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Virginia Woolf a scuola di ibridismo:
Laurence Sterne e lo sbeffeggiamento
delle frontiere di genere
Paolo Bugliani
Rev. Sterne e Mr. Shandy, maestri di Vita
«Due rette parallele si incontrano all’infinito». Il quarto postulato
di Euclide ci lascia in eredità un’affermazione che possiede, pur
trattandosi di un corollario scientifico, il fascino distintivo della poesia.
Quasi un haiku, l’assioma, una volta preso in ostaggio dalla critica
letteraria, diventa una perfetta esemplificazione del concetto di
influenza. Esistono infatti casi di autori, generi letterari, singole opere,
movimenti poetici, che pare non condividano nemmeno uno dei loro
aspetti fondamentali, che viaggino appunto su rette parallele. Ma come
i poli nella geografia terrestre si propongono come i luoghi in cui tali
rette idealmente si fondono, anche in letteratura si possono scovare
interstizi dove figure letterarie agli antipodi possono ambire ad una
eucaristia in un sostrato comune. Dopotutto, per non abbandonare
l’ambito geometrico, anche due asintoti indefinitamente corrono verso
un punto di contatto.
Perché mai, allora, vedere in Laurence Sterne e Virginia Woolf due
meri conoscenti, lasciandosi fuorviare dall’apparente inconciliabilità dei
loro stili espressivi? De iure, era la più garrula e chiassosa prosa joyciana
a collegarsi con più facilità al modello sterniano: il (tragi)comico
Leopold Bloom sembra all'istante più somigliante al buon Tristram,
tanto che la più seriosa Clarissa Dalloway, coscienziosamente descritta
Between, vol. VI, n. 12 (Novembre/ November 2016)
Paolo Bugliani, Virginia Woolf a scuola di ibridismo
con una sintassi mai del tutto liberata dai nessi della logica linguistica,
probabilmente non avrebbe gioito nel vederlo arrivare alla sua festa.
Ciononostante, già Forster rimarcava il profondo legame che univa
i due artisti, vista la carica di sommovimento delle forme e di
sbeffeggiamento degli stilemi di cui i due si fecero i portavoce:
She and Sterne are both fantasists. They start with a little object,
take a flutter from it, and settle on it again. They combine a
humorous appreciation of the muddle of life with a keen sense of
its beauty. There is even the same tone in their voices. A rather
deliberate bewilderment, an announcement to all and sundry that
they do not know where they are going. (Forster 1990: 36)
Virginia Woolf si dimostrò essere, nei suoi pronunciamenti di
argomento sterniano, devota ammiratrice e appassionata lettrice del
Rev. Sterne. E non solo delle ‘opinioni’, ma in prima istanza della ‘vita’:
«Certainly, no novelist could wish for a finer material than the life of
Sterne affords him. His story was ‘like a romance’ and his genius was of
the rarest» (Woolf 1958: 168). Il saggio in questione, che in uno
schizofrenico atto di depersonalizzazione porta come titolo
semplicemente “Sterne”, prende le mosse da una riflessione sulla
biografia. Woolf si fa latrice di posizioni contrastati rispetto
all’antisaintebeuvismo di Proust e gli altri. A Tavistock Square,
diversamente che al Ritz, l’autore non aspetta la propria morte, anzi: non
ci si sogna neppure di metterlo momentaneamente da parte al momento
del giudizio dall’opera. In questo senso si deve leggere anche “Sterne
and Eliza”, saggio che nella raccolta segue il precedente: Woolf, colta nel
vortice del suo continuo e assiduo interesse per la biografia, (dettato dal
caso più autolesionista di angoscia dell’influenza del Novecento), nel
ménage Laurence/Eliza non trovava spunto di pettegolezzo, ma la via
maestra per riesumare Mrs. Draper, «an obscure woman, dead almost a
century and a half, whose thirty-five years would have been utterly
forgotten were it not that for three months in one of them she was loved
by Laurence Sterne» (ibid.: 177). Una di quei personaggi marginali, di
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quelle «invisible presences» (2002: 92)1 che in vita abitarono luoghi
liminari della Storia, senza guadagnarsi un posto d’onore, ma che non
meritano certo di essere dimenticati. Woolf sintetizzerà questa sua
particolare visione dell’«écriture de la vie» tra le pagine del New York
Herald Tribune nell’ottobre del 1927, etichettandola appunto “New
Biography” (1958: 149), e facendone la strada maestra per la sua
personale ricerca del tempo perduto, non già un’attività accessoria, ma,
a ben guardare, quasi l’obiettivo primario della sua estetica,
continuamente ‘differito’ dalla composizione di opere romanzesche:
[…] potremmo addirittura affermare che non sapendo scrivere
biografie, autobiografie, nell’attesa di imparare, VW si esercita a
scrivere dei romanzi […] gravidi di elegiache movenze persino
agiografiche, in virtù delle quali le persone reali si mascherano,
vestono e travestono in personaggi di fantasia, con la memoria nei
panni della grande cucitrice, che per infilzare i suoi punti non deve
proprio ricordare, deve semmai lasciare sospesa la gugliata, lento il
filo […]. (Nadia Fusini in Woolf 1998: 1423)
Per Sterne, invece, agiografie mistiche o evocazioni mitologiche
sono da scartare a priori. Semmai, nel Tristram, il lettore si trova ad
essere la spalla di un continuo sbeffeggiamento delle convenzioni della
scrittura memoriale. Il riconoscimento dell'impercorribilità di un
sentiero memoriale che passi per l’affastellamento inequivocabile di dati
e date non ne pregiudica il tentativo, che anzi è una richiesta esplicita
dei lettori, «who find themselves ill at ease, unless they are let into the
La figura degli «oscuri» è legata nella mitologia woolfiana a quella degli
«eccentrici», che trovano nella società il loro posto opponendosi a qualcosa,
come la Duchessa di Newcastle, celebre protagonista di uno dei saggi del
primo Common Reader, che epitomizza quella categoria di persone: «Unable
and unwilling to subscribe to the rules of human society, the eccentrics
represent then for Woolf the intervention of a natural, unfettered form of
identity into a highly codified and regulated world» (Gualtieri 2000: 38), a cui
peraltro apparteneva sia Sterne che lei stessa.
