La disciplina del lavoro domestico

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La disciplina del lavoro domestico
Articolo pubblicato sul numero 15|2015 del 13/04/2015
Il licenziamento della colf in maternità
di Gesuele Bellini
La maternità del prestatore di lavoro è tutelata dalla Legge 30 dicembre 1971, n. 1204 e dal relativo regolamento di
attuazione D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026, riuniti nel Testo Unico approvato con D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151. Tuttavia,
in tema di lavoro domestico, il successivo art. 62, nell’elencare le varie tutele sulla maternità applicabili, non comprende
quella sul divieto di licenziamento, lasciando così un vuoto normativo
Lavoro : Rapporto di lavoro : Lavoro domestico
Lavoro : Rapporto di lavoro : Licenziamento
CCNL 20 febbraio 2014, art. 24
C.Cass. sent. n. 5749 del 3 marzo 2008
C.Cass. sent. n. 18537 del 15 settembre 2004
Legge n. 92 del 2012, art. 4
Legge n. 339 del 1958, art. 1
D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 62
Legge n. 108 del 1990, art. 3
Legge n. 108 del 1990, art. 4
Tra le previsioni a garanzia della lavoratrice in maternità, la
disciplina legale, in particolare l’art. 45 del D.Lgs. 26 marzo
2001, n. 151, sancisce il divieto di licenziamento della stessa
durante l’astensione dal lavoro per maternità fino al
compimento di un anno di età del bambino; tuttavia, in tema
di lavoro domestico – nel quale rientra quello della colf, che
riguarda quella tipologia di lavoratori che svolgono attività
prettamente manuali o di fatica e che non hanno ancora
maturato l’anzianità necessaria per il passaggio alla categoria
superiore nel relativo contratto collettivo – l’art. 62 del decreto medesimo, nell’elencare le varie
tutele sulla maternità applicabili, non comprende quella sul divieto di licenziamento, lasciando così
un vuoto normativo che si cercherà di analizzare seguito.
Prima di entrare nel merito della problematica accennata appare però utile richiamare brevemente
la speciale disciplina del lavoro domestico, nel quale rientra quello della colf.
La disciplina del lavoro domestico
Il lavoro domestico trova la sua disciplina in diverse fonti, che si pongono in rapporto di
complementarietà.
Oltre alle disposizione codicistiche, esso trova una particolare allocazione:
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nella Legge 27.12.1953, n. 940, che riguarda in particolare la fattispecie in cui il rapporto è di
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durata inferiore alle 4 ore giornaliere;
nella Legge 2.4.1958, n. 339, quando il rapporto di lavoro ha una durata di almeno 4 ore
giornaliere (art. 1);
nel D.P.R. 31.12.1971, n. 1403, recante norme sulla disciplina dell'obbligo delle assicurazioni
sociali nei confronti dei lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari, nonché dei lavoratori a
servizi di riassetto e di pulizia dei locali;
nel CCNL di categoria per i datori di lavoro e i lavoratori, anche non di nazionalità italiana,
aderenti alle organizzazioni sindacali stipulanti.
Le richiamate discipline che dettano specifiche disposizioni in tema di lavoro domestico spingono a
ritenere come buona parte delle norme del codice civile abbiano perso di significato pur non essendo
state formalmente abrogate.
Invero, la dottrina è concorde nell’annoverare il lavoro domestico tra i rapporti di lavoro speciale, la
cui natura deriverebbe dal particolare ambiente di lavoro (comunità familiare) in cui i prestatori si
trovano a svolgere la loro attività lavorativa. (1)
Per quanto riguarda la nozione di tale lavoro si deve osservare che, ai sensi di quanto disposto
nell' art. 1, Legge 2.4.1958, n. 339, si intendono per addetti ai servizi personali domestici i lavoratori
d'ambo i sessi che prestano a qualsiasi titolo la loro opera per il funzionamento della vita familiare,
sia che si tratti di personale con qualifica specifica, sia che si tratti di personale adibito a mansioni
generiche, sempreché esuli da tale attività qualsiasi finalità di lucro (Trib. Pavia 19.10.1983).
