I luoghi della fede Una società che si dica civile deve

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I luoghi della fede Una società che si dica civile deve
I luoghi della fede
(Giuliano Zatti)
Una società che si dica civile deve responsabilmente assumersi la religiosità dei cittadini,
in quanto ogni persona ha diritto alla libertà religiosa. Questa considerazione è propria
anche di uno Stato che si qualifichi “laico” (non laicista) nel senso forte del termine. La
proclamazione di principio della libertà religiosa, però, deve essere seguita dalla concreta
possibilità di un credente di avvalersi di spazi, luoghi, ritualità, stampa, associazionismo e
quant’altro, sebbene dentro il quadro della Costituzione e delle leggi dello Stato.
Nel caso specifico, la fattibilità degli spazi concessi ad esponenti di una religione (o delle
confessioni non-cattoliche, che a Padova e nel nord est – non dimentichiamolo –
rappresentano ancora la maggioranza degli stranieri) non va concessa sull’onda
dell’emotività, della paura, del buonismo, del calcolo politico e neppure in nome di una
ingenua equivalenza delle religioni (di fatto ridotte a insignificanza): una Amministrazione
deve semplicemente garantire il rispetto dei diritti della persona, tra cui quello di
esercitare la propria fede, usufruendo anche di spazi e forme adeguate. Talvolta una
risposta data a tempo opportuno, senza aggiustamenti progressivi, può evitare tensioni e
contrapposizioni frontali.
Entrando nel merito della “questione musulmana”, non si può dire “no”
aprioristicamente alla richiesta di un luogo di preghiera: vogliamo ribadire che ogni
religione, nel rispetto del principio di legalità, delle esigenze dell’ordine pubblico e
dell’applicazione concreta del principio di reciprocità, ha il diritto di esprimersi
pubblicamente e di avere adeguati luoghi di culto. Tuttavia non è nemmeno corretto che
in forma semplicistica si provveda a dare seguito ad una richiesta simile, qualora
non fossero tenuti in considerazione alcuni aspetti della questione. Facciamo qualche
esempio.
•
L’islam va pensato come un fatto globale, non omogeneo e non sempre sostenuto
da figure idonee e rappresentative. È quindi importante allargare la base degli
interlocutori musulmani, valorizzando anche il volto di quanti vivono la ferialità di
una presenza silenziosa e, in ogni caso, di quanti sono disponibili ad una vera
integrazione. I musulmani d’Italia avanzano le loro pretese, forti dell’esperienza
acquisita dall’islam europeo, ma vi è il rischio di dare spazio soltanto a posizioni che
mettono in dubbio la compatibilità tra l’islam e la cultura italiana e che non nascono
dal confronto tra le varie anime della comunità islamica. Quale garanzia offrono le
figure che cercano una loro rappresentanza pubblica davanti allo Stato e al
mondo ecclesiale? Quale dibattito esiste o va promosso all’interno delle
comunità musulmane di emigrazione, i cui diritti importanti diventano tali per
maturazione interna e non solo per concessione legislativa? Ecco alcune
priorità del tempo attuale.
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Le risposte positive dell’Amministrazione civile o della comunità ecclesiale devono
in ogni caso pretendere che non vi sia nessuna forma di ripiegamento
comunitario da parte dei musulmani: atteggiamento, questo, dovuto ad una
modalità di porsi tipica dell’islam e sostenuta con forza da alcuni che vorrebbero
una strategia di affermazione identitaria della propria differenza, in antagonismo
con il complesso della società civile. Il realismo e la dignità del dibattito esigono la
chiarezza reciproca, compatibilmente con il quadro normativo esistente e i criteri
1
fondamentali del diritto, unita ad una esigente educazione comune al senso civile,
alla partecipazione e all’integrazione possibile.