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Paolo Bugliani, Virginia Woolf a scuola di ibridismo
whole secret from first to last» (Sterne 2009: 7). Il narratore sterniano, che
più che con Mnemosine (Woolf 1998: 1423) si ispira al fool
shakespeariano (a Yorick in primis, ma anche al Touchstone che si
paragona a Ovidio nel terzo atto di As You Like it) sa che la sua pulsione
cronachistica è inane, è conscio che il suo racconto tutt’al più
rendiconterà una frazione minima dell’esistenza evenemenziale.
Tristram è molto bendisposto ad accettare la sua condizione ‘postuma’:
«instead of advancing, as a common writer […] on the contrary, I am just
thrown so many volumes back» (Sterne 2009: 228).Nonostante i due vi
arrivino per strade diverse, una leggermente più tragica, tinta di
complessi edipici contro il padre biografo, l’altra più comica,
sbandierata da un personaggio che fa della parodia degli stilemi il suo
tratto distintivo, Sterne e Woolf si possono dire accomunati da una
volontà di ricerca di una scrittura di vita che non sia né magniloquente
celebrazione (alla maniera di Leslie Stephen), né resoconto sentimentale
(come per le eroine di Richardson). Questa pulsione all’imbrigliamento
della «luminous halo», non può che risultare in una nuova tipologia
testuale, fatta di «impure, multilayered and multisourced narratives»
(Lee 2015: 125), che possono essere tenute assieme solamente da un
collante stilistico ben preciso, la prosa.
E se Sterne era «on far more intimate terms with us today than his
great contemporaries the Richardsons and the Fieldings» (Woolf 1932:
81), uno dei motivi risiede proprio nella sua impeccabile maestria nel
piegare la prosa a questi ‘nuovi’ scopi diegetico-biografici. In “The
Sentimental Journey”, ad esempio, parlando del Tristram Shandy, Woolf
lo imbelletta come un’adepta farebbe con il suo idolo d’oro. Idolo a volte
cruento, soprattutto per le delicate orecchie di Mrs. Woolf, che rimarca
infatti: «[n]o young writer could have dared to take such liberties with
grammar and syntax and sense and propriety and the longstanding
tradition of how a novel should be written» (ibid.: 78). Ma è proprio
questo prototipo di prosa, così sfrenata e dissacrante, a possedere una
caratteristica quasi magica, ancora una volta legata alla Vita: «Under the
influence of this extraordinary style the book becomes semi-transparent.
The usual ceremonies and conventions which keep reader and writer at
arm’s length disappear. We are as close to life as we can be» (ibid.: 79).
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«Semi-transparent», esattamente come la Vita che Woolf descrisse nella
famosa definizione in “Modern Fiction”, che in effetti si configura come
punto di partenza di qualsiasi opera letteraria, poiché essa è la materia
prima su cui la letteratura può trovare lo spazio di fiorire, e che deve
essere resa ‘passando dall’interno’: «The privileging of internal, private,
and evanescent impressions over the external, public and regulated
markers is her cardinal principle for writing lives, or for writing ‘life’»
(Saunders 2010: 441).
Non abbandonare nulla, e fagocitare tutto: ecco il primo stadio: ma
cosa avviene dopo? Ciò che avviene, per dirla con Barthes, è solo la
‘poesia’. E Woolf la rintraccia nel Sentimental Journey senza apparenti
difficoltà; citando quasi a caso un brano, lo commenta in questo modo:
There are many passages of such pure poetry in Sterne. One can
cut them out and read them apart from the text, and yet — for
Sterne was a master of the art of contrast — they lie harmoniously
side by side on the printed page. His freshness, his buoyancy, his
perpetual power to surprise and startle are the result of these
contrasts. He leads us to the very brink of some deep precipice of
the soul; we snatch one short glance into its depths; next moment,
we are whisked round to look at the green pastures glowing on the
other side. (Woolf 1932: 84)
Nella più esibita asserzione di quanto l’opera di Sterne rappresenti
un modello per la letteratura moderna ci si imbatte, quasi en passant, nel
saggio “The Narrow Bridge of Art”, dove Sterne e la sua prosa infarcita
di purple patches2 diventano virtuosi prototipi verso cui tendere:
It is a book full of poetry, but we never notice it; it is a book
stained deep purple, which is yet never patchy. Here though the
I «purple patches» cui fa riferimento Woolf non erano altro che i
passaggi ‘letterari’ che venivano aggiunti per nobilitare le opere in prosa. Il
sintagma è dovuto ad una traduzione oraziana nientemeno che della regina
Elisabetta Tudor (Pemberton 1899).
