“Il trono di sangue” di Andrea Panzavolta

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“Il trono di sangue” di Andrea Panzavolta
Il trono di sangue
di Akira Kurosawa
Tra il titolo italiano Il trono di sangue e quello originale giapponese, la cui traduzione suona Il castello
della tela di ragno, vi è la stessa differenza che intercorre tra l’allegoria e la parabola: se la prima è una
figura retorica che serve a «allon agoreuein», a ‘dire altro’, ad adombrare un’immagine sotto un’altra; la
seconda, invece, «paraballei», ‘accosta’, ‘avvicina’ una figura ad un’altra. Così, mentre l’allegoria si
scopre subito da se stessa in quanto già contiene l’immagine a cui allude; la parabola, al contrario,
conserverà sempre un inviolabile e irriducibile spazio tra una figura e l’altra, tra cui pure si crea una
corrispondenza, perché esse possono solo approssimarsi le une alle altre, non già sovrapporsi. E se
risulta inviolabile, lo spazio di senso aperto dalla parabola costringerà qualsiasi inquisitio che pretenda
di colmarlo a farsi infinita. La parabola vuole solo essere ascoltata, ma poiché essa dice il dramma della
parola perduta a cui essa non può che accennare, il suo ascolto si fa naturaliter interpretante.
Così, se allegorica è la versione italiana del titolo giapponese, perché l’immagine del sangue accostata
a quella del trono crea un’immediata identificazione tra le due, per cui lo spettatore è subito informato
che sta per assistere a una storia dove la conquista del potere (il trono) è ottenuta attraverso un uso
spregiudicato della violenza (il sangue); parabolico, invece, è l’originale Il castello della tela di ragno,
perché, a differenza dell’altro non dice ma accenna, non spiega ma evoca, non scopre le carte ma le
rimescola.
La parabola, dunque, non è affatto scontata, come non è scontata l’immagine della ragnatela: il ricorso
a un celebre mito dell’antichità classica – questa sarà la via per la quale ci sforzeremo di approssimarci
al nucleo della parabola raccontata da Kurosawa – consente di coglierne la costitutiva duplicità, di
mostrare, cioè, come la tela possa essere per il ragno non solo un formidabile mezzo d’offesa, ma anche
la causa della sua rovina.
Il mythos è quello di Aracne, nella versione offerta da Ovidio nelle Metamorfosi. In apertura del Libro
VI si racconta come Aracne, fanciulla di modesto lignaggio, avesse acquistato una grande fama in tutte
le città della Lidia per la sua straordinaria valentia nel tessere la tela, tanto che, persuasa di superare in
quest’arte persino Atena, giunse a sfidare la dea in una gara di tessitura. Pallade, desiderosa di dare una
lezione alla temeraria fanciulla, si traveste da vecchia, nasconde la bionda chioma sotto una capigliatura
bianca e così camuffata si presenta ad Aracne per dissuaderla dal suo empio proposito. Questa, però,
reagisce con parole sprezzanti e, anziché tornare sui suoi passi, rinnova la sfida. Chiosa Ovidio:
«[Aracne] persiste nel suo proposito e per stolida brama di vittoria, precipita nella rovina» («Perstat in
incepto stolidæque cupidine palmæ, / in sua fata ruit», vv 50-51). A questo punto Atena, fremente d’ira,
manifesta la sua vera identità e senza frapporre altro indugio dà inizio alla gara, la quale si trasforma ben
presto in un duello fatto di reciproche provocazioni. La dea dipinge sulla tela la contesa che la vide
trionfare su Poseidone per il nome da dare alla città di Atena, inserendo ai quattro angoli delle
composizione altrettante storie di esseri umani puniti per la tracotanza che usarono verso gli dèi. Come
contromossa Aracne raffigura sulla tela le metamorfosi a cui ricorsero Giove, Nettuno, Apollo e Bacco
per congiungersi con donne mortali. Infuriata perché non solo era pari alla sua quanto a bellezza, ma
anche perché mostrava impudicamente le colpe degli dèi («cælestia crimina»), Atena fece a brandelli la
tela e percosse con la spola di legno la fronte della rivale, la quale, per la vergogna, andò a impiccarsi.
