“En quatrième vitesse”, n. 1, Saint-Etienne, 1994.

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“En quatrième vitesse”, n. 1, Saint-Etienne, 1994.
Bernard Guelton, Entretien avec Giulio Paolini, in “En quatrième vitesse”, n. 1,
Saint-Etienne, 1994.
BG: Il suo lavoro si articola spesso intorno a citazioni dalla storia dell’arte. Nella sua recente pubblicazione
“Contemplator enim” (1991) ha coinvolto Las Meninas di Velázquez: potremmo considerare quest’opera
emblematica della sua ricerca per quanto riguarda il ruolo attribuito allo spettatore e l’enigma della visione?
GP: Las Meninas è per me il più bel quadro del mondo e non ho certo l’ambizione di porre il mio lavoro in dialogo
con questo capolavoro. È un dipinto meraviglioso, che trova però la sua ragione d’essere fuori da sé: è uno
strumento, una rivelazione del linguaggio visivo, che implica una vera e propria rivoluzione della percezione.
La sua bellezza non gli basta, rinvia oltre se stessa. La bellezza funziona come un pretesto per un viaggio
percettivo e costituisce un’analisi della visione. Tutto il mio lavoro (senza peraltro volermi porre al livello delle
Meninas) ruota propriamente intorno a questo enigma, a questa differenza rispetto alla convenzione che informa
la visione. L’artista propone allo spettatore la questione della visione nei termini in cui essa si pone.
BG: Se volessimo designare il ruolo dello spettatore, sia pure in termini elementari, dovremmo situarlo nella
configurazione “autore-opera-spettatore”? Gli renderemmo sufficiente giustizia con questa configurazione?
Oppure dovremmo ampliare questa prospettiva?
GP: La triade “autore-opera-spettatore” è inconfutabile. È un meccanismo che nel tempo è stato interpretato
e affrontato nei modi più diversi. Nel momento in cui l’artista pensa l’opera, dimentica che è destinata a qualcuno;
lo spettatore interviene in un “terzo tempo” della produzione dell’opera. Se sono l’autore, non posso essere anche
lo spettatore. Detto questo, nulla mi impedisce di coltivare una vocazione paradossale: l’attitudine a essere
lo spettatore dell’opera di cui definisco il progetto...
BG: Infatti ha scritto: “Lo spettatore è il primo a vedere l’opera”. Il pensiero paoliniano è ricco di contraddizioni
e ribaltamenti… Basti pensare a un altro paradosso: “È l’opera che mi pensa, non sono io a pensare l’opera”.
GP: Quando disegno un oggetto, il mio sguardo e quello dello spettatore vengono a coincidere: disegno aspettando,
come lo spettatore, di cogliere gli effetti prodotti dall’oggetto. In parole più semplici, quando faccio un’opera, non ho
nulla da dire: ho solo da aspettare. È questa l’attitudine che mi spinge a confondere autore e spettatore.
BG: In teoria, l’autore dovrebbe essere in grado di spiegare la sua opera, dal momento che è coinvolto nella sua
concezione. Dire che lo “spettatore è il primo a vedere l’opera” richiede dei chiarimenti…
GP: L’autore e lo spettatore costituiscono le due polarità che rendono possibile l’esistenza dell’opera d’arte; ciò li
avvicina fino a confonderli. Ogni volta che realizzo un’opera, è lei ad attirarmi e a provocare la sua ricerca.
La posta in gioco è sempre la rivelazione linguistica. Tutto succede come se l’opera che cerco di realizzare
esistesse già. Quel che mi manca per arrivare a vederla, è questa rivelazione, che mi limito a ridurre a una
questione di linguaggio artistico. L’opera è qualcosa di indeterminato fino al momento in cui il linguaggio la rivela.
Ed è proprio quest’ultimo a riunire l’autore e lo spettatore davanti all’opera. La verità dell’opera è questa rivelazione,
siglata da un titolo e da una forma che di volta in volta designano in modo diverso una medesima cosa.
BG: Uno dei suoi lavori esposti a Nantes nel 1987 si intitolava “L’autore? Un attore!“ Potremmo forse aggiungere
l’attore come quarto elemento della configurazione che lega l’opera allo spettatore e all’artista?
GP: Quell’aforisma voleva esprimere in due parole proprio quanto stavo dicendo. Perché l’autore diventa infine un
attore? Perché è qualcuno che cerca il proprio modo di interpretare. Il testo che l’attore teatrale deve interpretare
è sempre lo stesso: la sfida è quella di rivelare allo spettatore la verità del testo. "L’autore? Un attore!" vuole
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sottolineare il fatto che l’autore si impegna nell’interpretazione di un testo – quello dell’opera – che gli preesiste
e attraverso il quale potrà accedere a una conoscenza.
BG: Nella sua ricerca credo si possano individuare due aspetti centrali. Da un lato, un certo gusto per
il paradosso, per il ribaltamento. Dall’altro, un pensiero della distanza e dell’annullamento. Vi è l’idea che l’opera
sia costituita da oggetti, realizzati, paradossalmente, per annullarsi. Ma nello stesso tempo vi è anche questo
senso della preesistenza, tanto dell’opera quanto del pubblico (cfr. Ipotesi per una mostra, nelle due versioni
del 1963 e del 1987). Un concetto piuttosto delicato da sviscerare... Vi sono forse altri elementi che preesistono
a quelli che abbiamo evocato, qualcosa come un’origine, un fondamento?
GP: L’immagine della preesistenza è il “bilancio” che posso fare a proposito dell’opera che produco. Non si tratta
di un partito preso. Nelle parole di Merleau-Ponty: “È l’opera a pensare l’artista”.
BG: A proposito di spettatore e di artista, lei ha parlato di figure "complementari, non consequenziali". Sono
complementari, ma senza legami preliminari. Come dobbiamo intendere questa dichiarazione?
GP: Il termine “complementare” significa che l’artista non può evitare di correre verso il suo traguardo, ma nello
stesso tempo sa che non potrà mai varcare i limiti della propria condizione.
BG: Nella nostra configurazione quadripartita mi pare di intendere che “l’opera esclude lo spettatore ma nello
stesso tempo ne fa il proprio soggetto”.
GP: Certamente, l’opera esclude lo spettatore poiché lo ignora al momento della concezione, ma è altrettanto vero
che lo spettatore è il soggetto dell’opera. È una contraddizione insieme drammatica e spiritosa... Nessuno
ci obbliga peraltro a formulare una risposta risolutiva…
BG: Michael Fried criticava il ruolo eccessivo attribuito allo spettatore nelle opere della Minimal Art negli anni
Sessanta. Secondo lui “la teatralità che implica la complicità dello spettatore uccide la specificità dell’opera”.
Fried si riferiva alla durata necessaria per assimilare fisicamente l’opera che si sviluppa nello spazio. Nella sua
critica della teatralità, postulava l’idea che l’opera debba essere una “auto-creazione”. Nel suo lavoro, la teatralità
è un aspetto onnipresente?
GP: La teatralità è presente, ma sempre come qualcosa di cristallizzato. Non chiama in causa l’esperienza dello
spettatore né la sua presenza. La teatralità è intesa come allusione a una dimensione, come rovina silente,
o come una condizione della rappresentazione.
(traduzione dal francese: M. Disch)
Ripubblicato in B. Guelton, L’exposition. Interprétation et réinterprétation, L’Harmattan, Parigi 1998, pp. 183-187.