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Paolo Bugliani, Virginia Woolf a scuola di ibridismo
mood is changing always, there is no jerk, no jolt in that change to
waken us from the depths of consent and belief. (Woolf 1958: 21)
Woolf, tornata ad infierire sui suoi predecessori, chiama in causa
Sterne in merito al concetto di ‘poesia’. Aleatorio e sfuggevole tassello
della sua estetica, ‘poesia’ diventa quasi un sinonimo di letterarietà.
L’immagine è quasi shelleyana, e parte dalla confutazione di quel
triviale e grossolano errore di valutazione che equipara poesia e verso.
È l’età moderna a fornire altri e assai più icastici esempi
dell’obsolescenza di tale equazione: la quantità incredibile di
avvenimenti, scoperte, vicissitudini e tragedie aveva difatti reso, se non
impraticabile, almeno inconsueto il sentiero della lirica tradizionale, con
le sue costrizioni e regole formali, bizzarri e «stretti coturni», resi
obbligatori da Théophile Gautier, ma che l’Età dell’ansia aveva in fretta
liquidato, preferendo alle costrizioni metriche la libertà e la vaghezza di
poemi in prosa, versi liberi e altre forme di sperimentazione che si
rifacevano ad un ritmo più viscerale, e meno artefatto:
The mind is full of monstrous, hybrid, unmanageable emotions.
That the age of the earth is 3,000,000,000 years; that human life lasts
but a second; that the capacity of the human mind is nevertheless
boundless; that life is infinitely beautiful yet repulsive; that one's
fellow creatures are adorable but disgusting; that science and
religion have between them destroyed belief; that all bonds of
union seem broken, yet some control must exist—it is in this
atmosphere of doubt and conflict that writers have now to create,
and the fine fabric of a lyric is no more fitted to contain this point of
view than a rose leaf to envelop the rugged immensity of a rock.
(Woolf 1958: 12)
Proprio questo «mostruoso ibridismo» permette di capire come la
‘Poesia’ debba liberarsi dal giogo della lirica, da quel residuale apparato
di regole e costrizioni che erano il verso, la rima, la quantità e la cadenza.
E quale miglior nuovo lido in cui approdare se non il reame della prosa?
Ed era proprio in questo che Sterne, secondo Woolf, riusciva a dare il
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meglio di sé: unire il resoconto di una vita, che, almeno idealmente, ha
necessità di essere resa secondo gli stilemi di un discorso che segue i
segnaposti di una narrazione, ossia all’armamentario da viaggio e da
esplorazione che fornisce il reame sconfinato e onnicomprensivo della
prosa; e la summa caotica delle opinioni, che data la loro natura
vorticosa chiamerebbero a sé gli artifici propri di una fucina poetica.
L’innegabile marca poetica del dettato Sterniano è visibile nel «diverso
atteggiamento mentale ed emozionale che si traduce in un ritmo
inatteso, particolarmente agile e leggero, che ogni volta prelude a un
cambio scenico e prospettico» (Laudando 2012: 73); in altre parole, egli
è maestro delle alternanze stilistiche, di quella «poetry changing easily
and naturally into prose, prose into poetry» (Woolf 1958, 21).
Sterne quindi contribuisce a smantellare le convenzioni che
separano i compartimenti a chiusura stagna entro cui relegare le opere
letterarie, in altre parole «smaschera un flirt tra prorsus e versus che il
romanzo ha tentato di proscrivere» (Ginsburg e Nandrea 2003, 99). Se
questo specifico esempio dello Sterne mescidatore di stilemi porta con
sé l’energia della farsa, del florilegio stilistico che suscita il riso nel lettore
che si trova ogni volta di fronte a bizzarrie esilaranti, Woolf ne coglierà
l’esempio facendo propria una ben diversa declinazione del comico,
un’idea più auerbachiana che affonda la propria carica sovvertitrice a
livello formale, anziché contenutistico. Un ulteriore passo per nobilitare
quell’arte che, giusto nel circolo ristretto di Virginia, era considerata
ancora in un certo senso secondaria rispetto alle arti visive e che perciò
Virginia aveva tutto l’interesse a schermare con progenitori illustri, per
ovviare alla duplice minaccia della supremazia del visuale, «not only
because this was the art Woolf herself practised, but also because it
devalued her talent in relation to Vanessa’s» (Briggs 2006: 97). Se Sterne
aiuta Virginia a trovare una ‘modello di vita’ alternativo a quello
paterno, egli propone anche, con la sua prosa, un’alternativa prosaica
con cui competere con la sorella.
