traduce nello strumento politico dell’ahimsa, la non violenza.
La seconda arma un po’ meno nobile è lo
sguardo, un po’ meno nobile è la parola, un
po’ meno nobile sono le mani e i piedi nudi,
un po’ meno nobile è l’accetta o la spada,
l’arma da pugno, ancora meno nobile la lancia. Puoi immaginare cosa sarà il cannone
o il bombardiere da questo punto di vista!
31
RELIGIONI
Trattato di Avot che dice: se io non sono per
me, chi è per me? Ma quando io sono per me,
che cosa sono io? E poi finisce chiedendosi:
se non adesso, quando?, (che è stato recuperato e adoperato oggi, e ne sono molto contento). Ma vorrei venire all’attualità. Abbiamo visto che c’è questo vento di ribellione, di
riscatto, animato da masse giovanili, che scuote i paesi del sud del Mediterraneo e questo è
il sintomo molto positivo di una realtà sociale, politica, religiosa, in via di cambiamento.
Ecco, in un contesto di questo tipo, si potrebbero manifestare condizioni nuove per porre
le problematiche mediorientali non più in
un’ottica di contrapposizione e di scontro ma
di incontro e di discussione, in un approccio
nuovo che tenga maggiormente conto della
vita umana e del rispetto dovuto a qualunque
persona, qualunque sia la sua nazionalità, la
sua religione, la sua cultura. Vorrei dire che
noi dovremmo cercare di risalire a una posizione che precede la posizione o la contrapposizione religiosa. Prima di essere musulmani, ebrei, cristiani, siamo figli della stessa
famiglia. Ecco, il concetto di famiglia umana
secondo me in questi contesti dovrebbe essere energicamente ricercato e recuperato. Perché le religioni, con tutto il rispetto, anche
loro sono attraversate da due tendenze, la tendenza all’apertura e la tendenza alla chiusura, perché chi è persuaso di detenere la verità
in generale diventa un po’ intollerante.
di fronte alle ambiguità
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Domenico Sorrentino – Io vorrei parlarvi
proprio con la gioia e la responsabilità di un
vescovo, che essendo il successore di quel
Guido che ebbe la ventura di accogliere Francesco e di coprirlo con il suo manto, poi ha
imparato e cerca ogni giorno anche di mettersi alla scuola di Francesco e comincia le
sue giornate, come ho fatto anche stamattina, cantando il Cantico, «laudato sie mi’ Signore cun tucte le tue creature», ed ora lo lodo
anche «cun tucti» questi amici che sono qui,
da diverse sponde, da diverse matrici religiose, con le quali veramente possiamo dialogare ritrovando tanto bene e anche tanto di comune su cui poggiare, anche con chi ha detto
cose che apparentemente, almeno a prima
battuta, possono sembrare distantissime,
come chi ci ha dato dell’infantile. In realtà
mentre il nostro amico nepalese parlava, facendo questo sforzo di lodare il Signore con
tutte le sue creature, io vedevo che, per esempio, anche nella nostra visione cristiana delle
cose, la metafisica del male è una metafisica
della privazione. E così è anche per quell’idea
della danza di Dio che nella spiritualità orientale è sentita in modo particolare.
Sant’Agostino diceva che Dio è infinitamente
32
distante nella sua infinità ma è infinitamente
intimo, più intimo a me di me stesso e dunque questo sentirci dentro il respiro di Dio,
senza essere Dio, ma chiamati ad esserlo per
grazia, questo è proprio della visione cristiana. E ringrazio anche la Pastora, mi ha anticipato e tolto delle cose che volentieri lascio
alla sua testimonianza quando ci ha raccontato e ricordato che questo «Dio Amore» non
sta soltanto dentro di noi e diffuso dentro il
cosmo, ma in un atto di follia e di amore,
perché è Dio Amore, si è fatto carne e si è
messo sulla nostra croce a portarla con noi.
Grazie Pastora. Il problema dell’ascolto, del
grido dei popoli e delle coscienze, è realmente una sfida e anche una grande pagina di
speranza. Avevamo bisogno di quest’ultima
ventata dal mondo orientale, perché ci eravamo forse un pochino assestati dentro un
clima di rassegnazione. E questo naturalmente può essere applicato a tante altre cose, a
tanti altri gridi. Ecco io qui vorrei dire, perché il discorso sia serio e perchè sia poi un
discorso fruttuoso, che è necessario «disambiguare» (voglio usare questa parola brutta
ma ormai per i wikipediani abbastanza corrente) questo concetto, perché se pure importantissimo, non deve essere idealizzato,
in quanto dentro il grido dei popoli c’è tanto
bene, c’è tanta speranza, ma al tempo stesso
ci sono tante ambiguità. Quanto sta succedendo in questo periodo nel mondo arabo
in rivolta, appartiene sicuramente a quella
storia della libertà che somiglia tanto a ciò
che l’Occidente ha vissuto, in diversi periodi
della sua storia, e come tale non può che
essere salutato da noi come segno dei tempi. Offrendo dunque solidarietà che significa stima, partecipazione, accoglienza, coinvolgimento. Non sono tuttavia sicuro che
l’appoggio armato che abbiamo dato a questa rivolta in Libia sia stato il modo più corretto di operare solidarietà. Mi chiedo se ciò
non convalidi la tendenza all’uso delle armi
sofisticate della guerra moderna nella soluzione dei conflitti sociali di libertà: ecco, qui
c’è una ambiguità da chiarire all’interno di
una pagina di grande speranza.
Altro esempio, la situazione della fame nel
mondo. In questi giorni se ne parla per regioni speciali del pianeta e a causa dei dissesti
ecologici, tutte cose che esigono una vicinanza, come lo esige la crisi occupazionale, l’accoglienza dei profughi, l’integrazione degli
immigrati. E anche qui è necessario un ascolto, senza se e senza ma. Ma questo grido chiama a una solidarietà che non si può risolvere
in elemosina, deve diventare un’autocritica
severa del nostro modo di vivere, deve farsi
politica globale della solidarietà, deve ricondurre l’economia a principi etici di giustizia e
di garanzia per i più deboli, deve farsi rispet-
eclissi dell’etica
Raffaele Luise – Finisce così il primo giro,
nella seconda tornata veniamo all’etica che
vive un’eclissi drammatica nella nostra società della gratificazione istantanea. E questo è un fatto grave, perché per rispondere
al grido dei popoli e delle coscienze, c’è proprio bisogno di un tessuto etico di riferimen-
to, di un’etica forte e condivisa. Nelle società contemporanee – lo sperimentiamo tutti i
giorni – domina il disorientamento, per cui i
punti di riferimento che sostenevano l’esistenza si offuscano, si offusca la distinzione
tra bene e male, si perde il concetto stesso
del bene comune e si instaura la dittatura
dell’edonismo, del consumismo e della voglia immediata. L’esperienza etica, anche se
non è identificabile con il fatto religioso in
quanto tale (dal momento che esiste ed ha
pari dignità anche l’etica laica), è comunque
costitutivamente collegata con la religione,
nel senso che ogni confessione e ogni cultura ha una sua forte coloritura etica fondamentale. E allora, come individuare i criteri
e le esperienze attraverso i quali si può ricostituire un tessuto etico, in grado di far fronte al grido dei popoli e delle coscienze?
Elizabeth Green – Rispondo raccontantovi
una storia.
Gesù sta a tavola invitato da un certo Simone. Mentre stanno mangiando irrompe nella
casa una donna che ha con sé un contenitore
di profumo. Senza tanti complimenti, interrompendo il pasto, rompe il vaso di olio profumato e si mette a ungere Gesù, versandogli
l’olio sul capo, sui piedi, asciugandoli con i
capelli. È un vero scandalo che investe sia
Gesù che la donna. Non solo Gesù si lascia
toccare da una donna di cattiva reputazione
mettendo in gioco la sua stessa reputazione,
ma la donna stessa viene accusata di aver sprecato un olio costosissimo che se fosse stato
venduto avrebbe aiutato molti poveri. Altro
che profumo, la casa è piena di indignazione!
Che cosa fa Gesù? Innanzitutto, davanti ai
suoi detrattori Gesù si schiera dalla parte della
donna, difende ciò che ha fatto e rende esplicito il senso della sua azione. In tutti i casi,
dall’azione della donna Gesù trae una lezione che vale per tutti! Che cosa possiamo dire
a proposito?
In primo luogo Gesù porta alla luce la motivazione dell’azione: il gesto della donna è un
gesto d’amore: «ha molto amato». Ma perché ha molto amato? Ha amato perché Gesù
l’ha amata per primo – «Dio mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo,
che mentre eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).Lei si sa accolta, accettata, amata da Gesù e risponde
come può, come crede meglio. La sua è una
risposta all’amore di Dio nei suoi confronti.
La sua è una risposta al fatto che Dio le ha
condonato i suoi debiti. Così Gesù licenzia
la donna: «La tua fede ti ha salvata, va’ in
pace». Salvati per grazia, mediante la fede,
creati in Cristo Gesù per fare le opere buone.
Ecco il fondamento dell’etica protestante.
«Per Lutero – leggiamo – l’etica trova il suo
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
to incondizionato per la natura.
Altro esempio di disambiguazione: l’arroganza della illegalità che emerge in maniera eclatante nelle varie mafie, che semina urla di
dolore, chiede una forte mobilitazione delle
coscienze e della solidarietà. E anche qui una
domanda: quanta coscienza c’è in noi di fronte a questa cultura che semina sangue? Perché c’è la grande mafia, la grande camorra,
ma c’è anche una cultura dell’interesse personale che naviga per vie talvolta insospettabili ma che appartiene alla stessa cultura.
Altro versante di esemplificazione, il grido di
una stuprata, costretta ad abortire, a subire
dentro le mura domestiche ogni sorta di sopruso, o il grido di una persona omosessuale
che, al di là di una valutazione etica (e voi
conoscete la posizione della Chiesa di fronte
alla pratica omosessuale) per il fatto stesso
di avere una tendenza si ritrova poi perseguitato, osteggiato, discriminato. Questo grido
di dolore va ascoltato con grande senso di
partecipazione, di vicinanza. E poi c’è dentro
di noi, lasciate che lo dica anche se mi rendo
conto che questo diventa sempre più difficile
testimoniarlo, la fatica di dover dire profeticamente quello che pur va detto: chi ascolta
più alcuni gridi soffocati che non si udranno
mai? Chi ascolta più il grido del popolo immenso dei non nati? Il pianto dei bambini
espiantati dal grembo materno? Questo ormai può essere sentito solo negli ultrasuoni
di una coscienza coraggiosa della solidarietà
che non si lascia, in qualche modo, travolgere dal luogo comune. E infine, altro grido di
dolore le famiglie dissestate. Meritano anch’esse un ascolto. In questi giorni sto andando nelle case, e incontro sofferenze, vecchietti, che stanno lì e mi mostrano quel bambino: «Guardi ho un nipotino, sta a Firenze», e
quel nipotino diventa tutta la loro speranza
quando lì in casa non c’è più nessuno, perché
dei due figli che hanno, uno sta solo e chissà
dove, l’altro ha un figlio e chissà dov’è. Tutto
questo ci interroga, che società stiamo costruendo? Che futuro ci stiamo dando? Questo è realmente un problema di discernimento critico, di profezia, che richiede a noi un
grande atto di verità a partire dai nostri principi messi insieme dialogicamente, per dare
speranza e soprattutto per cominciare una
grande mobilitazione dell’amore.
33
RELIGIONI
fondamento nella giustificazione ed è interamente rivolta verso il prossimo» (Mehl,
pp. 14s).
Così arriviamo al secondo punto: «Per mezzo dell’amore servite gli uni gli altri», scrive
Paolo; la risposta all’amore divino è l’amore
verso l’altro. Nella nostra storia Gesù stesso
diventa l’oggetto d’amore della donna, non
solo è oggetto di tutte le attenzioni che un
buon anfitrione avrebbe dovuto riservare al
suo ospite ma in lui la donna vede oltre le
apparenze, crede laddove i discepoli non sono
che increduli. La donna, infatti, vede in Gesù
l’inerme per eccellenza ovvero la vulnerabilità costitutiva, secondo Adriana Cavarero, dell’essere umano. Che cosa fa? Compie un gesto di pietas verso di lui anticipando l’unzione del suo corpo per la sepoltura.
Se il protestantesimo fa partire l’etica dall’essere una nuova creatura in Cristo ovvero
dal sapersi accolti e amati da Dio, liberati
dalle proprie paure e angosce, i criteri e le
esperienze per ricostituire un tessuto etico
non possono che essere, in terzo luogo, l’annuncio del vangelo stesso, raccontare con
parole e gesti la storia di Gesù. Perciò l’episodio che vi ho raccontato di una donna che
unge Gesù entra a fare parte del kerygma
cristiano: «In verità vi dico che in tutto il
mondo, dovunque sarà predicato il vangelo,
anche quello che costei ha fatto sarà raccontato in memoria di lei» (Mc 14,9).
A questi tre punti ne aggiungerei un quarto.
La donna non esita a fare ciò che viene giudicato da tutti, tranne Gesù, scandaloso. In altre parole, la sua azione sconfina dal socialmente accettabile, non serve a confermare
l’esistente ma lo mette in questione, non è volto alla conservazione di un ordine sociale ingiusto ma lo interroga, vi introduce del nuovo. Partecipa, cioè, allo scandalo della croce.
Domenico Sorrentino – Non ci vuole molta
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
filosofia per ricordare che l’età moderna si è
caratterizzata da una riscoperta dell’uomo,
appunto si è parlato di umanesimo. Sì, noi
dobbiamo rimettere al centro l’uomo, questo
ce lo chiede Dio, un Dio che si è fatto Uomo.
Occorre però essere chiari e capire. Quando
il cristianesimo parla di uomo, questa espressione è stata come integrata, valorizzata e approfondita da un’altra espressione, la parola
persona. Persona umana, che nella sua prima espressione veniva dal mondo drammaturgico, la persona era la maschera, in qualche maniera voleva dire il ruolo, voleva dire
chi sei tu in un dramma. È molto significativa poi per quello che ha assunto dal punto di
vista metafisico, teologico, quando ci ha ricordato che la nostra umanità non è soltanto
quella struttura per cui noi, ad esempio rispetto al mondo animale e materiale, abbia34
mo determinate cose in più, dall’intelligenza
che spazia sull’infinito, alla volontà che si slancia verso l’infinito e via dicendo. Certo, noi
condividiamo anche la materialità e la corporeità con gli altri esseri. Ma c’è qualcosa di
più, quel quid per cui tu sei unico, e dunque
con questa unicità stai di fronte al Tu, che è il
tu di origine, il Tu di Dio, ed è ogni altro tu
con il quale ti confronti, dunque sei unico ma
non in maniera individualistica, sei unico ma
non semplicemente a partire dalle tue qualità, dalla tua natura. Ti riconosci un unico, ma
un unico che è frutto di amore, del Tu divino,
che è inoltre impegnato a riconoscersi nell’io-tu che lo relaziona agli altri, per cui non è
possibile che si sia pienamente uomini e dunque pienamente persone, uomini e donne, se
non in questa percezione di dialogicità, nel
principio dialogico, come lo ha definito Buber, il principio Amore.
Allora si tratta davvero di fare i conti con
l’umanesimo. Ma in questo confronto dobbiamo riprendere il concetto di persona e
riconoscere all’umanità, non in generale, ma
all’uomo concreto che sei tu Domenico,
Francesco, Maria, Maddalena, ad ogni persona umana una dignità in qualche modo
sacra, perché deriva dal Tu divino e si impegna a ritornare ad esso attraverso tutti i tu
umani, con i quali si mette in relazione.
Questo tipo di messa al centro dell’uomo non
è fatto per distruggere la natura, per spadroneggiare sulla natura, al contrario, è fatto
per sentire la relazione universale. Qui ad
Assisi non posso non ricordare che lo stesso
Francesco nel Cantico delle creature chiama tutte le cose fratello e sorella, per cui ogni
creatura diventa veramente bella.
Finisce l’uomo despota, l’uomo che spadroneggia e comincia l’uomo dell’amore, che
Dio ha voluto e che ha costituito venendo a
morire per noi, a incarnarsi per noi.
Giuseppe Laras – Vi voglio raccontare una
storia. Una storia drammatica che troviamo
nella letteratura antica dell’ebraismo e che ha
come protagonisti due persone che si chiamavano quasi allo stesso modo, Kamsa e Bar
Kamsa. Kamsa è un signore, un gran signore
che aveva deciso di dare una grande festa a
cui aveva invitato tutti i suoi amici, i suoi conoscenti più cari. Il suo cameriere, però, nel
portare gli inviti, fa confusione a causa del
nome quasi identico e lo consegna anche ad
una persona che non solo non era amica del
suo padrone ma ne era nemica. Per cui, Bar
Kamsa, che era un tipo un po’ picchiatello, il
giorno della festa si presenta in questa grande villa piena di gente, piena di gioia, di voglia di festeggiare.
Ma quando il padrone Kamsa vede Bar Kamsa ordina ai suoi servi di cacciarlo via. A que-
Izzedin Elzir – Certamente oggi tutti quanti
noi abbiamo bisogno di creare il tessuto di
un’etica condivisa, come le nostre fedi religiose ci invitano a fare. Lo stesso Profeta
Muhammad, la pace sia con lui, in uno dei
suoi detti afferma: «Sono venuto per completare le cose belle dell’etica, della morale
che voi avete». Egli insomma riconosce che
c’è una etica del cittadino, quella che in Occidente chiamiamo etica laica, che la fede religiosa, in questo caso l’islamica, è venuta a
completare. Oggigiorno noi siamo lontani nel
rapporto con il nostro Creatore, con il Clemente, con il Misericordioso. Ma se noi siamo lontani dall’amore verso Dio, certamente
saremo ancora più lontani dall’ amore verso
il prossimo. Allora abbiamo tutti bisogno di
superare la timidezza che ci impedisce di riandare alle nostre origini, al Corano per chi è
musulmano, o ai detti del Profeta Muhammad, la pace sia con lui, alla Bibbia per gli
ebrei, al Vangelo per i cristiani, al suo libro
sacro per chi è buddhista, e così via per ognuno: tornare ai libri sacri, all’origine, prenderli
e leggerli nel 2011, e metterli in pratica. Credo stiamo vivendo un momento storico molto difficile proprio perché ci siamo allontanati da questi valori, da un’etica e da una fede
religiosa che ci conduce verso Dio e verso il
prossimo. Le preghiere, il digiuno, le elemosine che facciamo in questo periodo santo del
Ramadan ci aiutano in quanto musulmani a
tornare, a scoprire questi valori, a scoprire
questa etica comune che permetta a noi di
rivivere i momenti salienti di una grande civiltà. Il mondo islamico con questa primavera araba ha cercato di tornare a scoprire
la sua grande civiltà, ma certamente non per
cadere nell’estremismo religioso o nell’estremismo laico. Credo dobbiamo imparare dalla storia italiana e europea, dove abbiamo
vissuto il medio evo ma anche dove abbiamo vissuto l’antireligione. Dobbiamo avere
equilibrio e l’equilibrio non possiamo trovarlo se non l’abbiamo all’interno di noi stessi,
tra il materiale e lo spirituale: non dobbiamo dare più spazio al materiale o più spazio
allo spirituale, i due momenti devono cercare di convivere in maniera equilibrata. Credo che gli strumenti che Dio ha dato a noi
musulmani, le cinque preghiere durante il
giorno, il digiuno, l’elemosina e così via, ci
aiutano a educare la nostra anima e il nostro
corpo a vivere una dimensione di umiltà,
perché abbiamo bisogno di umiltà, di equilibrio per cercare di vivere una etica condivisa che permetta di creare un tessuto sociale, un tessuto culturale di crescita per tutti.
