Un caffè con Giachetti, candidato sindaco con

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Un caffè con Giachetti, candidato sindaco con
ANNO XXI NUMERO 19 - PAG 3
EDITORIALI
Gli inevitabili boots on the ground
Il Pentagono annuncia l’invio di soldati contro lo Stato islamico
I
eri il segretario alla Difesa dell’Amministrazione Obama, Ash Carter, ha scritto un editoriale su Politico per annunciare che manderà i soldati della Centounesima divisione aviotrasportata a combattere contro lo Stato islamico in Iraq. Carter non dice il numero, ma i media iracheni tre giorni fa parlavano di 1.800 uomini
(si vede che il governo iracheno non sa tenere le informazioni riservate). Il cambio
di concetto è chiaro: qui non si parla più
di forze speciali, consiglieri militari,
esperti di logistica e di comunicazione oppure istruttori – che pure ci sono. Qui si
tratta di soldati, per infliggere allo Stato
islamico una “lasting defeat”, una sconfitta che durerà a lungo. La dichiarazione di
Carter arriva accompagnata da un altro
paio di notizie: gli americani hanno preso e stanno espandendo un aeroporto in
Siria, a Rmeilan, nell’area controllata dai
curdi, e le forze speciali francesi stanno
combattendo nell’area di Mosul. La guerra dall’alto non sta producendo i risultati
sperati e tocca ai boots on the ground, per
ora in modica quantità. Chi critica quest’approccio dice che così si espongono i
soldati e si rischia di eccitare le potenziali reclute di Baghdadi – andiamo a combattere gli infedeli in Iraq! – ma come ha
scritto Aris Roussinos, inviato di guerra
dell’anticonformista Vice News, a questo
punto dobbiamo scegliere se preferire
perdite fra i civili nelle città occidentali
o fra i soldati che sanno come difendersi
in medio oriente.
Simm ’e nApple paisà
Steve Jobs non è nato a Napoli? La globalizzazione può portarcelo
Q
ualche anno fa il giornalista partenopeo Antonio Menna scrisse un libriccino: “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”
(Sperling & Kupfer). Era il racconto di come sarebbe stato impossibile per uno
“Stefano Lavori”, partendo da un garage,
far nascere una Mela tra tasse, burocrazia
e camorra: “La Apple a Napoli non sarebbe nata, perché saremo pure affamati e
folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più”.
Ora, a distanza di qualche tempo, la Apple sbarca davvero sotto il Vesuvio per insediare il primo centro europeo di sviluppo per App iOS, il sistema operativo del
colosso di Cupertino. Matteo Renzi, che ieri ha incontrato a Roma il successore di
Jobs e ceo di Apple Tim Cook, dice che
l’investimento porterà 600 nuovi posti di
lavoro. Nel comunicato ufficiale dell’azienda si parla più genericamente di un
Centro di sviluppo in partnership con un’i-
stituzione, che sarà l’Università Federico
II, per preparare docenti e studenti come
sviluppatori Apple. In ogni caso si tratta di
un’ottima notizia, che fa il paio con un investimento simile a Scampia di un altro
big della Silicon Valley come Cisco, e che
indica al sud, proprio dalla sua città più
importante, una via d’uscita dallo stato di
minorità alternativa alla spesa pubblica
assistenziale, alle Casse del mezzogiorno e
a un certo meridionalismo straccione che
cita Giustino Fortunato e Antonio Gramsci
per restare attaccato alla mammella statale. Il mezzogiorno può ripartire se crea
le condizioni per far emergere le proprie
eccellenze, per attirare capitale umano e
investitori convinti che si possano fare
profitti. In fondo, al tempo della globalizzazione, non serve tanto la fortuna che uno
Steve Jobs nasca a Napoli, ma la capacità
di attrarre qualche Tim Cook e soprattutto di non farlo scappare.