Vedendola pendere, Pallade ne ebbe compassione, la sorresse, ma perché Aracne non ardisse ancora una
volta sfidare la maestà dei numi, a immemore monito della sua colpa la trasformò in ragno. La
metamorfosi è così descritta dal poeta: «I capelli scivolarono via e con essi il naso e gli orecchi; la testa
diventa piccolissima, e tutto il corpo si rimpicciolisce. Ai fianchi rimangono attaccate esili dita che
fanno da zampe. Tutto il resto è pancia: ma da questa Aracne rimette del filo («de quo tamen illa remittit
stamen») e torna a rifare, ormai ragno, le tele come una volta» (vv. 140-145).
Se si presta la dovuta attenzione ci si accorge che un’identica metamorfosi, sub specie parabolæ, tocca
anche a Washizu, il protagonista del Trono di sangue. Intanto, una prima analogia con il mito ovidiano è
riscontrabile già nell’inquietante figura che i due guerrieri incontrano nel bosco all’inizio del film: essa,
infatti, ricorda Atena travestita da vecchia (ma si potrebbe identificarla anche con la parca Cloto, colei
che «klothein», ‘fila’ gli stami del destino). Come Atena, lo spirito del bosco tenta di mettere in guardia
Washizu dalla funesta tentazione del potere, ricordandogli, in un discorso pervaso da una gnomé di
chiara ascendenza greca1, come transeunte ed effimera sia la vita degli uomini e come «le folli cupidigie
e ambizioni» possano sconvolgere la loro mente al punto da farli cadere «nella più infima bassezza»;
nello stesso tempo, l’arcolaio preconizza a Washizu la sua metamorfosi in ragno. Non solo: l’immagine
della ragnatela – che si manifesterà compiutamente nella terribile sequenza della morte di Washizu – è
già richiamata dalle brume che avvolgono il castello e dal fitto bosco che lo circonda, definito più volte
come un labirinto, come una rete inestricabile, un luogo infido da cui, una volta entrati, è assai difficile
uscire.
Ma è solo negli istanti che precedono la sua morte, e nel modo particolare in cui questa avviene, che si
compie la trasformazione di Washizu in ragno. Sia nel mito ovidiano sia nel racconto di Kurosawa, la
rovina che si abbatte sui protagonisti è la sanzione conseguente ad una colpa di ybris. La pena inflitta
colpisce i rei con una forma di contrappasso: come Aracne, che aveva la presunzione di sconfiggere una
dea giovandosi esclusivamente della propria arte, tesse la tela traendo il filo dal proprio ventre, dunque
da se stessa; così Washizu è trafitto dalle stesse armi con cui aveva assassinato il re, dando inizio alla
spirale di violenza e di sangue. Le frecce sembrano tessere una vera e propria ragnatela attorno a
Washizu: quanto più questi tenta di trovare una via d’uscita, tanto più si intensifica la gragnola dei
dardi. Alla fine le saette lo raggiungono, ma più che conficcarsi nel suo corpo sembrano uscire da esso.
Il castello si rivela, dunque, una ragnatela doppiamente mortale: esso è il luogo dove Washizu ordisce i
suoi piani diabolici, ma anche quello in cui egli troverà la morte, soffocato dai suoi rovinosi sogni di
gloria.
Come Aracne, anche Washizu è vittima di se stesso, di quello smisurato orgoglio che lo ha spinto a
calpestare i valori più sacri, della sua stessa arte di tessere intrighi. Il coro che suggella il dramma –
evidente prestito mutuato dalla tragedia greca2 – ci ammonisce a non alimentare la nostra
immaginazione con sogni che si rivelano a lungo andare incubi e a non costruire castelli con illusioni
che traiamo da noi stessi come una viscida bava, perché altrimenti di noi stessi finiremo per essere le
prede.
Andrea Panzavolta
1
«Passa la vita, passa la morte; tutto svanisce al mondo e nulla più rimane: questa è l’eterna sorte delle esistenze
umane. Anche dal bene nasce il male e da rinnovati inganni alla gente mortale accrescono gli affanni. Sui viventi si
accumula il peccato come polvere fina, finché l’uomo è schiacciato e finisce in rovina. Le folli cupidigie e ambizioni
sconvolgono la mente e alle più inique azioni giunge l’uomo furente. L’insaziabile sete del potere la gloria spezza, e per
vendetta il vinto può cadere nell’infima bassezza. Così succede che il valore del forte tristemente si unisce alla viltà e
una comune sorte entrambi annienterà. Perciò di tutto quello che l’uomo compie in questo mondo, nulla resterà».
2
«Ammirate le rovine del castello delle illusioni, dove ancora si aggira lo spirito di chi, consumato dal desiderio, pagò
il suo tributo al trono di sangue. Il sentiero dell’ambizione, senza vie di scopo, conduce alla rovina».