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Paolo Bugliani, Virginia Woolf a scuola di ibridismo
L’immaginario prosaico
Sterne come poeta in prosa, quindi. Ma anche Sterne come poeta
tout court. Poeta come poetessa a pieno titolo fu Woolf. Per avallare
questa visione bisogna necessariamente archiviare l’idea vulgata del
grande poeta in prima istanza versificatore, eredità di un passato epico
ormai rubricato e disposto su uno scaffale, per quanto prestigioso. Lo
scrivere in versi non è minimamente conditio sine qua non del
conferimento del titolo di poeta, e il modernismo in particolare aveva
elaborato una ben diversa concezione di quale fosse «lo bello stilo che fa
onore». E l’aveva capito perfettamente già nel 1937 Richard Church,
recensore di The Years, che sottolineava quanto in esso non esistesse una
sola frase che non fosse saldamente ancorata all’organismo principale
del romanzo, quell’entità letteraria, quell’unicum pulsante di vita che
viene ad accogliere su di sé tutti i fili di immagini, suggestioni, emozioni,
pensieri e fatti che l’autrice decide di narrare. Idea questa che rimanda
all’organicismo lirico romantico, che in Woolf assume un taglio
nettamente psicologico, tanto costante e dettagliata è la pittura della
coscienza che emerge dalle sue pagine.
L’età moderna in cui Woolf scrive e di cui cerca di fornire un
affresco, è passata alla storia come epoca ‘oggettiva’; che, in risposta alle
mostruosità della civilizzazione e della rapida crescita materiale, aveva
innescato un processo di depersonalizzazione, di de-umanizzazione;
che si era votata a un convinto rifiuto del côté personale e intimistico.
Schemi metrici rigidi e trame di figure retoriche, quei parafernalia
stilistici di norma accompagnanti l’espressione lirica, perdevano perciò
qualsiasi obbligatorietà. Considerati inadeguati alla descrizione del
mondo esterno, il polo del reale, essi sembravano ancor meno spendibili
per l’affresco dell’interiorità psicologica, del polo intimistico. La vita,
quell’alone iridescente, quella «semi-transparent envelope» (Woolf
1925: 61), quella tempesta di immagini in vorticoso e incessante
movimento, raggiunge in maniera assai più icastica i lettori passando
per la mondana e corporea prosa:
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Then it is not the actual sight or sound itself that matters, but the
reverberations that it makes as it travels through our minds. These
are often to be found far away, strangely transformed; but it is only
by gathering up and putting together these echoes and fragments
that we arrive at the true nature of our experience. So thinking, he
altered slightly the ordinary relationships. He shifted the values of
familiar things. And this he did in prose, which makes us wonder
whether, then, it is quite so limited as the critics say, and ask further
whether the prose writer, the novelist, might not capture fuller and
finer truths than are now his aim if he ventured into those shadowy
regions where De Quincey has been before him. (1958: 40)
De Quincey, come Sterne, è quindi un poeta, e Woolf giustifica tale
attribuzione in maniera così lineare da apparire ingenua: «He wrote
poetry […]; but even so he decided that he was no poet, and the sixteen
volumes of his collected works are written entirely in prose» (ibid.: 32).
Al prosatore spetta il compito di celebrare la vita, di riproporre nelle sue
pagine fittamente riempite la «incessant shower of innumerable atoms»
(1925: 61), e la prosa sembra più adatta del verso a tale bisogna.
Forse però il passo più esplicativo della visione della scrittrice va
rintracciato nella più famosa delle sue effemeridi, redatta per il
compleanno di quel tanto ingombrante padre3 che nel 1928 avrebbe
compiuto 96 anni, quell’ eminente vittoriano la cui sopravvivenza
avrebbe senza dubbio soffocato la vocazione letteraria della figlia («No
writings, no books» afferma perentoriamente senza lasciare il minimo
spazio al ricordo del genitore nel giorno del suo genetliaco (1953: 138)):
The idea has come to me that what I want now to do is to saturate
every atom. I mean to eliminate all waste, deadness, superfluity: to
give the moment whole; whatever it includes. Say that moment is a
Come giustamente sintetizza una recente ricognizione sui rapporti
Sterne-Woolf: «Woolf’s intellectual as much as her biological connection with
her father is an undeniable, and above all potentially instructive means of
understanding the roots of her emergence as both reader and writer, and how
she established her independence in both roles» (Newbould 2010: 74)
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combination of thought; sensation; the voice of the sea. Waste,
deadness, come from the inclusion of things that don't belong to the
moment; this appalling narrative business of the realist: getting on
from lunch to dinner: it is false, unreal, merely conventional. Why
admit anything to literature that is not poetry—by which I mean
saturated? Is that not my grudge against novelists? that they select
nothing? The poets succeeding by simplifying: practically
everything is left out. I want to put practically everything in: yet to
saturate. That is what I want to do in The Moths. It must include
nonsense, fact, sordidity: but made transparent. (1953: 138-139)