L’immigrazione sfonda anche a Davos
E se viene meno Schengen l’Italia rischia di assomigliare a Calais
D
oveva essere l’incontro per lanciare
la quarta rivoluzione industriale: discutere tra élite globali della grande trasformazione dovuta a droni, stampanti
3D, auto che si guidano da sole, nanotecnologie, biotecnologie, mini-mega batterie per stoccare energia, big data e computer in grado di processarli. Insomma,
prepararsi al sistema “cyber-fisico”, in
cui i mondi fisico, digitale e biologico
convergono sempre più, come ha spiegato Klaus Schwab, il presidente del World
economic forum. Invece Davos si è trasformato in happening sull’immigrazione. Christine Lagarde ha portato le stime
del Fmi sui costi dell’arrivo di milioni di
migranti in Europa (0,2 per cento di pil
per l’Italia). Il tedesco Wolfgang Schaüble ha proposto un piano Marshall per
“investire miliardi nelle regioni da cui
provengono i rifugiati, in modo da ridurre la pressione sulle frontiere esterne
dell’Europa”. Il francese Manuel Valls
ha avvertito che “il progetto europeo potrebbe morire rapidamente”, perfino
“entro pochi mesi”. Mario Draghi ha get-
tato acqua sul fuoco: “non c’è altra scelta se non cooperare. L’inevitabilità del
fenomeno lo farà capire e sui rifugiati si
arriverà a un accordo ragionevole”. Come all’apice della crisi dell’euro, l’emergenza ha preso il sopravvento sulle montagne svizzere: l’olandese Mark Rutte ha
dato otto settimane per far scendere i numeri degli ingressi. Altrimenti sarà la fine di Schengen. Di una sospensione – di
fatto più che di diritto – parleranno i ministri dell’Interno dell’Ue lunedì. La
questione non è da prendere alla leggera per Matteo Renzi, nel momento in cui
usa i 3 miliardi alla Turchia come moneta di scambio per uno sconto sul deficit.
Il crollo di Schengen rischia di trasformare l’Italia, così come la Grecia, in una
piazzola di sosta permanente dei migranti: un grande campo stile Calais di profughi che sognano un’Europa che non c’è
più. Soltanto ieri sono state soccorse 968
persone in diverse operazioni della guardia costiera nel canale di Sicilia, mentre
in Grecia almeno 45 migranti sono morti
in un naufragio.
La minacciosa inchiesta segreta di Ilda
I
tornata alle cronache per avere detto di
recente, all’inaugurazione della mostra
fotografica “Gli invisibili, ammazzati dalla mafia e dall’indifferenza” al Palazzo
di giustizia di Milano, che “il cratere lasciato dall’esplosione di Capaci doveva
rimanere” e averlo chiuso “è stata la prima rimozione voluta dal nostro paese”.
Boccassini rimane silenziosa, per ora,
sul presunto fascicolo degli appalti Expo in odore di mafia. Ma si incarica il
Fatto di far sapere che forse l’inchiesta
c’è, e se riguardasse davvero l’ad Sala finirebbe per riguardare, almeno in effigie, anche il Matteo Renzi che durante
Expo ringraziava la procura di Milano
per la “sensibilità istituzionale”. E la
“sensibilità istituzionale” di Boccassini,
si chiede Barbacetto, come sarà? E l’inchiesta ’ndrangheta nei cantieri, dov’è?
Inchiesta avvisata è mezza avviata.