Al riguardo, ai fini della qualificazione sostanziale del rapporto di lavoro domestico la giurisprudenza
ha individuato quale presupposto essenziale per la configurabilità di tale fattispecie di attività, la
sussistenza di una convivenza di natura familiare del prestatore con il datore di lavoro, con
eventuale fruizione del vitto e dell'alloggio, qualora previsti.
La condizione di coabitazione, inoltre, deve svilupparsi in un contesto immobiliare definito e distinto,
poiché non è inquadrabile come lavoro domestico, la prestazione svolta da un unico soggetto alle
dipendenze di condomini nello stesso stabile differenziato in distinti appartamenti.
In ogni caso, viene ribadito che la prestazione deve essere volta esclusivamente a soddisfare un
personale bisogno della parte datoriale, la quale, di conseguenza, non deve perseguire uno scopo di
lucro (Trib. Bari 14.02.2014).
Dalla sopra citata definizione si deduce che la prestazione di lavoro domestico si differenzia dalle
prestazioni di lavoro subordinato in genere, per la circostanza di non essere resa a beneficio di una
comunità esclusivamente aziendale. (2)
In altre parole, perché si abbia lavoro domestico è necessario che il lavoratore presti la propria
attività lavorativa presso l'abitazione del datore di lavoro e, dunque, a favore di una comunità
familiare o di comunità similari, al fine di soddisfare i bisogni personali o familiari dello stesso, con
vincolo di subordinazione. (3)
Tale rapporto di lavoro, in ogni caso anche se non vi è convivenza o coabitazione in senso proprio
(con fruizione di vitto ed alloggio ex art. 2242 c.c.), comporta comunque l'inserimento del prestatore
in una sfera che è la stessa in cui si svolge la vita privata del datore di lavoro, della sua famiglia, o
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degli altri soggetti che compongono la convivenza e dunque una particolare intensità del contatto
sociale tra il lavoratore, da un lato, ed il datore di lavoro e i suoi conviventi dall'altro. (4)
In tale contesto le colf possono generalmente instaurare con il proprio datore di lavoro tre tipi
di contratto a seconda dell’impegno richiesto:
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a servizio intero, quando la lavoratrice domestica abita presso il datore di lavoro, usufruendo, oltre
che della retribuzione, del vitto e dell’alloggio;
a mezzo servizio, nell’ipotesi che la lavoratrice domestica che presta presso la stessa famiglia
servizio per almeno 4 ore al giorno o per 24 ore settimanali, se il servizio non è uniforme in tutti i
giorni della settimana;
ad ore nell’ipotesi in cui il lavoro della domestica si svolge presso la stessa famiglia servizio solo
per alcuni giorni della settimana, e con orario inferiore alle 24 ore settimanali.
Tutela della maternità per le colf
Come tutte le categorie di lavoro anche le colf e le badanti sono tutelate in caso maternità.
Al riguardo, il D.Lgs. n.151/2001, dedica l’art. 62 al lavoro domestico, asserendo che ad esso si
applicano solo alcuni degli articoli dedicati alla tutela della maternità.
Dal punto di vista lavorativo, vige il divieto di adibire al lavoro le donne, le quali possono astenersi
dall'obbligo di prestare la loro attività per i due mesi precedenti e i tre successivi al parto, oppure
per un mese precedente al parto e per i 4 successivi quando la dipendente viene autorizzata a
lavorare fino ad un mese dal parto producendo un certificato medico che attesti l'ottima salute della
collaboratrice che può continuare a lavorare fino all'ottavo mese.
In ogni caso, i predetti periodi vanno computati nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti, compresi
quelli relativi alla gratifica natalizia ed alle ferie.
Alle domestiche, inoltre, si applicano le tutele previste dall’art.17 del citato decreto ed in particolare
il divieto di adibire le stesse al lavoro è anticipato a tre mesi dalla data presunta del parto, quando le
lavoratrici sono occupate in lavori che, in relazione all’avanzato stato di gravidanza, siano da
ritenersi gravosi o pregiudizievoli. L’anticipazione del divieto di lavoro è disposta dagli appositi
servizi istituiti presso le Direzioni Territoriali del lavoro.