•
Alcuni criteri. Quando si discute sui luoghi di culto musulmani, «non è in gioco
anzitutto la libertà di culto (…) ma è necessario che vengano preventivamente
chiariti alcuni aspetti rivelatori degli orientamenti che le richieste hanno in animo di
seguire. Deve essere ben identificabile, ad esempio, l’identità giuridica dell’ente
proprietario del terreno e dell’edificio, si deve sapere da dove provengono i
finanziamenti necessari, chi garantisce il mantenimento e la gestione del luogo,
quali le attività che si intendono svolgere. È fondamentale conoscere inoltre chi
sceglie l’imam, in base a quali criteri viene selezionato, quale la sua preparazione
teologica, quale il suo grado di conoscenza sia della lingua italiana, sia dei princìpi
che sono a fondamento della convivenza nel nostro paese. Il tutto all’insegna della
massima trasparenza, sia per offrire tutte le rassicurazioni del caso alle autorità
locali, sia per garantire i fedeli musulmani che chiedono un luogo in cui pregare e
desiderano vivere in pace e non essere oggetto di pregiudizi e sospetti (…). Anche
la scelta del luogo e le dimensioni della moschea sono aspetti da tenere in
considerazione ai fini della decisione da prendere. Se lo scopo è la convivenza
armonica con il territorio e una reale integrazione (piuttosto che l’affermazione
autoreferenziale di una presenza), è necessario che l’area non venga snaturata,
che la popolazione locale sia consultata e che le sue valutazioni siano tenute nella
dovuta considerazione dalle autorità».1
•
Riguardo ai responsabili e alla comunità di Via Anelli formuliamo alcuni
auspici. Il tentativo di aprirsi alla città, al dialogo interculturale e interreligioso, così
come dichiarato alla stampa locale,2 esige un confronto a tutto campo anche con il
mondo ecclesiale e con le responsabilità che vengono dal definirsi credenti in un
contesto, come l’attuale, caratterizzato da tante sfide. Il modo di proporre se stessi
in quanto credenti (e questo significa parlare di “moschea”) rende inevitabile la
cooperazione tra fedi diverse, l’impegno sincero e continuo a favore del bene
comune, la qualità del modo di proporre la personale visione di Dio e i
comportamenti che ne conseguono. Non da ultimo, potremmo chiedere alla
comunità di Via Anelli un dialogo “interno” alle diverse componenti musulmane sul
territorio, in primo luogo con quella che si riferisce alla “moschea” di Via
Pontevigodarzere, in Padova.
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All’Amministrazione civile si potrebbe chiedere il recupero di percorsi
comuni, che anticipino scelte impegnative e sbrigative.3 Quando una scelta è
partecipata diventa una scelta adeguata, purché libera da condizionamenti e
strumentalizzazioni di qualunque tipo.
1
GIORGIO PAOLUCCI, «Quelle domande previe alla costruzione di moschee». Avvenire, 28.09.2007, 2. Afferma don
Giovanni Brusegan: «La costruzione di una nuova moschea a Padova può rappresentare un traguardo, non certo un
punto di partenza: le scorciatoie non sempre sono utili, ciò che occorre è un’opera quotidiana, paziente, di relazione e
comprensione. Garantire agli amici musulmani un luogo di preghiera più adeguato è un obiettivo del tutto condivisibile
da parte cattolica. Ma il dubbio è: siamo maturi, su entrambe le sponde, per un’operazione che coinvolga l’intera città?
L’impressione è che le divisioni tuttora esistenti, sia nella cittadinanza padovana che nella comunità islamica,
rischierebbero di trasformare il “progetto moschea” in un ulteriore terreno di discordia ». FILIPPO TOSATO, «La moschea
è una scorciatoia, noi crediamo nel dialogo vero», il Mattino di Padova, 31.07.2006, 11 (l’intervista era relativa alla
situazione di Via Anelli).
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Si veda DAVIDE D’ATTINO, «Moschea con campo da calcio e parcheggi», il Corriere del Veneto, 22.022008, 8.
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Il modo di affrontare le vicende relative ai musulmani porta una inevitabile domanda
sul modo di porsi verso “il fatto religioso” in generale, da parte della società civile.
Destano qualche perplessità i toni e i contenuti del dibattito attuale, dove si assiste ad una
infinita discussione sul ruolo pubblico della religione, ad una disparità di giudizio e di
trattamento nei confronti delle religioni (o delle confessioni cristiane) e,
contemporaneamente, ad un uso indiscriminato dell’aspetto religioso, soprattutto se
finalizzato al conseguimento di qualche obiettivo.
Qualche volta si avanza anche l’ipotesi di luoghi comuni che siano fruibili allo
stesso tempo da credenti di fede diversa. È da verificare quanto i membri di religioni
diverse sarebbero disposti ad usufruire di una struttura comune e questo non per volontà
di separazione, ma perché, anche come credenti, si è soggetti storici legati ad una
tradizione, a dei simboli, a delle forme. E la preghiera è un momento altamente
“confessionale”, che colloca cioè i rispettivi gruppi nello specifico della propria visione di
fede: sarebbe semplicistico e non rispettoso ridurre la questione ad una pura coesistenza
di persone o di orari.