La grande ammucchiata di Iglesias
Podemos vuole un governo a sinistra. La rinuncia temporanea di Rajoy
I
l leader di Podemos Pablo Iglesias ha
detto ieri di essere pronto a formare un
governo in Spagna assieme al Partito socialista, con il leader del Psoe Pedro Sánchez come premier e lui come vicepremier. Un’ammucchiata alla portoghese,
insomma, che tenga dentro i partitini dell’estrema sinistra e con una maggioranza
fragile. Sánchez sembra pronto a cedere
alla tentazione populista, ma ha preso
tempo. Ieri il re ha dato incarico di formare il governo al premier uscente del Partito popolare Mariano Rajoy, ma lui ha ri-
fiutato “per il momento” a causa della
mancanza d’appoggio, e ora bisognerà attendere le prossime manovre del monarca. In campagna elettorale Podemos aveva giurato che mai avrebbe appoggiato i
corrotti partiti tradizionali, ma la possibilità di una poltrona snatura anche i più inflessibili, e se dovesse davvero andare al
governo questa sarà solo la prima delle
tante promesse che Podemos dovrà rimangiarsi. L’alternativa sarà dare prova a
tutta Europa del gran disastro del populismo al governo.
SABATO 23 GENNAIO 2016
Un caffè con Giachetti, candidato sindaco con più nemici-amici
NOME DEL PD SUI GENERIS, FARÀ “CAMPAGNA DI ASCOLTO” PER ELIMINARE L’EFFETTO “ORCHESTRINA DEL TITANIC”
Roma. Si aggira di buon mattino per la
città, Roberto Giachetti, vicepresidente della
Camera pd e candidato sindaco con più amici tra i nemici: sua amica è Giorgia Meloni,
DI
MARIANNA RIZZINI
suo amico è Guido Bertolaso, suo buon conoscente è Alfio Marchini, suoi amici tutto sommato sono anche i grillini, ché la politica, per
Giachetti, pur nella “totale distanza di contenuti”, non è dire a questo o a quel Cinque
Stelle “sei una piaga eversiva” – e insomma,
scherzano gli osservatori, verrebbe a volte da
dirgli “dì una cosa cattiva, Robbé”. Ma lui,
Robbè, rimanda tutto ai futuri dibattiti elettorali, dove “sui temi, e non sulle persone, ci si
scontrerà eccome”. Ed è con questo approccio che Giachetti, candidato “on the road” (il
suo quartier generale “sarà la strada”, dice,
dove si recherà per “aprire prima di tutto una
campagna di ascolto, evitando monologhi davanti a cinquanta deportati di un circolo che
alla fine se ne vanno zitti zitti”), ha deciso di
pronunciare il “sì, mi candido” che per lunghi
mesi aveva negato. L’ha fatto a modo suo (video dal Gianicolo e propositi da battaglia certosina, come si confà a un ex radicale abituato a lotte di fino). E se non si vedrà girare Giachetti per Roma a bordo del Ducato con cui
nel 2007 si era messo a percorrere l’Italia per
illustrare le magnifiche sorti e progressive
del nascente Pd, andando altresì a scoprire
“le vite degli altri”, quelle dei cittadini semplici, di sicuro si potrà trovare il Giachetti itinerante a Tor Tre Teste o a Torre Maura, a
“trasmettere l’idea della coralità dell’impegno per la città”, e a sfatare il mito negativo
della “Roma mortificata con politica romana
accartocciata su se stessa” (e nei postumi di
Mafia Capitale). “Motivare”, questo è il problema che Giachetti vorrebbe affrontare andando “a prendere direttamente metaforici
ce a volte arrivano strali al candidato renziano (ma renziano sui generis), anti-giustizialista (le carceri sono il suo pallino), per la legalità (nel 2013 fece lo sciopero della fame per
l’abolizione del Porcellum), per i “diritti” e
Quartier generale “on the road”, determinazione a prendere “schiaffi”
costruttivi dai cittadini esacerbati. Adotterà un “disarmo unilaterale” con
gli avversari determinati a usare armi mediatiche grossier (non sui contenuti).