Il predetto ufficio può, inoltre, disporre, sulla base di accertamento medico, anche avvalendosi dei
competenti organi del Servizio sanitario nazionale, l’interdizione dal lavoro delle lavoratrici in stato
di gravidanza, fino al periodo di astensione obbligatoria, per uno o più periodi nel caso di gravi
complicanze della gravidanza o di preesistenti forme morbose che si presume possano essere
aggravate dallo stato di gravidanza, ovvero quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute
pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino o infine quando la lavoratrice svolge lavori
pericolosi, faticosi ed insalubri e non possa essere spostata ad altre mansioni.
Per quanto riguarda invece la retribuzione, la maternità viene retribuita alla colf direttamente
dall'Inps. L'Inps retribuisce l'indennità maternità sulla base della retribuzione media giornaliera.
Alla lavoratrice spetta un’indennità (pari all’80% del salario contrattuale) che viene erogata
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direttamente dall’istituto di previdenza, sempre che risultino versati o dovuti 52 contributi
settimanali nei 24 mesi che precedono l’inizio dell’astensione obbligatoria dal lavoro ovvero 26
contributi settimanali nei 12 mesi che precedono l’inizio dell’astensione stessa.
Non spetta alle lavoratrici e ai lavoratori in argomento il periodo di congedo parentale.
Divieto di licenziamento
Le caratteristiche di specialità sopra accennate del lavoro domestico sono alla base della scelta del
legislatore di mantenere, per tali rapporti, la libera recedibilità ad nutum (art. 4, Legge n.
108/1990).
Pertanto, escludendo le ipotesi di libera recedibilità legate a particolari momenti di qualunque
rapporto di lavoro (periodo di prova, lavoratori in età pensionabile, ecc.) e considerando che per i
dirigenti la regola del giustificato motivo, con ingenti penali risarcitorie, è generalmente consacrata
nella contrattazione collettiva, può affermarsi che i domestici costituiscono forse gli unici lavoratori assieme agli sportivi - per i quali permane ancora la piena libertà di licenziamento, tendenzialmente
durante l'intero svolgersi del rapporto. (5)
Invero, le lavoratrici addette ai servizi familiari e domestici sono espressamente escluse anche dal
divieto di recesso per causa di matrimonio (vedi art. 2, co. 3 della Legge 9 gennaio 1963, n. 7).
Unica fattispecie normativa di licenziamento nullo espressamente prevista per i lavoratori domestici
è il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie, ex art. 4, Legge n. 604/1966 e 3, Legge n.
108/1990.
Una disciplina particolare è dettata in occasione della gravidanza.
Al riguardo, la normativa pattizia prevede espressamente il divieto di licenziamento della colf
lavoratrice madre fino alla fine del congedo di maternità.
Nel caso in cui ci la gravidanza si instauri nel corso del rapporto di lavoro, sin dall’inizio della
gestazione (comprovata da idoneo certificato medico) e fino alla fine del congedo di maternità, la
lavoratrice non può essere licenziata, salvo che per giusta causa o che il contratto a termine non sia
naturalmente scaduto.
Nel caso la lavoratrice voglia dimettersi, per evitare che dietro le dimissioni si possa celare un
licenziamento da parte del datore di lavoro, la legge prevede che se le dimissioni sono presentate nel
periodo in cui vige il divieto di licenziamento (il periodo che intercorre tra l'inizio della gestazione e
il termine del congedo di maternità), le stesse debbano necessariamente avere un passaggio formale,
come da Legge 92/2012, art. 4, c.17 e ss, altrimenti vengono ritenute nulle.
In particolare, le dimissioni della lavoratrice madre devono essere comunicate per
scritto alternativamente in sede sindacale, presso la Direzione Territoriale del lavoro, presso il
Centro per l'impiego, sottoscrivendo copia della denuncia di cessazione del rapporto di lavoro,
inoltrate dal datore di lavoro alle sedi competenti.
Le dimissioni debbono essere convalidate da parte della DTL, che accerterà la vera volontà della
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lavoratrice e renderà effettive le dimissioni.