Sulla moschea strade opposte fra i veneti
(RENZO GUOLO, il Mattino di Padova, 13 febbraio 2008, 10)
La scelta del Comune di Padova di offrire un luogo per il culto alla comunità islamica locale, mostra
un diverso approccio al problema da parte delle amministrazioni di centrosinistra rispetto a quello
adottato dalla Lega, in particolare, e dalla destra, più in generale. Nel caso padovano, l’ente locale
si fa carico di trovare una soluzione a un problema che mette, di fatto, in discussione la libertà di
religione garantita dall’articolo 19 della Costituzione. Libertà che si sostanzia non solo nel
professare liberamente la fede, ma anche nel suo esercizio concreto. Una scelta che verrà,
probabilmente, contestata da quanti dissentono in nome di una particolare interpretazione del
principio della laicità dello Stato, che prevede una netta separazione tra proprietà pubbliche e
luoghi di culto.
Una questione spinosa, quella sul ruolo di sostegno dei poteri pubblici nella costruzione o nella
messa a disposizione di luoghi di culto, non solo in Italia. Nella stessa Unione europea si adottano
regole diverse ma solo Italia e Belgio privilegiano alcune confessioni religiose, come quella
cattolica, rispetto ad altre. Tanto che alcune leggi regionali italiane prevedono agevolazioni
economiche per l’edificazione di luoghi di culto per le sole confessioni che abbiano stipulato
un’intesa con lo Stato. Limitazioni simili, dichiarate in passato illegittime dalla Corte costituzionale.
Pur essendo la seconda religione nel Paese per numeri di fedeli, l’Islam in Italia, per ragioni che
dipendono dalla volontà del legislatore e problemi di rappresentanza delle diverse sigle dell’«Islam
organizzato», non ha ancora stipulato con lo Stato un’intesa. In assenza di un preciso quadro
normativo e della situazione sul territorio, la decisione del Comune di Padova, rientra comunque
nella sfera di discrezionalità che, sia pur entro certi limiti, contraddistingue la collaborazione dello
Stato, e dunque anche degli enti amministrativi che lo compongono, Comuni compresi, con
confessioni differenti da quella cattolica. Una scelta che tiene conto anche della consistenza
numerica della comunità che ottiene una qualche forma di agevolazione finanziaria e
dell’indisponibilità di altri luoghi per esercitare il culto.
Al di là degli aspetti giuridici, certo non irrilevanti, balza all’occhio il diverso tratto che emerge dal
confronto sulla stessa materia di due diverse città venete, come Treviso e Padova. A Treviso e in
alcuni Comuni limitrofi governati dalla Lega, le amministrazioni hanno di fatto impedito, usando la
normativa urbanistica vigente come un chiavistello, prima impedito che i musulmani potessero
esercitare il culto in un edificio da loro acquistato, ma che non aveva ottenuto la modifica della
destinazione d’uso; poi attuato una sorta di «ostruzionismo dissuasivo», che ha fatto terra bruciata
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attorno alla richiesta della comunità di disporre, anche provvisoriamente, di un luogo in cui
pregare. Linea che ha obbligato il governo a farsi carico, attraverso il prefetto, della libertà religiosa
dei musulmani, chiedendo agli enti locali di collaborare per ospitare, a rotazione, la preghiera
collettiva del venerdì. Una situazione paradossale, che ha dato il via al fenomeno della «moschea
itinerante». Al di là dell’invocato appello alla norma, questa posizione incide effettivamente sulla
libertà di culto dei musulmani, ritenuti sostanzialmente dal Carroccio «estranei» al territorio; oltre
una sorta di quinta colonna dello scontro di civiltà.
Facendosi carico dei problemi di integrazione degli immigrati musulmani sul territorio, Padova
cerca invece di favorire la convivenza e punta sul fatto che una maggiore disponibilità a
riconoscere pienamente la loro libertà religiosa possa anche fungere da freno a fenomeni di
devianza o addirittura di deriva terroristica. Sono, dunque, di fronte due modelli di integrazione:
quello trevigiano, che vede l’ente pubblico parte attiva di un fronte dell’esclusione culturale e
religiosa, e quello inclusivo padovano, che non solo permette l’esercizio di diritti costituzionalmente
garantiti ma, con maggiore lungimiranza, appare più funzionale in termini di garantire pacifica
convivenza.
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