Le primarie e il “no” di Marino, Bertolaso e Marchini, “papà” Rutelli
schiaffi in faccia da chi non ne può più, in modo da far capire al cittadino che c’è un’inversione di rotta, altrimenti a nessuno verrà mai
voglia di partecipare”. Non vuole dunque che
si “sottoscrivano appelli” sul suo nome, Giachetti, ma che “si metta in moto energia positiva già dal primo laboratorio delle primarie”. Oltre alla strada, anzi alle strade dei vari quartieri dove si farà vedere dalle sette di
sera a mezzanotte, per poter avere anche un
pubblico di lavoratori, il candidato avrà come
base operativa un appartamento (non loft), e
si presenterà agli elettori con una formula del
tipo “buonasera, sono qui per capire quali sono i veri problemi che vorreste veder risolti
entro i primi cento giorni”, al cospetto di comitati di quartiere, parroci, vecchietti, professionisti e “chiunque voglia venire”. Obiettivo:
costruire una “banca dati” su cui poi scrivere resoconti giornalieri da postare sul sito
www.robertogiachetti.it, dove già stanno confluendo le e-mail di gente che dà consigli, incita e si mette a disposizione. Dai social inve-
contro il proibizionismo. E anche se qualcuno
posta foto di Giachetti in canottiera accostate
a quelle di Massimo Carminati, l’ex digiunatore anti Porcellum adotta la linea del “disarmo
unilaterale”, disarmo che vorrebbe sposare
in campagna elettorale (con i Cinque Stelle,
per esempio, non vuole usare l’arma “Quarto”, per promuovere dibattiti non avvelenati e
non a base di “reciproci rimpalli di intercettazioni”).
Intanto, il Giachetti candidato “ingloba”
informazioni, “astenendosi dallo spiattellare
al cittadino quattro idee preconcette” (per ora
è tutto orecchi, le linee guida seguiranno, come “risultato” e non “premessa” dell’ascolto a
tappeto dei cahier de doléances dei cittadini).
Al primo livello di “preoccupazione” (quello per le primarie), Giachetti incassa intanto
l’endorsement dei baristi del centro che lo conoscono da una vita (da quando, giovane radicale, digiunava a cappuccini). E di primarie
infatti si parla, tantopiù che l’ex sindaco Ignazio Marino, dalle pagine di Repubblica, non
solo respinge l’invito dal candidato (“caro Marino, primarie senza rancori se scendi in campo”), ma lancia j’accuse del tipo “primarie
ipocrite”. Poi c’è Stefano Fassina, altro nemico-amico di Giachetti che due giorni fa, sull’Huffington post, ha lanciato “dieci condizioni per accettare di partecipare” alle consultazioni (esempio: condividere il punto “no allo stadio della Roma a Tor di Valle” e “permanenza della Tasi per le abitazioni di maggior
valore”). Quanto agli altri nemici-amici, Giachetti, nel 2000, da capo-gabinetto di Francesco Rutelli, ha lavorato a lungo a fianco di
Guido Bertolaso, nome in corsa per il centrodestra ed ex commissario straordinario per il
Giubileo di cui il candidato pd aveva allora
apprezzato “la capacità di mettere in piedi
una struttura di lavoro straordinaria”. Di Alfio Marchini, il nemico-amico visto sul campo
nelle vesti di imprenditore, Giachetti ha osservato “l’approccio” come consigliere comunale di opposizione (approccio che gli pare
corretto, pur nella assoluta distanza dei contenuti). Agli amici del Pd romano, invece, il
candidato dem dice “fermatevi, tregua!” ( a vedere lo spettacolo delle liti intestine, Giachetti ha infatti l’impressione che ci si trovi davanti “all’orchestrina del Titanic”). Suoi numi tutelari sono invece Francesco Rutelli e Walter
Veltroni, sindaci “di straordinario valore”, dice, che hanno “contribuito a far rinascere la
città” (e a giudicare dal sospiro che fa a sentir nominare W., si intuisce che il candidato
Giachetti avrebbe preferito vederlo, come Rutelli, a capo di un qualche think tank per la
città, più che saperlo dietro a una macchina
da presa).