Selezionare, tagliare, eliminare. Ma ciò non implica ad ogni costo la
ricerca di una feroce brevitas: il processo invocato è la saturazione, non
la scorciatura. Questo termine, che sembrerebbe legato alla ben più
nobile arte satiresca, deriva in realtà dall’avverbio latino satis,
abbastanza. Quasi un monito alla moderazione che in Woolf, al contrario
diventa invito all’eccedenza, all’esagerazione, alla luculliana gonfiatura
del materiale che forma le nostre esistenze (tanto per forzare un
collegamento con la satura lanx). «Saturare ogni atomo» implica
l’induzione di una dilatazione dei materiali che non significa né sterile
accumulo di dettagli, né dovizia di particolari descrittivi fine a se stessa
(cfr. Benzel 2004: 159). Gonfiare atomi per Woolf significa, assai
tacitianamente, far entrare nella maggior concentrazione di vita minor
spazio possibile. Il suo rancore contro i romanzieri edoardiani era difatti
provocato dalla loro palese incapacità di mettere in risalto
l’imprescindibile e il fondamentale, e di farlo con il minor sperpero
linguistico. Saturazione, economia, essenzialità, il tutto mischiato a una
pervasiva qualità visionaria e ad una sensibilità che trovano in Sterne il
campione perfetto:
Instead of enumerating details he will mould blocks. His
characters thus will have a dramatic power which the minutely
realized characters of contemporary fiction often sacrifice in the
interests of psychology. And then, though this is scarcely visible, so
far distant it lies on the rim of the horizon—one can imagine that he
will have extended the scope of his interest so as to dramatize some
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of those influences which play so large a part in life, yet have so far
escaped the novelist—the power of music, the stimulus of sight, the
effect on us of the shape of trees or the play of colour, the emotions
bred in us by crowds, the obscure terrors and hatreds which come
so irrationally in certain places or from certain people, the delight
of movement, the intoxication of wine. […]. Life is always and
inevitably much richer than we who try to express it. (1958: 22-23).
Woolf è molto esplicita: controllo del materiale, efficacia
drammatica, caratterizzazione minuta dei personaggi, che sono qualità
che normalmente si esige di trovare in qualsiasi romanzo, marcati stretti
da una cura per il musicale, il visivo, lo psicologico, il cinetico,
l’inebriante coacervo di effetti e impressioni che il mondo in maniera
assai poco mediata cerca di imprimere sulla human consciousness. Molto
importante è il ricorso al verbo to mould: Sterne non si perde in cataloghi
descrittivi, ma si sporca le mani di creta primordiale per dare forma
letteraria alla vita, al pari di Woolf, che infatti si accoccola al fianco del
predecessore con una mossa di fratellanza che il «we who try to express
it» rende in maniera sottilmente affettuosa. «Mould» ha una doppia
etimologia, collegata da un riferimento all’arte di dar forma all’informe
tanto religiosamente e mitologicamente connotata da apparire banale: se
l’antico inglese molde stava per sabbia, terra, e per estensione quindi
creta, la linea di discendenza era germanica, come il referente essenziale
e generico suggerisce. D’altro canto, il lemma antico francese modle
deriva da un più raffinato latino modulus, ricavato da un’affissazione
diminutiva al più generale e serioso modus. Oggetto (argilla) e azione
(modellare). La stessa area semantica che ritroviamo in un’ennesima
citazione woolfiana a proposito della prosa, stavolta non riferita a
Sterne, ma ad un saggista che la scrittrice amava tantissimo, il medico
seicentesco scandagliatore dell’interiorità religiosa Sir Thomas Browne:
In short Sir Thomas Browne brings in the whole question, which
is afterwards to become of such importance, of knowing one’s
author. Somewhere, everywhere, now hidden, now apparent in
what ever is written down is the form of a human being. If we seek
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Paolo Bugliani, Virginia Woolf a scuola di ibridismo
to know him, are we idly occupied, […] The poet gives us the
essence, but prose takes the mould of the body and mind entire.
(1950: 161)
Il prosatore come figulo, il poeta come vate. Fin qua nulla sembra
discostarsi dai clichés tradizionali. Ma considerando quanto di Browne
emerge dalla prosa, quanto la forma di questo essere umano diventi
visibile seguendo il filo del suo discorrere tra le pagine della Religio
Medici o dell’Urne-Buriall, egli diede un’ulteriore gomitata
all’impersonalità letteraria dei greci e dei latini, impersonalità che, pace
T. S. Eliot, non figura in nessun luogo dell’estetica woolfiana. Volendo
cantare il peana della vita, non si può prescindere dal soggetto. Le
Opinions non si possono, né tantomeno si vogliono, affrancare dalla Life.
Rubriche, pastiches, ibridi
Le alternanze tra prosa e poesia che Woolf scova in Sterne non sono
altro che incessanti e ipnotiche oscillazioni fra fazioni in apparenza non
prone alla fusione, ma che in sostanza si mescolano incessantemente tra
loro, generando pastiches di stilemi, motivi, suggestioni e figure, in
ossequio ad una peculiare versione della Stilmischung auerbachiana che
mira, in primo luogo, a un effetto straniante che esacerba un’ironia
metaletteraria che si gioca sul delicato equilibrio delle forme.