Tanaka Hiromasa – L’etica buddhista ci insegna come comportarci con le azioni, le parole e la mente. Esistono numerosi insegnamenti e precetti morali non solo per i monaci
ma anche per i laici come me. Praticando le
azioni buone e sviluppando una mente sana
e concentrata il buddhista cerca di ottenere
una sapienza metafisica, spirituale e morale.
Per i laici buddhisti, insieme con i cinque precetti fondamentali, ci sono altri dieci precetti
che si usano soprattutto in Giappone: aste-
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
sto punto Bar Kamsa si avvicina a Kamsa e
gli dice: «Per favore non mi fare questo, davanti a tutta questa gente, non mi mandare
via». Kamsa insiste: «Tu devi andare via perché noi non siamo amici, anzi siamo nemici». A questo punto Bar Kamsa gli propone
di pagare quello che lui consumerà in quel
festino ma la risposta è assolutamente negativa. Di nuovo Bar Kamsa insiste, proponendo di pagare la metà di tutte le spese, che
dovevano essere infinite, ma Kamsa è irremovibile. «Pago tutto, ma non mi fare questo, non mi umiliare davanti a tutta questa
gente», propone ancora Bar Kamsa, ma Kamsa non ascolta e i suoi servi lo sbattono fuori.
Un elemento che è sottolineato nel brano è
che a questa scena terribile erano presenti
delle personalità importanti, personalità religiose e civili, che non avevano detto una parola, restando zitte. Allora Bar Kamsa che
cosa decide di fare? Va dai Romani e dice loro
che gli Ebrei stavano tramando per scrollarsi di dosso il dominio romano. Il testo tiene
però a sottolineare che a questa decisione Bar
Kamsa perviene a causa di quello che aveva
visto e perché non era stato ascoltato da queste grandi personalità che erano state in silenzio. Perché in fondo – il brano non lo dice,
ma lo dico io – Bar Kamsa aveva pensato che
Kamsa era un brutto soggetto, ma stava a casa
sua ed era lui ad averlo disturbato anche se
non per sua responsabilità. Però, il fatto che
questa ingiustizia si sia potuta consumare alla
presenza di chi aveva il dovere di intervenire,
di alzarsi e dire basta a un trattamento disumano, questo lo induce ad andare e ciò, secondo il racconto, determinò la causa della
seconda distruzione del secondo tempio, della seconda società. Nei testi si era già messo
in evidenza che la causa della prima distruzione era dovuta alla mancanza di fede da
parte delle persone, che non erano abbastanza religiose e che la seconda distruzione era
avvenuta per l’odio verso le persone. Nella
prima distruzione abbiamo un rapporto diciamo verticale, in cui è il rapporto uomoDio quello che determina la distruzione; nel
secondo episodio il rapporto è di tipo orizzontale, dell’uomo verso l’altro uomo, e questo determina la fine dell’indipendenza e
l’inizio della sofferenza e dell’esilio. È quindi un racconto molto drammatico, che mantiene però tutta la sua attualità.
35
RELIGIONI
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
nersi dall’uccidere, dal rubare e da una condotta sessuale ingiusta, astenersi dall’uso della bugia, dal colloquio volgare, offensivo e
ipocrita, astenersi dall’avidità, dalla rabbia e
dalla falsa opinione che, come è stato accennato dal prof. Raj Pant, derivano dalle nostre
imperfezioni. Il fine dell’etica buddhista, è il
Nirvana, che significa estinzione o spegnimento di avidità e di rabbia dalla nostra anima e approdo alla sapienza metafisica, spirituale e morale. È vero che è un’etica che riguarda le virtù di ogni individuo, e tuttavia è
chiaro che questi precetti riguardano fondamentalmente la relazione con le altre persone, perché se rimaniamo egoisticamente chiusi in noi stessi non possiamo realizzare il Nirvana. Proprio a questo punto la figura del Bodhisattva, che rinuncia al suo compimento
per la salvezza degli altri, si pone come il nostro modello, perché lui è fuori dall’individualismo. Ogni persona umana, come è stato detto da mons. Sorrentino, ogni ente di fronte a
me è in relazione con me e nella metafisica
buddhista consideriamo che nessun ente
contingente è indipendente, incausato, ma
è mutabile e dipendente. In questa dinamica di relazione l’ente contingente muta in
ogni momento e la relazione si volge verso
qualcosa altro; una relazione che è sempre
reciproca se è reale. Da questa dinamica di
rapporto e mutazione degli enti contingenti, ivi compresi noi esseri umani, si arriva
infine al punto fondamentale e fondante di
ogni atto buddhista, racchiuso nei principi
del non-sé e dell’impermanenza che derivano, secondo il buddhismo mahayana, dallo
stesso Buddha. Dunque, in questa dinamica
relazionale, tutte le persone, la natura e la
totalità del mondo non sono estranei a me,
ma sono con me e anzi io sono con loro. E
sono in loro e sono grazie a loro. E dunque,
in questa prospettiva noi siamo tutti fratelli
universali, anche gli animali e i vegetali sono
«fratelli». Per questo l’etica buddhista non
può rimanere circoscritta all’interno dell’individuo, ma si estende all’esistenza universale, a tutti i compagni della nostra vita con
i quali siamo chiamati a compiere azioni
buone, e a condividere pensieri buoni, parole buone, anche per la loro salvezza, come fa
il Bodhisattva. La «sei paramita», detta anche perfezione delle pratiche buddhiste, comincia proprio dal donare e dal donarsi agli
altri senza aspettare risposta o ricompensa
dagli altri, perché senza questo donarsi i
buddhisti, non possono arrivare al Nirvana.
Secondo la visione del Sutra del Loto, noi
abbiamo una certa vocazione per la felicità
degli altri, siamo nati per essere strumenti per
la salvezza degli altri, e siamo strumenti per
la pace. Dunque agire bene per gli altri è secondo la natura umana, e su questa prospet36
tiva poggiano diverse morali tese alla giustizia sociale. Ne sono esempi la protesta dei
monaci in Birmania per la democrazia e i
diritti umani, così come la resistenza dei
monaci in Tibet, le numerose attività per i
poveri in Thailandia e anche diversi appelli
per la riconciliazione dei conflitti come quello in Sri Lanka. Anche dopo il terremoto in
Giappone, tante persone del nostro movimento, la Rissho kosei kai, pur avendo perso i familiari o la casa, hanno offerto aiuto per chi
era più bisognoso. E questo è l’autentico atteggiamento etico del buddhismo, la compassione per tutti gli esseri senzienti. Anche se
sappiamo che non basta, perché abbiamo
bisogno di imparare dalle altre religioni, giacché tutti noi siamo in cammino e tutti abbiamo bisogno di apprendere da tutte le persone di buona volontà.
etica relazionale
Raj Pant – Per noi dell’Asia centrale è la stessa
cosa più o meno, la nostra etica tradizionale
è l’etica buddhista, l’etica verso tutti gli esseri
senzienti e viventi e non solo umani, è un’etica nella quale si pone al centro una visione
cosmobiologica dell’universo, dove anche altri elementi, manifestazioni finite, limitate (e
ogni essere esistente è limitato) meritano
compassione, «Karuna», perché tutti sono in
un cammino verso qualche forma di redenzione. Tutti dunque in attesa di redenzione, e
tutti meritano compassione, anche la formica, anche la farfalla. Questa è la prima differenza fondamentale: l’etica orientale induista, buddhista, scintoista, taoista, anche confuciana, è etica non antropocentrica e non
teocentrica, è cosmocentrica. Io mi ritrovo
abbastanza in questo. Ma bisogna dare spazio anche alle altre etiche. Io ho seguito dieci-quindici anni fa un dibattito sul relativismo e sulla relatività in etica. Quindi se la
vacca è molto sacra in Nepal, la vacca è molto grassa in Italia e si mangia bene, tranquillamente; e se un nepalese vuole imporre al
piemontese o al toscano di mangiarne la carne, insinuando: «Stai attento, non cucinare
la bistecca fiorentina, perché è una cosa cattiva», ebbene, questo non funziona. C’è dunque spazio per il relativismo, perché no? Non
dobbiamo aver paura del relativismo come
tale, perché il relativismo etico non è un male,
quanto piuttosto un rispetto relazionale. Ma,
se questo relativismo lo riduciamo a un mero
«per te va bene così, per me va bene cosà»,
allora ci portiamo dietro un conflitto, una tensione. Se, invece, guardiamo al lato positivo
del relativismo, quello fondato sulla relatività delle posizioni e sulla relazione, ci accorgiamo che in questa epoca abbiamo bisogno
di una etica relazionale, che è l’unica in gra-
l’incontro interreligioso
Raffaele Luise – La domanda a questo punto per i sei relatori è questa: come contribuire perché il prossimo incontro interreligioso di Assisi, che muove tante speranze, abbia successo e porti frutti di conoscenza e
comprensione reciproca, di rinnovata fiducia e di cooperazione, per dare insieme ascolto al grido dei popoli e delle coscienze e per
aiutare il cammino della pace nella nostra
civiltà in cui il mondo delle macchine sembra limitare sempre più la libertà umana?
Elizabeth Green – Dal mio punto di vista
deve accadere una cosa sola. Marta e Maria
sono due sorelle, e Gesù è ospite a casa loro.
Marta è tutta affaccendata, presa con la preparazione del pranzo, con tutti i lavori che
le competevano. Deve organizzare, deve eseguire, deve fare una cosa perfetta. Man mano
che prosegue la giornata diventa, però, sempre più arrabbiata perché la sua bella sorellina, Maria, sta lì seduta senza fare niente.
Così si rivolge irritatissima a Gesù: «Signore, non t’importa che mia sorella mi abbia
lasciata sola a servire?». «Marta, Marta, le
risponde Gesù, tu ti affanni e sei agitata per
molte cose, ma una sola cosa è necessaria».
Che cosa è la sola cosa necessaria? Che cosa
stava facendo Maria? Stava seduta ai piedi
di Gesù e ascoltava la sua parola.
Che cosa deve accadere perché l’incontro
abbia successo? Che ci si ascolti davvero.
Credo che sia la sola cosa necessaria. Ma
non per questo è così facile. Perché? Perché per ascoltare davvero bisogna uscire dal
ruolo, dai ruoli che abbiamo assunto, dai
ruoli che ci hanno attribuito. Ancora una
volta bisogna attraversare un confine, quello
che avrebbe tenuto la donna fuori della casa
di Simone, quello che dice che cosa deve e
non deve fare una donna. Maria l’ha attraversato, invece di occuparsi dell’ospitalità,
invece di essere di molte cose affaccendate,
si è semplicemente seduta come un discepolo davanti al suo maestro ad ascoltare.
Marta, invece, è pienamente inserita nel suo
ruolo. È nel pieno esercizio delle sue funzioni! Secondo lei, l’esito dell’incontro con Gesù
dipende dal suo attivismo, dalla sua organizzazione, se volete anche dal potere che
detiene nel suo ambito. È così centrata su di
sé che si lamenta di essere lasciata sola dalla
sorella. Nei nostri incontri interreligiosi non
tendiamo a cadere nella dinamica di Marta?
Ad essere centrati su noi stessi e non su l’altro, sul nostro interlocutore? Non siamo forse così pieni di noi stessi, delle nostre prerogative che abbiamo difficoltà a rinunciarvi,
anche solo per un secondo, a sottrarci ai nostri doveri di rappresentanti di una certa religione, convinti come siamo delle nostre verità, attenti come siamo a difendere i nostri
confini, pronti a difenderli ad ogni costo?
Maria ha saputo sottrarsi a tutte le dinamiche che ci tengono inchiodati al nostro
ruolo, si è seduta e stava ascoltando Gesù.
Una sola cosa è necessaria, che all’incontro si mettano da parte presunte prerogative e si ascoltino davvero gli altri. Soprattutto, oso dire, si ascolti chi di voce non ne
ha mai avuto o ne ha avuta poca.
Coltivare l’ascolto di Dio e del prossimo è sempre la cosa necessaria. Ma c’è anche qualcos’altro. Deve accadere come nel grido dei
popoli, che le voci da ascoltare non siano sempre e solo quelle degli uomini perché a raccogliere la sfida del male, ad adoperarsi per la
pace in tutto il mondo, in tutte le fedi e non
fedi, ci sono donne e uomini insieme.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
do di offrire qualche forma di convergenza
morale e non di conversione culturale. Nella
convergenza morale che si crea con l’etica relazionale, e non con il mero relativismo morale, sta forse, secondo me, il punto chiave
del nuovo umanesimo planetario, di cui sono
piuttosto fiducioso. Se uno comincia a dire,
invece: «per me è così come è scritto nei miei
libri sacri, e questa è la parola finale», non ci
siamo proprio. Io vedo le civiltà come le età
delle persone. C’è l’adultità culturale, e vi appartengono i taoisti e gli induisti, che per me
sono come adulti di 50 anni, sono abbastanza calmi. Poi ci sono i buddhisti, che sono
come 26-27enni, già maturi, adultoni maturi. Seguono gli ebrei, che sono come 3035enni, abbastanza maturi; e infine i musulmani, che sono come quattordicenni: faranno un po’ di baccano, è normale, hanno
solo 1.400 anni di storia. Quindi c’è una adultità delle civiltà, dobbiamo solo aspettare,
con una attesa fiduciosa, perché esiste una
senior civilization, ci sono senior e junior
anche dal punto di vista cronologico. Questo significa che dobbiamo comunque accettare ogni cosa, che c’è perché c’è, ogni cosa
che si aggiunge, che sopraggiunge perché
c’era bisogno di quella cosa. Se concepiamo
la nostra civiltà come una civiltà cumulativa, là dove non ci si deve rimpiazzare l’un
l’altro, allora scaturisce la teoria della convergenza morale e di un’etica relazionale, e
questa, secondo me, potrebbe essere la chiave per un nuovo umanesimo planetario.
Raj Pant – Francamente non lo so. L’unica
cosa che mi viene in mente per il dialogo è
questo concetto di ecumene, da cui ecumenismo, e cioè questo stare accanto, vale a dire
il confronto privo di ostilità. Questo secondo me è il principio generale, perchè le differenze ci sono, è inutile nasconderle, ma le
37
RELIGIONI
similitudini sono forse di più, perché se io
vado a cercare i principi etici dell’Islam o
del Cristianesimo o del Giudaismo, o del
Buddhismo, io trovo che al 99% siamo abbastanza simili. Non è che ci siano molte
differenze, possono essere l’1%, ma non devono essere messe sotto il tappeto come la
polvere fastidiosa. L’etica relazionale vuol
dire tener conto delle differenze. La differenza è un mistero. Perché siamo così diversi?
Anche figli degli stessi genitori sono diversi.
Quindi accettare questa differenza, non solo
per dialogo interreligioso, ma per qualsiasi
dialogo, direi per qualsiasi confronto.
Un’altra cosa è che se noi siamo in un contesto determinato, siamo in Italia e stiamo parlando in italiano, prima di tutto dobbiamo
dare la precedenza alla cultura e alla legge
del luogo. Io, buddhista-induista dell’Himalaya che sono arrivato in Italia, mi debbo
adattare, integrare e non urtare. L’onere è su
di me, non sui locali, non sugli indigeni, sono
io che devo essere più bravo. Come quando
vado in Amazzonia, dove devo entrare in
empatia con gli indigeni della immensa foresta e mi devo opporre alla costruzione di
grandi dighe, alla distruzione della foresta
pluviale e all’avvelenamento dei fiumi. Io
direi che in ogni luogo si deve dare la precedenza alla cultura e alla legge del posto, e
poi a livello privato e del piccolo circuito
sociale, si possono anche fare delle riunioni
di preghiera, club, incontri sportivi, anche
una radio, però non dobbiamo pretendere
che questo sia accettato a tutti i costi dalla
cultura della comunità ospitante.
Tanaka Hiromasa – Sì, dialogo interreli-
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
gioso per la pace, questo è veramente un
tema importante. Mi ricordo della risposta
che il mio maestro Niwano dette a un giornalista che gli chiedeva: «Lei si occupa del
dialogo interreligioso per la pace, ma ancora assistiamo a tanti conflitti tra le religioni.
E dunque questo cammino di dialogo non
funziona?»: «Certo, ancora non siamo arrivati alla pace, ma proprio per questo sto facendo questo dialogo!». Sì, siamo ancora in
cammino, ci sono tanti problemi, ma dobbiamo fare uno sforzo per la realizzazione
della pace. Io sono un buddhista, ma leggendo il messaggio del Papa Benedetto XVI per
la Giornata della Pace di quest’anno, dove
ha affermato che la libertà religiosa è uno
strumento cruciale per la pace, e ricordando le parole del primo Angelus di quest’anno, in cui ammoniva: «la pace non si raggiunge con le armi, né con il potere economico, politico, culturale e mediatico, la pace
è opera di coscienze che si aprono alla verità e all’amore», non si può non riconoscere
che è veramente forte questa prospettiva,
38
questa speranza di pace, nonostante ci siano
diversi conflitti tra le religioni. Questa libertà
religiosa, come ha accennato il Papa, richiede anzitutto di non violare la natura e la dignità umana di ciascuno, nella ricerca del vero
e del bene, e nella sua scelta. Soltanto a questa condizione si apre una autentica convivenza delle diversità, che rifiuti sia l’esclusione degli altri sia il relativismo delle differenze, ma invitando ciascuno a una ricerca sincera con il massimo rispetto reciproco.
Infatti la conoscenza degli altri ci aiuta ad
ottenere nuove conoscenze, per approfondire ulteriormente il nostro cammino verso
Dio, la verità e l’amore. Nella mia esperienza di dialogo interreligioso qui in Italia, dove
all’università pontificia San Tommaso
d’Aquino studio la filosofia cattolica, io mi
trovo sempre in ascolto anzitutto degli altri
che sono diversi da me, però allo stesso tempo devo ascoltare la mia voce interiore, e allora mi domando: «Cosa penso io? Cosa posso fare in quanto buddhista? E sempre scopro la ricchezza che io non ho e che altri
hanno, e mi accorgo che in questa prospettiva tutti noi siamo sempre in ricerca del
bello, del vero e del bene. In quanto siamo
uomini di religioni diverse dobbiamo situarci
in questa prospettiva, e sperimentare la forza del cammino del dialogo.