I fannulloni pubblici di Pistoia e quelli che “le leggi ci sono già”
Roma. Dedicato agli entusiastici follower
di #ètuttapropagandaleleggicisonogià. Da
Susanna Camusso, e dalle altre confederazioni che contro la riforma della Pubblica
DI
RENZO ROSATI
amministrazione e le norme anti-fannulloni
promettono dura battaglia, a Renato Brunetta, capo dei deputati di Forza Italia, titolare
della legge del 2009 sul “codice disciplinare
del pubblico impiego”, e dunque convinto
che il giro di vite sia fuffa, usurpazione, viziato da incostituzionalità e soprattutto anche
lui che “le regole ci sono, le ho fatte io, basta applicarle”. Infatti gli uffici pubblici funzionano come un orologio. Bene: a tutti consigliamo un giro a Pistoia, Toscana, capoluogo di provincia soppressa, ma città tuttora titolare di prefettura. A una documentata inchiesta del Tirreno, che l’ha pubblicata ieri
su due pagine, si deve la notizia che la prefettura di Pistoia su 53 impiegati ne ha 49 in-
dagati dal 2011 per assenteismo, con l’accusa
di truffa aggravata ai danni dello stato e violazione della legge sul pubblico impiego
(quella che c’è già, appunto), perché avrebbero ripetutamente abbandonato il posto di
lavoro senza timbrare il badge o facendolo
timbrare dai colleghi. Dei 49 – quasi tutto
l’organico impiegatizio esclusi quattro valorosi e, vedi un po’, i dirigenti che magari
avrebbero dovuto vigilare – per 13 il processo inizierà il 27 maggio, per altri 31 le indagini si devono ancora concludere, due hanno
patteggiato (8 mesi di reclusione e 300 euro
di multa; 10 mesi e 400 euro), un altro è stato condannato a 6 mesi e 200 euro, un terzo
ha accettato il patteggiamento a indagini in
corso, uno è stato assolto in primo grado.
Questo in quattro anni: l’indagine dei carabinieri, partita da un esposto, si è chiusa a ottobre 2011, e anche lì hanno fatto fede telecamere e appostamenti, insomma prove vere, pur se la vicenda non ha avuto il risalto
degli assenteisti in mutande di Sanremo o di
quelli del museo delle Tradizioni popolari
(appunto) di Roma. Nel frattempo due dei 49
sono andati in pensione mentre tutti gli altri sono ancora in organico, al lavoro retribuiti dallo stato. Così come i loro capiufficio:
con le nuove norme “di propaganda” ora sarebbero corresponsabili assieme ai sottoposti, dovrebbero controllare assenze e presenze, compito non titanico con 53 dipendenti,
e soprattutto far scattare i licenziamenti. Dei
quali a Pistoia non ce n’è stato neppure uno.
Perché se “le leggi ci sono”?
Il Tirreno lo ha chiesto al giuslavorista Pasqualino Albi, professore di diritto del Lavoro all’Università di Pisa. “Il problema – dice
– è licenziare gli assenteisti in tempi brevi.
L’intervento del governo è utile se, in presenza di casi di assenteismo conclamati, riuscirà
a farlo, senza ledere i diritti della difesa”. Albi pensa che con le norme finora in vigore e
le interpretazioni difformi a seconda degli
uffici e delle sedi giudiziarie “non si licenzia
nessuno per le lungaggini della giustizia”.
Norme, interpretazioni e lungaggini: un procedimento disciplinare dura fino a 120 giorni: “Dovrebbe essere molto meno in presenza di prove evidenti”; infatti il giudizio in primo grado richiede da un anno e mezzo a due,
ma come a Pistoia i tempi spesso raddoppiano; per la Cassazione servono sei anni, minimo. Il problema è quindi di agire in flagranza di reato con prove documentarie come le
telecamere o la sorveglianza informatica
(che non dovrebbero riguardare solo i badge ma anche i comportamenti in ufficio, “il
datore ha il diritto di verificare se un cassiere si intasca i soldi, se un dipendente usa il
pc per andare su siti porno”). I “controlli difensivi”, non solo sull’efficienza ma sui comportamenti dei dipendenti, sostiene Albi,
non sono né incostituzionali né contro lo Statuto dei lavoratori. Buona gita a Pistoia. Ma
forse servirebbe il giro d’Italia.
