La tutela della persona nel sistema della responsabilità civile
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La tutela della persona nel sistema della responsabilità civile
La tutela della persona nel sistema della responsabilità civile Le voci del danno non patrimoniale. Il danno esistenziale. Il diritto alla Vita La tutela integrale della persona e del valore dell’Uomo costituisce uno dei cardini del risarcimento del danno non patrimoniale da fatto illecito altrui, anche indipendentemente dalla prova di un fatto che costituisca reato, in forza del processo di costituzionalizzazione del diritto civile che consente di interpretare le relative norme alla luce dei principi fondamentali della stessa Carta Costituzionale ed, in particolare, dell’art. 32 che “tutela la salute quale fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Negli ultimi anni si è assistito ad una profonda modificazione del danno non patrimoniale, dei suoi fondanti e delle tecniche risarcitorie con una generale tendenza ad estendere tale voce di danno adeguandola alle concrete esigenze di una società in evoluzione sempre più attenta a tutelare, oltre al benessere fisico, anche quello psichico ed esistenziale, ampliando la stessa definizione di salute anche alla sfera interiore ed intima dell’uomo. L’aumento delle voci del danno non patrimoniale ha provocato naturali reazioni difensive, da parte soprattutto degli assicuratori, esposti a maggiori risarcimenti e, non sempre a torto, sospettosi sulla effettività di eventuali risvolti psichici di danni non sempre facilmente accertabili. Appare utile, preliminarmente, distinguere le principali voci di danno non patrimoniale: 1) il danno morale ricomprende il dolore e le sofferenze cioè il cd. “pretium doloris”; attiene alla sfera esclusivamente personale del danneggiato ed alla sua sensibilità emotiva; 2) il danno biologico costituito dalla lesione dell’integrà psico-fisica, suscettibile di accertamento medico-legale, risarcibile indipendentemente dalla capacità di produzione di reddito del danneggiato. La salute, in base alla stessa definizione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), è definita “ un complesso stato di benessere fisico, mentale e sociale e non la mera assenza di malattia”; appare, quindi, evidente, la sostanziale differenza con il danno biologico che è costituito, in base alla ultima definizione “ex lege” dalla “lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”(art. 138 e 139 c.d.a.). Dovrebbe,quindi, essere possibile un danno alla salute anche in mancanza di un danno biologico ed anche in aggiunta, quale danno differenziale, al danno biologico, ove si sia verificata una alterazione del benessere fisico, mentale e sociale, diverso dalle mere conseguenze collegate alla lesione fisio-psichica. 3) il danno esistenziale che consiste nella lesione della personalità del soggetto nel suo modo di essere sia personale che sociale, che si sostanzia nella alterazione apprezzabile della qualità della vita, nella modifica della “agenda” quotidiana consistente in “un agire altrimenti” o in un “non poter più fare come prima”; fa riferimento all’ambiente esterno ed al modo di rapportarsi con esso del soggetto les o, nell’estrinsecazione della propria personalità che viene impoverita o lesa. Significativa, al riguardo, è la definizione di danno esistenziale enucleata dalla sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite del 24.3.2006 n. 6572 qualificato come “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno- va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni. La pronuncia distingue anche nettamente il danno esistenziale dal danno morale specificando che ,a differenza del secondo, il primo non consiste in dolori e sofferenze ma in “concreti cambiamenti, in senso peggiorativo, nella qualità della vita”. La definizione di danno esistenziale è stata ampliata dalla stessa Cassazione fino a ricomprendervi anche la “modificazione (peggiorativa) della personalità dell’individuo, che si obiettivizza socialmente nella negativa incidenza sul suo modo di rapportarsi con gli altri , sia all’interno del nucleo familiare, sia all’esterno del medesimo, nell’ambito dei comuni rapporti della vita di relazione” (CASS., 12.6.2006,n. 13546). L’autonoma risarcibilità del danno esistenziale ha dato origine ai