Izzedin Elzir – Dio nel Corano dice: «O gente vi abbiamo creati da un maschio e da una
femmina, abbiamo fatto di voi popoli e tribù
affinché vi conosciate a vicenda». Allora si
comprende come la conoscenza dell’altro, il
dialogo con l’altro inizi all’interno delle nostre famiglie, quando marito e moglie dialogano, quando genitori e figlioli dialogano. Se
noi facciamo questo dialogo all’interno delle
nostre famiglie, sarà più facile farlo al di fuori. Sappiamo che il dialogo all’interno della
famiglia è difficile, sia fra marito e moglie che
fra genitori e figlioli, figuriamoci quanto è difficile al di fuori. Parlo così perché mi piacerebbe che il dialogo fosse sincero, non dialogo di facciata, non dialogo di diplomazia, che
è anche utile, non lo nego. Il dialogo autentico è un cammino lungo ma anche difficile,
dove si registrano momenti di crisi, ma dobbiamo sapere che quando ci sono tali momenti il dialogo deve avere il suo livello più alto.
Non dobbiamo romperlo quando c’è crisi,
anzi dobbiamo trovare un linguaggio più efficace, le parole migliori cercare di non ferire
la sensibilità dell’altro. C’è bisogno di essere
realisti e sapere che ci sono delle diversità che
devono essere rispettate. Abbiamo bisogno,
credo, di non sentirci delle minoranze religiose, non vivere nel vittimismo o nella chiusura. Dovremmo sentirci cittadini di questo
paese, e ricordando padre Balducci e il suo
Giuseppe Laras – La domanda è difficile e
mi voglio brevemente soffermare sul dialogo
interreligioso, ma soprattutto ebraico-cristiano, di cui io da alcuni anni mi occupo. Ebbene, questo dialogo che continua a svolgersi,
da un po’ di tempo è un po’ in crisi, non soltanto dal punto di vista numerico, nel senso
di persone che si coinvolgono in esso, ma da
quello del convincimento della sua utilità.
Sta serpeggiando un crescente dubbio che
da questa esperienza, che è già difficile e
complicata di per sé, possa continuare a derivare come in passato un contributo di progresso, di avanzamento, di fiducia, per quanto riguarda il nostro stare insieme, il nostro
cercare di andare avanti. Forse sta indebolendosi la fiducia reciproca nei partecipanti
o forse no. Sto parlando da un punto di vista esperienziale, non ho certezze su questo
fronte, prevale soltanto forse un po’ di stanchezza o di pessimismo. Personalmente io
resto convinto, nonostante queste difficoltà, anzi direi proprio per queste difficoltà,
dell’utilità del dialogo e che convenga quindi tenere duro e andare avanti. Il dialogo è il
baluardo fondamentale contro l’antisemitismo, che purtroppo continua a serpeggiare
sempre più apertamente e minacciosamente nel mondo. Se per alimentare e rafforzare il dialogo noi scaviamo nella nostra memoria, purtroppo troviamo eventi di segno
opposto che ci parlano di persecuzione e di
morte o talvolta anche di collaborazione, ma
sporadica, episodica. E allora, secondo me,
noi dobbiamo cercare dove collocare in futuro il dialogo, e quindi oserei dire che non
dobbiamo situarlo nella memoria ma nella
nostra volontà, cioè nella volontà che ognuno di noi sarà capace di esprimere, con umiltà ma anche con passione e perseveranza.
Domenico Sorrentino – Sapete che Benedetto XVI per questo incontro di ottobre ha
dato uno slogan: «pellegrini della verità, pellegrini della pace». Credo che ci sia molto da
riflettere intorno a questo slogan, che è anche un tracciato, un percorso. Il Papa ha voluto riproporre il tema del dialogo non dimenticando che esso non può assolutamente sorvolare sul tema della verità, perché altrimenti sarebbe soltanto di facciata, più che
dialogo sarebbe una organizzazione della
convivenza, più o meno tollerante. La realtà
è che per noi tutti quanti credenti, nella misura in cui lo siamo, dunque più siamo credenti più questo è vero, l’esperienza religiosa
non è un’idea che teniamo in un cassetto, per
cui ne possiamo anche fare volentieri a meno,
ma è qualche cosa di così vitale che se è tale,
non possiamo non parteciparla, almeno come
proposta, notizia, suggerimento.
Dobbiamo entrare dentro questa logica di
verità dialogica, se vogliamo uscir fuori da
questo vicolo cieco. Benedetto XVI ha avuto
il coraggio di porre il problema in questi termini inserendo il concetto di pellegrinaggio,
un concetto metaforico, ma estremamente
importante. Cosa ha detto in sostanza il papa?
Di fronte a una società che dice, se vogliamo
star bene tra di noi, se vogliamo convivere,
allora facciamo in questa maniera, nessuno
ha ragione o almeno nessuno dice di aver ragione, salvo poi crederlo, e così ognuno più o
meno si fa i propri affari, ritagliandoci i nostri territori, e alla fine le nostre riserve mentali rimangono lì. Benedetto XVI sostiene invece che non è questo il tracciato, che esso
consiste nel prendere coscienza che il problema della verità ci tocca tutti, e ci tocca in quanto pellegrini, che insieme credono che a un
traguardo si possa arrivare. Ma perché siamo pellegrini? Perché questo traguardo che
tocca il divino, è il traguardo che riguarda l’infinito e dunque anche chi tra di noi ritiene di
aver avuto la notizia dell’infinito e dunque di
starci dentro, sa che per quanto la notizia gli
sia arrivata, lui non la possiede, al massimo
ne è posseduto come è posseduta una goccia
d’acqua dall’oceano. Per cui, di fronte a questo traguardo, pur avendo una certezza di verità che non dobbiamo dismettere, dobbiamo anche avere la capacità di metterci in dialogo perché ciascuno possa riconoscere anche il brillare della verità sul volto dell’altro.
A me sembra un discorso di grande importanza, certamente non facile da acquisire e
da organizzare. Ma se ci pensiamo bene forse questa è una via per riprendere con coraggio il cammino di un dialogo autentico.
Raffaele Luise – La nostra tavola rotonda
non poteva essere conclusa meglio, siamo
tutti alla ricerca della verità, e su questi tracciati si impostano poi le etiche. Non è relativismo, è relatività delle ricerche e delle
esperienze, che attendono di fecondarsi reciprocamente. Questo ci pare il cammino
fondamentale per affrontare anche il problema del male. Via dura, difficile – Panikkar diceva addirittura rischiosa – però è
la via obbligata. Non si tratta di turismo,
né è un lusso, ma una necessità. Prezioso
quanto è stato affermato da tutti i rappresentanti delle grandi religioni, una preziosità che è rifulsa in particolare nelle ultime
parole, anticipate ancora qualche giorno fa
dal papa: la verità ci possiede, noi non la
possediamo, non siamo installati in essa,
siamo in pellegrinaggio, per fare più giusta, più buona e più bella la nostra vita. ❑
Tavola Rotonda
tenuta alla
Cittadella di
Assisi al 69°
Corso di studi
cristiani, ripresa
dal registratore
da Giovanni B.
Ardissone, e non
rivista dagli
autori.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
«uomo planetario», cercare di sentirci parte
di questa realtà mondiale, consapevoli dei diritti e dei doveri che ci competono.
39
RICERCA
la scienza prova
la discriminazione
Giovanni
Sabato
ono più stupidi, come afferma un
libro di straordinario successo in
Germania? O sono meno volenterosi nel lavoro, o restii a integrarsi,
o svantaggiati da qualche altro
aspetto del loro modo di vivere e
della loro cultura? Insomma, se gli immigrati musulmani in Europa restano tendenzialmente indietro nella scala sociale,
è per effetto di pregiudizi e discriminazioni nei loro confronti, o in fin dei conti devono biasimare solo se stessi?
Uno studio pubblicato su Pnas alcuni mesi
fa dà una risposta sconcertante, almeno
per il versante lavorativo. In Francia, a
parità di qualifiche, esperienza professionale, età e ogni altro elemento, un musulmano ha meno della metà delle opportunità di essere prescelto per un lavoro. Meno
della metà non rispetto a un francese doc
– un bianco di famiglia francese da generazioni – ma a un concittadino della stessa ascendenza etnica africana, solo di religione cristiana.
Non è certo la prima segnalazione di discriminazioni simili. Ma stavolta la prova
viene da uno studio scientifico congegnato in modo da misurare con precisione la
differenza di opportunità legata alla religione e, soprattutto, da individuarne senza ombra di dubbio la ragione nella discriminazione, senza lasciare molti spazi a
ipotesi alternative.
S
esiti differenti
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Quasi non passa settimana senza che una
rivista medica non segnali come tra i cittadini Usa, dal punto di vista sanitario, i
neri e altre minoranze se la passino peggio dei bianchi. Che si tratti dei tassi di
guarigione da una malattia, della frequenza di un controllo preventivo, dell’incidenza di complicazioni dopo un intervento, o
di qualsiasi altra esigenza sanitaria, a pa40
rità di situazione clinica gli esiti sono quasi invariabilmente peggiori, al punto che
ad aprile il Ministero della salute Usa ha
lanciato un «Piano d’azione per ridurre le
disparità razziali ed etniche». Differenze
analoghe a svantaggio di certi gruppi etnici o religiosi si registrano in Europa come
negli Usa negli ambiti del lavoro, del successo scolastico, delle opportunità abitative e via dicendo.
Per trovare rimedi efficaci alle disparità, è
ovvio, occorre prima di tutto chiarirne le
cause. Le differenze possono discendere da
obiettivi svantaggi di partenza, come le
peggiori condizioni economiche, o la scarsa padronanza della lingua. Oppure possono essere causate, o molto inasprite, da
una discriminazione deliberata. Come distinguere le due evenienze?
Un caso caldo che ci riguarda da vicino è
il rapporto tra l’Europa e l’Islam. Un rapporto senza dubbio tormentato, ma difficile da definire anche perché i segnali sono
contrastanti. Svariate inchieste – dal Pew
Global Attitudes Project del 2006 a uno
studio dell’Open Society Institute del 2009
– segnalano che la gran parte dei musulmani immigrati nel Vecchio Continente
non si sente particolarmente discriminata
dalla popolazione locale, dalla polizia o
dalla politica. D’altra parte, il dibattito sul
velo in Francia, le forti opposizioni all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea
o alla costruzione delle moschee, o gli scontri seguiti alle vignette danesi su Maometto, segnalano che l’accettazione è tutt’altro che scontata. E nello stesso studio dell’Open Society Institute del 2009, oltre
metà dei musulmani avvertiva un’ostilità
contenuta, sì, ma comunque crescente rispetto a 5 anni prima.
Senza dubbio, le statistiche segnalano che
le condizioni sociali ed economiche dei
musulmani restano al di sotto della media
della popolazione, anche in paesi come la
misurare la discriminazione
Misurare la discriminazione non è semplice, rimarcava nel 2001 il National Resear-
41
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Francia dove l’immigrazione è vecchia di
decenni e ci sono comunità consolidate da
almeno due generazioni. Si ripropone
quindi il dilemma: le disuguaglianze persistenti sono solo il riflesso duro da cancellare di uno svantaggio economico iniziale, o sono perpetuate da meccanismi
attivi tutt’oggi? E questi meccanismi includono solo i fattori oggettivi che spesso sono
chiamati in causa, come il declino dell’industria a bassa qualificazione in cui le classi meno agiate trovavano lavoro, o il mancato investimento dei musulmani nel loro
capitale umano femminile? O il divario è
perpetuato, in misura considerevole, da
una esplicita discriminazione?
«Nonostante il gran dibattere, la questione resta insoluta. Quel che manca è una
risposta basata su dati solidi, che riesca a
individuare e misurare adeguatamente il
successo o il fallimento dell’integrazione
economica dei musulmani in Europa» dichiaravano su Pnas Marie-Anne Valfort,
economista della Sorbona a Parigi, e gli
scienziati politici Claire Adida della University of California a San Diego e David
Laitin di Stanford, come premessa allo studio che ha dato, per la prima volta, una
risposta netta.
ch Council statunitense in un approfondito rapporto. Tutti i metodi hanno pregi e
debolezze. Osservare che in un certo ambito c’è un divario, come faceva gran parte
degli studi fin lì realizzati, è utile a descrivere la situazione, ma non ne chiarisce le
cause al di là di ogni dubbio: per quanto si
cerchi di confrontare gruppi omogenei per
ogni fattore eccetto l’etnia (o quale che sia
la causa della presunta discriminazione),
non si può mai essere certi che non ci sia
una variabile non considerata che motiva
le discrepanze riscontrate.
Anche gli esperimenti in condizioni controllate – in cui per esempio si studiano le
reazioni cognitive, emotive o elettrofisiologiche a foto manipolate per assumere tinte diverse – hanno i loro limiti, perché non
sempre i risultati si possono tradurre in
comportamenti reali, e perché i soggetti
quando sanno di partecipare a un esperimento tendono a comportarsi diversamente che in situazioni naturali (il cosiddetto
effetto Hawthorne).
Questi limiti non affliggono gli studi sul
campo, cioè gli esperimenti condotti in
contesti reali, dove però sorge il problema
opposto: è difficile manipolare le variabili
che voglio studiare. Come faccio a sapere
che, se lo stesso soggetto fosse stato bianco anziché nero, l’esito del suo colloquio
di lavoro sarebbe stato migliore?
Perciò il National Research Council proponeva metodi integrati che combinassero i punti di forza dei vari approcci. Come
il classico esperimento del curriculum, dimostratosi uno dei più efficaci. In risposta
a offerte di lavoro, i ricercatori sottopongono due curriculum identici per età e altri dati personali, formazione, esperienze
professionali e ogni altro aspetto. Cambiano solo il nome ed eventualmente qualche altro dettaglio irrilevante ai fini del
lavoro, ma che rivela la variabile che si
vuole studiare, come l’etnia o il sesso del
candidato. I risultati sono stati spesso
scioccanti: in parecchie casistiche, i curriculum femminili ottenevano molte
meno risposte positive degli omologhi
maschili, o i nomi tipici dei bianchi garantivano un successo superiore del 50%
ai nomi da neri. In questi casi, i dubbi
svaniscono: l’esito non può che essere attribuito a una discriminazione, conscia o
inconscia. «Abbiamo quindi scelto questo
metodo per misurare se i musulmani di
seconda generazione abbiano le stesse opportunità sul mercato del lavoro francese,
il nostro criterio per valutare l’integrazio-
RICERCA
ne economica» spiegano Valfort, Adida e
Laitin.
etnia e religione
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
I tre avevano però una difficoltà in più:
come distinguere i pregiudizi religiosi da
quelli etnici. «In ciascuno dei grandi stati
europei, gran parte dei musulmani proviene da uno stesso paese o regione: in Germania dalla Turchia, nel Regno Unito dalla regione indiana e in Francia dal Magreb»
spiegano. «Se troviamo che i figli degli immigrati musulmani in Francia hanno uno
svantaggio economico, come facciamo a
sapere se è a causa della loro religione o di
altri aspetti che li accomunano in virtù della comune origine, come il sistema educativo o politico o la lingua?».
Lo stesso dubbio riguarda l’eventuale stigma. Almeno quattro studi con il test del
curriculum, infatti, avevano già dimostrato una discriminazione lavorativa verso gli
immigrati in Francia, ma lasciavano irrisolto il dilemma: è contro i magrebini o
contro l’islam?
Per distinguerlo, gli studiosi hanno condotto un’attenta ricerca fino a individuare due
distinte etnie del Senegal, gli Joolas e i Serers, che includono una componente cristiana e una musulmana, giunte in Francia insieme. Hanno quindi preparato due curriculum di una cittadina francese 24enne,
nata in Francia ma dal chiaro cognome senegalese, Diouf. I curriculum erano identici in tutto e per tutto salvo il nome, tipico
dell’una o dell’altra religione, e due dettagli
irrilevanti ai fini lavorativi che rafforzavano l’identificazione: Marie Diouf aveva lavorato con Secours Catholique e fatto volontariato fra gli scout cattolici; Khadija
Diouf aveva lavorato con Secours Islamique e fatto la volontaria tra gli scout islamici francesi. Una terza versione del curriculum era intestata ad Aurélie Ménard,
francese doc con esperienze in aziende e
associazioni senza connotazione religiosa.
I curriculum sono stati inviati in risposta
a qualche centinaio di offerte di lavoro di
segreteria o di contabilità. Le inserzioni
sono state abbinate a due a due per regione geografica, settore d’attività e dimensioni dell’azienda e posizione offerta; in
ciascuna coppia, un’azienda ha ricevuto i
curriculum di Aurélie Ménard e di Marie
Diouf, l’altra quelli di Aurélie Ménard e di
Khadija Diouf (per non insospettire i selezionatori con due curriculum di senegalesi quasi identici, e per misurare anche la
discriminazione puramente etnica verso
un’immigrata cattolica).
42
meno della metà
I risultati, come si è detto, sono impressionanti: un musulmano, a parità di qualifica,
esperienza e ogni altro elemento, ha 2,5 volte meno probabilità di superare questa prima fase della selezione ed essere convocato
per il colloquio orale. Se infatti Marie è stata chiamata al colloquio dal 21% delle aziende, Khadija ha avuto solo l’8% di risposte
positive. Aurélie Ménard ha ottenuto circa il
26% di successi in ambo i gruppi, indicando
che la propensione generale delle ditte verso
quel curriculum non differiva, e che una certa discriminazione esiste per il solo fatto di
essere senegalese (26% contro 21%).
«La realtà probabilmente è ancora peggiore» rimarcano gli autori. «In Francia i neri
dell’Africa occidentale non sono percepiti
come ‘veri musulmani’, perché non parlano arabo e la loro comunità di riferimento
è quella dei concittadini della regione, a
prescindere dalla religione. Con ogni probabilità, per gli arabi del Magreb emergerebbe uno svantaggio ancora più forte.
Inoltre può esserci un’ulteriore discriminazione nella scelta finale: può darsi che
alcune ditte per correttezza chiamino a
colloquio i musulmani, ma poi finiscano
comunque per preferire i cristiani».
La discriminazione, hanno appurato gli autori, ha ripercussioni tangibili nella vita reale. Lo rivela l’esame di oltre 500 senegalesi musulmani e cristiani giunti in Francia
negli anni ’70 nella stessa ondata migratoria, e con una distribuzione iniziale di redditi, condizioni sociali e livello educativo
simile tra le due religioni. Nel 2009, dopo
circa trent’anni, le loro condizioni economiche si erano diversificate secondo la fede
religiosa. I fattori decisivi nel determinare
il reddito nel 2009 risultavano infatti il livello d’istruzione che aveva l’antenato giunto in Francia, il genere e il livello d’istruzione del capofamiglia attuale (sono più ricche le famiglie guidate da un maschio istruito), e la religione: una famiglia cristiana
guadagnava in media 400 euro al mese in
più (il 15%) di una musulmana.
«Abbiamo ottenuto due risultati importanti» concludono gli autori. «Abbiamo dimostrato che almeno in ambito lavorativo c’è
una forte discriminazione verso i musulmani, con ripercussioni concrete sul loro
stato economico al punto da poter spiegare il loro minor successo. E abbiamo trovato un metodo per studiare questi fenomeni, isolando la componente religiosa
dalle altre fonti di discriminazione».