Renzi rottama il mantra tecno-gauchista del “vincolo esterno”, ma Berlino allontana l’Unione bancaria
(segue dalla prima pagina)
Intervistato dal Foglio giovedì scorso, Roberto Gualtieri, presidente della commissione per gli Affari economici e monetari nei
Socialisti e Democratici (ex Pse) in quota Pd,
ANALISI - DI MARCO VALERIO LO PRETE
ha detto che lo “scontro politico” tra Renzi
e il presidente della Commissione Ue, JeanClaude Juncker, è “positivo” perché “è parte di una ridefinizione del rapporto tra Italia e Europa”, “il segno” della fine dell’epoca del “vincolo esterno” che aveva accompagnato “il declino della Prima Repubblica e
è stato il filo conduttore della Seconda Repubblica”. E Gualtieri prima di diventare
parlamentare era uno storico (alla Sapienza)
che sul passato della sinistra ha riflettuto a
lungo (vicedirettore della Fondazione Istituto Gramsci): “Per oltre 25 anni non c’erano
state internamente le risorse per riformare
l’Italia”. Adesso sì.
La teoria del “vincolo esterno” europeo,
poi, non è appannaggio della sola sinistra. Lo
’Ndrangheta ed Expo. Il fascicolo non s’è visto, ma Sala si preoccupi
l Comitato milanese antimafia guidato
da Nando Dalla Chiesa (che due giorni fa sul Fatto inneggiava a quant’è in salute l’Antimafia) avrebbe segnalato irregolarità – filone appalti-’ndrangheta-Expo: dunque grane sulla capoccia del candidato renziano alle primarie, Beppe Sala – alla Direzione distrettuale antimafia
milanese, retta da Ilda Boccassini. Un fascicolo, dunque, deve esistere. Aperto,
come lascia intendere Gianni Barbacetto sul Fatto di ieri. Solo che l’inchiesta è
“segreta”, ci dicono. Dunque, secondo la
regola aurea dei segnali che rimbalzano
dalle procure ai giornali e viceversa, è
ancor più minacciosa. Perché le altre relazioni del comitato di salute pubblica di
Dalla Chiesa sono note, quella invece relativa all’Expo è, minacciosamente, segretata. Silente da un po’, diciamo da dopo i rovesci del caso Ruby, Boccassini è
IL FOGLIO QUOTIDIANO
ricorda lo storico Giovanni Orsina nel libro
“Il berlusconismo nella storia d’Italia” (Marsilio), nel quale ricostruisce fra l’altro gli
“sforzi continui e costanti che in questo paese sono stati fatti al fine di costruire, ricostruire, difendere e riparare un apparato politico ‘ortopedico’, ossia che raddrizzasse, e
‘pedagogico’, ossia che rieducasse il paese
nei tempi più brevi possibili, così da renderlo infine capace di (una qualche forma di)
modernità”. Già ai tempi della Destra storica, quando Bruxelles era tutto fuorché il centro dell’Europa, la modernità era “un modello straniero da importare in Italia e un modello settentrionale da importare nel mezzogiorno”; da qui “l’intreccio fra un ‘inseguimento esterno’ (del paese all’Europa) e uno
‘interno’ (del sud al nord)” che ha complicato non poco le cose.
