Coordinamento aperto e politiche dell`occupazione

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Coordinamento aperto e politiche dell`occupazione
SEMINARI EUROPEI, 3
SUSSIDIARIETÀ E COORDINAMENTO APERTO:
UN METODO PER LE POLITICHE SOCIALI IN EUROPA
FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI - TORINO, 15 MAGGIO 2002
Coordinamento aperto e politiche dell'occupazione
Paolo Sestito
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
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Il testo costituisce una versione riveduta e integrata dall’autore dell’intervento presentato nel corso del seminario.
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Il mio intervento sarà reso più semplice dalla ottima presentazione di Maurizio Ferrera, che ha
già esposto cosa sia il metodo aperto di coordinamento e quali siano gli elementi rilevanti da tenere
in conto nel dibattere della sua validità e della sua capacità di durata nel tempo. Mi concentrerò
pertanto su quella che è, all’oggi, la più concreta e consolidata esperienza di applicazione di quel
metodo, applicazione che ha interessato un campo di intrinseco rilievo: le politiche del lavoro e
dell'occupazione.
Cercherò di esporre innanzitutto la genesi e lo sviluppo di questa applicazione concreta del
metodo del coordinamento aperto (MAC) a partire dal 1997. Più brevemente esporrò alcune
considerazioni più di merito sui contenuti dell’applicazione di quel metodo e quindi sulla cd.
Strategia europea dell’occupazione (SEO). Concluderò cercando di trarre alcune lezioni,
inevitabilmente aventi lo status di considerazioni personali, sul metodo del coordinamento aperto e
sulle politiche del lavoro. Per onestà intellettuale devo dichiarare che per molte delle considerazioni
che esporrò riferimenti più precisi e articolati sono tanto in un mio recente libro (cfr. Paolo Sestito,
Il mercato del lavoro in Italia. Com’è, come sta cambiando, Laterza, 2002) quanto in una ricerca
collettiva sulla valutazione degli effetti della strategia europea dell'occupazione in Italia curata
dall’ISFOL (cfr. in particolare il Rapporto di sintesi, a cui ho personalmente contribuito in quanto
parte del team di pilotaggio e coordinamento della ricerca stessa2).
Come nasce la strategia europea dell'occupazione? Maurizio Ferrera ha già sottolineato come del
metodo del coordinamento aperto si dia in genere un'interpretazione bifronte: una lettura positiva e
una negativa. Quella negativa vede nel metodo del coordinamento aperto solo un «vorrei ma non
posso»: si tratterebbe d’una mera soluzione di ripiego. Personalmente non condivido questa lettura
tutta negativa, poiché penso che vi siano grossi meriti nell’applicazione delle procedure soft di cui
al metodo del coordinamento aperto ai campi dell’occupazione e delle politiche sociali (cfr. oltre). È
però indubbio che alcuni elementi di questa visione negativa siano chiaramente evidenti nella
genesi della strategia europea dell'occupazione. Questa viene lanciata dal Consiglio di Lussemburgo
alla fine del ‘97, ma per certi aspetti la tensione alla tematica occupazionale aveva già iniziato a
svilupparsi nell’immediatamente precedente Consiglio di Amsterdam, allorquando il patto di
stabilità diventa il patto di stabilità e crescita. La nascita della strategia europea dell'occupazione
chiaramente risente del clima di compromesso politico tra le istanze di mantenimento e
rinvigorimento dell'ortodossia finanziaria sancita a Maastricht, e quelle che aspiravano a obiettivi
proto-keynesiani, di crescita economica e di sviluppo dell'occupazione, da perseguire a livello
europeo.
Se questa è la genesi più immediatamente politica, più complessa è la genesi intellettuale della
strategia europea dell'occupazione, le cui radici sono innanzitutto nel libro bianco di Delors di tre
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La ricerca citata per l'Italia è parte di una più ampia ricerca a livello europeo lanciata e sponsorizzata dalla
Commissione Europea, avente tanto un livello europeo quanto un livello nazionale e finalizzata all’acquisizione di
elementi valutativi e di riflessione in vista della riforma della strategia europea dell'occupazione prevista a partire dal
2003.
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anni prima, nei suoi contenuti eclettici, nel rifiuto della via americana alla flessibilità del mercato
del lavoro e nel tentativo di salvaguardare la specificità del modello sociale europeo.