Più che con Auerbach, però, tutta la carica dissacrante e
sogghignante che giace alla base delle operazioni woolfiane, inspirate
dall’esempio sterninano, possono essere esemplificate teoricamente con
un riferimento al concetto di ibrido. Parola dall’etimo opinabile, da alcuni
associata con mossa ardita a una maldestra traslitterazione di hybris,
possiede una natura fin troppo disponibile e remissiva alla polisemia:
troviamo infatti ibridi nella giungla, in una fabbrica Volkswagen, nei
libri di Tolkien e nei laboratori farmaceutici. Il termine, già ai tempi di
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Darwin4, poteva vantare una storia ben più che millenaria. L’ibrido, il
‘mezzosangue’, l’animale frutto di illeciti e innaturali accoppiamenti che
sfidano l’endogamia, è affronto alla creazione divina allo stesso modo in
cui gli scritti, di Sterne e Woolf come di molti altri, sono affronti
all’immagine tradizionale del poeta demiurgo e alle rigide regole con cui
esso produce poesia. Di queste riflessioni etimologiche ciò che colpisce
è la connotazione negativa, che permane fino a tutto il secolo scorso,
periodo in cui gradualmente l’accoppiamento ‘intragenerico’ diventa
tanto frequente (in letteratura) da trasformarsi in marca di grandezza.
La stessa Woolf, come una rapida ricognizione delle occorrenze del
lemma hybrid nei suoi saggi maggiori dimostra, usa il termine
calcandone la sfumatura di attributo proprio di entità mostruose. E ciò
non deve stupire, visto e considerato che Darwin stesso ricorre nella sua
corrispondenza privata al termine in maniera non dissimile da quella
sospettosa di Woolf, sebbene velata di una ironica nota di affettuosa
bonomia per il collega e sostenitore Asa Gray:
You will be weary of my praise, but it does strike me as quite
admirably argued, and so well and pleasantly written. Your many
metaphors are inimitably good. I said in a former letter that you
were a lawyer, but I made a gross mistake, I am sure that you are a
poet. No, by Jove, I will tell you what you are, a hybrid, a complex
cross of lawyer, poet, naturalist and theologian! Was there ever
such a monster seen before?5
Andare a zonzo per i luoghi di frontiera non è mai sicuro, ma è
spesso foriero di capolavori: prosa e verso, romanzo e biografia, visivo
e uditivo, pittoresco e grottesco: le antitesi così sapientemente mescidate
Le cui teorie Virginia conosceva bene, fin dalla prima infanzia, visto il
fermento culturale e scientifico che notoriamente animava casa Stephen (Alt
2010: 29-37).
5 Lettera a Asa Gray, 10.09.1860, in Darwin, Life and Letters, Vol. II,
http://darwinonline.org.uk/content/frameset?itemID=F1452.2&viewtype=text
&pageseq=1.
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da Woolf potrebbero riempire un manuale di teoria letteraria: «Always
interested in multiple voices, in hybridity, […] Woolf clearly resists
simplistic dichotomies of good and evil» (Allen 2010: 111). Il passo
ulteriore di Woolf sta nel riflettere su questa abitudine. Per capire come
dobbiamo leggere un libro dobbiamo infatti chiederci semplicemente su
cosa vogliamo rivolgere la nostra profana fame di lettura. Per non
sperperare le nostre energie dobbiamo forse affidarci completamente e
unicamente a etichette preconfezionate?
If we could banish all such preconceptions when we read, that
would be an admirable beginning. Do not dictate to your author;
try to become him. Be his fellow-worker and accomplice. […]
Perhaps the quickest way to understand the elements of what a
novelist is doing is not to read, but to write; to make your own
experiment with the dangers and difficulties of words. (Woolf 1932:
46)
Allontanarsi dalle rubriche e fuggire addirittura la lettura,
diventare colleghi dell’autore. Tali gesti, che potevano sembrare arditi,
erano in realtà già ricoperti da strati di polvere: ed è ancora una volta il
beffardo Tristram a farsi latore di un’analoga posizione, che descrive la
‘Conoscenza’ come un’entità mai completamente raggiungibile, visto
che ai «fellow-labourers and associates in this great harvest» (Sterne
2009: 45) tocca di continuo ricominciare da capo, dato che una volta
raggiunta la climax, la conoscenza quasi si annulla, e il cerchio non si
chiude. Lettori costantemente stuzzicati, redarguiti, interpellati,
martoriati quasi, ma in ultima analisi intrattenuti con ciò che di meglio
la mente umana può produrre. E tra i frutti migliori vi è senza dubbio la
rapsodia di avvenimenti e pensieri che fanno del Tristram Shandy un
capolavoro della letteratura mondiale, in cui il dialogo con i fruitori
dell’opera si erge a «pinnacolo più ardito dell’arte sterniana» (Laudando
2012: 77). Lettori la cui scomparsa può mutare tutto: come muta difatti
il tono delle riflessioni fino ad ora analizzate quando Woolf decide di
affidarle non più al ‘pubblico’, ma all’intimità del diario, mormorato tra
sé in una cella monacale che accoglie lo scrittore in raccoglimento. Se nei
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Between, vol. VI, n. 12 (Novembre/November 2016)
saggi l’avvicendamento e l’alchimia sottile tra prosa e poesia è sviscerata
con il cipiglio sicuro e rassicurante della critica letteraria di professione,
nei diari una Woolf più rilassata e a tratti titubante confida le sue
personali incertezze nel relegare le proprie opere entro horti troppo
conclusi:
But while I try to write, I am making up To the Lighthouse – the
sea is to be heard all through it. I have an idea that I will invent a
new name for my books to supplant “novel”. A new —— by
Virginia Woolf. But what? Elegy? (Woolf 1953: 79)
Un eloquente blank tipografico in attesa di un conio neologistico, di
una provvidenziale etichetta che sostituisca il troppo scontato novel, di
una mossa definitoria che tenterebbe di imporre stabilità e inflessibilità
a quell’ipnotico moto delle onde il cui trasferimento sulla carta è
l’apprensione letteraria più assillante della scrittrice. Affascinante,
finanche avvincente, il fatto che la scrittrice menzioni giusto l’elegia,
avvalorando la simmetria che lega di continuo i due poli della contesa.