Giovanni Sabato
TERRE DI VETRO
Oliviero
Motta
erte volte, in qualità di padre, ti
toccano delle cose che daresti un
braccio per poter schivare. I saggi
e le recite scolastiche rientrano
spesso tra queste: le prime volte
ci vai con l’entusiasmo di vedere all’opera i tuoi cuccioli davanti a un
pubblico. Ecco, appunto, poi ti può capitare che proprio quel pubblico, fatto di
padri e madri adoranti, di fratellini schiamazzanti e di espressioni forzatamente
entusiaste, non lo reggi davvero più.
Ma ci sono eventi che, almeno per me, sono
ancora peggio delle recite e dei saggi, e questa sera è proprio uno di quelli: la corrida.
No, dico, la Corrida; quella di Corrado buonanima, non so se mi spiego: debuttanti allo
sbaraglio e semaforo, barzellette scollacciate e stonature leggendarie e, sopra tutto e
tutti, quei mestoli e tegami usati come chiassosa espressione del dissenso nei confronti
di chi si butta nell’arena con poca consapevolezza dei propri – scarsi – mezzi.
Eccomi qua, la Corrida dell’oratorio, al
seguito di mia figlia. Portato in catene in
mezzo all’umidità di questa sala devastata
dall’inquinamento acustico di decine di
pentole e coperchi percossi con foga. In
attesa che il supplizio inizi.
Eppure, in fondo in fondo, certe cose le
puoi cogliere solo qua.
Infatti, prima dell’agognato intervallo, viene invitato sul palco un gruppo di giovani
africani, «ospiti d’onore» annuncia il presentatore. Non ci spiega chi siano e perché siano lì, dice solo che vengono dal Mali.
Poche battute di saluto e poi parte una
canzone africana dal ritmo inconfondibile. I ragazzi, venti-venticinque anni al massimo, cantano e poi si muovono a tempo e
alla fine ballano. Eccoli, i famosi profughi
dalla Libia, quelli che avrebbero messo a
repentaglio il nostro Paese, gli invasori che
C
«noi da soli non ce la possiamo fare» e
«prendeteveli voi». Eccoli qua, sul palco,
a trascinarci nei suoni di un Paese lontano, con le pentole che, in questo caso, si
prestano così bene a battere il tempo.
Alla fine grande boato di applausi e pentolame vario e «Grazie a tutti gli italiani» in
un francese che più chiaro non si può.
Che coincidenza: solo tre ore prima, in una
riunione tra direzione dell’Azienda sanitaria e terzo settore si era parlato di loro. E
il Direttore sociale aveva apertamente ringraziato Comuni, cooperative e volontariato per l’accoglienza e la generosità dimostrata quest’estate di fronte alle richieste
della Prefettura. Dallo scorso luglio è infatti partito un gran movimento impercettibile – ma non clandestino – che ha visto
collaborare diversissime agenzie, pubbliche e private, per «distribuire» in questo
territorio del nord ovest milanese 240 profughi provenienti dal Mediterraneo. Viceprefetti, Sindaci, operatori sociali, volontari, parrocchie: un movimento intelligentemente concertato per dare un tetto a
queste persone. E poi, appena sistemati,
via a organizzare corsi per cominciare a
conoscere l’Italia e l’italiano; l’accompagnamento per le formalità in Prefettura,
la domanda per il riconoscimento dello
status di rifugiati e poi ancora le borse lavoro per non sprofondare nell’inedia.
Il tutto senza clamori o sbrodolate retoriche. Decine di comunità civili che si arrotolano le maniche e decidono che si può
fare. E si fa.
Che distanza tra questa concreta collaborazione tra Istituzioni e gente comune e lo
scomposto vociare allarmistico dei giorni
degli sbarchi; pignatte e padelle percosse
solo per fare rumore nell’arena asfittica
della nostra politica.
Tanto rumore per nulla.
43
.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
tanto rumore per niente
L’ERA DI INTERNET
l’impavida resistenza
della pagina scritta
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Claudio
Cagnazzo
44
.
nternet come un tornado. Nel senso
che, secondo opinione comune, sta
spazzando via i vecchi Media. Cominciando dai libri, che Media erano già
quando i media stessi non erano neppure concepibili. Il libro innanzi tutto può stare in Internet, quest’ultima non
può stare in un libro, se non magari sotto forma di opuscolo tecnico. Sembra
una banalità, ma le gerarchie si fondano
anche su questi usi multipli. Ovvero il
libro è fine a se stesso e non tollera intrusioni, Internet è intrusivo per eccellenza e lascia che tutto lo pervada. Leggere un libro sul Web ha dunque un altro significato da quello tradizionale. È
parte di qualcosa che lo riceve, ma non
gli appartiene. È un estraneo in terra
straniera. La sensazione, infatti, è di una
lettura quasi asettica con quelle pagine
girate elettronicamente, come se la scansione di parole e sentimenti conseguenti
non dipendesse da noi. Ecco, in Internet
il libro è una sorta di passatempo, in «carta ed ossa», invece, è una ricognizione
all’interno di noi stessi, come se le parole, qualsiasi sia il genere del libro, scavassero dentro. Se leggi in iPod ad esempio è come se lo schermo, i colori, l’attrezzatura tecnologica fossero più importanti del contenuto. Lo sguardo degli altri poi è indicativo: se tu leggi un libro in
treno, si fa intorno a te come una sorta
di silenzio complice. Si crea un’aura quasi magica che circonda il lettore e gli
sguardi degli astanti entrano quasi di
soppiatto in quell’aura. Si ovattano per
non disturbare.
I
lettura complice
Con la lettura elettronica gli sguardi non si
soffermano più di tanto su lettore e mezzo
tecnologico. Il libro cartaceo isola, quello
internettizzato ti tiene comunque collegato con il mondo, secondo le regole della
società informatizzata. Del resto letteratura e film sono pieni di storie nate con la
complicità di un libro. Una donna che legge e un passeggero che resta come folgorato dal suo fascino silenzioso. Dietro la lettura digitale non c’è invece mistero. Come
non c’è mistero nella lettura di un giornale,
sia in Internet sia, però, nel cartaceo. Una
sorta di omologazione, sembrerebbe, tra i
due mezzi, che invece non esiste in assoluto. La lettura del giornale di carta è l’iniziazione ai problemi della giornata. Esso t’introduce nei problemi del mondo e fa sì che
tu ti possa sentire all’altezza della realtà da
affrontare. Senza contare che la pagina
scritta e odorosa del foglio conserva una autorevolezza che il web non può avere, considerando che, quasi sempre, il giornale,
comprato in edicola, rivela una sorta di vicinanza morale ed estetica con l’acquirente, mentre la lettura elettronica, fatta magari nello stesso tempo da migliaia di persone, è come se ti spossessasse dalla notizia e dalla sua narrazione per portarti nel
campo della leggerezza e della superficialità. Insomma, con il giornale, come con il
libro, si riflette, con la lettura automatica,
ci si sente spesso spinti a voltare letteralmente e meccanicamente pagina. La carta
impegna, la tastiera invita alla fuga, al passaggio di fiore in fiore, anzi di file in file.
lettura e globalizzazione
Al dunque, la lettura su Internet è prevalentemente informativa. Un processo rapido di informazione simultanea che specialmente i giovani apprezzano inevitabilmente molto. Un processo utilissimo per
tenersi legati alla cronaca e per capire
come ci sia, in ogni caso, un legame interspaziale e temporale fra tutti noi. La globalizzazione non è, volente o nolente, uno
scherzo o un’invenzione di qualche burlo-
ne. Solo la lettura cartacea, però, ha il
merito di formare anche quando passa per
il giornale, tenendo fede alla semantica
appunto dell’in-formare. Il libro e il giornale garantiscono una sorta di appartenenza psicologica che incide sulle coscienze,
facendoci parte di quel mondo di notizie,
approfondimenti, storie e sentimenti che
preformano, formano e magari addirittura deformano la sostanza spirituale dell’individuo (non tutto è edificante e di qualità
tra le pagine). Certo nessuno in fondo può
prevedere quali effetti avrà, a lungo termine, il nuovo rapporto con la lettura fatta
attraverso Internet, come nessuno sa quale vero esito avrà la rivoluzione del linguaggio già in atto. Ma è giusto che, di là dagli
addetti ai lavori, anche i semplici fruitori
si chiedano cosa ne sarà del libro ed in fondo di se stessi, affezionati come sono all’oggetto ed ai suoi «valori». Anche se, riflettendoci bene, questo tipo di dialettica
critica è forse, anch’essa, figlia della storia
sedimentata dai libri e dalla loro lettura
nei secoli. Vale a dire, è probabile, che i
problemi che ci poniamo, siano figli della
nostra cultura, intesa in senso lato, e che
le prossime generazioni non si porranno
neppure il problema. E che forse siamo
come i vecchi cow boy, i quali vedevano
sfrecciare il treno sulla ferrovia e credevano che il cavallo avrebbe alla lunga vinto.
Anche se, a ben pensarci, il cavallo è sempre lì e la sua bellezza, che è legata alla
sua unicità, di fronte ai treni, continua a
non sfigurare. Anzi.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Senza contare gli odori che sono in fondo
sentimento. La carta scritta ne manda di
particolarissimi. Il giornale, ogni giornale
ha il proprio, come se la visione politica e
morale che lo guida ne impregnasse l’anima. I libri poi, persino secondo l’ora del giorno, odorano diversamente. E quelli inscatolati nella libreria addirittura danno all’ambiente un tocco di odorosa riservatezza che
invita appunto alla riflessione. In fondo, a
pensarci bene, Internet è perfetta per comunicare una sensazione repentina, come
per diffondere una notizia all’istante. Da una
notizia all’altra, da una mail all’altra, da un
messaggio all’altro (il telefonino esiste!) per
sentirsi collegato con il mondo, per fuggire
all’idea della solitudine, che invece è il dato
strutturale dell’uomo alla tastiera, solo, seppur collegato con una rete infinita. Mentre
con libri e giornale non si è soli, ma solitari, in altre parole temporaneamente scollegati con il mondo, ma non con la realtà che,
invece, la lettura rende sempre più comprensibile dalla nostra testa e dal nostro
cuore.
Claudio Cagnazzo
45
.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Pietro
Greco
46
rano anni che non accadeva un
fatto eclatante e inatteso in fisica.
Un fatto, vogliamo dire, in contrasto con i modelli teorici più consolidati. Capace di ridisegnare nel
medesimo tempo la visione che
del mondo hanno i fisici e quella che abbiamo noi. Un fatto come la scoperta del
«quanto elementare d’azione», realizzata
da Max Planck nel 1900, che ci ha restituito una visione dell’universo non più caratterizzata dalla continuità, ma dalla discontinuità. Oppure come l’elaborazione
della teoria della relatività ristretta, realizzata nel 1905 dal giovane Albert Einstein,
che in un colpo solo propone la formula
(E = m c2) destinata a diventare la più famosa del mondo; che dimostra la sostanziale uguaglianza tra materia ed energia e
abbatte la concezione del tempo e dello
spazio assoluti, contenitori ineffabili delle
vicende cosmiche, che Isaac Newton aveva eletto a fondamento del mondo fisico e
Immanuel Kant a fondamento della nostra
visione del mondo fisico.
Qualcosa di altrettanto «rivoluzionario»
potrebbe – e sottolineiamo potrebbe – essere successo nelle scorse settimane con
la misura della velocità dei neutrini che,
in viaggio da Ginevra al Gran Sasso, hanno superato la velocità della luce.
Si tratta di una misura eclatante e inattesa.
Sia perché è la prima volta che viene individuato una particella o un qualsiasi oggetto che supera la velocità della luce. Sia perché proprio la teoria della relatività ristret-
E
ta di Einstein impone che nulla possa viaggiare a una velocità superiore a quella della
luce. Non nel nostro universo, almeno.
Se la misura verrà confermata il quadro
teorico della fisica non sarà probabilmente sconvolto. Ma certo dovrà essere significativamente adeguato. Anche se, in questo momento, non sappiamo dove e non
sappiamo come.
l’eroe del momento
Ma andiamo con ordine. E, in primo luogo, vediamo cosa è successo. Da tre anni è
attivo, tra il Cern di Ginevra e il Gran Sasso in Italia, un gruppo di ricerca che studia un particolare comportamento – chiamato «oscillazione» – di una particella
molto particolare, il neutrino. Si tratta di
una particella particolare perché interagisce davvero molto poco sia con le altre particelle materiali sia con i fotoni (le particelle prive di massa che «trasportano»
l’energia elettromagnetica). In pratica è
come se l’universo fosse quasi completamente trasparente per i neutrini. Uno di
loro potrebbe attraversare un muro di
piombo lungo quanto l’intero sistema solare senza essere né bloccato né deviato
nella sua corsa.
In realtà i neutrini sono di tre tipi. E, secondo un modello elaborato quasi mezzo
secolo fa da Bruno Pontecorvo – uno dei
«ragazzi di Via Panisperna» salito agli onori delle cronache politiche durante la «guerra fredda» per essere stato uno dei pochi
IL NEUTRINO SUPERVELOCE
Einstein
in archivio?
conta e riconta il neutrino va più veloce
I neutrini sparati dal Cern Ginevra e diretti sotto il Gran Sasso non hanno bisogno
di alcun tunnel e di alcuna guida. Perché,
come abbiamo detto, essi attraversano la
materia senza alcun problema. Noi stessi
ogni secondo siamo attraversati da miliar-
di di neutrini e non ce ne accorgiamo (né i
neutrini si accorgono di noi). Tuttavia la
distanza tra Ginevra e il Gran Sasso è piuttosto rilevante: 730 chilometri. Cosicché
anche la luce impiega un tempo misurabile – qualche millesimo di secondo (2,4 millisecondi per la precisione) – per percorrerla.
Insomma, tre anni fa il gruppo Opera ha
iniziato a misurare il tempo impiegato dai
neutrini per viaggiare da Ginevra al Gran
Sasso. E non voleva credere ai propri occhi. Perché quel tempo risultava di 20 parti per milione inferiore al tempo che avrebbe impiegato la luce. I neutrini compivano il percorso tra Ginevra e il Gran Sasso
in circa 60 nanosecondi (miliardesimo di
secondo) in meno della luce!
Il gruppo Opera non voleva credere ai propri occhi. E ai propri strumenti. E ai propri calcoli. Così, come racconta Antonio
Ereditato, per tre anni ha accumulato dati
su dati, sottoponendoli alle più svariate
analisi e ai più rigorosi controlli. L’incertezza sulla distanza tra Ginevra e il Gran
Sasso è stata ridotta a soli 20 centimetri.
Quella sui tempi a soli 10 nanosecondi.
Niente da fare, facendo e rifacendo i conti, accumulando un numero sempre crescente di eventi, per tre anni il dato resta
immutato: i neutrini sembrano viaggiare
più veloci della luce.
A questo punto Ereditato e il suo gruppo,
formato da circa 160 fisici, si sono arresi e
hanno deciso di rendere pubblica l’eclatante misura.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
occidentali a «fuggire» in Unione Sovietica – i tre tipi di neutrini «oscillano», ovvero si trasformano l’uno nell’altro. Se questo avviene, contrariamente a quanto previsto dal Modello Standard della Fisica
delle Alte Energie, i neutrini hanno una
massa, sia pure piccolissima.
Da tre anni il gruppo di ricerca, chiamato
opera e coordinato da Antonio Ereditato,
un fisico napoletano che insegna all’università di Berna, cerca di misurare le «oscillazioni» dei neutrini. In pratica ha impiantato a Ginevra, presso il Cern, un generatore di neutrini del tipo muonico che li
spara in direzione dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, i più grandi laboratori sotterranei al mondo realizzati sotto la
montagna abruzzese dall’Infn (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare). Lì c’è un rivelatore capace di rilevare il passaggio di alcuni neutrini tra i tantissimi prodotti a Ginevra e verificare se hanno «oscillato». In
realtà il gruppo Opera ha rilevato almeno
16.000 neutrini tau, fornendo al mondo la
prima prova diretta dell’oscillazione dei
neutrini muonici e confermando la previsione di Pontecorvo.
47
IL
NEUTRINO
SUPERVELOCE
dello stesso Autore
BIOTECNOLOGIE
scienza
e nuove tecniche
biomediche
verso
quale umanità?
pp. 124 - i 15,00
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
(vedi Indice in RoccaLibri
www.rocca.cittadella.org)
per i lettori di Rocca
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48
Con quali sviluppi?
Gli sviluppi sono di due diverse dimensioni. Da un lato occorrerà verificare l’esattezza della misura alla ricerca di eventuali
errori, casuali o sistematici. Dall’altra occorrerà ripetere la misura, per averne una
conferma indipendente. Si sono già attivati a questo scopo due gruppi – uno in
Giappone e l’altro negli Stati Uniti – e si
spera che, nel giro di un paio di anni, ci
sarà una risposta. Occorre ricordare che,
finora, nessuno aveva «visto» i neutrini
viaggiare a velocità superiore a quella della luce. Anche nel corso dell’esplosione di
una supernova (evento cosmico che comporta un forte rilascio di neutrini) non era
stata rilevata questa performance dei neutrini. Ma, ripetiamo, ora occorre solo una
verifica indipendente.
di «gravità quantistica».
Diverse possibilità risiedono in teorie altrettanto esotiche, come quelle delle stringhe o come quelle che prevedono l’esistenza di tachioni, ovvero di particelle che viaggiano a velocità superluminali. Solo che
finora la teoria dei tachioni prevedeva due
universi diversi – quello popolato da particelle che viaggiano necessariamente a velocità inferiori a quelle della luce e quello
popolato da particelle superliminali – ma
impossibilitati a comunicare. Se viaggi più
veloce della luce non puoi stare in questo
universo. Se sei più lento della luce non
puoi andare nell’altro universo. Come fanno allora i neutrini superluminali a scarrozzare da un universo all’altro?
sarà vera rivoluzione?
I fisici tendono, giustamente, a ricordare
che le rivoluzioni nella scienza sono piuttosto rare. Che in genere le novità teoriche
consistono nell’elaborazione di modelli più
generali, che non abbattono i precedenti
ma li inglobano. È quanto avvenuto con la
stessa relatività generale di Einstein, che
ha inglobato non sostituito la teoria della
gravitazione universale di Newton.
Per cui anche il neutrino più veloce della
luce non porterà ad alcuna rivoluzione.
Semmai a un nuova teoria più generale.
Ma qui siamo nell’universo, è il caso di dirlo, della discussione nominalistica (cosa
dobbiamo intendere per rivoluzione intellettuale)? La verità è che se davvero il neutrino confermerà di saper viaggiare a velocità superiore a quella della luce i fisici
dovranno allestire una serie di tali aggiustamenti che il quadro della fisica ne risulterà modificato. E, con esso, la percezione che noi tutti abbiamo del mondo fisico.
Quando, nel 1905, Albert Einstein decretò
la fine dei concetti di spazio e di tempo
assoluti nelle scienze fisiche, pochi mesi
dopo e in maniera del tutto indipendente,
Pablo Picasso completò un quadro, Le damigelle di Avignone, che secondo i critici
dell’arte pose fine ai concetti di spazio e di
tempo assoluti nelle arti figurative.