Il compromesso che è alla base della strategia europea dell'occupazione sancisce quindi
innanzitutto l'intangibilità dei criteri di Maastricht: il patto di stabilità diventa appunto di stabilità e
crescita, ma è soprattutto sul primo dei due termini che rimane l'enfasi. Si sancisce così che non è a
politiche macroeconomiche di livello sovranazionale, di livello europeo, che si debba guardare per
affrontare la questione occupazionale. Lo strumento assegnato – nel gergo degli economisti –
all'obiettivo occupazionale sono le politiche strutturali di livello nazionale. Al tempo stesso, questo
è il pendant del compromesso d'origine, le politiche strutturali individuate non sono la ricerca della
flessibilità di stampo anglosassone, ricercandosi piuttosto un modello originale che confermi i
connotati originali del cosiddetto modello sociale europeo. Segnale quanto mai emblematico di
questo eclettismo è nel tentativo di trattare sotto il titolo delle politiche dell'occupazione una grande
serie di aree tematiche. Non deve perciò stupire che nella strategia europea dell'occupazione si parli
praticamente di tutto: vi sono, come noto, quattro pilastri articolate in numerose guide-line (ventuno
in origine, poi cresciute a ventidue e più di recente ricondotte a diciannove3); i temi spaziano dalla
scuola ai sistemi fiscali, e ricomprendono cose che non rientrano nello stereotipo della flessibilità,
termine che viene evitato, preferendosi parlare di adattabilità (ancor più ostracizzato è il concetto di
flessibilità salariale, le questioni con lo stesso connesse venendo trattate sotto la label
dell’impiegabilità).
In quella che apparentemente potrebbe sembrare una confusa sommatoria di tematiche, una
scelta e un indirizzo sono però in realtà individuabili nel grande peso che viene dato alle politiche
attive del lavoro. Può darsi vi abbiano di nuovo influito le dinamiche politiche: il riferimento alle
politiche attive del lavoro è infatti un punto di equilibrio, di sintesi, tra chi nelle stesse identifica
soprattutto il bastone – lo strumento capace di governare, di controllare, di evitare i disincentivi
delle politiche passive, per cui l’agenda dell'activation include innanzitutto la riforma dei sistemi di
protezione sociale, in particolare per quanto riguarda il sostegno a chi abbia perso un lavoro – e chi
vi vede la carota, con un’interpretazione – se mi passate il termine più giornalistico – «buonista»
dell'activation stessa.
Consentitemi a questo punto un breve inciso sulle politiche attive. La ricerca economica più
recente, in particolare l’evidenza di tipo propriamente valutativo4, ha dimostrato come parlare
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Siamo, come detto, alla vigilia di una maggiore riforma del processo, quindi questo numero non va preso come
indicazione necessariamente valida per il futuro.
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Cfr. in particolare alcune recenti rassegne: L. Calmfors, A. Forslund e M. Hemstrom, Does active labour market
policy work? Lessons from the Swedish experiences, Institute for Labour Market Policy Evaluation, working paper no.
4, 2002 e D. Grubb e J. P. Martin, What works and for whom: a review of OECD countries’ experiences with active
labour market policies, Institute for Labour Market Policy Evaluation, working paper no. 14, 2001. Per una più
completa esposizione del punto di vista dello scrivente si rimanda al libro già prima citato. Per una esposizione chiara e
semplice dei problemi statistici nella valutazione delle politiche pubbliche si rimanda a A. Martini, E. Rettore e U.
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genericamente di politiche attive sia privo di senso. Vi sono politiche che funzionano e politiche che
non funzionano. Nel disegno delle singole politiche concrete è importante tener conto del fatto che
le politiche attive in genere soffrono di diseconomie di scala – il che sottolinea l’importanza del loro
targeting; la loro efficacia dipende dall’interazione tra componenti «attive» e «passive», nonché dal
contesto economico (le politiche attive sono parte d’un sistema di protezione «nel mercato»,
anziché on-the-job, e comunque di solito possono funzionare laddove vi è un elevato turnover) e
dall’efficacia del meccanismo di delivery istituzionale. Parlare genericamente di politiche attive, al
di là dei suoi possibili meriti retorici – come segnale d’una volontà di riforma dei sistemi di
protezione sociale e/o di rafforzamento delle tutele nel mercato – rischia perciò di essere fuorviante
e di far dimenticare l’importanza del dover modulare le politiche attive a seconda del contesto e di
dover attentamente valutare l’efficacia (la cost-effectiveness) delle stesse.
Tornando al filo principale del mio intervento, sembrerebbe potersi concludere che la genesi di
questo concreto esempio di metodo del coordinamento aperto – pur tenendo conto del fatto che
nella mia esposizione ho volutamente un po' caricaturato i diversi elementi – denoterebbe il metodo
del coordinamento aperto come una soluzione pasticciata e di ripiego, una riposta contingente a
vicende storiche specifiche, non come un metodo spendibile e con una sua valenza intrinseca. In
seguito esporrò un’opinione di tipo opposto. Lasciatemi però per il momento completare la breve
cronistoria della strategia europea dell'occupazione, vedendo in particolare cosa sia successo in
Italia.