Al riguardo, va rilevato che per le dimissioni rassegnate dalla lavoratrice in tale periodo la legge,
presumendo che le stesse siano dovute ad esigenze familiari e pertanto legate ad uno stato di
bisogno, prevede alcun preavviso, ammettendo perfino che la lavoratrice possa richiedere dal datore
di lavoro il pagamento dell’indennità di mancato preavviso prevista per i casi di licenziamento.
Differenze di tutela rispetto ad altre tipologie lavorative
In termini generali, al rapporto di lavoro domestico non è applicabile la tutela prevista dagli
articoli 1 e 2 della Legge n. 604/1966, come modificata dalla Legge n. 108/1990, con la conseguenza
che i lavoratori che si trovano in tale area contrattuale, sono licenziabili ad nutum, anche in assenza
di giusta causa o giustificato motivo, e non hanno diritto né alla reintegra prevista
dall'art. 18 della Legge n. 300/1970, né al risarcimento del danno previsto dall'art. 8 della Legge n.
604/1966 (Trib. Bologna 26.05.2004).
Riguardo il periodo della maternità si rilevano quattro punti di differenziazione.
Diritto all’indennità di maternità
Tutte le dipendenti acquisiscono tale diritto all’atto dell’assunzione, senza dover garantire
particolari requisiti contributivi.
Le colf e badanti, invece, acquisiscono il diritto all’indennità di maternità solo se hanno già versato,
anche se in settori diversi da quello del lavoro domestico, 52 contributi settimanali nei 24 mesi
precedenti all’astensione obbligatoria dal lavoro, oppure 26 contributi settimanali nei 12 mesi
precedenti all’estensione obbligatoria.
Determinazione dell’indennità di maternità
Per tutte le lavoratrici madri essa è calcolata in base alla retribuzione media giornaliera del periodo
precedente all’astensione obbligatoria.
Per le domestiche, invece, è calcolata in base alle settimane di lavoro di ciascun trimestre (per ogni
settimana deve essere stata corrisposta una contribuzione per almeno 24 ore di lavoro).
Congedo parentale
Il terzo punto di differenziazione si rinviene nella totale mancanza del diritto al congedo parentale
per le lavoratrici domestiche fruibile, per tutte le altre lavoratrici, nei sei mesi successivi al termine
di quella obbligatoria, e non sono riconosciuti nemmeno i permessi di allattamento né le assenze
giustificate dalla malattia del bambino fino a tre anni di vita.
Divieto di licenziamento
Per tutte le lavoratrici madri sussiste il divieto assoluto di licenziamento nel periodo tra l’inizio della
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gestazione e il compimento di un anno del bambino.
Per le lavoratrici domestiche non sussiste questo divieto; il CCNL di categoria prescrive il divieto di
licenziamento per un periodo di tempo più ridotto: dall’inizio della gravidanza fino alla cessazione
del congedo obbligatorio di maternità. Ciò vale solo se la gravidanza è intervenuta nel corso del
rapporto lavorativo. Non si esclude, sempre e comunque, la possibilità di licenziamento legittimo in
presenza di giusta causa.
Le differenziazioni fin qui esposte evidenziano un trattamento palesemente sfavorevole per le
lavoratrici madri domestiche rispetto alla generalità delle altre lavoratrici.
Alla lavoratrice madre domestica è riconosciuto, dunque, solo il periodo di astensione obbligatoria,
durante i 2 mesi precedenti la data presunta del parto, salvo eventuali anticipi, nel caso di pericoli
per la gravidanza ad esempio (art. 17 Legge n. 151/2001), o posticipi (in applicazione della
flessibilità del congedo) previsti dalla normativa di legge; per il periodo eventualmente intercorrente
tra tale data e quella effettiva del parto; durante i 3 mesi dopo il parto.
Per tale periodo la lavoratrice potrà fare domanda all’INPS per ottenere l’indennità di maternità, che
coprirà l’80% della retribuzione globale di fatto, ed è assistita dalla contribuzione figurativa: durante
tale periodo il datore di lavoro sospenderà infatti sia la contribuzione che la retribuzione, ad
esclusione di ferie e TFR, che saranno a carico dell’INPS.
Ad esso si affianca il divieto di licenziamento, che però inizia con il concepimento (purché
intervenuto nel corso del rapporto di lavoro) e si limita ad estendersi fino alla fine del congedo
obbligatorio (3 mesi dopo il parto), e non fino all’anno di età del bambino.