Iniziamo a guardarci intorno, forse qualcuno sta già lavorando a un’opera d’arte –
un quadro, un romanzo, un film – in cui ci
viene offerta la nuova visione di un cosmo,
il tutto armoniosamente ordinato dei greci, in cui la velocità della luce non è più un
limite invalicabile. E il rapporto tra causa
ed effetto seguirà nuove leggi.
L’altra dimensione è il quadro teorico. La
velocità della luce e l’impossibilità di superarla sono parte fondante non solo della relatività, ristretta e poi generale, ma
anche della teoria classica dell’elettromagnetismo, dell’elettrodinamica quantistica
e della teoria elettrodebole (che unifica due
delle quattro forze fondamentali della natura, l’interazione elettromagnetica e l’interazione debole). L’interazione debole è
proprio la forza responsabile del decadimento radioattivo dei nuclei e della generazione dei neutrini.
A questo punto le possibilità sono svariate. In primo luogo può essere modificata
la teoria della relatività, attribuendo alla
velocità dei neutrini invece che alla velocità della luce il ruolo di valore soglia invalicabile. Ma non basta questo esercizio di
trasposizione. Occorrerebbe spiegare perché particelle materiali, dotate di massa,
viaggiano a velocità superiore a quella dei
fotoni, particelle prive di massa, nel vuoto. E come fanno, viaggiando a velocità
prossime a quelle soglia a non veder aumentare la propria massa fino a dimensioni infinite, come prevede la teoria della
relatività.
Altri sostengono che la spiegazione non risiede tanto nella relatività, quanto nella
meccanica quantistica. E, in particolare
nella possibilità che alcune particelle scavino dei tunnel nello spaziotempo (tunnel
molto diversi da quelli immaginati dal
Ministro Gelmini) e trovino sostanzialmente delle scorciatoie, in modo tale che
la loro «velocità apparente» risulta inferiore a quella della luce. Questa possibilità è
prevista nell’ambito dei modelli cosiddetti
una nuova visione del cosmo
Pietro Greco
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
il Circolo di Vienna
una concezione scientifica del mondo
N
concezione scientifica del mondo (che contiene una fiducia incrollabile nella ragione umana e nella sua capacità di rischiarare le cose) si capì immediatamente che
la filosofia avrebbe subìto una svolta significativa. Questi filosofi non intendevano
solo opporsi al vecchio e alla tradizione,
come tante volte era successo nella storia
del pensiero, ma rinnovare le basi epistemologiche del filosofare introducendo la
positività dei fatti contro il mondo confuso delle idee e delle fantasie. La scienza
era chiamata a prendere il posto che un
tempo era stato della metafisica. Alle credenze di pochi iniziati dovevano subentrare le evidenze che sono alla portata di tutte le menti razionali.
Iniziava così, in continuità con il positivismo ottocentesco, con la filosofia di Russell, di Frege e del primo Wittgenstein, una
delle stagioni più interessanti e controverse del pensiero occidentale: quella dell’empirismo logico.
Nella vecchia e fumosa mitteleuropa, teatro un secolo prima della cultura idealistica e romantica, lungo l’asse Vienna-Berlino, città che divenne centro di un altro
importante circolo neopositivista, molti
filosofi della scienza, riuniti attorno alla
rivista Erkenntnis, osarono sfidare con un
programma ambizioso il modo di pensare
dell’uomo occidentale.
quanto può dirsi, può dirsi in modo chiaro
Il programma era quello di far chiarezza
in un campo in cui, più che certezze oggettive, dominavano opinioni discutibili. E
quello di fare piazza pulita di pseudoproblemi filosofici, frutto di una logica imperfetta e di un linguaggio ambiguo, per aprirsi a nuovi problemi, problemi che non erano mai stati posti e concepiti. La filosofia
poteva vedere lontano se solo si fosse liberata dalle nebbie della non conoscenza. Era
necessario guardare al futuro con occhi
nuovi, non deformati da pregiudizi senza
49
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Stefano
Cazzato
ella scienza non si dà profondità
alcuna; ovunque è superficie.
Tutto è accessibile all’uomo e
l’uomo è la misura di tutte le
cose. In ciò si riscontra un’affinità con i sofisti, non con i platonici; con gli epicurei, non con i pitagorici;
con tutti i fautori del mondano e del terreno. La concezione scientifica del mondo
non conosce enigmi insolubili».
Quando, alle soglie degli anni ’30, gli esponenti del circolo di Vienna formularono la
senso, e il futuro era la scienza. La scienza
come metodo da imitare e la scienza come
atteggiamento, come vocazione critica,
come attitudine esistenziale a mettere in
dubbio quanto, pur radicato nella tradizione del pensiero e venerato da secoli, non
era sufficientemente chiaro e giustificato.
Autorità come Platone, Tommaso, Kant,
Schelling e Hegel caddero sotto i colpi di
questo metodo. La raccomandazione,
espressa da Wittgenstein nel Tractatus, di
dire in modo chiaro quello che si può dire
e di tacere quello che non si può dire, divenne, per i primi empiristi logici, un imperativo teorico e morale. Ma c’era bisogno di un’arma più solida e aggressiva delle suggestioni di Wittgenstein per dissolvere il passato, e quest’arma venne individuata nel principio di verificazione.
Per Rudolf Carnap (nella foto) la verificazione è un criterio di demarcazione tra gli
enunciati metafisici, ascrivibili alla poesia
e quindi inverificabili, e gli enunciati empirici, che esprimono verità di fatto e sono
quindi verificabili.
Per Moritz Schlick il significato di una proposizione è il metodo della sua verificazione, anche se sono possibili differenti metodi per verificarla.
Secondo La concezione scientifica del mondo, il manifesto del neopositivismo firmato da Carnap, Hahn e Neurath, è un errore
ritenere che il pensiero possa arrivare a
delle conoscenze prescindendo dall’esperienza o andando oltre l’esperienza.
La verificazione cominciava a segnare i
paletti della conoscenza, le sue possibilità
e i suoi limiti, a stabilire cos’era scienza e
cosa non lo era. Forse lo faceva in modo
restrittivo e intransigente ma lo scopo era
quello di mettere ordine, di eliminare i
dello stesso Autore detriti concettuali che frenavano il cammino della filosofia.
MAESTRI
DEL
NOSTRO
TEMPO
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Stefano Cazzato
Giuseppe Moscati
MAESTRI
DEL NOSTRO
TEMPO
pp. 240 - i 20,00
il lavoro collettivo
Pur con sfumature diverse, tutti gli empiristi logici sottoscrissero questo empirismo
verificazionista che faceva sperare nelle
progressive sorti della scienza e dell’uomo.
(vedi Indice
Ciò che li teneva insieme, però, era qualin RoccaLibri
www.rocca.cittadella.org) cosa di più profondo di una teoria o di una
dottrina. Non era una tesi filosofica o scienper i lettori di Rocca tifica particolare ma una prospettiva di rii 15,00 anziché i 20,00 cerca, un «orientamento di fondo».
spedizione compresa Hahn, Carnap, Schlik e Neurath ma anche Reichenbach e gli altri di Berlino averichiedere a
vano il senso della comunità scientifica e
Rocca - Cittadella
pensavano che la scienza fosse un bene
06081 Assisi
comune. Rappresentavano se stessi non
e-mail
[email protected] come pensatori isolati, in cerca di un suc50
cesso personale, ma come una scuola, impegnata in un lavoro collettivo di tipo illuministico. Non si consideravano delle autorità da idolatrare ma dei servitori «della
verità dei fatti» in un’epoca in cui i modi
della legittimazione filosofica diventavano
più democratici e intersoggettivi.
Da qui l’idea di organizzarsi in circoli, di
fondare una rivista di dialogo e di sintesi
teorica e di proporre opere firmate a più
mani. Da qui l’ambizione «dell’unificazione della scienza per collegare e coordinare i risultati dei singoli ricercatori nei vari
ambiti scientifici». E da qui, soprattutto,
la ricerca di un linguaggio universale nel
quale tutti gli uomini di scienza potessero
parlare e capirsi, al di là delle barriere della storia.
Purtroppo furono proprio le barriere della
storia a dividerli. Con l’avvento del nazismo
molti di loro, i più fortunati, presero la strada degli Stati Uniti portando con sé non solo
lo spirito illuminista e la nuova concezione
del mondo ma anche i suoi nodi irrisolti
tra cui un latente dogmatismo scientista e
una scarsa considerazione per quei campi
del sapere e dell’agire umano legati alla valutazione etica ed estetica e irriducibili alla
fondazione empirica. Con questi nodi si sarebbero confrontati i filosofi della scienza
delle generazioni successive, facendo tesoro della rivoluzione empirista ma criticandola e rifondandola a partire dall’interrogazione radicale sul significato dell’esperienza e della ragione.
Stefano Cazzato
per leggere l’empirismo logico
R. Carnap, La costruzione logica del mondo,
Utet, Torino 1997.
H. Hahn, R. Carnap, O. Neurath, La concezione scientifica del mondo, Laterza, Roma-Bari
1979.
M. Schlick, Sul fondamento della conoscenza,
La Scuola, Brescia 1983.
O. Neurath e all., Neopositivismo e unità della
scienza, Bompiani, Milano 1973.
sull’empirismo logico
J.O. Urmson, Storia dell’analisi, in G. Gava, R.
Piovesan, La filosofia analitica, Liviana, Padova 1972.
O. Neurath, Il circolo di Vienna e l’avvenire
dell’empirismo logico, Armando, Roma 1977.
H. Feigl, Il circolo di Vienna in America: la filosofia americana contemporanea, Armando,
Roma 1980.
G. Giorello, Introduzione alla filosofia della
scienza, Bompiani, Milano 1996.
F. D’Agostini, Filosofia analitica, Paravia, Torino 1997.
Rocca?
grazie ad un amico
l’ho conosciuta
un 40% dei lettori
risponde così
al questionario 2011
è un’idea
da incentivare
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
presenta
anche tu
Rocca a un amico
procura un abbonamento annuale
e Rocca ti ringrazia
inviandoti a scelta o il cd-rom Rocca 2011
o il libro «Pianeta coppia» di Rosella De Leonibus
51
TEOLOGIA
Io e Noi
di fronte a Dio
in dialogo con Vito Mancuso
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Carlo
Molari
52
I
l nuovo libro di Vito Mancuso, (Io e Dio.
Una guida dei perplessi, Garzanti, 2011)
merita una lettura attenta. Chi si interrogava sulle ragioni del successo dei
suoi libri, credo abbia in questo ultimo volume una risposta chiara. Traspare una autenticità che da sapore di verità a ciò che è scritto; un rigore di riflessione che affascina anche coloro che avanzano riserve sulle conclusioni.
È un testo di teologia fondamentale, originale per il metodo esperienziale, ricco per
i contenuti ampi e documentati, concreto
per l’impostazione orientata ad un rinnovamento della Chiesa. L’analisi si svolge
nell’orizzonte di fede cristiana perché parte dall’esperienza personale dell’autore,
dichiaratamente religiosa (non ricordo un
solo istante della mia vita in cui abbia dubitato di Dio p. 393; in questo senso definisco la mia identità cristiana p. 446). Mancuso cerca con passione i fondamenti della fede in Dio, come è vissuta nella tradizione cristiana, ne analizza con chiarezza
le dinamiche e ne dichiara con sincerità i
limiti. Egli sembra scrivere prima di tutto
per se stesso, per rendere chiare le impostazioni di vita, per giustificare le scelte
quotidiane e per motivare la dichiarata appartenenza alla Chiesa. Convinto che la sua
esperienza possa essere «una guida dei
perplessi» come precisa il sottotitolo. Per
questo la riflessione procede con argomenti di ragione.
Sono scelte consapevoli e dichiarate: «in
queste pagine rendo pubblica la mia visione della fede in Dio e del suo fondamento»
(p. 194); «ho voluto vagliare la solidità di
ciò che pretende di essere il punto fermo
per costruire la mia identità» (p. 445). «Il
mio obiettivo è contribuire a far sì che la
mente contemporanea possa tornare a
pensare insieme Dio e il mondo, Dio e Io,
come un unico sommo mistero, quello della generazione della vita, dell’intelligenza,
della libertà, del bene, dell’amore». «Vorrei che questo libro e in genere il mio lavoro intellettuale risveglino e rafforzino negli esseri umani l’amore per il bene e per
la giustizia e il senso di solidarietà e fratellanza» (p. 184-185). «Desidero in particolare promuovere un cambiamento di paradigma: il passaggio dal principio di autorità al principio di autenticità» (p. 194).
Sarebbe presunzione da parte mia in poche righe anche solo elencare i molti temi
esaminati con dovizie di informazioni, le
prove addotte con rigore logico e le conclusioni a cui perviene in dissenso a volte
con le opinioni diffuse nelle comunità cattoliche.
Vorrei piuttosto sviluppare un dialogo su
due punti che considero qualificanti e che
mi pare meritino una riflessione: l’Io/Noi
nel cammino di fede e il carattere personale del Dio cristiano.
Una certa perplessità suscita la scelta di
considerare l’io come soggetto esclusivo del
rapporto con Dio. Una scelta insistita e
intenzionale precisata anche nell’uso grafico del pronome personale «io/Io»: «minuscolo intende lo scrivente, maiuscolo il
soggetto umano» (p. 10). Egli è convinto
che «se non si vuole pronunciare invano il
nome «Dio» anche come nome comune di
persona, si impone una precisa, inderogabile, condizione: parlare in prima persona
singolare. Credo che oggi si possa parlare
di Dio in modo veridico solo dicendo consapevolmente «io», e proprio a partire dall’Io» (p. 387). Riferendosi ai dubbi e riserve sulla storicità di molti racconti biblici
Mancuso scrive: «La potenza della profezia e la profondità dei libri sapienziali rimangono intatte, ma a questo riguardo
non si tratta di un ingresso di Dio nella
storia, quanto di ispirazione nella singola
anima. Ovvero, non ‘noi e Dio’, bensì sempre e solo ‘Io e Dio’» (p. 268). La conclusione del libro sembra porre il sigillo alla
scelta: «Quanto a me il punto fermo che
costituisce la mia vera identità di uomo
non mi deriva da nulla di esteriore... Ciò
che mi definisce come uomo è qualcosa di
interiore a me stesso. Questa interiorità è
lo spirito, il medesimo che è all’origine del
bene morale dentro di me e del mondo fisico allo stesso modo dentro di me perché
anch’io sono mondo... Per ogni uomo che
viene sulla terra la partita della vita è sempre tra Io e Dio» (p. 446).
Con queste affermazioni Mancuso intende prima di tutto affermare che l’esperien-
della somma energetica delle persone, in
modo da richiamare e riassumere la storia intera della comunità.
Dal punto di vista del metodo di riflessione
è giusto partire dall’esperienza personale,
ma nella consapevolezza che essa è donata,
implica le relazioni e che il cammino autentico di fede si realizza solo nel Noi.
A questo proposito vorrei richiamare alcune riflessioni proposte da Benedetto XVI
il 24 settembre scorso nel colloquio improvvisato con i seminaristi di Friburgo.
Egli ha detto: «Soltanto nel ‘noi’ possiamo
credere... Fa parte della fede il ‘tu’ del prossimo, e fa parte della fede il ‘noi’. ...Quando diciamo: ‘Noi siamo Chiesa’, sì, è vero:
siamo noi, non qualunque persona. Ma il
‘noi’ è più ampio del gruppo che lo sta dicendo. Il ‘noi’ è l’intera comunità dei fedeli, di oggi e di tutti i luoghi e tutti i tempi.
E dico poi sempre: nella comunità dei fedeli, sì, lì esiste, per così dire, il giudizio
della maggioranza di fatto, ma non può
mai esserci una maggioranza contro gli
apostoli e contro i santi: ciò sarebbe una
falsa maggioranza. Noi siamo Chiesa: siamolo! Siamolo proprio nell’aprirci e nell’andare al di là di noi stessi e nell’esserlo
insieme con gli altri!».
Una verifica della insufficienza della prospettiva prevalentemente individuale viene dal fatto che Mancuso ha difficoltà a
valorizzare la liturgia come luogo comunitario dell’incontro con Dio e a considerare la storia come ambito privilegiato della rivelazione divina.
Egli ammette: «lo statuto comunitario della liturgia non si concilia bene con la mia
attenzione privilegiata all’Io nella sua singolarità» (p. 190 sottolineature mie). La liturgia infatti non è semplice dovere bensì
è il luogo dove la struttura teologale dell’esistenza cristiana si esercita, si verifica
e si alimenta nello scambio di doni reciproci. La pratica liturgica autentica sviluppa in tutti la capacità di amare.
Quanto alla storia Mancuso riferisce puntuali e informate conclusioni di autorevoli
storici ed esegeti circa il carattere e le ragioni delle narrazioni Bibliche (pp. 245344). Ma altro è negare la storicità di racconti altro è negare che la storia sia l’ambito necessario della rivelazione e dell’esperienza del divino in modo da realizzare
quella «verifica concreta e assoluta» di ogni
religione, che giustamente, secondo Mancuso, consiste nel «volersi bene, volere il
bene, nient’altro che il bene» (p. 190).
(continua)
dello stesso Autore
CREDENTI
LAICAMENTE
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53
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
za di fede suppone la piena consapevolezza personale e si sviluppa solo nella libertà. In questo ha pienamente ragione.
Due dubbi vorrei illustrare. Il primo a proposito dell’autosufficienza del singolo. La
libertà infatti è donata dagli altri, il cammino di fede si svolge solo per induzione
altrui e suppone quindi un campo permanente di testimonianza. Mancuso stesso
elenca i testimoni che l’hanno guidato ed
educato alla fede ( ad es. pp. 191 ss). Questa condizione non riguarda solo l’origine
dell’esperienza religiosa bensì anche lo sviluppo maturo della vita spirituale e resta
un suo statuto permanente. La vita spirituale individuale è immersa o avvolta da
un campo energetico più ampio a cui continuamente attinge. Mancuso infatti accoglie quella «visione dell’uomo e della vita»
secondo cui «non c’è prima un Io isolato,
una monade monacale che poi, in un secondo momento, ha delle relazioni». Ma,
al contrario «prima ci sono le relazioni»
«e in base alla natura di tali relazioni il soggetto di volta in volta si forma: l’Io non ha
relazioni, l’Io è relazioni» (p. 401). Egli stesso d’altra parte confessa: «vado scoprendo
che non so rispondere con certezza al perché della mia fede» (p. 393) e riconosce
nello stesso tempo: «la fede in Dio è radicata in me come un patrimonio ideale di
cui sono felice e di cui vivo» (ib). Anche la
tradizione sapienziale si alimenta attraverso l’intreccio delle esperienze personali in
un unico orizzonte di fede. Coerentemente non si dovrebbe concludere che il processo interiore come è derivato ora è sostenuto dagli altri? Perché allora «io» e non
«noi» se le relazioni costituiscono e condizionano la nostra vita di fede?