Per vari motivi, in parte anche culturali, il metodo e i contenuti concreti del modello di policy
che veniva presentato – il modello dell'activation – avevano grandi difficoltà ad attecchire nel
contesto italiano. Il problema principale era ed è di inadeguatezza istituzionale. Lo schema logico
della strategia europea dell'occupazione, pur essendoci una panoplia di aree di intervento inserite
sotto il cappello occupazionale, aveva al suo centro il tema dell'activation, che era poi anche quello
su cui erano stati concordati degli obiettivi quantitativi, che, a torto o ragione, in quanto quantitativi,
erano quelli che richiamavano maggiormente l'attenzione, che avevano una pregnanza e una valenza
più ampie. Quale che fosse la valenza intrinseca di quell'approccio, l'Italia era un paese
istituzionalmente inadeguato e fuori linea rispetto a quell'approccio. In quell'approccio, le politiche
attive funzionavano, come bastone e/o come carota, ma comunque da contrappeso, nel mercato ai
possibili disincentivi nascenti da politiche passive sviluppate. L'Italia non aveva sviluppato né le
une né le altre. La politica del lavoro era tradizionalmente basata su quelli che adesso è abbastanza
diffuso e di moda chiamare «meccanismi di protezione sul posto di lavoro» non di protezione «nel
mercato». Vi era poi in Italia una tradizionale assenza di attenzione all'efficacia dei meccanismi
Trivellato, Problemi di valutazione delle politiche pubbliche, relazione presentata alla Conferenza Annuale dell’AIEL
(Associazione Italiana Economisti del Lavoro), FI, 4-5 ottobre 2001 (il riferimento classico, a un livello tecnico più
approfondito, è J. Heckman, R. J. Lalonde e J. A. Smith, «The Economics and Econometrics of Active Labor Market
Programs» in O. Ashenfelter e D. Card (eds.) Handbook of Labor Economics, vol. 3A, North Holland, Elsevier Science,
1999).
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istituzionali di implementazione delle norme, di implementazione delle politiche: l’abitudine era
quella di far leggi piuttosto prescrittive, immaginando che poi le leggi camminassero da sole.
Un certo disallineamento era anche evidente tra l’analisi sottostante la strategia europea
dell'occupazione e la concreta situazione italiana. Il mondo su cui la strategia europea
dell'occupazione, con la sua enfasi sull’activation, immaginava di dover incidere, era un mondo
popolato da molti disoccupati di lunga durata, tali per via di meccanismi di estraneamento dal
mercato e per via della lunga durata delle indennità di disoccupazione. L'Italia aveva ed ha molti
disoccupati di lunga durata, ma non tanto a causa dei sussidi di disoccupazione – ben lungi
dall’esser ben disegnati ma comunque relativamente poco sviluppati – quanto a causa di
un’inefficace transizione tra scuola e lavoro, di un’offerta di lavoro alquanto bassa in alcuni
segmenti (le donne, gli anziani), di un profondo dualismo territoriale, a sua volta parte di un più
ampio e complesso fenomeno di sottosviluppo del Mezzogiorno. Quindi anche dal punto di vista
dell'enfasi sul che fare c'era un certo disallineamento tra strategia europea dell'occupazione e
situazione italiana.
In sintesi, si può perciò concludere che l'Italia era in una situazione estremamente difficile per
rispondere alle sollecitazioni della strategia europea dell'occupazione. Ciò nonostante, quelle
sollecitazioni hanno fatto sentire il loro peso. Nel merito delle cose – perché l'ottica attiva e
preventiva, bene o male e pur se spesso in termini solo retorici, ha iniziato a permeare il dibattito sul
che fare – e da un punto di vista di metodo, perché si è iniziato a percepire l’esigenza della
fissazione di obiettivi di policy, della loro rendicontazione e più in generale del monitoraggio e della
valutazione delle politiche.