Il CCNL della categoria ha rafforzato la tutela contro i licenziamenti della lavoratrice madre,
introducendo un apposito articolo in cui sono raddoppiati i termini di preavviso nell’eventualità in
cui il datore di lavoro intimi il licenziamento prima del trentunesimo giorno successivo al termine del
congedo per maternità. Quindi nel caso in cui, al termine del congedo obbligatorio, alla scadenza dei
tre mesi successivi al parto, il datore di lavoro intimi il licenziamento entro i successivi 30 giorni,
dovrà osservare un preavviso doppio rispetto a quello ordinario.
Presupposti di applicazione del divieto di licenziamento
In merito alle condizioni sostanziali per l’applicazione del divieto del licenziamento per le colf, il
consolidato orientamento, formatosi a partire dal D.Lgs. n.151/2001, afferma che il citato divieto
della lavoratrice madre è correlato allo stato oggettivo della gravidanza o del puerperio ed opera
anche nel caso in cui il datore di lavoro sia inconsapevole (C.Cass. sent. n. 6595 del 2000).
Parimenti, la giurisprudenza è dell’avviso che il divieto in argomento operi anche qualora la stessa
lavoratrice sia inconsapevole dello stato di gravidanza. In altre parole, qualora il licenziamento
dovesse essere intimato a gravidanza iniziata, la lavoratrice è comunque tutelata se produce al
datore di lavoro idonea certificazione, chiedendo il ripristino del rapporto di lavoro.
La giurisprudenza, al riguardo, ha affermato l’indirizzo secondo cui anche per
il lavoro domestico vale il principio della non necessità della presentazione preventiva di certificato
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medico attestante la data presunta del parto nonché il principio secondo cui il licenziamento della
lavoratrice domestica irrogato durante il periodo di comporto per maternità è nullo e non solo
temporaneamente inefficace (Trib. Roma 2.12.1998).
Il certificato medico, in base alle prescrizioni del D.P.R. n. 1026/1976, va prodotto al proprio datore
di lavoro entro 90 gg., tuttavia parte della giurisprudenza ha riconosciuto il diritto alla retribuzione
anche nel periodo intercorrente tra la data del licenziamento e quella di esibizione tardiva del
certificato medico (C.Cass. sent. n. 5749 del 2008).
Va precisato che il divieto di che trattasi, infine, si ritiene applicabile anche ai padri lavoratori, per la
durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice in caso
di morte o grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo
del bambino al padre, nonché alle ipotesi di adozione ed affidamento almeno fino alla fine del
congedo obbligatorio e a quelle di adozione internazionale.
In ogni caso, secondo la giurisprudenza, che riconosce l'applicabilità al rapporto
di lavoro domestico della tutela della maternità prevista dall'art. 2110 c.c., anche per tale rapporto
di lavoro, in occasione della maternità, deve ritenersi sussistente il divieto di licenziamento per un
periodo che, non essendo applicabile né la Legge n. 1204/1971 (non estensibile in toto allo speciale
rapporto delle collaboratrici familiari in quanto presupponente un'organizzazione del lavoro capace
di consentire la sostituzione per lunghi periodi della lavoratrice in gravidanza e puerperio), né le
convenzioni internazionali in materia (non direttamente operanti atteso il rinvio, in esse contenuto, a
interventi complementari del legislatore nazionale), dovrà essere individuato dal giudice che, in
mancanza di usi normativi e in caso di non applicabilità del contratto collettivo di categoria,
determinerà equitativamente le modalità temporali del divieto di licenziamento della lavoratrice
domestica in maternità, definendo i diritti e gli obblighi delle parti durante il periodo in cui tale
divieto sia ritenuto operante; legittimo parametro di riferimento di tale giudizio equitativo, per la sua
coerenza con le norme della Legge n. 1204 del 1971 applicabili anche alle lavoratrici domestiche,
può essere individuato in quel periodo (due mesi prima e tre mesi dopo il parto) in cui è vietato
adibire al lavoro tutte le lavoratrici dipendenti, riconoscendo alle stesse un’indennità giornaliera
adeguata alla retribuzione, indennità corrisposta, nel caso delle collaboratrici familiari, direttamente
dall'Inps (C.Cass. sent n. 6199/1998).