Un’altra occorrenza in cui la scrittrice descrive questa speciale ‘recidiva
poetica’ della prosa precede di quasi un anno esatto il commento
precedente, e recita:
What was I going to say? Something about the violent moods of
my soul. How describe them, even with a waking mind? I think I
grow more & more poetic. Perhaps I restrained it, & now, like a
plant in a pot, it begins to crack the earthenware. Often I feel the
different aspects of life bursting my mind asunder. (1977: 304)
«I grow more & more poetic» ben si confà all’immagine della
scrittrice alle prese con quello che potrebbe essere definito il parto della
sua Waste Land, la produzione del suo personale contributo a posteriori
a quel famigerato annus mirabilis 1922, tributo fattosi donna flâneuse a
zonzo per la metropoli divisa tra un’icastica bellezza che si imprime
indelebile nelle nostre menti, e una degradazione che ci fa temere per
l’integrità psichica dopo la lettura. Ma nel 1924 Woolf è ugualmente
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Paolo Bugliani, Virginia Woolf a scuola di ibridismo
assorbita nella raccolta e collazione del suo vademecum critico del
lettore comune, tra cui il già ricordato saggio “The Sentimental
Journey”. La mancanza di parole, il vuoto definitorio, la (voluta?)
incapacità di fissare un termine univoco per ciò che stava producendo
riappare (in armonia con un commento sulla poesia), tre anni dopo, con
una evocativa e senza alcun dubbio poetica enumerazione di immagini
che sfocia nella logica della ‘letteratura che va a capo’:
Why not invent a new kind of play; as for instance:
Woman thinks …
He does.
Organ plays.
She writes.
They say:
She sings.
Night speaks
They miss
I think it must be something on this line—though I can't now see
what. Away from facts; free; yet concentrated; prose yet poetry; a
novel and a play. (1953: 139)
In un sublime gioco di rifrazioni simmetriche, questo elenco
include diadi ataviche ma sempre proposte in chiave sommamente
originale: il femminino staticamente intento alla riflessione intellettuale,
il mascolino che invece ‘fa’, agisce, mette in moto le cose (il servile «to
do» è in realtà forse il più passivo dei verbi inglesi, ma tant’è). L’orecchio
che è intrattenuto dal solenne organo suonato da adepti alla religione
dell’arte e l’occhio che segue la linea corvina dei pensieri su una pagina;
il vociare del chiacchiericcio da strada e il canto di una femminile sirena
ammaliatrice; la nature della notte cui l’espediente della pathetic fallacy
dona parola e la nurture di un consesso di persone che «mancano
qualcosa», quindi commettono o un’infrazione a un canone oppure
un’omissione a un credo. Ecco che una nota scarabocchiata da una
scrittrice reduce dalla stesura di un capolavoro, ci permette di
avvicinarci, grazie alla mescolanza della poesia del mare e alla magia
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Between, vol. VI, n. 12 (Novembre/November 2016)
della parola scritta, al nostro essere più pieno e completo. Che ci
permette di intravedere quella verità nascosta dietro la volgarità di ogni
giorno e che in tutti i modi cerca di emergere dalle pagine, fosse anche
in meri skecthes diaristici.