Paolo Savona, economista ed ex ministro,
critico del “caos istituzionale” in cui ormai
è sfociata “l’architettura comunitaria”, parlando al Foglio dice di apprezzare “l’apparente cambio di toni impresso da Renzi sul-
la sacralità del ‘vincolo esterno’”. E’ scettico
sulla possibilità che alle parole radicali seguano fatti altrettanto radicali, e coglie l’occasione per ricordare che “le virtù taumaturgiche del vincolo esterno per la società italiana sono state sempre un’idea di riferimento
dell’azione politica di Guido Carli”, negoziatore del Trattato di Maastricht e personalità
non inquadrabile nella sinistra. Oggi l’allievo, riflettendo sul percorso intellettuale e politico del maestro, ritiene che nel 1992 Carli,
scottato dall’immobilismo della Confindustria, accettò che “il vincolo esterno, fino a
quel momento gestito da meccanismi di mercato come era accaduto con Bretton Woods
o la liberalizzazione degli scambi in Europa,
iniziasse invece a essere gestito dai tecno-burocrati di Bruxelles”. Savona è cauto e rispettoso nel prendere le distanze da Carli,
ma la parabola dell’ex ministro del Tesoro
ci ricorda che non solo da sinistra si è guardato all’integrazione europea come a un correttivo per il “legno storto” italiano. Prospettiva che, a parole, Renzi ora rigetta.
Tuttavia dall’altra parte del tavolo negoziale, anzi a capotavola, oggi c’è una Germania che pure sta cambiando atteggiamento rispetto all’Ue, come sostenuto in una nota della Luiss School of European Political Economy stilata da economisti come Lorenzo Bini Smaghi, Marcello Messori e Stefano Micossi. Agli occhi di Berlino ha “perso credibilità” l’idea di “rispondere alla crisi accentrando il coordinamento delle politiche economiche”, in stile Six Pack o Two Pack. La
Germania ora punta sul “coordinamento decentrato”: “No” alla condivisione dei rischi,
“sì” alla loro riduzione degli stessi nei paesi ad alto debito. Questi ultimi devono sobbarcarsi in toto la riduzione degli choc economico-finanziari, separando rischi sovrani
e bancari per esempio. Allora addio al completamento dell’unione bancaria, e benvenuta all’assegnazione di un esplicito coefficiente di rischiosità ai titoli pubblici dei paesi
dell’Eurozona. “Uno scenario preoccupante”
per Roma, più dei decimali di deficit da
strappare a Juncker.
Sulle banche italiane contano più dati e statistiche che le spesso evocate “manine”
(segue dalla prima pagina)
Sulla base di questo dato, l’affermazione
(patriottica) riportata da alcuni giornali –
l’“Italia batte Europa” – denuncia un’involontaria manipolazione. Se la percentuale
ANALISI - DI GIORGIO ARFARAS
di Npl è pari al 10 per cento degli attivi e il
tasso di copertura è del 60 per cento, rimangono perdite potenziali per il 4 per cento. Se
una banca ha sofferenze pari all’1 per cento degli attivi e un tasso di copertura dello
0 per cento, si possono avere delle perdite
nell’ordine di un modesto 1 per cento. Perciò confrontare in termini percentuali la co-
M
editate che questo è stato”, scriveva
Primo Levi in “Se questo è un uomo”,
al termine della descrizione dell’abominio perpetrato negli anni dell’ultimo conflitto mondiale. Per meditare e scolpire
nel cuore di ciascuno l’orrore, affinché
mai più si possa ripetere, vi sono due strade: la memoria orale, con il racconto alle
nuove generazioni dell’inferno in terra, e
i libri. Con gli anni che passano e la scomparsa dei testimoni dei lager, non rimane
che percorrere la seconda via. Per un adolescente che di leggere ha poca voglia e
scappa non appena vede poggiato su un tavolo un tomo da centinaia e centinaia di
pagine, l’impresa si fa più ardua. Il libro
di Luigi Ballerini può essere il mezzo giusto per narrare quel che è stato ai ragazzi
di oggi. La storia è vera e complessa, ma
l’autore ha saputo raccontarla in modo tale che il volume si scorre quasi tutto d’un
fiato. Ballerini ci sa fare, come dimostra
il premio Andersen vinto nel 2014 per la
migliore opera scritta per bambini tra i
nove e gli undici anni (“La signorina
pertura delle sofferenza fra l’Italia e l’Europa non ha un gran significato.