Le predette tutele – fermo restando il recesso per cause oggettive, quale la cessazione dell’attività
aziendale in cui è addetta la lavoratrice domestica – incontrano delle deroghe al licenziamento anche
per situazioni soggettive del prestatore.
Una particolare causa legittima di licenziamento sussiste quando è intimato per colpa grave da parte
della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro. Al riguardo, parte
della giurisprudenza ha sostenuto che ai fini dell’operatività della norma che rende inutilizzabile il
divieto di licenziamento della lavoratrice per colpa grave da parte della lavoratrice, non è sufficiente
accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento,
ma è invece necessario verificare, con il relativo onere probatorio a carico del datore di lavoro, se
sussista quella colpa specificamente prevista dalla norma e diversa (per l’indicato connotato di
gravità) da quella prevista dalla legge o dalla disciplina collettiva per generici casi di infrazione o di
inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto.
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Verifica questa che deve essere eseguita tenendo conto del comportamento complessivo della
lavoratrice, in relazione alle sue particolari condizioni psico-fisiche legate allo stato di gestazione, le
quali possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento sanzionato
solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso (C.Cass. sent. n.
6593/2000).
La tutela del divieto del licenziamento in occasione della maternità non ricorre nemmeno
allorquando si sia in presenza di un’ipotesi di ultimazione della prestazione di lavoro per la quale la
lavoratrice è stata assunta o di risoluzione per la scadenza del termine, dovuta alla conclusione di un
contratto a tempo determinato, nella duplice forma in cui può essere stipulato, ovverosia
dell'esplicita predeterminazione di una data finale di cessazione del rapporto o dell'indiretto
riferimento ad una data desumibile dall'ultimazione di una specifica prestazione.
Ancora, è esclusa in caso di non superamento del periodo di prova purché il datore di lavoro dimostri
di non essere a conoscenza della gravidanza in atto e soprattutto l’esplicazione effettiva della prova,
la congruità delle mansioni svolte dalla lavoratrice rispetto a quelle dedotte in contratto e che il
mancato superamento della prova non sia dovuto alle condizioni oggettive in cui la donna si trovava.
Infine, è da ritenersi legittimo il licenziamento intervenuto per impossibilità oggettiva di
prosecuzione del rapporto di lavoro anche se tale circostanza non è espressamente contemplata, fa il
pari con quella prevista dall’art. 54, co. 3, lett. b) del D.Lgs. n.151/2001. Così come tale disposizione
consente il licenziamento durante la maternità per cessazione dell’attività aziendale, non si può
disconoscere tale possibilità nell’ambito del lavoro domestico quando la prestazione lavorativa non
trova più ragion d’essere. (6)
Questioni di legittimità costituzionali
L’esclusione del lavoro domestico dal divieto di licenziamento di cui all'art. 2 della Legge n.
1204/1971 ha condotto a delle questioni di legittimità costituzionale che si avanzarono già nei primi
anni di vigenza della norma.
La Corte costituzionale, con due sentenze, nel 1974 e nel 1976, dichiarò la questione infondata,
osservando tra l'altro che “il lavoro domestico è per la sua particolare natura tale da differenziarsi
sostanzialmente, sia in relazione all'oggetto sia in relazione ai soggetti interessati, da ogni altro
rapporto di lavoro. Uno di questi aspetti è la determinazione dell'incidenza della gravidanza e del
parto della lavoratrice addetta ai servizi domestici nel rapporto stesso, soprattutto per quanto
riguarda specifici doveri ed obblighi del datore di lavoro. Il lavoro domestico familiare non è prestato
a favore di una impresa destinata alla produzione e allo scambio di beni avente, nella prevalenza dei
casi, un sistema di lavoro organizzato e in forma plurima e differenziata, con possibilità di ricambio o
di sostituzione di soggetti, sebbene di un nucleo familiare ristretto ed omogeneo e, quindi, destinato
a svolgersi nell'ambito della vita privata di una limitata convivenza”.
