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ARIA PUBBLICA
C’era una strana sensazione nell’avviarci al foyer del Teatro Valle, spazio
aperto, pubblico, vuoto mentre eravamo nella platea del teatro e riempito poi da
noi stessi. C’erano ad accoglierci un gigante con la testa di cinghiale ed una
cassa, un valigione per imballare i costumi di scena, che chiedeva con dei bussi
di essere aperto. Quando si è fatto silenzio l’uomo cinghiale ha aperto il baule
ed una piccola pepata adolescente, la ragazza in valigia, ha dato la stura ad una
tirata filippica contro la privazione dell’aria pubblica. Ne è nato un corto
teatrale, un esercizio sui versi di Patrizia Cavalli, detti con una sicurezza della
voce e del corpo da Laura Redaelli. “Miniatura vocale” è il frutto del laboratorio
permanente del Teatro Rasi di Ravenna, dove le attrici delle Albe e le
adolescenti lavorano insieme prevalentemente di notte. Spazi pubblici –dice il
corto, con l’impeto trattenuto della bella attrice adolescente – come le piazze di
Roma (Panteon, Piazza Navona, Campo dei Fiori, ecc.), occupate, usate, vendute, privatizzate, per far affari e guadagni,
perdendo ogni giorno la loro funzione di spazi pubblici. Non più della folla che le riempie e le vuota e le usa e le gode.
Prevale sulla libertà di godere di un posto pubblico, il guadagno, il denaro. La stessa aria pubblica si fa sempre più rara,
si riduce fino a non farci più respirare. E con l’agorafobia ci rifugiamo dentro il nostro baule personale. Un
minimessaggio dal foyer di un teatro ‘spazio pubblico’ che, non si sa quando, potrebbe diventare privato.
Teatro e non: Roberto Latini e Patrizia Cavalli sulle Spiagge
Bianche di Castiglioncello
5 giugno 2011
È ancora pomeriggio e un collega marinaio, nato da questi
luoghi, mi dice che se le rondini inizieranno a girare in tondo e
puntare verso l’alto, vorrà dire che il tempo non terrà e verrà
pioggia, tanta da impedire la poesia della sera, sul greto delle
Spiagge Bianche. Ma le rondini, stavolta, hanno fatto il loro
giro lontano da qui. Ai margini del bosco, Castiglioncello è un
manto regale di cielo sulla rena sottile che sembra polvere di
cemento, non appena arriviamo a mettere piede poco lontano da
quella battigia, Patrizia Cavalli e Roberto Latini si preparano a
una serata che poteva non essere, ma invece sarà eccome.
Latini è a piedi nudi, per andargli incontro tolgo le scarpe
anch’io, lo facciamo in tanti, il primo contatto con questa serata
dev’essere un atto di liberazione, primo passo smuovendo la
rena, è il passo verso il verso. Patrizia Cavalli è prima di tutti, di spalle al mare, ce lo lascia guardare dietro di lei,
mentre le nubi sull’acqua sono addensate e vicine, nella muta tregua che hanno concesso. La sua poesia effonde senza
preamboli, non impone il verso ma lo apre a chi ascolta, lo dice senza cercarlo, si vede quanto per lei la ricerca sia
altrove, nello spazio prima della scrittura; allunga la fine dei versi, calca le rime in chiusura, legge con semplicità che è
la stessa delle sue immagini, inizia in un richiamo civile, la sua personale All’Italia (La Patria), non è nell’idea di
nazione, ma negli uomini che la popolano: non la sola “piazza” è patria,
lo è quando diventa “mercato”.
Finisce con un “Io ringrazio”, quest’omaggio sincero alla terra di un
esilio immoto. La sua lettura ha uno stile molto colloquiale, penso allo
spirito che la anima e la sua prima raccolta, 1974: Le mie poesie non
cambieranno il mondo, che era già una dichiarazione di poetica.
Continua a sbagliare leggendo, certe volte ricomincia, certe altre lascia
stare, ma tutto con una leggerezza ilare che contagia tutti, la stessa
anche quando parla di morte vietandone così lo struggimento che la
separa dall’esistenza, cui invece è connaturata: come non concederle
dunque, non indulgenza ma spirito poetico anche nel gesto? Il vero
spettacolo è allora nel considerare l’ossimoro, l’astratta ricerca delle
pagine dov’era quella poesia che ha scritto e dimenticato, a cozzare
maestosamente con la concretezza spicciola del verso di Patrizia Cavalli.
L’antiteatralità, dunque, è l’inizio della serata. Mentre si mangia e si degusta vino, in un angolo riservato al tramonto
sull’acqua, Laura Redaelli del Teatro delle Albe regala pochi minuti di Aria Pubblica, testo della stessa Cavalli: la
voce è di una ragazza in valigia, la voce è aria che si cerca una ferita per uscire, un pertugio di appartenenza, l’aria
pubblica è spazio di una rinnovata esistenza e rivendica se stessa come spazio vitale, piazza, contrapposto al vuoto che
le è fratello antitetico; la Redaelli combatte con la chiusura della valigia, la sua voce ne contrasta la ritorsione e vince
sulle note di un crescente Hallelujah.
Le storie di terra iniziano con C’era una volta.
Ma questa è storia di mare.
E allora: C’era un nave…
Roberto Latini e La ballata del vecchio marinaio, di S.T. Coleridge, dipingono l’aria di una musica magica (di
Gianluca Misiti), troppo forte la suggestione di una voce che passi con quel testo come bagaglio nel fruscio dell’acqua
a piena sera; dall’antiteatralità dell’inizio ormai siamo alla pienezza del corpo, ai due microfoni vicini, di cui Latini
sceglie l’uso e il fiato: racconta di marosi flutti di naviganti, il mare e la sua notte che inghiottono il vecchio marinaio,
cullano la sua ballata, investono di tempesta il suo ardire: Latini a piedi nudi e gessato nero, calca la sabbia come
abbiamo imparato a fare noi, appena arrivati, perché a piedi nudi ci s’abbiglia, per una serata di poesia. La voce penetra
il buio e l’arte di quel verso dondolante, s’installa tra la scelta e l’approdo, tra il viaggio e la deriva, tra le vele e il
naufragio. Solo allora alzo gli occhi assieme all’amica a me di fianco, c’è un gabbiano che sorvola il canto dei marinai:
il gabbiano ad ali/vele spiegate guarda giù, nel sentire di un uomo naufragato nel suo corpo e per la sua voce il rumore
del mare, anche lui di certo deve aver pensato: C’era una nave…
Simone Nebbia