Nel caso delle quattro banche in crisi –
Etruria e le altre – è stata valutata una percentuale di recupero del portafoglio dei
Npl pari al 20 per cento circa. Se i Npl sono pari al 10 per cento degli attivi (per ipotesi pari a 100) e la copertura è pari al 50 per
cento, resta un 50 per cento da coprire, e, se
questo è recuperabile, come mostra la vicenda dell’Etruria e delle altre altre banche, solo per il 20 per cento, ecco che si hanno delle perdite pari a 40. Questo 40 – la parte non recuperata, pari all’80 per cento delle sofferenze non coperte – va messo in rap-
LIBRI
Luigi Ballerini
HANNA NON CHIUDE MAI GLI OCCHI
Edizioni San Paolo, 176 pp., 14,50 euro
Euforbia maestra pasticciera”, San Paolo).
Chi in anni passati ha visto Schindler’s list, il capolavoro cinematografico in bianco e nero di Steven Spielberg, non potrà
che rimanere colpito nello scoprire che
proprio come Oskar Schindler e Giorgio
Perlasca, un altro italiano fece il possibile – a suo rischio e pericolo – per salvare
chi era costretto a girare con la stella gialla appiccicata sul petto. Quell’uomo era
Guelfo Zamboni, console a Salonicco negli
ultimi anni della guerra. Falsficando i documenti, salvò la vita a 281 ebrei. Una goc-
porto al totale delle sofferenze, che sono, a
loro volta, pari al 10 per cento dell’attivo. Insomma, le perdite potenziali massime delle banche italiane sono pari al 4 per cento
dell’attivo. In questo caso limite, le banche
perderebbero il 4 per cento dell’attivo, e
perciò dovrebbero varare degli aumenti del
capitale. Siamo finalmente arrivati alle probabilità, che prendono sommessamente il
posto del popolare “gomblotto”. Le strade
per affrontare il nodo dei troppi Npl sono
quattro. La prima si palesa nel riassorbimento graduale dei Npl grazie alla ripresa
economica che alza la redditività delle banche. La seconda consiste nella risoluzione
cia nel mare, certo, dal momento che i treni piombati con la croce uncinata partivano dalla città greca, l’antica Tessalonica di
san Paolo, verso i campi dell’Europa centrale con più di cinquantamila esseri umani stipati in condizioni inenarrabili. L’autore ha studiato a lungo il profilo di Zamboni, consultando carte inedite e andando
a indagare sul posto. Vicende e momenti
raccontati anche con gli occhi di due ragazzi quindicenni, Hanna e Yosef, richiusi nel ghetto di Kalamaria. Come in tante
altre testimonianze, non ci s’accorse subito dell’orrore in cui s’era immersi, tanto
che all’inizio, ad Hanna, “quella stella di
stoffa appena appuntata sul suo petto non
stava così male” e poi “la stella era una
bella forma”. Era convinta, la giovane, che
“Adonai, il Signore, l’avesse messa lì apposta per lei”. La strada verso il precipizio è lenta, e passo dopo passo anche gli
adolescenti – costretti a crescere troppo in
fretta – si resero conto di quel che stava
avvenendo, “troppo grande e tremendo e
potente per essere arginato”.
del nodo dei troppi Npl con il famigerato
bail-in. La terza è quella dell’aumento del
capitale di rischio. La quarta, è quella della bad bank che acquista i Npl. Il mercato finanziario può immaginare come “attraenti”
la prima (improbabile) e la quarta (difficile
da attuare in tempi brevi), mentre può immaginare come “sgradite” la seconda e la
terza (le meno improbabili). Essendo le meno improbabili, ecco che diventano quelle
che mettono sotto ulteriore pressione le
azioni – gli aumenti del capitale diluirebbero il peso delle azioni esistenti – e le obbligazioni subordinate delle banche – che sarebbero “bruciate” nel caso di un bail-in.
IL FOGLIO
quotidiano
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