In secondo luogo il rapporto con Dio nella
storia si concretizza quando la sua azione
è accolta e resa visibile. Ma ciò avviene non
solo a livello individuale bensì anche e soprattutto in forma sociale e storica. Ci sono
qualità umane che possono fiorire solo in
ambienti vitali ampi e in comunità con vincoli intensi. L’intreccio delle relazioni costituisce uno spazio di sviluppo spirituale
più ampio e profondo della somma delle
dimensioni personali. Una comunità di vita
non è la semplice somma delle potenzialità vitali delle persone ma il risultato esponenziale della energia creatrice che attraverso l’intreccio dei rapporti può sviluppare un campo energetico più profondo e
intenso. In tale modo anche le ricchezze
della storia possono esprimersi in forme
più ricche. Per cui non solo il Noi è prima
dell’Io perché lo precede e lo fonda ma
costituisce un soggetto più ampio e ricco
IL CONCRETO DELLO SPIRITO
dignità
Lilia
Sebastiani
ggi se ne parla molto, forse più che
in ogni altra epoca, e il linguaggio dei mass-media non sempre è
attento a distinguere. Così accade di rafforzare un’ambivalenza
che è in qualche modo presente
nell’idea – e nel termine, e nel suo uso – fin
dal principio. La dignità come l’intendiamo
noi, ambiguità comprese, è un’acquisizione
piuttosto moderna. Prima del cristianesimo,
anche nelle culture classiche, il concetto di
dignità umana, benché non sconosciuto, era
inteso in modo assai diverso da quello che
può esserci familiare, e tendeva a identificarsi con il ‘ruolo’ sociale della persona.
O
due significati – o forse più
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Nel mondo antico, soprattutto nel mondo
romano, almeno a partire da quando
un’espressione quale ‘dignità dell’uomo’ diventa interessante per i filosofi, la parola
viene impiegata in due accezioni diverse.
Da un lato si riferisce alla posizione unica e
speciale dell’essere umano nell’universo;
dall’altro, alla posizione che egli occupa fra
i suoi simili. Nel primo significato la dignità è un dato assoluto, nel secondo è del tutto relativa. Le due accezioni diverse hanno
conosciuto un’evoluzione nel tempo ma si
sono in sostanza conservate fino a oggi.
In latino la dignitas, concetto forse più pubblico che privato, presuppone la virtus, cioè
si fonda sui meriti che un uomo può avere
(e anche non avere); oppure riguarda il ruolo o il rango sociale. In ogni caso il concetto di dignità sembra sempre subordinato a
un riconoscimento dall’esterno. Se si eccettuano alcune intuizioni filosofiche, talvolta intensamente suggestive ma anche, dal
nostro punto di vista, incomplete, non sembra diffusa l’idea che tutti gli esseri umani
abbiano la stessa dignità ‘proprio’ e ‘solo’ in
quanto umani.
In ambito giuridico e filosofico le teorie antiche e moderne sulla dignità umana vengono abitualmente distinte in due categorie:
quelle che legano la dignità a un dato ontologico, facendone un principio trascenden54
tale legato alla specie umana (teorie ‘della
dotazione’), e quelle che la collegano a fattori progressivi, in divenire (teorie ‘della prestazione’). Nel primo caso la dignità è qualcosa che non si acquista né si perde; nel secondo invece è legata al comportamento e
alle scelte dei singoli, e anche a fattori che
possono non dipendere dalla volontà.
Nell’antichità il discorso sulla dignità dell’uomo è stato sviluppato e diffuso dallo stoicismo (e in parte, in modo un po’ diverso,
dal neoplatonismo). Il logos umano è partecipe di quello divino, perciò gli uomini
da un certo punto di vista hanno tutti la stessa ‘virtù’, a prescindere dalla condizione in
cui si trovano.
Non possiamo non rilevare la somiglianza
che passa tra questa idea e quella cristiana
dell’uomo immagine di Dio.
la dignità nella Scrittura
Una grande differenza si riscontra nella tradizione ebraico-cristiana, per cui la dignità
diventa un elemento specifico della condizione di uomo, della sua natura.
Nella prospettiva biblica la dignità non risiede primariamente nell’uomo stesso – cioè
nel suo comportamento, nella sua natura
spirituale, nella sua libertà... Viene invece
dal legame che lo unisce al suo creatore. Si
fonda nella somiglianza con Dio, nell’essere creato a sua immagine, per cui nella creatura risplende un riflesso della stessa gloria di Dio. Se Protagora diceva che «l’uomo
è misura di tutte le cose», il messaggio emergente dalla Scrittura sembra quasi opposto:
la misura di tutte le cose è Dio, ed è anche
la suprema realizzazione e il fine dell’uomo. L’uomo, dal canto suo, non è Dio, ma è
coinvolto e trasformato dal suo amore, dalla sua intenzionalità creatrice, è costituito
da Dio come essere responsabile, cioè capace di risposta.
Vi è un passo del secondo Isaia che colpisce sempre per l’intensa vibrazione affettiva, il Signore conforta in suo popolo minacciato ricordandogli la propria indefettibile vicinanza: «Non temere, perché io ti ho
salto il ruolo unico dell’essere umano nei
confronti della realtà creata e il suo essere
culmine nel progetto di Dio.
La visione cristiana dell’essere umano, fondata nella teologia del Primo Testamento,
acquista connotati nuovi e originali alla luce
dell’evento di Gesù. Attraverso l’uomo Gesù
di Nazaret, attraverso i due pilastri dell’evento cristiano, l’Incarnazione e la Resurrezione, Dio iscrive qualcosa di realmente nuovo nella natura e nel destino dell’essere
umano. La Parola si è fatta carne, la carne
può farsi parola: la nostra stessa dimensione fragile, relativa, ferita, può mediare per
noi stessi e per altri la salvezza di Dio nel
concreto della storia umana.
I miracoli di guarigione, che tanto rilievo
hanno nei vangeli, non sono solo segni di
potenza né solo una specie di pronto soccorso celeste a beneficio di alcuni sfortunati (peraltro abbastanza fortunati da trovarsi sul cammino di Gesù nel momento
giusto); ma segni del nuovo di Dio, annuncio di una nuova dignità e libertà dell’essere umano. Questa dignità nuova riguarda
tutti in ogni tempo, i risanati come gli altri.
Le persone che Gesù guarisce non risultano semplicemente rimesse a posto laddove
la funzionalità di un organo risultava compromessa, ma ricostituite solennemente
nella loro dignità. (Anche per questo in
molti casi l’attenzione di Gesù si rivolge a
quelli che nel loro tempo e nel loro ambiente
erano discriminati o veramente ‘ultimi’, se
non esclusi).
Le guarigioni rivelano la dignità straordinaria di ogni essere umano dinanzi a Dio:
dignità che è uguale per ognuno e, nello stesso tempo, infinitamente differenziata. E
nello stesso tempo ricordano la responsabilità umana derivante da questa stessa dignità.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
riscattato, / ti ho chiamato per nome: tu mi
appartieni.(...) Io do l’Egitto come prezzo per
il tuo riscatto, /l’Etiopia e Saba al tuo posto. / Perché tu sei prezioso ai miei occhi,/
perché sei degno di stima e io ti amo,/ do
uomini al tuo posto / e nazioni in cambio
della tua vita...» (Is 43,1-4 passim: corsivi
nostri).
Forse la nostra sensibilità moderna, cristiana o comunque filtrata attraverso il cristianesimo, sentirebbe il bisogno di una lettura più universale della sollecitudine di Dio
e della dignità umana; ma è importante che
in questo passo – scritto al tempo dell’esilio
in Babilonia – un popolo politicamente quasi annientato e asservito dai nemici pagani
abbia attraverso le parole del profeta la certezza di essere ‘ancora’ scelto da Dio, di contare molto ai suoi occhi: non certo in base
alla forza, che non esiste più, ma in virtù
della chiamata e dell’Alleanza. Le parole sull’Egitto, l’Etiopia e Saba (tutti regni ricchi
e potenti) non esprimono disprezzo o aggressività verso questi paesi, ma attenzione
privilegiata verso il popolo di Dio, impoverito e oppresso, ma sempre «prezioso ai
(suoi) occhi».
Il salmista si chiede, e chiede a Dio: come è
possibile che l’uomo, così piccolo e trascurabile, sia importante ai tuoi occhi? «Se
guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,/ la
luna e le stelle che tu hai fissate,/ che cosa è
l’uomo perché te ne ricordi / e il figlio dell’uomo perché te ne curi?». E risponde nei termini del racconto di creazione: «... Eppure
l’hai fatto poco meno degli angeli,/ di gloria e
di onore lo hai coronato:/ gli hai dato potere
sulle opere delle tue mani,/ tutto hai posto
sotto i suoi piedi...».
Nella Bibbia l’essere umano conosce la propria grandezza per mezzo della rivelazione
di Dio, e nella certezza che Dio si cura di
lui acquisisce anche la coscienza della propria dignità.
Il fondamento dell’antropologia biblica si
trova in primo luogo nei due racconti di
creazione (risalenti a tradizioni diverse) nei
capp. 1 e 2 della Genesi. Nonostante le diversità, da entrambi i racconti acquista ri-
la Chiesa, il Concilio e la dignità umana
La bimillenaria storia della chiesa si può
leggere anche come lungo itinerario di riflessione sulla persona umana e la sua dignità, itinerario certo non lineare né paci55
IL
CONCRETO
DELLO
SPIRITO
fico. Si trovano contraddizioni nella dottrina, ma anche e soprattutto tra la dottrina e la prassi.
Tuttavia il cammino percorso è di importanza fondamentale.
La grande novità del secolo XX è il personalismo: si afferma negli anni Trenta e intorno
agli anni del Concilio viene in sostanza accolto anche dal magistero della chiesa, esercitando una particolare influenza sulla costituzione Gaudium et Spes. Il personalismo
non è semplicemente una ‘corrente filosofica’: è una visione dell’uomo che ne sottolinea la dignità, il giusto bisogno di autorealizzazione, la vocazione alla libertà; e difende con forza i diritti della persona, sempre
in vitale connessione con i doveri.
Nella dichiarazione Dignitatis Humanae
sulla libertà religiosa (7 dicembre 1965) il
Concilio afferma che «il diritto alla libertà
religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana» (n. 2), e sottolinea la confluenza di diritti e doveri nella
questione della libertà religiosa. Più avanti
(n. 3) aggiunge che la verità «va cercata in
modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale» e qui si
riafferma – come nel n. 16 della Gaudium
et Spes, benché in termini meno originali e
profondi – la centralità della coscienza.
Nel 2005 fu pubblicato a cura del Pontificio Consiglio per la giustizia e per la pace il
Compendio della dottrina sociale della chiesa: un documento che, sebbene non originale (è infatti un collage di citazioni da documenti magisteriali dell’ultimo mezzo secolo), riesce a fondere apporti disparati in
una sintesi piuttosto efficace. All’interno del
cap. III, «La persona umana e i suoi diritti», una trattazione fra le più attente e articolate di tutto il Compendio è dedicata ai
diritti umani, e vi si afferma che la radice
di essi «è da ricercare nella dignità che appartiene ad ogni essere umano» (n.153),
fondata non su quanto ‘ha’ o ‘fa’, ma su ciò
che è; dignità uguale in tutti e comprensibile per mezzo della ragione.
dignità come ‘dato’ e come ‘lavoro’
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
La dignità della persona viene solennemente proclamata nel preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
(1948): «Il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana
e dei loro diritti uguali e inalienabili costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». L’articolo 1
afferma che «tutti gli esseri umani nascono
liberi e eguali in dignità e diritti». Tra parentesi la Dichiarazione del 1948 è il primo
56
fra i grandi documenti ‘laici’ dello stesso
genere ad essere recepito in modo pienamente favorevole dalla voce ufficiale della
chiesa cattolica.
Ci piace molto che nella Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea dell’anno
2000 (dal 2007 a questo testo viene riconosciuto lo stesso valore giuridico dei Trattati) dedichi un intero capitolo al principio
della dignità umana, presentandola insieme come un valore universale e trascendente da cui scaturiscono i diritti e come la sintesi dei diritti stessi.
Oggi di dignità si parla spesso e volentieri,
ma le idee al riguardo non sembrano più
chiare – le idee correnti, almeno. La dignità viene facilmente confusa con concetti
che, quantunque non estranei ad essa, rimangono ‘altri’: autostima, orgoglio, anche
prestigio; perfino con lo star bene.
Spesso l’opinione pubblica viene colpita da
comportamenti che sembrano contraddire
– per la dissennatezza, per la gratuita ferocia, per lo squallore – la dignità dell’essere
umano. Ma non si perde la dignità fondamentale, così come, parlando da credenti,
non si perde l’essere immagine di Dio. Semmai si offusca, questo sì, la ‘somiglianza’.
In realtà la dignità è qualcosa che nello stesso tempo si possiede e si deve conquistare:
bisogna sempre diventare ciò che si è.
La dignità viene scossa, nel duplice senso
del termine (non rispetto della dignità di
altri, comportamento proprio non dignitoso) dalla sistematica mancanza di riflessione in chiave etica e dalla progressiva diffusa perdita di un proprio centro interiore
unificante.
Il paradosso della persona umana sta proprio nel far riferimento insieme alla vulnerabilità (tutto ciò che la Scrittura esprime parlando di ‘carne’), alla natura sociale dell’essere umano e alla sua sacralità inviolabile.
Gabriel Marcel affermava che il carattere
sacro dell’essere umano appare anche più
chiaro quando ci si accosta «all’essere umano nella sua nudità e nella sua debolezza,
all’essere umano disarmato, così come lo
incontriamo nel bambino, nell’anziano, nel
povero».
Non avviene forse mai di attingere il senso
(non filosofico, ma vissuto e creativo), della
propria dignità, come quando ci si coinvolge attivamente nel rispetto della dignità di un altro, come quando si lavora, nei
limiti delle proprie possibilità, per far risplendere la dignità nascosta o dimenticata di un altro.
Lilia Sebastiani
CINEMA
C
arnage, sostantivo
che troviamo sia in
inglese che in francese, può essere tradotto
con carneficina ma anche
carnaio. Quest’ultimo significato non compare nel
titolo della pièce da cui il
film è tratto, «Il dio del
massacro» di Yasmina
Reza, che fa comunque riferimento a una situazione cruenta ed esasperata,
anche se tutto, in quello
che si avvierà fatalmente a
diventare un «quartetto
per cannibali», almeno alle
prime apparenze, sembra
svolgersi all’insegna dell’educazione e del fair play.
Nel corso di una lite l’undicenne Zachary ha rotto
due denti al coetaneo
Ethan dandogli una bastonata in faccia. I genitori di
Zachary, Alan, avvocato di
grido, e Nancy, consulente
finanziaria, fanno visita al
padre e alla madre di
Ethan, Michael, venditore
di casalinghi, e Penelope,
che sta scrivendo un libro
sul Darfur, per una risoluzione pacifica della controversia. È stilato un documento che ricostruisce
l’accaduto smussando ogni
angolo polemico, viene servita una torta, si beve
scotch di pregio ma, tra le
numerose telefonate di lavoro di Alan e quelle altrettanto frequenti della madre di Michael, cresce spasmodicamente la tensione.
Sul tema Polanski aveva
già realizzato Il coltello
nell’acqua e Cul-de-sac,
cioè un capolavoro e un
film che al capolavoro va
abbastanza vicino. Nel primo il luogo chiuso è uno
yacht in crociera lacustre,
l’intruso un giovane autostoppista che mette in crisi l’equilibrio precario di
una coppia della «borghesia socialista»; nel secondo
sono dei gangster a sconvolgere l’esistenza di due
coniugi, installati in un
castello che le maree separano quatidianamente dal-
Carnage
la terraferma. Se Il coltello
nell’acqua ha le movenze
della commedia nera, Culde-sac declina tutte le tonalità del grottesco. Anche
senza mettere in conto lo
sgangherato Luna di fiele,
Carnage, per argomento e
temperatura emozionale, si
inserisce dunque con tutta
evidenza in una linea d’autore.
Come detto all’inizio, il film
ha origine da un lavoro teatrale. Di solito in questi
casi è preoccupazione del
regista attuare quello che
tecnicamente si chiama
opening up, ossia l’apertura verso l’esterno, in modo
da superare la staticità connaturata ai testi scritti per
il palcoscenico. Se si eccettuano il prologo e l’epilogo,
Polanski procede qui in
maniera opposta, segregando i quattro protagonisti
della vicenda tra le mura di
un appartamento, a sottolinearne la natura di kammerspiel. In funzione di alleggerimento e fluidità del
racconto, si concentra piuttosto sulla frammentazione
delle inquadrature, sulla
precisione dei movimenti di
macchina, sulla dinamicità
delle scansioni di montaggio. Adattando la comme-
dia per il cinema insieme
alla sua autrice, analizza le
dinamiche di coppia attraverso una serie di scomposizioni e ricomposizioni in
cui giocano la psicologia, le
appartenenze – di classe e
di sesso – e il tasso etilico.
Ed è qui che vengono fuori
i limiti della pellicola. Pur
non conoscendo la pièce,
abbiamo la sensazione che
dipendano soprattutto dalla sua intrinseca debolezza,
da una progressione abbastanza prevedibile in quasi
tutti i suoi segmenti, da un
uso a tratti fastidioso degli
stereotipi di comportamento, finanche delle allusioni
simboliche (il libro su Bacon in bella evidenza sul
tavolo, a indicare una sia
pur geniale sgradevolezza
neoespressionista, che verrà poi ulteriormente sottolineata dal vomito di Nancy); conseguentemente, da
una tendenza all’esasperazione, un andare sopra le
righe che si riflette anche
nelle prove degli attori, che
molti hanno celebrato ma
che, a parte il misurato ed
efficace John C. Reilly, a
noi sono parsi al di sotto
delle loro abituali carature.
Al di là della commedia della Reza, il problema ci sem-
bra ancora una volta l’atteggiamento, forse esistenziale prima ancora che artistico, di Polanski. Cioè
uno dei maggiori talenti
espressi dal cinema nel secolo scorso, ma anche uno
di quelli che il proprio talento lo hanno buttato via
con pervicace disinvoltura.
Geniale enfant prodige nei
corti realizzati nell’ambito
di quella fucina che è stata
la scuola di Lodz (valga per
tutti il magnifico La caduta degli angeli), originale
innovatore nei lungometraggi realizzati in patria e
in Inghilterra (i già citati Il
coltello nell’acqua e Cul-desac, Repulsion) e al primo
impatto con Hollywood
(Rosemary’s Baby ovviamente più di Per favore non
mordermi sul collo), il regista, forse anche per le ben
note tragedie che ne hanno funestato l’esistenza, si
è da allora consegnato a
una routine talvolta sontuosa (Chinatown, L’inquilino del terzo piano), talaltra irritante (e qui non c’è
che l’imbarazzo della scelta), in un abbandono ai
venti del caso che ci sembra in ogni modo coerente
con una tradizione di avventurismo cinico e disperato tipicamente polacca.
Carnage, grazie anche a
contributi professionali di
alto livello come la scenografia di Dean Tavoularis
(Apocalypse Now!), i costumi di Milena Canonero
(Barry Lyndon), la musica
di Michel Desplat (Hereafter; ma qui è data col contagocce, nel prologo e nell’epilogo) e la fotografia di
Pawel Edelman (gli ultimi
film di Polanski a partire
da Il pianista), è certo un
prodotto di alta confezione ma non un giro di vite
nella filmografia da tempo
declinante del suo autore.