maggiori dubbi ritenendo ancora parte della dottrina, ed una esigua parte della stessa giurisprudenza, che non sia necessaria tale figura di danno ed è sulla configurabilità di essa che si vuole, in particolare, sollecitare il dibattito. La questione risulta di particolare attualità in quanto, sovente, a seguito di fatto illecito altrui, non si verifica una vera e propria compromissione dell’integrità psico-fisica sfociante in una vera e propria patologia, con conseguenti riflessi sotto il profilo del danno biologico (che richiede l’accertamento medico-legale), ma si determina un disagio definito dagli psichiatri come “depressione sottosoglia” che si manifesta con alterazioni della personalità del soggetto e del suo modo di essere consistenti nel disinteresse per attività prima piacevoli, nella passività, nel maggiore affaticamento, nella chiusura in se stessi, in disturbi del sonno, interrogativi sul significato della vita, riduzione dell’appetito, dell’attività sessuale , ecc. Si tratta di stabilire se tali alterazioni comportamentali, ove conseguenti a fatto illecito, debbano trovare una autonoma forma di tutela. *** *** *** Il dibattito si estende anche alla tutela del diritto alla Vita nel nostro ordinamento giuridico la cui mancata previsione nella Carta Costituzionale costituisce un “vulnus” al sistema risarcitorio che non tutelerebbe proprio il più importante diritto fondamentale della persona. Andrebbe accertato se, facendo riferimento alla Costituzione europea, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo ed al Trattato di Nizza, sia possibile riconoscere anche nel diritto interno, in forza del principio della preminenza del diritto comunitario ed internazionale sul diritto nazionale, il diritto alla vita, quale diritto fondamentale della persona con conseguente tutela risarcitoria. A livello internazionale il riconoscimento del diritto alla vita si ha nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, approvata a New York il 10 dicembre 1948, sancito dall’articolo 3, che afferma: "Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona"; il diritto alla vita, al pari degli altri diritti riconosciuti dalla Dichiarazione, spettano “ad ogni individuo senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione” (Art. 2). La legge 4 agosto 1955 n. 848 ha ratificato la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e, dal combinato disposto di cui agli artt. 35 e 13 della Convenzione, sussiste in capo agli Stati contraenti il dovere di assicurare agli individui la protezione effettiva ed integrale dei diritti riconosciuti dalla Convenzione stessa nel proprio ordinamento interno, tra cui va ricompreso il diritto alla vita. Nel Patto sui diritti civili e politici, approvato a New York il 16 dicembre 1966 (ICCPR), si prevede che “il diritto alla vita è inerente alla persona umana. Questo diritto deve esser protetto dalla legge. Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita” (Art. 6, 1.1.). Il rispetto dell’uomo, della sua dignità e dei suoi diritti fondamentali, tra cui campeggia il diritto alla vita che è un valore inalienabile e non disponibile, costituiscono principi ispiratori della Costituzione europea e del trattato di Nizza. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, prevede al capo I la tutela, oltre che della dignità umana, anche del diritto alla vita e all'integrità della persona che costituisce la sintesi dei valori condivisi dagli Stati membri dell'Unione europea. Le disposizioni generali mirano a determinare il campo d'applicazione della Carta ed a stabilire i nessi tra la Carta e la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU); i tre avvocati generali Tizzano, Léger e Mischo hanno dichiarato che "la Carta ha innegabilmente collocato i diritti che ne costituiscono l'oggetto al più alto rango dei valori comuni agli Stati membri". Anche la Costituzione europea, ratificata dall’Italia, tutela il bene della vita inteso come diritto ad esistere (art.II-62 Costituzione europea). La dottrina e la stessa giurisprudenza, tuttavia, non hanno dedicato particolare attenzione al diritto alla vita, sia per la difficoltà di inquadramento sistematico, sia per il mancato riferimento costituzionale a tale forma di tutela, ritenendo ricompreso nel diritto alla salute anche la tutela della vita, non potendo