Quindi, nonostante il disallineamento istituzionale e il fatto che la strategia europea
dell'occupazione trascurasse tematiche e questioni piuttosto rilevanti nel mercato del lavoro italiano,
credo che si possa concludere che la strategia europea dell'occupazione è stata un'importante
sollecitazione al policy making italiano. Non tanto alle politiche concrete, ché se uno volesse
rintracciare le cause della discreta dinamica occupazionale degli ultimi anni, dinamica grosso modo
coeva al lancio della strategia europea dell'occupazione, difficilmente la mente andrebbe alle
singole sollecitazioni e risposte alle stesse derivanti da tale strategia. Semmai, volendo riassumere
in una unica voce l’origine della svolta occupazionale verrebbe in mente il cd. pacchetto Treu, che è
però del 1997 e nasce quindi prima della strategia europea dell'occupazione, non come risposta alla
stessa, anche se con la strategia europea dell'occupazione è senz’altro coerente da un punto di vista
generale, di orientamento e di impostazione culturale5.
Dopo aver brevemente esposto il funzionamento della strategia europea dell'occupazione nello
specifico contesto italiano, consentitemi di cercare di trarre alcune lezioni generali sul metodo del
coordinamento aperto. Ha funzionato e funziona il coordinamento aperto? Quali sono i suoi
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Una mia personale lettura, più articolata, della svolta occupazionale registratasi in Italia, dei tratti di novità della stessa
e dei suoi limiti intrinseci, è nel volume già prima citato (cfr. Paolo Sestito, Il mercato del lavoro in Italia. Com’è, come
sta cambiando, Laterza, 2002).
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vantaggi e quali sono i rischi? Di nuovo riuscirò ad essere sintetico grazie all’uso che potrò fare di
molti concetti già introdotti da Maurizio Ferrera.
I vantaggi. Credo che, e da qui discende il mio giudizio positivo sul metodo del coordinamento
aperto come strumento, che la sua genesi storica di soluzione spesso di ripiego non necessariamente
debba implicare una sua inefficacia. I vantaggi del metodo del coordinamento aperto sono
fondamentalmente legati al fatto che nelle materie di cui stiamo parlando i paesi dell'Unione
Europea sono estremamente disomogenei. Immaginare una produzione normativa dettagliata, ampia
e pesante, che introduca elementi di forte omogeneità nell'ambito della protezione sociale,
nell'ambito del lavoro, sarebbe estremamente costoso da un punto di vista economico. Le condizioni
sociali e contrattuali non possono che svilupparsi in parallelo con il livello di sviluppo economico e
produttivo. Beninteso, forzature sono possibili e possono essere alle volte addirittura utili alle stesse
prospettive di sviluppo economico. Credo però che l'Italia, con la propria situazione interna di
dualismo territoriale tra Mezzogiorno e aree più sviluppate del paese, sia un esempio storico
lampante dei costi economici dell’eccesso di omogeneità. Mirare troppo accuratamente
all’omogeneità, oltre che potenzialmente costoso in termini economici, sarebbe anche estremamente
difficile e politicamente rischioso. Alto sarebbe il rischio di incorrere in una situazione di vero e
proprio deficit di legittimazione democratica delle scelte qualora si cercasse, allo stato attuale di
sviluppo delle istituzioni sovranazionali, di normare nel dettaglio certe materie a livello europeo.
D’altro canto anche il metodo del coordinamento aperto, con la sua insistenza sul coordinamento
soft e sul principio di sussidiarietà, ha i suoi rischi. Vi è il rischio, come ben sa chi frequenta con
una certa continuità Bruxelles e la «comitatologia» di Bruxelles, di una vacuità di questi esercizi,
che rischiano di andare avanti inerzialmente con un certo burocratismo, finendo con l’essere vissuti
come homework privo di significato e di valenza.
Come massimizzare i vantaggi e ridurre i rischi? Prescindendo per un attimo dal merito delle
politiche del lavoro e della strategia europea dell'occupazione come concreta applicazione del
metodo del coordinamento aperto, credo che una soluzione sia quella di focalizzare gli esercizi di
coordinamento aperto sugli obiettivi, lasciando per molti aspetti al livello decisionale nazionale di
fissare nel concreto i target da perseguire, oltre che gli strumenti da adoperare, ma vincolando
sempre più i governi e le autorità nazionali all'accountability su ciò che fanno. Il metodo del
coordinamento aperto mi pare infatti uno strumento potente non tanto per imporre, in maniera
surrettizia, il perseguimento di determinati indirizzi predefiniti (da burocrati sopranazionali e privi
di responsabilità politica), ma la prassi di autodeterminarsi obiettivi che siano – evidentemente da
un punto di vista politico e non giuridico – strettamente vincolanti. È questo credo il contributo
principale che un metodo come il metodo di coordinamento può dare. Questo può significare
alleggerire, evitare le forme di burocratismo – che prima si diceva – e quindi aumentare l'incisività
del metodo di coordinamento aperto.