In ogni caso, non il capolavoro al quale molti hanno gridato all’ultimo festival di Venezia.
❑
57
.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Paolo Vecchi
RF&TV
TEATRO
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Le voci del Salento
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
N
el Salento confluiscono non solo i
due mari (Adriatico
e Ionio) che si mischiano
intorno al Capo di Santa
Maria di Leuca, estrema
propaggine della penisola
italiana, ma anche tradizioni millenarie.
Premessa indispensabile,
questa, per capire e far capire quello che mi è accaduto – nella scorsa estate –
di vedere e ascoltare in scena, Sguardi sul Mediterraneo è – per così dire – una
antologia multimediale
ideata e curata da Paolo
Rausa che l’ha adattata e
messa in scena nel suggestivo Parco archeologico
dei guerrieri – in località
Santi Stefani – a Vaste di
Poggiardo.
«Miti, leggende, storie» è il
sottotitolo di questo recital a più voci. Rausa infatti, autore autoctono ancorché residente in provincia
di Milano, ha affidato a
una quindicina di giovani
attrici e attori amatoriali
versi e prose di scrittori sia
classici sia contemporanei.
Attraverso i testi che riprendono in scena corpo e
voce si va da Euripide a
Vittorio Bodini, da Ovidio
a Maria Corti, per non citare tutti gli altri delle cui
testimonianze il regista si
è avvalso per dar vita al ritratto del «suo» mare. Fra
le voci si è distinta – come
attrice e cantante – quella
di Lucia Minutello. Ma va
anche ricordato il contributo musicale di P40 e
Andrea Vadrucci, nonché
quello coreografico della
Scuola Kalimba e di un
gruppo folkloristico marocchino.
Un’operazione impegnativa e apprezzabile cui non
sempre hanno giovato la
«troppa carne al fuoco» e
l’inserimento di spezzoni
video che hanno talora so-
58
Sostiene Bollani
vrastato le voci dei lettori.
Di altro spessore e più convincente lo spettacolo che
i Cantieri Teatrali Koreja
hanno portato in scena sul
Piazzale delle Terme di
Santa Cesarea. Si tratta di
un monologo in cui il protagonista (impersonato da
Fabrizio Saccomanno, che
ha scritto il testo insieme
a Francesco Niccolini, con
la regìa di Salvatore Tramacere) rievoca i momenti – ora angoscianti, ora
sorridenti – della vita di un
bambino in un piccolo paese del Salento, più di
trent’anni fa.
Nel candore solare dell’apparato scenico – firmato
da Lucio Diana – e dell’abbigliamento dell’attore,
forte è il coinvolgimento
del pubblico grazie alla gestualità colorita dell’interprete e al tono volutamente concitato con cui egli
riesce a rendere comprensibile anche a chi non sia
del posto il dialetto salentino. Un affresco sociale
che Saccomanno compone entrando e uscendo con
multicolre vocalità da numerosi personaggi.
In linea con questi due
spettacoli anche il recital
tenuto a Martano da Daniele Durante. Con l’apporto di Francesca Della Monaca (tamburello e voce
cantante) e di Luigi Pubbico alla tastiera, Durante
ha musicato e interpretato testi – oltre che suoi –
di Bodini e di Rina Durante. Quanto a lui, la sua bella e poliedrica espressività si traduce nella capacità di evidenziare una vasta
gamma di intonazioni. A
ciò si aggiungano – come
cornice al quadro – le gradevoli affabulazioni con
cui l’artista introduce ogni
pezzo del suo trio.
❑
I
niziamo con un consiglio al (neo)ri-nominato
direttore di RaiTre: mentre ancora sta tornando dagli Stati Uniti, decida di
prendere questo programma, portarlo ad un numero
superiore di puntate rispetto alle sei attuali e di dargli
una collocazione di palinsesto meno infelice; ché ora
inizia alla mezzanotte della
domenica: Sostiene Bollani
è una delle proposte di miglior esito tra i tentativi recenti della rete.
È un raccontone di musica
e musiche affidato alla narratività orale, alle mani sulla tastiera e alla capacità di
dialogare (soprattutto con le
note) di un musicista/pianista di gran livello – Stefano
Bollani, appunto – non nuovo a queste prestazioni in figura ibrida e però mai approdato a questi livelli di
qualità tv.
Intanto è diretta televisiva di
uno spettacolo complesso e
non teatralizzato (magari
per comodità di ripresa); risulta a scaletta costruita sia
per svolgere una sequenza di
temi che per tener l’attenzione: parrebbe un copione, ma
questo non si dà nel genere
musica in Tv; si propone in
onda da studi indicati col
nome della via Mecenate che
son periferici in tutti sensi:
per quel che resta della Rai
a Milano e per l’esser dispersi nelle brughiere sud del
confine metropolitano.
Bollani conduce e racconta
ed esemplifica e rimbalza di
note tra il piano e un contrabbasso e alcune voci: su
cosa sia l’incipit, come si sia
costituito il repertorio che è
«classico» rispetto a ciascuna contemporaneità, ai temi
della cover, in musica e non
solo per la leggera, alla vexata quaestio – per specialisti
e profani – su quale sia la
funzione ed il mestiere del
direttore d’orchestra, soprattutto quando non è il compositore stesso... Il tono è lie-
ve, la competenza evidente
perchè non esibita, l’entrare e uscire delle esecuzioni
sempre scorrevole: Bach, il
jazz, Rota, Bernstein, cantanapoli...
Un ruolo di co-conduttrice,
un po’ spalla (c’è da esser
bravi...) un po’ a giocar da
interlocutore consente a
Sabina Guzzanti di leggere
in vocalizzi testi di Micheal Jackson, annunciare a
sberleffo, chiedere, fare da
appoggio a battute (attenuasse un po’ un sotto/sotto romanesco...), a sostenere inquadrature: a uscire –
insomma: ed era tempo –
dal fluire di quella sinistra
comica (anche un po’ di famiglia: il padre in politica
non meno buffo) che è stata generata per contrasto,
ma anche per reciproco sostegno, da due decenni di
politiche volte all’apparire
e all’annunciar meraviglie.
Qui a far da contenuto è
l’insieme della trasmissione: il contesto scenico ed i
sui oggetti, la grafica e le
cromatizzazioni, la fotografia (che significa idea di
illuminazione e competenze di illuminotecnica), la
mano di regìa che non si
sente e proprio per questo
vale e pesa nel comporre
un progetto di comunicazione. A far la trasmissione è la riscoperta del nero
come colore che consente
di costruire i rossi, i gialli,
i blu, i verdi sempre bilanciati di luci e controluce.
E nessun ospite è stato intervistato – sino ad oggi –
nessuno ha presentato il
libro o il disco (o lo spettacolo o il film o qualsivoglia
«marchetta»: termine gergale): ciascuno si è inserito apportando le proprie
righe o la propria pagina
allo spartito generale di
una programmazione colta e per tutti.
Farlo si può. Che si tratti di
servizio pubblico?
❑
AVVENTURA
ARTE
Mariano Apa
Alberto Pellegrino
Somaini
strindberghiano ‘teatro da
camera’, stretto tra un infinito di mare e un pugno di
rinfrescanti pini, scendendo
sul litorale da Grosseto a
Orbetello si accarezza e si
vola via – se non la si conosce – Fonteblanda. Invece a
saperlo, ci si ferma e ci si
inoltra in una alterità di spazio dove arte e natura edificano il loro felice spartito.
Questa località custodisce
un inedito quartiere da anni
Sessanta che dalla Scandinavia il committente volle
edificare in quell’agro etrusco cara ai regnanti Norvegesi e Svedesi. E dentro ancora a quell’insieme di ordinate e moderne strade e case
di residenza – dove l’Estate
e l’Inverno si confondono –
un cuore giovane si apre ad
un ritmo che ci invita a sostare e a rimeditarci. Come
nella chiesa di Madonna
della Virtù e come nella chiesa di S. Nicola dei Greci in
questa Matera, così nella
chiesa di Santa Maria sull’Osa vicino Grosseto, è un
gioiello del pensiero dell’arte nato dal di dentro del vissuto esistenziale di una spiritualità sinceramente partecipe della radicalità dell’Evangelo. Così Ico Parisi e
Francesco Somaini hanno
pensato ed edificato un luogo del tempo dove la sincerità della loro cultura e del
linguaggio che compete
loro, così che l’incontro o lo
scontro di ciascuno di noi
con quello spazio, è un reale dialogo con la verità che
ne giustifica i segni e le forme, gli spazi localizzati e i
tempi decantati nel vissuto
esistenziale. La grande Croce di fuoco di Somaini o la
vetrata di Radice di lato,
mette in evidenza lo scarno
ambone e l’altare a mensola, incastrati in una articolazione spaziale che mimetizza percorsi e dimensioni
di direzionalità orizzontali e
verticali.
❑
C
ento anni fa scompariva suicida Emilio
Salgari (Verona 1864Torino 1911) che, nonostante avesse scritto decine di
romanzi pubblicati a puntate sui quotidiani o editi in
volume, malgrado godesse
di una vasta notorietà, si era
sempre dibattuto in ristrettezze economiche e non era
mai stato accolto con favore dalla cultura ufficiale italiana. A distanza di un secolo le sue opere sono studiate nelle università e hanno visto una revisione critica che ha portato a riconoscere nel suo autore il maestro del romanzo d’avventura e di viaggio nella letteratura italiana, uno scrittore
che ha contribuito a diffondere la lingua nazionale, ad
avvicinare alla lettura generazioni di giovani, che ha indirettamente contribuito a
diffondere attraverso le figure dei suoi eroi i valori del
nostro Risorgimento. Particolarmente importanti appaiono oggi i romanzi del
Ciclo dei Corsari (con personaggi disegnati a tutto tondo come il Corsaro Nero e
sua figlia Jolanda) e del Ciclo dei Pirati della Malesia
con il personaggio di Sandokan in eterna lotta contro i colonizzatori inglesi,
Lady Marianna la Perla di
Labuan, Tremal Naik e
Yanez de Gomera. Senza dimenticare decine di eroi che
lottano per la libertà e contro le ingiustizie, comprese
due protagoniste femminili in Capitan Tempesta (una
donna veneziana sposata ad
un turco) e in Fiori di perla
(una guerrigliera filippina).
I romanzi di Salgari si fanno apprezzare per l’accurata e acuta strutturazione
degli intrecci, per l’originalità dello stile, per la capacità di delineare la personalità, i sentimenti, la psicologia dei personaggi. A questo bisogna aggiungere lo
studio approfondito delle
fonti geografiche, naturalistiche e zootecniche, narrative e iconografiche necessarie all’ambientazione delle sue storie, un fatto questo assolutamente straordinario per un uomo che non
aveva mai lasciato le città di
Verona e di Torino per compiere dei viaggi. Altro aspetto da sottolineare è la puntuale e rigorosa ambientazione storica basata non
solo sulla conoscenza degli
aspetti politici, sociali ed
economici del periodo storico affrontato, ma anche
dei costumi e degli usi, dell’abbigliamento e degli arredi, dell’architettura e della
religione. Un approccio enciclopedico e sistematico
reso possibile da lunghe frequentazioni nelle biblioteche, da una accurata documentazione attraverso riviste specializzate e quotidiani con il risultato di far uscire, anche attraverso un abile gioco della fantasia, il lettore fuori dagli angusti confini nazionali, di sprovincializzare le sue conoscenze attraverso un’opera di divulgazione culturale favorita
dal fascino di avventure affascinanti ed esotiche, dimostrando di avere una capacità di penetrazione in vasti strati sociali che successivamente avranno il fumetto, il cinema e, attualmente, la televisione.
❑
59
.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
F
rancesco Somaini riceve l’omaggio delle
Chiese Rupestri di
Matera – per la cura di Giuseppe Appella e di Luisa
Somaini, fino a ottobre, catalogo edizioni della Cometa – ed è come rivivere la
Como di Franco Ciliberti e
del Primordialismo. Somaini è nato a Lomazzo, vicino
Como, nel 1926, ed è morto a Como, nel 2005 –. E in
riferimento alle chiese rupestri di Matera, viene a memoria la chiesa edificata da
Ico Parisi entro cui Somaini ha realizzato la Croce e
gli interventi che, qui in
mostra e in catalogo, si verificano nella memoria di
quella piccola ma significativa personale che ebbe nel
1990 a Pescara, nella quarta Biennale di Arte Sacra,
dove con Fabio Mauri e Piero Dorazio, veniva ad informare il trittico della Concettualità dell’Astrattismo e
dell’Informale da cui partiva l’italico padiglione di
quella esposizione.
Così con lo strepitoso
«Grande Martirio» del 1960,
la bellissima «Grande Croce quadrata 1961», la «Croce bifronte del 1965» e la
Croce a Fonteblanda, ci ricordano nel sacro del sodalizio con Dominioni e con
Parisi, nella unione di linguaggi volti nella propria
identità a forgiare tempo e
spazio del sacro vissuto. Infatti se ne scrisse di Somaini anche per una rassegna
in quel di Paganico, tra
Grosseto e Monte Amiata –
si veda il catalogo e poi il libro: «Lignum Vitae», del
1996, e «Lignum Vitae. Pater Noster» del 1999, per la
cura di don Roberto Santi,
volumi editi dalla parrocchia di S. Michele a Paganico, con scritti e documentazioni fotografiche –. E
davvero tra Fonteblanda e
le chiese rupestri la analogia è sincera. Come in uno
Emilio Salgari
MUSICA
SITI INTERNET
Enrico Romani
Giovanni Ruggeri
La leggenda Eric Clapton
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
R
itrovarsi a parlare
di tanto in tanto di
Eric Clapton è giocoforza; l’ultima di
Slowhand è il disco uscito recentemente con incise (e da lui interpretate)
le prime canzoni sulle
quali il chitarrista del
Surray si esercitava ad
imparare lo strumento. Il
titolo è Run Back To Your
Side, e il disco è un regalo di Clapton ai fans che
vogliono imparare i rudimenti della sei corde elettrica sulle stesse strade
battute da lui. Su quella
manciata di standard
blues, swing e folk pop di
cui è composto il disco,
bellissimo spaccato oltretutto della musica che andava per la maggiore nell’immediato secondo dopoguerra, Clapton ha costruito la sua leggenda in
vita. Infatti Slowhand è
l’unico musicista in tutta
la storia del rock ad essere entrato ben tre volte
nella Rock’n’Roll Hall Of
Fame, la prestigiosa ed
esclusiva accademia del
rock, che premia annualmente durante una fastosa cerimonia alcuni artisti e gruppi cui siano trascorsi venticinque anni o
dall’incisione del primo
disco o dalla formazione,
facendoli entrare nel novero dei padri del rock,
come ex membro fondatore degli Yardbirds,
come ex membro dei Cream e da ultimo come se
stesso. Eric Clapton ha
consolidato la sua fama
poi a partire dagli anni ’90
con l’Unplugged per MTV
e da lì in poi non ha sbagliato mai un colpo, sia
che si trattasse di suonare con J.J. Cale o con B.B.
King, sia che si rispolve-
60
rasse la gloriosa sigla dei
Cream con una reunion
che ha partorito concerti
straordinari, sia che da
solo cantasse le canzoni
di Robert Johnson. Primo
guitar hero della storia
del rock, Eric Clapton
può vantare nel suo curriculum anche la scritta
«Clapton Is God» apparsa nel 1966 su un muro di
Londra quando ancora
l’inarrivabile Jimi Hendrix doveva sbarcare nella metropoli inglese. Aveva appena inciso l’album
con John Mayall e i suoi
Bluesbreakers e aveva di
nuovo lasciato all’apice
della fama dopo gli Yardbirds anche lo stesso Mayall, inseguendo l’idea
propostagli dal batterista
Ginger Baker del trio con
anche Jack Bruce al basso, ovvero i Cream, la formazione che lo consacrò
a livello mondiale. Ma
Clapton era anche un
grosso membro della
Swingin’ London anni
’60. Amico fraterno di
George Harrison (l’assolo
in While My Guitar Gently Weeps, canzone di Harrison incisa dai Beatles, è
di Slowhand), Clapton accompagnò nel 1963 con i
suoi Yardbirds il grande
armonicista blues Sonny
Boy Williamson III nel
tour di questi in lungo e
in largo per la Gran Bretagna, trovandosi subito a
suonare con grandi musicisti. Era anche amico di
Jimi Hendrix, Slowhand,
e Clapton racconta volentieri che quando i due si
trovavano in America, se
ne andavano a suonare insieme nel Village di New
York, e non ce n’era per
nessuno. C’è da crederci.
❑
Google Shopping
I
l commercio elettronico, cioè la compravendita di prodotti e servizi
mediante Internet, conosce
in Italia volumi relativamente contenuti ma segnala una tendenza alla crescita di tutto rispetto. Se nel
2006 il mercato dell’e-commerce di casa nostra valeva
2,9 miliardi (quello europeo
135), la crescita lineare e a
due cifre che – in aperta controtendenza rispetto alla crisi economica – si è registrata negli anni successivi ha
portato nel 2010 il fatturato
a 14 miliardi di euro, evidenziando in primo piano
acquisiti legati a turismo,
tecnologia e tempo libero.
La tendenza è peraltro condivisa con il resto dell’Unione Europea, dove lo scorso
gennaio il 75% degli europei ha visitato un punto vendita online, trascorrendovi
in media 52 minuti.
L’abbondanza di prodotti e
offerte presenti sul web offre non di rado buone occasioni di acquisto ma, non
meno raramente, può creare anche confusione. Così,
alla necessità di orientarsi
nel gran mare di Internet,
viene in soccorso Internet
stesso mediante siti destinati alla comparazione di prodotti e servizi, non di rado
anche con commenti degli
utenti. L’ultimo arrivato in
questo settore, ancora in
modalità sperimentale ma
già utilizzabile, viene nientemeno che da Google (cosa
non si stanno inventando!)
e si chiama Italia Google
Shopping (lo si trova tra le
voci del menu quando si
entra nel portale). Il funzionamento è molto semplice:
si scrivono all’interno del
campo di ricerca le parole –
in tal caso gli oggetti – cui si
è interessati e Google offre
una serie di risultati che rimandano direttamente o al
negozio online che vende
quel determinato prodotto
o a un’altra sezione dove si
può continuare la ricerca
sull’oggetto in questione.
L’utilità di un tale servizio è
evidente tanto per chi compra quanto per chi vende.
L’acquirente, infatti, può visionare tra le vetrine promozionali quello che gli interessa, potendo quindi contare sul sistema che trova e
riporta le offerte migliori e i
prezzi più competitivi, consentendo infine di accedere
al sito del venditore per verificare prezzi e altre informazioni e concludere l’acquisto. Chi vende, a sua volta, ha grazie a Google un’ovvia visibilità: questo potente motore di ricerca, infatti,
consente di incrementare il
traffico di visite al proprio
sito da parte di una utenza
mirata e motivata ad acquistare il prodotto offerto/cercato.