La stessa verità la cui ricerca viene allegorizzata da Sterne nel
Racconto di Slawkenbergius. La fabella è un’epitome di opposizioni:
«Nosarians» contro «Antinosarians», Cattolici e Luterani, trombettieri e
borgomastri (con relative consorti), ma anche e soprattutto, tanto per
cambiare, poesia e prosa. Sterne è veloce nel liquidare la questione:
Diego sta leggendo una missiva dell’amata, che la sventurata non era
stata in grado di concludere, con una significativa lacuna, e ne viene così
profondamente commosso da dover di getto esprimere i suoi sentimenti
più autentici e impetuosi tramite le regole formali dell’ode:
The heart of the courteous Diego overflowed as he read the
letter—he ordered his mule forthwith and Fernandez's horse to be
saddled; and as no vent in prose is equal to that of poetry in such
conflicts—chance, which as often directs us to remedies as to
diseases, having thrown a piece of charcoal into the window—
Diego availed himself of it, and whilst the ostler was getting ready
his mule, he eased his mind against the wall as follows. (Sterne
2009: 228)
Segue una assai poco brillante collazione di versi. L’aspetto centrale
è la nota metaletteraria che precede questa vittoria del verso sulla prosa
quando in ballo c’è la pura espressione delle emozioni: poesia e prosa
nel Tristram Shandy interagiscono «l’una contro l’altra armate» sempre
per mano di Slawkenbergius. Mentre racconta la sua vicenda,
Slawkenbergius si abbandona a verbose riflessioni argomentative, e
poco prima del passaggio sopracitato rivendica il merito, quasi
accalorandosi, della convinta e orgogliosa ‘mescidanza’ che egli ha
saputo generare tra narrativa e dramma:
Haste we now toward the catastrophe of my tale – I say
Catastrophe (cries Slawkenbergius) inasmuch a tale, with parts
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Paolo Bugliani, Virginia Woolf a scuola di ibridismo
rightly disposed, not only rejoiceth (gaudet) in the Catastrophe and
Peripeitia of a Drama but rejoiceth moreover in all the essential and
integrant parts of it – it has the Protasis, Epitasis, Catastasis, its
Catastrophe or Peripeitia growing one out of the other in it, in the
order Aristotle first planted them – without which a tale had better
never be told at all, says Slawkenbergius, but be kept to a man’s
self. (Sterne 2009: 228)
Il racconto delle opposizioni si conclude, molto ironicamente, con
quella nota canzonatoria e parodistica che solo l’inventore dello
Shandeism è capace di allegare alla prosa, con una rivendicazione del
diritto di ognuno alla commistione dei registri. Come del resto forse uno
dei critici più sensibili alla delicata e al contempo implacabile dialettica
delle alternanze stilistiche in Sterne rimarcava due decadi orsono:
l’opera d’arte «come organismo unitario, rigoroso nella distribuzione
dei volumi architettonici» (Mazzacurati 1990: 9) rimanda a una visione
dicotomica della letteratura, scissa tra ‘bellettristico’ e ‘organicistico’.
Disomogeneità netta che nel registro comico si fa meno netta, proprio
perché esso accoglie l’ibridismo senza preoccuparsi troppo di sistemi o
simmetrie, abbandonando sia la «purezza biologica delle forme», che il
«movimento imprevedibile della vita» (ibid.: 10).
La conclusione a questo percorso tra vita, prosa e contaminazioni
viene dalla penna di Karen Brennan, scrittrice creativa e
contemporaneamente emerita all’Università dello Utah: una riflessione
rilassata e assai poco accademica, che ha il merito di coniugare una
sapiente preparazione critica a una spiccata prestanza creativa.
Thus what we call “hybrid” writing or writing that merges
genres or steals a thing to use elsewhere with another (mixing and
matching, collaging, assembling) – poetry with prose, fiction with
nonfiction & all permutations in between & beyond, including
literary criticism with poetry or history […] & as for our Greek
referents, forget the Centaur & the mermaid, lovely as they are,
perfect as they may be for our present discussion. I would rather
resurrect the Hydra, a slippery metaphor for the trouble we make,
we hybriders. (Singer and Walker 2012: 59)
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Between, vol. VI, n. 12 (Novembre/November 2016)
Quasi un manifesto, quasi una sprezzante rivendicazione di
ribellione alle scatole chiuse: e, molto pittorescamente, la proposta di
una nuova etimologia per il termine. Questo sanno fare così abilmente
gli ‘ibridatori’.
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Between, vol. VI, n. 12 (Novembre/November 2016)
L’autore
Paolo Bugliani
Paolo Bugliani è dottorando presso il dipartimento di Filologia,
Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa, dove sta concludendo
una tesi sul saggista romantico Charles Lamb. La ricerca in tale direzione
l’ha portato a effettuare delle incursioni nel saggismo modernista
(Virginia Woolf e l’ibridazione dei confini tra i generi letterari) e
contemporaneo (Jonathan Franzen e il life-writing). Ha recentemente
pubblicato l’articolo sul saggismo woolfiano “La «speciale
provvidenza» nella caduta di una falena: ibridismi woolfiani tra saggio
e short story” (Ticontre. Teoria Testo Traduzione, V, 2016: 43–66).
Email: [email protected]
L’articolo
Data invio: 15/05/2016
Data accettazione: 30/09/2016
Data pubblicazione: 30/11/2016
Come citare questo articolo
Bugliani, Paolo, “Virginia Woolf a scuola di ibridismo: Laurence Sterne
e lo sbeffeggiamento delle frontiere di genere”, Chi ride ultimo. Parodia
satira umorismi, Eds. E. Abignente, F. Cattani, F. de Cristofaro, G. Maffei,
U. M. Olivieri, Between, VI.12 (2016), http://www.Between-journal.it/
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