esistere sotto il profilo logico un diritto alla salute senza la vita. Il presupposto da cui muove la Cassazione per negare l’esistenza del diritto alla vita è che tale diritto non figura tra quelli tutelati dalla nostra Carta costituzionale. Va evidenziato, tuttavia, che la Costituzione italiana elenca una serie di diritti della persona (tra cui il diritto alla libertà personale, alla inviolabilità del domicilio, alla segretezza della corrispondenza; di manifestare liberamente il proprio pensiero, di agire in giudizio, di votare; di circolare liberamente; di riunirsi pacificamente e senz’armi; di associarsi liberamente, di professare liberamente la propria fede religiosa) che costituiscono un implicito riconoscimento del diritto alla vita; a ulteriore riprova l’art. 27 ult. comma della Costituzione dispone che non è ammessa la pena di morte. Anche la legge ordinaria tutela il diritto alla vita: l’art. 5 c.c. vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica.; l’art. 575 c.p. punisce il delitto di omicidio e l’art. 580 c.p. prevede il reato di istigazione o aiuto al suicidio. La Corte di Cassazione ribatte al riguardo che il nostro ordinamento prevede la tutela del diritto alla vita ma con strumenti diversi dalla responsabilità civile e cioè tramite sanzioni penali nelle varie fattispecie di omicidio. Le motivazione della Suprema Corte, che negano la sussistenza del diritto alla vita possono così sintetizzarsi: 1) la morte impedisce che la lesione si rifletta in una perdita a carico della persona offesa, ormai non più in vita, sicchè non sorge nel patrimonio dell’offeso un diritto al risarcimento per la perdita della vita, trasferibile agli eredi; 2) la morte fa perdere la capacità giuridica e nessun diritto può più essere acquistato dal defunto, essendosi ormai aperta la successione ai sensi dell’art. 456 c.c. La perdita del bene vita non viene risarcita, sotto il profilo civilistico, in quanto mancherebbe il titolare del diritto al risarcimento ed il defunto, non essendo soggetto di diritto, non può più trasferire alcun diritto agli eredi. Le argomentazioni, di valenza opposta al riconoscimento del diritto alla vita, sono fondate, in estrema sintesi, sulle seguenti considerazioni: a) il diritto alla vita è ampiamente tutelato nel nostro ordinamento penale relativamente all’omicidio ; b) il risarcimento per equivalente non è l’unica forma di tutela che l’ordinamento deve apprestare; c) il risarcimento per chi perde la vita si traduce in sostanza in una «tutela» non per la vittima, ma per i suoi eredi, e questi nel nostro ordinamento godono già dell’ampia tutela risarcitoria prevista dagli articoli 2043 e 2059 c.c.. Ma la salute intesa come benessere psicofisico non è, per logica deduzione, una qualità essenziale della vita che costituisce, quindi, un presupposto indefettibile della salute? Lo sforzo di una parte della dottrina di configurare un autonomo diritto alla vita non ha avuto seguito nella giurisprudenza, né di merito, né di legittimità, che a tutt’oggi, non hanno colto i segnali e, soprattutto le implicazioni che il riconoscimento di tale diritto avrebbe avuto su questioni di rilevante contenuto etico, oltre che giuridico, quali l’eutanasia, l’accanimento terapeutico, il diritto di rifiutare le cure necessarie a mantenere in vita il paziente, la tutela dell’embrione, etc. Il danno conseguente alla violazione del diritto alla vita non potrebbe essere risarcito agli eredi della vittima che si sono visti privare dell’intero patrimonio morale costituito dalla vita del proprio caro, con tutte le connesse interrelazioni di natura affettiva, esistenziale e morale? Dare importanza alla vita è anche proteggere la fase conclusiva del ciclo dell’esistenza come parte essenziale della vita stessa, partendo dal presupposto se si abbia o meno l’obbligo di sopravvivere a qualsiasi prezzo violando i limiti del rispetto della persona umana? Come appare evidente gli interrogativi di natura giuridica, ma forse ancor più morale ed etica sono molteplici. A conclusione del dibattito dovrà darsi risposta, principalmente, ai seguenti quesiti: a) si può ammettere e configurare una possibile, autonoma, risarcibilità del danno esistenziale ? b) come riconoscere e garantire il diritto personalissimo alla vita, quale diritto fondamentale della persona ? Domenico Chindemi