Siti dedicati a questo tipo
di servizi – ricerca e comparazione prodotti/prezzi –
sono presenti da tempo in
rete, con profilo sia generalista (si vedano ad esempio www.trovaprezzi.it e
www.kelkoo.it) sia specializzato per settori, così
come sono noti i grandi
negozi on line di Amazon
(www.amazon.com) o la
funzionale asta di Ebay
(www.ebay.it). Nel caso di
Google, però, oltre al formidabile bacino di utenza che
questo potente motore è in
grado di aggregare, non
meno rilevante è il fatto che
l’inserimento di un venditore nella lista dei negozi virtuali è gratuito, né sono previste commissioni sulle vendite, come invece accade nel
caso di altri operatori.
Gli addetti ai lavori stanno
testando applicazioni ancora più agguerrite: ad esempio, quando si passa vicino
a determinati negozi, la segnalazione tramite cellulare di sconti e promozioni in
corso. Pubblicità mirata in
loco. Interessante. Ma farà
venire il mal di testa?
❑
LIBRI
Come bene recita il sottotitolo di questo libretto di
poesie Il balsamo dei cuori,
siamo davanti all’intensità e
alla delicatezza dei versi di
Hafida Faridi, versi che ruotano intorno al concetto di
Amore, un Amore per tutto: amore per la natura,
amore per la propria terra,
amore per i propri figli,
amore per la propria casa...
Amore universale: «leggere
non è altro che passioni ed
emozioni che ti prendono»,
scrive la stessa Faridi e «ora
le mie parole volano. Attento, soltanto la forma dei
cuori mirano, direttamente
nel tuo colpiranno! Il loro
colpo è, però, semplicemente carezza, brezza, benedizione!» (p. 14). Hafida Faridi è di Marrakech e vive in
Italia, in Puglia, col marito
e i tre figli dal 1996. Si occupa da anni di mediazione culturale e progetti didattici, nonché di tematiche
d’immigrazione, mondo
arabo, identità territoriali,
religione e immigrazione.
Quando il silenzio parla è –
come bene scrive Silvia Godelli (assessore al Mediterraneo della Regione Puglia)
– come avere tradotto la nostalgia in poesia. Un dare
vita ad una nuova visione
del mondo nonché ad un
mondo nuovo «complesso e
contraddittorio ma armonico, intriso di musicalità e
dolcezza» (p. 4). Le poesie
di Hafida sono accompagnate dalle belle illustrazioni di Mario Pugliese, il quale ha tradotto in immagini
e colori i componimenti.
«Se solo sapessi/quanto non
sia muto il silenzio!/È il discorso più ampio/di quello
con le parole espresso./Se
solo sapessi/quanto sia profondo il silenzio!/Non ha ali
per volare/ma ha il potere
prodigioso di avvolgerti», e
questo silenzio che parla,
che parla molto più della
voce, non è che gratitudine.
Gratitudine per gli amici,
per l’unione in amicizia di
due culture, di due mondi:
l’Oriente di Hafida ed il nostro Occidente. Due mondi
che s’incontrano e che senza tante parole – spesso inutili – fanno parlare le emozioni: «Viaggio io, viaggi tu/
siamo tutti nomadi!/[...]/E
che cos’è il viaggio/se non è
amicizia/incontrata nel sentiero/verso una foresta sperduta?/e che cos’è il viaggio/
se non è amore seminato/tra
le montagne/di una catena
inaccessibile?» (p. 166).
Ilenia Beatrice Protopapa
peraltro il solo in grado di
sviluppare le cosiddette «intelligenze», in una realtà
tutta all’insegna della corsa
frenetica al traguardo. Eppure è questa la sfida che nel
loro concreto lavoro con i
ragazzi, i docenti devono affrontare giorno per giorno
e che in questo libro hanno
semplicemente scelto di tradurre in parole.
Uomini e donne che con la
loro sensibilità, professionalità, emotività, si impegnano nel compito tanto complesso quanto delicato di
educare, «alchimisti» di
quell’apprendimento, in cui
il risultato che si otterrà non
è meno prezioso dell’oro.
Una lama di luce nel buio
sociale.
Elena Goricchi
Tullio De Mauro - Dario
Ianes (a cura di)
Giorni di scuola
Erickson, Trento 2011
pp. 140 – € 15,00
Libro di una passione tenace e corale, scritto per chi
vuole conoscere la scuola di
oggi, questa bella pubblicazione presenta esperienze di
insegnanti e gente che lavora nella scuola, raccolte da
Tullio De Mauro, notissimo
linguista ed ex Ministro della Pubblica Istruzione, e da
Dario Ianes, pedagogista
dell’Università di Bolzano.
Mai mi stancherò di ritenere la professione docente un
privilegio di pochi, vantaggio non certo economico
beninteso, quanto piuttosto
la strada maestra per «entrare» in punta di piedi nell’anima e, se possibile, nel
cuore di tante creature.
Spesso ciò che non è chiaro
ai molti è quanto sia difficile fare «accoglienza» in una
società che allontana e teme
il diverso, parlare di «sinergia» in un mondo fortemente competitivo, spiegare
l’esigenza di un concetto di
tempo per così dire «lento»,
Aa.Vv.
Le ragioni di Antigone.
L’autorità e il potere
Cittadella Editrice, Assisi
2011, pp. 120, € 11,80
Il volume è davvero intenso
a dispetto dell’agilità delle
sue pagine. Ma a colpire
non sono solo i contenuti e
i temi affrontati, c’è anche
da fare tutto un discorso
sulla metodologia della ricerca che, rigorosa e fertile
di risultati teorici significativi, ha fornito un comune
terreno ai cinque autori.
Come scrive nell’introdurre
il libro Daniele Libanori, il
diritto cessa di essere vincolante nel momento in cui si
lega a un potere ingiusto. E
vediamo subito, allora,
come Giovanni Cucci tratta
il rapporto tra pensiero filosofico e questione del potere dal punto di vista dell’analisi filosofico-politica di
un Norberto Bobbio lettore
dei classici e insieme lucido
interprete del mondo sociopolitico contemporaneo: la
definizione bobbiana della
democrazia rimanda all’idea di un esercizio pubbli-
co di un potere visibile (cfr.
p. 28).
In un altro saggio, conclusivo del volume, lo stesso Cucci interpella poi Paul Ricoeur per chiarire la natura del
perennemente delicato intreccio di etica e politica a
partire da un serrato confronto tra filosofia e tragedia.
Luciano Larivera concentra
la sua attenzione sui giochi
di potere, sul fenomeno della «guerra delle valute» e sulle dinamiche politiche che
contraddistinguono le attività del G20, che non dovrebbe limitarsi ad agire solo
«sotto lo spettro di emergenze catastrofiche globali» (p.
84); Pietro Bovati, invece, approfondisce il tema della
«critica profetica al potere»
attraverso una rimeditazione delle parole di Samuele,
Ezechiele, Michea, Sofonia,
Isaia, Geremia, Abacuc e in
generale di tutta quella letteratura profetica che si è
fatta denuncia degli abusi e
dei soprusi di questo o quel
potente.
In sintonia con la lettura che
Cucci propone delle posizioni ricoeuriane, Francesco
Occhetta insiste sul rapporto tra coscienza politica e
bene comune, ma non prima di aver valutato a dovere l’eventualità di un recupero della ricerca antropologica all’interno della scienza giuridica.
La questione della legittimazione del potere, attorno alla
quale in realtà ruota un po’
tutto l’impianto di questo libro a più voci, torna al centro del saggio di Ottavio de
Bertolis, convinto che il sapere della politica e quello
del diritto – vivendo tra loro
una reciproca osmosi –
sono come caselle di un alveare, «nel complesso dei
valori di riferimento» (p. 56)
dell’esperienza umana. Ma
al loro fianco si intravedono bene anche l’etica e le
religioni, le scienze e la tecnica e l’economia.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
Hafida Faridi
Quando il silenzio parla. Il balsamo dei cuori
Stampa Sud, Mottola (Ba)
2011, pp. 171, € 15,00
Giuseppe Moscati
61
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
Germania
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
S
tato membro dell’Unione europea situato nell’Europa centro-occidentale, la Germania è delimitata a nord dalla Danimarca, dal mar del
Nord e dal mar Baltico, a est
dalla Polonia e dalla Repubblica ceca, a sud dall’Austria
e dalla Svizzera e a ovest dalla Francia, Lussemburgo,
Belgio e Paesi Bassi. Con la
dissoluzione dell’impero carolingio nell’ 843 prese corpo un agglomerato politico
che dal 962, in seguito all’incoronazione a imperatore di
Ottone I di Sassonia, assunse il nome di Sacro Romano Impero germanico. Ciò
dette inizio a una fase in cui
si susseguirono imperatori
appartenenti a diverse dinastie tra cui quella di Sassonia, Franconia, Svevia,
Asburgo e Lorenese. Il 1517
marca un segno indelebile
nella storia dell’unità religiosa cristiana. Con l’affissione delle 95 tesi sul portone della cattedrale di Wittenberg ad opera del monaco Martin Lutero prese avvio la riforma protestante
che, sfidando le pratiche
della Chiesa cattolica di
Roma, cominciò a radicarsi in diversi paesi europei.
La pace di Westfalia del
1648 pose fine alla guerra di
religione durata trent’anni,
le cui conseguenze furono
disastrose per il Sacro Romano Impero: la popolazione si ridusse del trenta per
cento, mentre lo smembramento dell’Impero determinò una frammentazione territoriale che comprendeva
trecentocinquanta Stati.
Tutto ciò provocò profonde
rivalità tra prìncipi, indebolendo oltremodo il potere
centrale. La dualità più accesa si sviluppò tra la monarchia austriaca asburgica
62
e il Regno di Prussia, le cui
tensioni accentuarono ancor di più l’agonizzante fase
dell’Impero. Finché, nel
1806 l’ultimo imperatore
Francesco II rinunciò alla
corona del Sacro Romano
Impero della Nazione Germanica. E così, anche sotto
i colpi della Francia di Napoleone, dopo otto secoli e
mezzo, scomparve il primo
grande Reich. Durante il
Congresso di Vienna del
1814 si delineò la Confederazione tedesca formata da
trentanove Stati. Con la nomina di Otto Von Bismarck
a nuovo Primo Ministro della Prussia, nel 1862 iniziò
un periodo di rapidi successi militari, prima contro la
Danimarca a poi contro
l’Austria (1866), permettendo in un secondo momento
la nascita della Confederazione tedesca del Nord, che
escludeva l’Impero austriaco. Sconfitta la Francia a Sedan nel 1870, l’anno successivo la Germania venne unificata divenendo uno Stato
nazionale (secondo Reich)
e il re di Prussia Guglielmo I
di Hohenzollern venne proclamato imperatore tedesco. A partire dal 1884 iniziò anche un periodo di
espansione coloniale. La
Conferenza di Berlino assegnò alla Germania alcuni
territori in Africa quali il
Togo e il Camerun. Dopo la
pesante sconfitta subìta nella prima guerra mondiale,
nel 1918 Guglielmo II fu costretto ad abdicare. La firma del Trattato di Versailles l’anno successivo impose condizioni piuttosto dure
per il Paese. Oltre a ciò, la
grande depressione degli
anni Trenta, l’elevato tasso
di disoccupazione, la diffusa povertà e la rabbia tra la
gente facilitarono l’ascesa al
potere del nazionalsocialista Hadolf Hitler, eletto cancelliere nel 1933. Instaurata una dittatura e autoproclamatosi Führer, Hitler dette avvio a una spietata eliminazioni degli oppositori,
epurando anche membri
del proprio partito. Ciò degenerò negli orrori dell’olocausto, nelle deportazioni e
nello sterminio di milioni di
vite umane. Persa la guerra
contro le forze alleate, la
Germania fu divisa in due
zone: la Repubblica federale di Germania e la Repubblica democratica tedesca,
mentre la città di Berlino fu
divisa in due parti: Berlino
Ovest, alleata degli Stati
Uniti e Berlino Est sotto l’influenza dell’Unione Sovietica. Le tensioni tra le due
Germanie vennero smorzate agli inizi degli anni Settanta grazie all’ostpolitik di
Willy Brandt. Con il crollo
del muro di Berlino nel
1989, si concluse la riunificazione della Germania che
avvenne l’anno successivo.
Popolazione: con un numero di abitanti che si avvicina agli ottantatré milioni,
la Germania risulta il Paese
più popoloso dell’Unione
europea. Gli stranieri ormai
residenti nel Paese sono circa sette milioni. La comunità più ampia è quella dei
turchi con quasi tre milioni
di abitanti. Seguono i serbi,
gli italiani, i greci, i croati e
i polacchi. L’alto numero di
immigranti rende la Germania il terzo paese al mondo
per presenze di stranieri. La
confessione principale è il
cristianesimo, equamente
divisa tra protestanti e cattolici. L’Islam è la seconda
religione più seguita con
quattro milioni di musulmani, duemila e cinquecento moschee e trecento asso-
rocca
schede
ciazioni. I buddhisti rappresentano un esigua minoranza, mentre gli ebrei costituiscono la terza comunità
nell’Europa occidentale.
Economia: con uno dei
tassi di produttività più elevati in assoluto, l’economia
tedesca è la prima in Europa e la quarta al mondo in
termini di Pil. Il settore economico prevalente è quello dei servizi che contribuisce alla formazione del Pil
per circa il settanta per cento. Segue il comparto dell’industria che si sviluppa
nei settori automobilistico,
siderurgico, chimico, elettronico e meccanico. L’agricoltura svolge un ruolo del
tutto marginale. Importante è anche la produzione di
carbone e di gas naturale.
Elevato è l’uso di energie
rinnovabili che coprono il
venti per cento del fabbisogno nazionale. Obiettivo è
arrivare entro il 2030 a produrne il cinquanta per cento.
Situazione politica e relazioni internazionali: il governo di Berlino si trova a
dover fronteggiare importanti dossier su temi economici quali la crescente disoccupazione, l’aumento
del deficit e le difficoltà sui
fronti scolastici e sanitari.
Delicata è anche la situazione in politica estera a causa della mancata votazione
nel Consiglio di sicurezza
dell’Onu della risoluzione
che ha dato inizio alle operazioni militari in Libia e
delle tensioni all’interno
dell’Unione europea in merito ai problemi finanziari
di alcuni stati membri. Solida rimane invece l’alleanza con la Russia con cui sta
costruendo il gasdotto
Nord Stream e con la Polonia per trovare sbocchi nell’est Europa. Con la Cina
invece la cancelliera Angela Merkel ha ribadito che
alle grandi opportunità
economiche presenti nel
Sol Levante si devono anteporre il rispetto dei diritti umani e la salvaguardia
per l’ambiente.
K
raccontare
proporre
chiedere
Fraternità
Yambo
un saluto dal Burundi
È
restia, gli amici di Fraternità hanno inviato
offerte che assommano
a 5250,00 euro. Come a
dire la copertura della
spesa per la mensa (costo vitto e gestore) per
poco più di un mese e
mezzo, confermando in
€ 3375,00 mensili i costi relativi al pasto giornaliero per i mille bambini delle nove scuole
dell’infanzia. Perché
basta un contributo di
33,00 euro per offrire a
10 bambini un mese di
mensa scolastica... Ora,
Amici di Fraternità,
non siamo molto distanti dall’obiettivo di
assicurare per tre mesi
la mensa a tutti i piccoli frequentanti... se continueranno ad arrivare
contributi per il Progetto.
Luigina Morsolin
Flash su Haiti
Port-au-Prince. Cité Militaire. Dalla scuola delle Suore Salesiane arrivano notizie di «ordinario coraggio»,
segni di una volontà educativa precisa di accompagnare i/le ragazzi/e e giovani in un cammino di qualificazione professionale che li/le prepari a svolgere
attività lavorative specifiche.
Intanto, qui da noi, l’ultimo aggiornamento contabile delle Poste sulle offerte, giunte a Fraternità, finalizzate agli arredi nell’aula di informatica ricostruita ad Haiti fa salire a quota 3600,00 euro l’importo
ad oggi raggiunto.
Chi desidera sostenere il
Progetto Haiti e/o il Progetto Burundi, sopra aggiornati, può inviare
contributi con assegni
bancari, vaglia postali o
tramite il ccp 10635068
– Coordinate: Codice
IBAN IT76J 076 0103
0000 0001 0635068 intestato a «Pro Civitate
Christiana – Fraternità –
Assisi». Per comunicazioni, indirizzo e-mail:
[email protected].
63
.
ROCCA 15 OTTOBRE 2011
da metà settembre che è ripresa
regolarmente l’attività nelle 9 scuole dell’infanzia (garderieres
communitaires), presenti in sei province del
Paese, quelle che sono
gestite dall’Abs (Associazione Scout Burundesi)
con l’aiuto dell’Associazione italiana «Eccomi». La dott.ssa Maccone – referente italiana
del Progetto che viene
regolarmente monitorato – riporta a Fraternità
che anche nell’anno scolastico appena cominciato il numero delle richieste di iscrizione in
queste scuole supera
quello dei posti disponibili (massimo 50 bambini per sezione): sono
scuole che accolgono i
bambini (età 3/5 anni)
dei villaggi, di famiglie
che vivono di un’agricoltura povera, che non
riesce a garantire nemmeno la sussistenza a
causa dei periodi di siccità prolungata, sempre
più frequenti negli ultimi anni e che si ripetono con particolare durezza in questo 2011.
Per il migliaio di piccoli burundesi che partecipano alle attività educative, trovando a scuola pure la possibilità di
consumare un pasto
anche in periodo di ca-
per insegnanti, genitori, operatori sociali
rivista della Pro Civitate Christiana
promuove un convegno in Assisi, 11-13 novembre 2011
per affrontare con massimi esperti del settore
le problematiche inerenti l’apprendimento
e il linguaggio della nuova generazione tecnologica,
l’insegnamento nella scuola e la comunicazione tra le generazioni
la scuola nell’era
della tecnologia digitale
RICONOSCIMENTO DEL MIUR (Decreto 3 agosto 2011)
Programma
VENERDÌ 11 NOVEMBRE - ore 16-20
Pietro Greco
giornalista scientifico e scrittore - Fondazione Idis-Città della Scienza
Condirettore Scienzainrete
Le nuove grammatiche della fantasia
Fiorella Farinelli
esperta di Scuola e Formazione
Gli insegnanti tra metodo tradizionale e una pedagogia alternativa
SABATO 12
ore 9
Paolo Ferri
docente di Tecnologie didattiche e Teoria tecnica dei nuovi media
Università Bicocca, Milano
Storia evolutiva di una specie in via di apparizione
ore 11
Mario Fierli
tecnologo. Membro del Comitato di Direzione di Education 2.0
Nuove tecnologie per l’educazione dei nativi digitali
Interventi del pubblico e confronto con i relatori
DCOER0874
ore 15-20
Giuseppe O. Longo
professore emerito - Dipartimento di Elettrotecnica Elettronica Informatica
Università di Trieste
Uomo-macchina: dall’intelligenza collettiva all’intelligenza connettiva
Interventi del pubblico e confronto con i relatori
ore 21-24
Esperienze in atto
DOMENICA 13 - ore 9-13
Chiara Giaccardi
ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
Università Cattolica di Milano
I nuovi media tra “capacitazione” e “disabilitazione”
Interventi del pubblico e confronto con i relatori
Conclusione dei lavori
Iscrizione
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soggiorno in Cittadella (posti limitati)
vedi p.
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