La questione venne riproposta alla Corte Costituzionale dal Tribunale di Firenze che in una ulteriore
sentenza, la n. 86/ 1994, dichiarò nuovamente infondata la questione sulla base della specialità del
rapporto di lavoro domestico, comportante una diversa ponderazione degli interessi in conflitto.
In particolare la Consulta, tra l’altro, sostenne che l’eventuale estensione al lavoro domestico del
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divieto di recesso per ventuno mesi previsto dall'art. 2 della vecchia normativa (Legge n. 1204/1971)
determinerebbe un vincolo eccessivamente gravoso per l'economia familiare. Per la domestica, a
differenza che per la lavoratrice in un’impresa, l'interdizione dal lavoro non determina
automaticamente l'assenza dal luogo di lavoro e la sospensione del titolo di ammissione alla
convivenza familiare; le implicazioni pratiche di tale convivenza, qualora fosse riconosciuto il
prolungato divieto di recesso di cui alla legge sulla tutela della maternità, eccederebbero ogni
ragionevole tollerabilità di una famiglia media.
In tale sentenza la Corte, tuttavia, pur trovando ragionevole che l'art. 2 della Legge n. 1204/1971
non si applicasse alle lavoratrici domestiche, fece intendere che sarebbe invece illegittima
l’esclusione prevista dall’art. 2240 c.c. della norma generale ed elastica di cui all'art. 2110 c.c., ma
in quell’occasione non andò oltre visto che, sotto tale profilo, non vi era corrispondenza tra chiesto e
pronunciato.
Il suggerimento venne colto dal giudice di merito che ripropose, in altro successivo giudizio, la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 2239 e 2240 c.c. nella parte in cui non
consentirebbero l'applicazione al rapporto di lavoro domestico dell'art. 2110, co. 2, in violazione
degli artt. 3 e 37 della Costituzione.
La Corte costituzionale, tuttavia, con sentenza 26 maggio 1993, n. 193, dichiarò nuovamente non
fondata la questione, sollevata nei termini di cui sopra per un motivo tipico della fattispecie e cioè in
quanto il licenziamento della domestica era stato comunicato alla lavoratrice in data anteriore
rispetto all'invio del certificato medico di gravidanza.
Al riguardo, la Corte ha fatto osservare che, esclusa per il lavoro domestico l'applicabilità dell'art. 2,
Legge n. 1204/1971, l’eventuale decorrenza del divieto di recesso non poteva che individuarsi nella
data di presentazione del certificato medico, conformemente alla regola già stabilita dalla
precedente legge n. 860/1950 e dall'art. 3 della convenzione OIL n. 103, ratificata senza alcuna
riserva dall'Italia, non direttamente applicabile per il rinvio ad interventi complementari del
legislatore nazionale, ma comunque vivente nell'ordinamento interno col valore di criterio di
interpretazione dell'art. 2110 c.c.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità, sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte
Costituzionale ha affermato il principio secondo cui al lavoro domestico si applica l'art. 2110 c.c.
Al riguardo, la Cassazione con un sottile procedimento ermeneutico dimostrò che la norma di cui
all'art. 2239 c.c. rappresenta una disposizione generale del titolo IV del codice, nel quale si colloca
anche la disciplina del lavoro domestico, la cui specialità non vale ad escludere in modo assoluto la
applicabilità della normativa codicistica dettata per i datori di lavoro imprenditori (sia pure con il
limite della compatibilità) ed in particolare dell'art. 2110 c.c.,
Quest’ultimo è diretto alla tutela di interessi immediatamente e direttamente riconducibili alla
posizione di lavoratore subordinato delineata nell'art. 2094 c.c., norma da leggere nella sua capacità
di descrivere e regolare, al di là dei limiti del lavoro nell'impresa, qualsiasi tipo di rapporto di lavoro
dipendente e di configurarsi, per ciò stesso, come contenitore di tutte le forme di lavoro etero diretto.