Nello specifico della strategia europea dell'occupazione, che, come anticipato, nel 2003 sarà
oggetto di una revisione, un’evoluzione di per sé coerente con questi principi generali è nel già
definito cambiamento di timing della stessa. I piani e i programmi, sino a quest’anno presentati in
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primavera dalle autorità nazionali, saranno dal prossimo anno definiti nell'autunno, in modo da
essere meglio integrati con il processo budgetario che ha luogo nei diversi paesi. Sarebbe però
anche auspicabile che le nuove guideline divenissero innanzitutto più snelle e meno prescrittive,
recependo l’orientamento sul target occupazionale in quanto tale già sancito nel Consiglio di
Lisbona del marzo 2000.
Più nel merito della strategia europea dell'occupazione, consentitemi infine di riprendere le 4
aree tematiche su cui il rapporto inizialmente citato e curato dall’ISFOL (che mi permetto di
riprodurre testualmente essendone uno degli autori) sollecita una maggiore enfasi, andando quindi
al di là del modello proactivation tradizionale:
1. l’esigenza di sollecitare una maggiore partecipazione nel mercato di quei gruppi sociodemografici a bassa offerta di lavoro, individuando i fattori rilevanti che spesso non attengono al
mercato del lavoro in quanto tale. In particolare il riferimento d’obbligo in proposito è a donne
ed anziani: sistemi pensionistici e di welfare, trattamento fiscale, nonché disponibilità di servizi
familiari a basso costo appaiono le questioni su cui maggiormente concentrare l’attenzione. Più
trasversalmente, va considerato il caso dei lavoratori a basso reddito: l’uso di politiche selettive
ma automatiche, tramite riduzioni fiscali o contributive che favoriscano l’occupazione di questi
soggetti e ne sostengano i redditi netti, pare irrinunciabile. Le misure concrete dovranno, nei
limiti del possibile, favorire le opportunità di crescita salariale e reddituale, non solo
l’occupazione immediata, di questi soggetti; ma parrebbe irrealistico rinunciare a determinate
occasioni lavorative etichettandole come di bassa qualità. In generale, va tenuto conto quanto, in
tema di qualità del lavoro, sia difficile definire tale concetto in maniera omogenea tra i diversi
paesi, tenuto conto delle diverse priorità – ad esempio, nel caso italiano la priorità appare essere
quella del lavoro sommerso – e delle differenti condizioni economiche e di sviluppo di ciascun
paese.
2. Misure come quelle ora ricordate a favore dei lavoratori a bassi salari possono anche aiutare ad
affrontare una questione particolarmente importante per un paese come l’Italia: la forte
concentrazione, a livello territoriale, della disoccupazione e della bassa occupazione. Tali
misure, se opportunamente disegnate, possono infatti favorire l’affermarsi d’una struttura della
contrattazione più decentrata e più recettiva degli squilibri territoriali esistenti. Al tempo stesso, è
da sottolineare come le politiche del lavoro, in quei contesti in cui bassa occupazione e bassa
produttività del contesto ambientale si associano, debbano essere fortemente integrate con le
politiche di sviluppo locale e regionale.
3. Una rivisitazione pare anche opportuna in tema di approccio attivo e preventivo. Questo, lungi
dall’essere abbandonato, deve allargarsi per ricomprendere una serie di ambiti che sono, per così
dire, «prima» e «fuori» del mercato del lavoro in senso proprio, come evidenziato da quanto
detto in tema di transizione tra scuola e lavoro, con riferimento al caso italiano. Da un punto di
vista di strumentazione dell’approccio, andrebbero poi anche valorizzati gli strumenti automatici
e quindi solo in parte «personalizzati», salvaguardando altresì le specificità istituzionali nazionali
e, quindi, evitando di circoscrivere l’attenzione ai soli servizi pubblici per l’impiego.
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4. Nell’ambito del pilastro sull’adattabilità, concetto scarsamente sviluppato in termini concreti e
fattuali non solo in Italia, pur essendo da evitare una scelta specifica sul modello di tutele da
prefigurare, andrebbero sottolineate maggiormente due esigenze: evitare le segmentazioni
all’interno del mercato; bilanciare le tutele sul posto di lavoro e le tutele nel mercato (senz’altro
da preferire in un contesto come quello italiano tenuto conto della eredità storica preesistente, ma
forse da privilegiare anche altrove alla luce dei nuovi scenari economici e tecnologici), evitando
una considerazione parziale dei diversi singoli aspetti della regolamentazione e delle tutele (per
non trattare, apparentemente allo stesso modo, soggetti in condizioni, in realtà, molto diverse).
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