Il peso dell`annullamento
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Il peso dell`annullamento
Foto Giovanni Cavulli "Di quel giorno a Stava conservo un ricordo di silenzio, di solitudine e di inadeguatezza" di Mauro Neri S Sarà che vent’anni di storia personale sintetizzano le emozioni e stilizzano i ricordi. Fatto sta che quando ripenso a Stava, a quel drammatico “venerdì di passione” del 19 luglio 1985, ciò che a fatica emerge spontaneo dalla memoria è l’impressione del silenzio. Un grande silenzio nel quale a centinaia, a migliaia gli abitanti di Tesero, i turisti smarriti, gli uomini della protezione civile si muovevano nella piccola valle sommersa di fango, detriti, tronchi d’albero. Un silenzio che, una volta tanto, anche i cronisti e i fotografi accorsi in massa nel cuore spezzato della Val di Fiemme, rispettavano parlando sottovoce e il Trentino Il peso dell'annullamento scattando fotografie con quel pudore e prudenza umana. Arrivai a Stava nel primissimo pomeriggio in compagnia di Gianni Zotta, fotografo di Vita Trentina, il giornale per il quale allora lavoravo. E quel silenzio mi venne incontro non appena, all’ingresso del paese, scesi dall’automobile bloccata dalle forze dell’ordine. In pochi potevano proseguire, e tra questi noi giornalisti. Dopo alcuni minuti persi di vista l’amico Gianni e mi ritrovai inghiottito, da solo, in un vero e proprio baratro psicologico. Non è nemmeno pensabile – e oggi faccio fatica a risentirlo e a riviverlo – il peso dell’impotenza che si prova negli istanti in cui s’incrocia, lungo il sentierino che per un certo tratto costeggia il torrente, un padre dal volto terreo che sussurra i nomi inebetito dei figli sommersi dal fango. Oppure il peso dell’annullamento che si vive in prima persona, quando ci si trova al cospetto di quello che fino a qualche ora prima è stato un bell’albergo, e che adesso è trasformato una spianata di fango grigio e marrone. Oppure, ancora, il peso delle vite interrotte nel mezzo della quotidianità: chi giocava nei prati, chi prendeva il sole sulle sedie a sdraio, chi leggeva o chi discorreva all’ombra dei pini di una Tesero ancora bella, 41 Le bare dei morti ritrovati allineate nella fossa del cimitero di Stava. Foto Gianni Zotta malgrado l’affronto subito. Al pensiero che di tutto ciò avrei, poi, dovuto scrivere per il giornale, una ribellione mi nacque istintiva: quasi una nausea al pensiero che quel che era successo a tutta quella gente – in quelle ore le cifre ballavano all’in su e all’ingiù – solo per una casualità della vita non aveva toccato la mia famiglia. E che avrei 42 potuto scrivere? Quali parole avrei, poi, usato? Che avrei potuto dire delle lacrime che lessi negli occhi dell’allora presidente della Provincia Flavio Mengoni, quando mi confidò: “Io ho visto, con i miei occhi, un uomo che aveva appena riconosciuto i corpi straziati di sua moglie e dei suoi due figli, guardare con odio verso il nostro Arcivescovo che stava entrando proprio in quell’istante nella grande sala-obitorio”. E intanto i volontari, i vigili del fuoco di mezzo Trentino, la gente di Tesero e della Valle di Fiemme scavavano nel fango in silenzio, asciugandosi la fronte sudata con mani ricoperte di fango secco. Assistetti di persona alla scena pietosa del pompiere che con una lancia d’acqua ripuliva i resti di un cadavere, per renderlo poi riconoscibile e identificabile... E quella foto, in tutta la sua asprezza di ultima generosità, finì sbattuta sulla copertina di un famoso settimanale nazionale. “È proprio vero che bisogna raccontare e mostrare ‘tutto’, per amore della verità e della completezza d’informazione? – scrissi la settimana dopo la tragedia, nella rubrica “La lanterna di Diogene” di Vita Trentina, – Oppure ci sono dei limiti etici che i professionisti dei mass media devono sapersi imporre, per non aggiungere ferite a ferite, per non violentare il dolore, per lasciare alla gente uno spazio privato dove spargere private lacrime?”. Quella notte, rientrato a Trento a mezzanotte con gli occhi rossi di pianto inespresso e stanco morto di rabbia impotente, non riuscii a dormire. Fu quello, forse, un solitario atto di compassione nei confronti dei tanti che, in quelle stesse ore, vegliavano i resti dei loro cari avvolti in lenzuola candide. Per quel mio sonno mancato, per quel mio dolore impotente e solitario mi sentii forse un po’ meno giornalista, meno “sulla notizia”, ma senz’altro acquisii quella dose di umanità, quella dolcezza nel trattare (e anche nel leggere) i casi di cronaca nera, quell’attenzione nei confronti delle vittime e dei loro cari, che ancora oggi non mi ha lasciato e alle quali non rinuncerei per nulla al mondo. il Trentino