Va evidenziato che la questione in dottrina è rimasta comunque controversa, essendoci chi sostiene
che per le lavoratrici madri non verrebbe in questione l'applicabilità della citata disposizione del
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codice, giacché la questione è regolata a monte dalla legge sulla tutela delle lavoratrici madri e
dunque non ci sarebbe spazio per richiamare la norma del codice, perché la legge si sostanzia nella
regolamentazione specifica e generale per il fatto della gravidanza e del puerperio.
In altre parole, secondo tale indirizzo, la disciplina esaustiva della tutela delle lavoratrici madri
operata fin dalla legge n. 1204/1971 (ora dal D.Lgs. n. 151/2001), avrebbe comportato
un’abrogazione tacita dell'art. 2110 c.c. per le ipotesi corrispondenti, posto che la nuova legge
regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore (art. 15 disp. prel. c.c.). (7)
La scelta di mantenere per tali lavoratrici la libera recedibilità anche in caso di gravidanza e
puerperio, secondo una parte della dottrina, si desumerebbe inoltre dalle prescrizioni del dettato
normativo di generale applicazione il quale esclude alle domestiche il divieto di licenziamento. (8)
La difesa della colf contro il licenziamento illegittimo
durante gravidanza e maternità
Il licenziamento di una colf in maternità intimato durante il periodo in cui vige la tutela legale della
madre lavoratrice è da considerarsi nullo, e non solo temporalmente inefficace, poiché il datore di
lavoro in tale contesto è da qualificarsi privo del potere di recesso (C.Cass. sent. n. 6199 del 1998).
Il rapporto viene considerato come mai interrotto e questo indipendentemente dalle dimensioni
dell’azienda ed è ammesso oltre il ripristino del rapporto anche il pagamento a titolo risarcitorio
delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto di lavoro.
In tale situazione la lavoratrice ha l’onere di impugnare il licenziamento nei termini di legge.
Al riguardo la giurisprudenza nell’affermare che al licenziamento della lavoratrice madre non
sarebbe applicabile l'art. 6 della Legge 15/7/66 n. 604, che impone l'onere di impugnare il
licenziamento entro il termine di decadenza di sessanta giorni (C.Cass. sent. n. 610 del 2000),
precisa però che qualora il licenziamento sia stato intimato per giusta causa, l’impugnazione del
licenziamento va effettuata con una contestazione entro il termine di decadenza della norma del
1996, quindi entro 60 giorni.
Questo anche se la lavoratrice assume che sia stata violata nei suoi confronti la normativa che tutela
la maternità (C.Cass. sent. n. 18537 del 2004).
Un altro importante adempimento a carico della lavoratrice madre è quello di presentare al datore di
lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle
condizioni che lo vietavano, giacché il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato
oggettivo di gravidanza; la lavoratrice può presentare il certificato anche in allegato al ricorso con il
quale impugna il licenziamento (C.Cass. sent. n.5749 del 2008).
Tuttavia, anche nel caso in cui la lavoratrice non ha tempestivamente informato il datore di lavoro
del suo stato di gravidanza opera comunque il divieto di licenziamento e la sanzione di nullità.
In questo caso però il diritto alla retribuzione a titolo risarcitorio decorre dal momento della
comunicazione accompagnata dalla presentazione del certificato medico.
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NOTE
(1) M. McBritton, Lavoro domestico, in Digesto comm., VIII, Torino, 1992.
(2) Ghera, Diritto del lavoro, il rapporto del lavoro, Bari, 2002.
(3) Carinci, De Luca Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del lavoro, II, Il rapporto di lavoro subordinato,
Torino, 1997.
(4) M. MC BRITTON, voce Lavoro domestico, Digesto IV, Sez. comm., vol. VIII, Torino, 1992.
(5) L. NANNIPIERI, La cassazione affida all'equità la tutela della lavoratrice domestica in gravidanza,
in Riv. it. dir. lav., n. 2, 1999.
(6) G. Anastasio, Lavoro domestico: licenziamento durante la maternità, Contratti Collettivi e Tabelle,
n. 2, 2011.
(7) G. PERA, Ancora un incidente di costituzionalità sulla licenziabilità delle domestiche gravide, in
Riv. it. dir. lav., n. 2, 1995.
(8) R. DEL PUNTA, Una piccola storia infinita: il licenziamento delle lavoratrici domestiche in
maternità, in TLG, 1996.
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